Credenti e atei, un dialogo per ritrovarsi

Anticipiamo un brano dell’intervento su “Jesus” del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura che promuove il “Cortile dei Gentili”, dialogo tra credenti e atei.
Il primo incontro sarà a Bologna, organizzato dall’Università, il 12 febbraio Credenti e non credenti stanno su territori differenti, ma non si devono rinserrare in un isolazionismo sacrale o laico, ignorandosi o peggio scagliandosi sberleffi o accuse, come vorrebbero i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti.
Certo, non si devono appiattire le differenze.
Ognuno ha i piedi piantati in un “cortile” separato, ma i pensieri e le parole, le opere e le scelte possono confrontarsi e persino incontrarsi.
Ricorrendo a un gioco di parole assonanti (ma non di etimologie), tra Cristiani e Gentili si potrebbe adottare la tecnica del duello (dal latino bellum), in uno scontro all’arma bianca, alla maniera del giansenista e del gesuita del film La Via Lattea di Buñuel.
Quello che il progetto denominato “Cortile dei Gentili” vuole proporre è, invece, un duetto (dal latino duo) ove le voci possono appartenere anche agli antipodi sonori eppure riescono a creare armonia, senza per questo rinunciare alla propria identità, cioè, fuor di metafora, senza scolorirsi in un vago sincretismo ideologico.
Da un lato, i “Gentili” devono ritrovare quella nobiltà ideale così com’era espressa dai grandi sistemi “ateistici” (pensiamo a Marx o alla celebre parabola sul Dio morto della Gaia scienza di Nietzsche o ai versi di Heine: «Non sentite la campanella? In ginocchio! Si portano i sacramenti a un Dio che muore»), prima che venissero incapsulati in sistemi politico-ideologici o piombassero nello scetticismo e nell’idolatria delle cose o degenerassero nell’ateismo sprezzante, sarcastico e infantilmente dissacratorio.
D’altro lato, la fede deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell’essere e dell’esistere, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo e rivelando che la teologia ha un suo rigoroso statuto metodologico parallelo e specifico rispetto a quello della scienza.
in “ la Repubblica” del 4 febbraio 2011

Andrea Riccardi: «I cattolici cambino scelte politiche»

L’intervista «Quando arrivammo qui a Trastevere, negli Anni 70, ci rubarono i motorini.
La prima trattativa di Sant’Egidio — racconta il fondatore, Andrea Riccardi — fu con i ladri, per farceli restituire.
Allora a Trastevere c’era il popolo.
Si viveva nei bassi.
Ora le case valgono 10, 12, anche 15 mila euro al metro quadro».
E Sant’Egidio è stata riconosciuta dalla Farnesina come «istituzione internazionale», segnata da «terzietà» e «indipendenza da qualsiasi tendenza politica».
Che cosa significa? «Non distacco.
Semmai, diversità di visione.
Approccio alle questioni sociali a partire dai poveri.
Ci sentiamo profondamente radicati nella romanità e nel carattere italiano, e nello stesso tempo decisi ad aprirci all’Africa, all’America latina, ai mondi asiatici.
Un’apertura in controtendenza rispetto al ripiegamento, all’introversione degli ultimi anni».
Come vede oggi l’Italia nel mondo? «Rimpicciolita.
Ho cominciato a frequentare gli scenari africani e mediorientali negli Anni 80, e allora l’Italia era considerata un grande Paese.
Eravamo la frontiera tra Oriente e Occidente, la marca di passaggio tra Nord e Sud.
Non è solo la globalizzazione; è l’Italia che si è assentata, ripiegata su se stessa».
Come valuta le vicende di questi giorni? «Le inquadro in una stagione finita, che si potrebbe definire la storia di un bambino mai nato.
La Seconda Repubblica non è mai nata, eppure si ha la sensazione che stia morendo.
Si è passati dalla Repubblica dei partiti a quella della tv e dei talk-show.
Non dico sia tutto da buttare.
Abbiamo l’euro.
Ma non abbiamo più fiducia nell’Europa: e come possiamo reggere il passo di Cina e India con le navicelle degli Stati europei? Benedetto XV diceva che le nazioni non possono morire.
Ma gli Stati forse sì.
Il Belgio ad esempio si sta suicidando».
Anche l’unità italiana è a rischio? «Un rischio c’è.
I 150 anni sono un po’ una festa triste.
Non riusciamo a fare un discorso sull’Italia.
Non abbiamo un’idea del Paese, della sua missione.
L’ultimo che l’ha avuta è Wojtyla, di cui sto per pubblicare la biografia.
Giovanni Paolo II aveva un’idea dell’Italia, e del suo ruolo del mondo.
L’aveva anche di Roma, di cui leggeva il nome come un palindromo: Amor».
Il voto anticipato sarebbe un dramma o una svolta? «Né l’uno né l’altra.
Sono stanco dell’enfasi apocalittica dell’ultima notizia politica.
Ci manca una visione.
Non vediamo la crisi del ceto medio, l’impoverimento del Paese.
Alle nostre mense venivano gli stranieri: ora vengono signore borghesi, impiegati.
Conosco divorziati che devono lasciare le loro case e dormono per strada, finendo per perdere anche il lavoro.
Ci allarmiamo per gli zingari, che a Roma sono 5 mila su 3 milioni di abitanti, e presentiamo gli sgomberi come una grande operazione, mentre è solo teatro, che per loro diventa tragedia.
Temiamo gli immigrati, che sono una ricchezza; e intanto chiudiamo i nostri anziani nei cronicari o nella villetta con la badante».
Il mondo cattolico ha dato troppo credito a Berlusconi? «Il mondo cattolico ha fatto la Dc; poi, dopo il Concilio, con la Dc ha desolidarizzato.
Qualcuno l’ha votata turandosi il naso, altri hanno seguito il provvidenzialismo del principe rosso liberatore.
Dopo l’ 89, il mondo cattolico si è spezzato in tanti frammenti.
Il cardinale Ruini ha dato credito all’ipotesi di Berlusconi.
Ma il sistema bipolare non ha garantito la stabilità.
A ben vedere, a modo loro erano più stabili i governi d emocristiani.
Mi chiedo se non sia tempo che il mondo cattolico assuma un’altra posizione, dia il suo contributo di idee nuove in un assetto politico diverso, plurale».
Lei una volta disse che il Partito democratico non è la soluzione.
«I due poli non sono la soluzione.
E il terzo polo, allo stato, è un cartello elettorale.
C’è molto cammino da fare.
Forse è tempo di costruire un centro, ma non solo per aggregazioni.
I cattolici sono chiamati a elaborare visioni.
A pensare di più.
A costruire una nuova idea dell’Italia, una missione per l’Europa.
Ci sono tante energie nel Paese.
È il tono antropologico che va giù, sono l’uomo e la donna italiani».
Non può essere ancora Berlusconi il leader per rilanciare il Paese? «Chi ha gestito la Seconda Repubblica non può rilanciare il Paese».
Chi allora? Un’alleanza tra il centro e il Pd? «Non basta discutere di cronaca politica.
Un’alleanza ci può essere, ma non si può partire da lì.
Il problema è che ci sia un centro.
Non si tratta di far rinascere la Dc, ma di aprire una stagione nuova, con un appello alla gente, per offrirle non solo sacrifici, anche prospettiva e respiro.
Serve una legge elettorale diversa da questa, che non esprime la geografia profonda della realtà italiana e manda in Parlamento i nominati dai leader.
Credo che al mondo ci sia un posto per l’Italia.
Noi abbiamo un genio, una funzione.
E abbiamo dei punti di riferimento: Napolitano, la Chiesa.
Il mondo cattolico ha un vissuto e risorse per aiutare a costruire un’identità nazionale e laica, non in contrasto con l’essere cristiani.
E mi chiedo se dal mondo cattolico non possa venire qualcosa di intelligente, di politicamente originale».
Quale direzione prenderà la rivolta del Nordafrica? Cosa può fare l’Occidente? «L’Occidente ha passato gli ultimi dieci anni a guardarsi dal pericolo verde.
Ma gli islamici sono rimasti spiazzati dalla rivolta.
I ribelli sono giovani, si convocano via sms.
Gli islamici sono vecchi.
Certo, il passaggio dalla democrazia degli sms al governo non è facile.
Ma l’Occidente dovrebbe fidarsi meno di questi guardiani che abbiamo appoggiato fino all’ultimo, come Ben Ali.
E potrebbe dare il suo contributo alla “democristianizzazione” degli islamici, sul modello turco di Erdogan.
Questa non è la rivoluzione araba.
L’idea di rivoluzione, durata due secoli, è morta con l’ 89 e con Wojtyla.
Possiamo costruire una transizione pacifica».
in “Corriere della Sera” del 4 febbraio 2011

Pane e vino inizio di civiltà

«Der Mensch ist was er isst»: questa frase, assonante in tedesco, scritta dal filosofo Feuerbach sulla rivista «Blätter für literarische Unterhaltung» del 12 novembre 1850, sarebbe presto divenuta una sorta di vessillo del materialismo.
Che l’uomo sia ciò che mangia in verità è passibile, però, di un’altra interpretazione, dato che il cibo in tutte le culture è anche un simbolo di comunione nella gioia (si pensi alle parabole nuziali di Gesù che comprendono un banchetto), nel dolore («mangiare il pane del lutto» è una nota locuzione biblica, e i pasti funebri sono ancor oggi praticati in molte nazioni), nell’ospitalità (basti leggere la deliziosa scenetta narrativa di Abramo che accoglie i tre ospiti ignoti nel capitolo 18 della Genesi).
Aveva ragione il magistrato francese Anthelme Brillat-Savarin quando osservava nella sua celebre Fisiologia del gusto (1825) che «gli animali si nutrono, l’uomo mangia, l’uomo di spirito pranza».
Se ci avviassimo sulla strada della simbologia religiosa del cibo, dovremmo, in pratica, allestire un intero orizzonte metaforico: c’è il banchetto pasquale esodico, quello liturgico dei «sacrifici di comunione» nel tempio con le carni immolate, c’è il banchetto messianico ed escatologico, segno di pienezza e di gioia, c’è quello sapienziale di stampo etico (si legga il capitolo 9 dei Proverbi) e c’è la cena eucaristica di Cristo, per non parlare poi della morale raffigurata proprio in apertura alla Bibbia con l’immagine di un frutto «buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile», quello dell’albero della conoscenza del bene e del male (Genesi 3,6).
Noi ora ci accontenteremo solo di porre su un’ideale tavola due cibi molto semplici: il pane e il vino.
Paul Claudel nel suo Annunzio a Maria scriveva: «Interroga la vecchia terra, ti risponderà col pane e col vino».
Essi sono gli archetipi dell’alimentazione, tant’è vero che in ebraico lehem, «pane», ha la stessa radice del vocabolo che indica la «guerra», proprio perché si tratta di una conquista primaria dell’esistenza.
Naturalmente la nostra lettura avrà un taglio simbolico cristiano.
Osserviamo innanzitutto che i pranzi hanno un rilievo curioso all’interno della storia di Gesù.
Egli, infatti, accetta spesso di sedere a mensa, senza badare molto alle persone che lo invitano: una volta è un fariseo ad averlo come ospite, altre volte è un pubblicano come Zaccheo o Matteo.
Anzi, a un certo momento si mormorerà di lui: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (Luca 15, 2).
Inoltre Gesù ama usare il simbolo del banchetto, soprattutto nuziale, per parlare del Regno di Dio: si pensi alla parabola degli invitati a nozze (Matteo 22, 1-14) o a quella delle vergini stolte e prudenti (Matteo 25, 1-13).
Si arriverà persino a dire che egli è «un mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori», in contrasto con l’ascetico comportamento del Battista «che non mangia pane e non beve vino» (Luca 7, 33-34).
Nella tradizione cristiana le due prime opere di misericordia «corporale» sono proprio il «dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati».
Ci sono due scene emblematiche al riguardo nella Bibbia.
La prima è quella in cui Dio si premura di procurare – come un padre di famiglia – il cibo e l’acqua al suo popolo in marcia nel deserto (l’acqua che scaturisce dalla rupe, la manna e le quaglie).
L’altra scena è quella di Gesù che imbandisce una mensa di pane e di pesci per la folla che lo sta seguendo, moltiplicando quel poco cibo che era a loro disposizione.
A questo punto dedichiamo la nostra attenzione al pane.
Un autore spirituale, il gesuita Charles Pierre, dichiarava: «Il pane conserva quasi una maestà divina.
Mangiarlo nell’ozio è da parassita; guadagnarlo laboriosamente è un dovere; rifiutarsi di dividerlo è da crudeli».
Ora, nella Bibbia col pane si rimanda al cibo in senso generale, tant’è vero che «mangiare il pane» è un’espressione che significa semplicemente «cibarsi».
Nel Vicino Oriente non si può dare il pane agli animali; se si inciampa in un pane caduto per terra, lo si raccoglie e pulisce, e ancor oggi gli arabi non tagliano il pane col coltello per non “ucciderlo”, considerandolo quasi una creatura vivente.
Il pane dei poveri era di orzo, essendo il frumento raro e pregiato.
La farina era ottenuta attraverso macine rudimentali costituite da due pietre, l’una orizzontale, l’altra verticale ruotante.
La pasta era preparata in una madia di legno: una pittura egizia rappresenta i panettieri che impastano la farina con acqua, sale e lievito, schiacciandola coi piedi! È noto, però, che il pane più comune era quello azzimo, cioè una specie di sfoglia non lievitata, di facile preparazione nel deserto e senza forno (bastava una lastra riscaldata di pietra o di metallo).
Il vero impegno religioso – ammoniva Isaia (25, 7) – consiste nel «dividere il pane con l’affamato».
Anzi, come dovrebbe essere vero anche per noi cristiani (lo è per la stessa usanza musulmana del Ramadan), il digiuno non è una dieta o un gesto masochistico, bensì un atto penitenziale di distacco dal benessere per trasformarlo in un atto di carità per i miseri.
Esemplari sono ancora le parole di Isaia: «È questo il digiuno che io (il Signore) voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo.
Non consiste forse (il vero digiuno) nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, i senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?» (58, 6-7).
Gesù, comunque, ha dato un rilievo spirituale ulteriore al pane: non si può non pensare all’eucaristia che nel linguaggio neotestamentario era definita come «la frazione del pane» (Atti 2, 42) perché con quel gesto si segnalava la comunione di tutti i fedeli con Cristo e tra loro.
In quel rito tipicamente cristiano in cui il pane diventa il corpo di Cristo che si dona e comunica ai credenti, si ha un’altra presenza “materiale” trasfigurata nel segno efficace del sangue di Cristo, ossia il vino: «Gesù prese il calice, rese grazie, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati.
Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio» (Matteo 26, 27-29).
Questa bevanda, però, aveva per la Bibbia anche un valore immediato e realistico, essendo espressione della festa e dell’allegria.
Il Salmo 104, 15 lo canta come ciò che «allieta il cuore dell’uomo».
L’era messianica è dipinta sotto immagini “enologiche”: «Verranno giorni in cui dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù dalle colline»; «Preparerà il Signore degli eserciti un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Amos 9,14 e Isaia 25, 6).
Nella Bibbia, a partire da Noè, il vino costituisce una presenza semplice e spontanea, con le sue capacità di generare gioia, amore, amicizia, festa ma anche con i suoi rischi.
Al riguardo evochiamo due passi molto brillanti.
Il Siracide, sapiente del II secolo a.C., scrive: «Non fare forte uso del vino perché ha mandato molti in rovina…
Il vino è come la vita per gli uomini, purché tu lo beva con misura.
Che vita è quella di chi non ha vino? Esso, infatti, fu creato per la gioia degli uomini.
Allegria del cuore e gioia dell’anima è il vino bevuto a tempo e a misura.
Amarezza dell’anima è il vino bevuto in quantità, con eccitazione e per sfida.
L’ubriachezza accresce l’ira dello stupido a sua rovina…» (31, 25-30).
Nei Proverbi, invece, si ha un ritratto vivace dell’ubriaco: «Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa e scende piano piano; finirà col morderti come un serpente.
I tuoi occhi vedranno cose strane e la tua mente dirà cose sconnesse.
Ti parrà di giacere in alto mare o di dormire in cima all’albero maestro…» (si legga Proverbi 23,29-35).
La religione cristiana non è, dunque, una vaga emozione interiore che ci invita a decollare dalla realtà verso cieli mitici e mistici.
È una fede legata ai corpi, alla storia, all’esistenza.
Una società sbrigativa e superficiale che ingurgita cibi a caso in un fast food, che ignora lo spreco alimentare, che si infastidisce quando si evoca lo spettro della fame nel mondo, che si oppone all’ospitalità, ha perso non solo la dimensione simbolica del cibo ma anche la spiritualità che in quel segno è celata.
Per questo ritornare alla civiltà e alla simbologia del cibo ha un valore culturale e spirituale.
Forse non esagerava lo scrittore inglese Charles Lamb, vissuto tra il Sette e l’Ottocento, quando nei suoi Saggi di Elia scriveva: «Detesto l’uomo che manda giù il suo cibo affettando di non sapere che cosa mangia.
Dubito del suo gusto in cose più importanti».
in “Il Sole 24 Ore” del 30 gennaio 2011

Atei e credenti uniti dalla speranza

L’intervista T eologo della speranza e della croce, Jürgen Moltmann chiede ai cristiani di «riversarsi » nel mondo dei non credenti per annunciare quel Dio «che sta con i senza Dio».
Il pensatore protestante saluta come «urgente e necessaria» l’apertura di un confronto fra laici e cristiani su Dio, come suggerito da Benedetto XVI.
La sua riflessione si è incentrata sulla speranza.
Come essa può interagire nello scambio tra credenti e non credenti? «Non esiste una chiara linea di confine fra credenti e non credenti, come fra cristiani e musulmani.
La fede è universale come l’incredulità.
In ogni credente si trova l’incredulità ed in ogni ateo la fede.
In ciascun essere umano si svolge un dialogo fra fede e incredulità: ‘Signore, io credo, ma tu aiutami nella mia incredulità’, grida il padre del giovane malato nel Vangelo di Marco.
Nessuno è soddisfatto della propria incredulità.
La speranza è più ampia perché legata all’amore per la vita.
Speriamo finché respiriamo e, se dubitiamo e diventiamo tristi, la speranza persa ci tormenta.
Dove viene distrutta la speranza nella vita inizia la violenza e la morte».
Cosa offre «in più» la fede cristiana? «Il cristianesimo costituisce la ‘religione della speranza’: chi spera in Dio ha sempre aperti nuovi orizzonti.
La fede è fiduciosa speranza: il futuro non è estrinseco al cristianesimo, bensì l’elemento della sua fede, la nota su cui si accordano le sue canzoni, i colori con cui sono dipinti i suoi quadri.
Una speranza viva risveglia ogni nostro senso per il nuovo giorno e ci riempie di un meraviglioso amore per la vita, poiché sappiamo che siamo attesi e, quando moriremo, ci attende la festa della vita eterna.
La speranza abbraccia credenti e atei perché Dio spera in noi, ci accoglie e non abbandona nessuno ».
Lei ha scritto molto sulla Croce, che sembra non interessare più l’Europa.
Il Crocifisso può tornare ad essere eloquente? «La questione di Dio e del dolore è il punto di partenza del moderno ateismo europeo.
Muore un bambino, migliaia di persone vengono uccise, innocenti cadono per mano terroristica.
E dov’è Dio? All’antico interrogativo della teodicea non vi è risposta: se Dio è buono e onnipotente, perché la sofferenza? Se Dio vuole il bene ma non impedisce il dolore, non è buono.
La giustificazione migliore di Dio, dice chi lo denigra, è di non esistere.
Ma l’ateismo è una risposta? Se Dio non esiste, perché la sofferenza sulla terra? Non ci serve un Dio da accusare? Questa discussione mi è sempre parsa teorica».
Come affrontare tale scandalo? «Per chi è tormentato dal dolore non si tratta di avere una risposta a un perché: egli cerca un aiuto e una speranza per uscire dal dolore.
Quando ero in pericolo di vita non mi sono chiesto perché mi trovassi in quella situazione: ho domandato aiuto urlando.
Una divinità buona ed onnipotente non può aiutarci.
Al centro del cristianesimo si trova la passione di Dio sulla croce di Cristo.
In ciò si palesa una passione per la vita colma di compassione per le devastazioni della vita.
‘Solo il Dio sofferente può aiutare’ scrisse Bonhoeffer in cella guardando il Dio crocifisso.
Nel Cristo moribondo il dolore di Dio ha trovato la sua espressione umana: Dio soffre le nostre pene.
Cristo viene per cercare ciò che è perduto e lui stesso si dà per perso per trovare i persi.
Chi si avvicina a Cristo prende parte al dolore di Dio e percepisce la sua desolazione.
È successo a Giovanni Paolo II e a Madre Teresa».
Come valuta l’invito di Benedetto XVI per un nuovo dialogo tra credenti e atei? «L’iniziativa del Papa è eccellente, urgente e necessaria.
Se la teologia si ritira in spazi chiusi, la gente perde interesse verso Dio.
Non è solo un problema religioso, ma anche una questione pubblica.
Dopo il 1945 era molto viva la ricerca di Dio rispetto ad Auschwitz.
L’ateismo venne dibattuto così aspramente tanto che lo scrittore Heinrich Boll disse: ‘Non mi piacciono questi atei, parlano sempre di Dio’.
Dopo il riflusso nella felicità privata l’interesse verso Dio è scomparso.
Da allora è aumentato il numero di quanti lo hanno perso e non sentono la mancanza della fede.
Per instaurare un dialogo con costoro i cristiani devono lasciare le mura della Chiesa e andare nel mondo.
I preti operai francesi andarono nelle fabbriche, i teologi della liberazione andarono fra la gente oppressa e ne condivisero il destino.
Ora gli accademici vanno tra i colti e condividono i loro dubbi ».
«Lumi, religioni e ragione comune » è il titolo del Cortile dei gentili a Parigi.
Come affrontare tali tematiche? «Quando Paolo ad Atene si riallacciò al ‘Dio sconosciuto’ non ebbe un grande successo.
Non si può pregare un Dio sconosciuto: non si sa se sia buono o cattivo.
Ma si può chiamare il ‘Dio nascosto’ e urlare.
Gli ebrei chiamano Hester panim il volto nascosto di Dio.
Chi lo percepisce, chiama a sé il volto manifesto di Dio.
Non so se l’espressione ‘dialogo’ sia giusta: un dialogo ha lo scopo di far conoscere meglio i dialoganti.
Esso finisce quando un interlocutore viene convinto.
Ciò non accade invece riguardo alle esperienze di Dio.
Perciò il discorso con i non credenti è molto diverso dal dialogo interreligioso.
Il confronto fra fede e incredulità esige che la Chiesa volga il suo cuore all’esterno.
Lo deve a tutti gli atei sinceri: di’ ciò che credi e credi a ciò che dici.
Prendi sul serio le domande e le accuse di chi non può credere, e cerca con lui una risposta da Dio.
Già troppo a lungo la gente ha relegato il cristianesimo nell’angolo della fede ed esaltato il dialogo fra le religioni per proseguire indisturbata la secolarizzazione.
È tempo che la fede cristiana esca dall’angolo: Cristo non ha fondato una nuova religione, ma ha portato una vita nuova!».
Lei ha scoperto Cristo durante l’ultima guerra.
Di solito si considerano le esperienze di male come cause di allontanamento da Dio.
Come tali realtà possono avvicinarci a lui? «A16 anni volevo studiare matematica; la religione era molto distante dalla ‘laicità’ di casa mia.
Nel 1943 mi arruolai come soldato, sopravvissi alla tempesta che distrusse Amburgo con 40.000 morti.
Quando l’amico accanto a me venne dilaniato da una bomba, per la prima volta urlai a Dio.
Sperimentai come lui celasse il suo volto.
Fatto prigioniero, ricevetti una Bibbia: i Salmi delle lamentazioni esprimevano ciò che provavo.
Capii che Cristo è colui che ci capisce e che è venuto a cercare chi è perduto: è colui che ci trova.
Per volontà di Cristo ho cominciato ad aver fiducia in Dio.
Non sarei arrivato all’idea che esiste un Dio e che Dio è amore appassionato e disposto a soffrire.
In guerra ho sperimentato cosa sia l’abbandono di Dio.
Perciò credo che Dio sia con i senza Dio.
E che lo si possa trovare fra di loro.
In essi Dio attende coloro che credono».
in “Avvenire” del 3 febbraio 2011

Il pantheon di Carlo Bo

Il pantheon di Carlo Bo di Gianfranco Ravasi A Milano abitavamo vicino, in due piccole strade a poca distanza dal Duomo: lui in via Maria Teresa, io in via Cardinal Federico, una laterale della Biblioteca Ambrosiana.
Ci incontravamo talora in quel dedalo di viuzze e ci scambiavamo poche parole.
Avevo conosciuto Carlo Bo durante una cena nella casa dello scrittore Luigi Santucci, amico carissimo a entrambi: era stato l’avvio di una conoscenza rarefatta che però aveva una sua intensità, soprattutto attorno a quei temi ecclesiali che avevano sempre appassionato e un po’ anche tormentato il pensiero e la fede del famoso scrittore, studioso e uomo pubblico.
L’ultimo incontro avvenne nella sua casa milanese tutta foderata di libri.
Alcuni amici della scrittrice Lalla Romano, che era allora da poco scomparsa e della quale avevo celebrato i funerali, si erano ritrovati per costituire un’associazione o una fondazione che ne custodisse il lascito culturale.
Bo assisteva e partecipava con quei silenzi “omerici” che erano divenuti quasi una sua sigla e che, quindi, alonavano di rilievo le sue poche parole.
Alla fine volli trattenermi e, da soli, parlammo dei temi che erano stati sollevati durante un’intervista radiofonica che avevo rilasciato quella stessa mattina.
Era il giugno 2001 e poche settimane dopo, il 21 luglio, egli sarebbe morto a Genova (era anche ligure la città della sua nascita avvenuta cent’anni fa, il 25 gennaio 1911, cioè Sestri Levante).
La sostanza di ciò che mi disse allora la ritrovai in un suo dialogo riferito da Sergio Zavoli nel suo Diario di un cronista (Rai-Eri/Mondadori, 2002): «Ho l’impressione che la voce di Dio passi nei nostri cuori e non lasci traccia.
Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un modo, fra tanti, di non rispondergli».
Si intravedeva in quelle parole non solo la sua fede che vibrava degli stessi battiti di quella degli amati Pascal, Bernanos, Péguy, Claudel, Maritain (senza dimenticare Mallarmé e Rivière), ma anche il suo tormento per il passaggio spesso frustrato e frustrante di Dio nelle strutture ecclesiastiche da lui considerate troppo pesanti, opache e resistenti a quella voce.
Eppure egli era rimasto sempre un cattolico tout court, perché — per usare un’espressione del suo e mio amico padre Turoldo — non si inseriva né nel dissenso molto vivace nei decenni conciliari, né nel consenso, prevalente negli anni precedenti e successivi, ma semplicemente nella ricerca di senso.
E in questo sono emblematici i personaggi religiosi del suo ideale pantheon spirituale.
Al primo posto è collocata la figura di uno straordinario parroco di campagna, la cui voce fu così intensa da essere definita da un Papa, Giovanni XXIII, «tromba dello Spirito Santo» nella terra padana: era don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo (Mantova), «obbedientissimo in Cristo» alla sua Chiesa, ma così libero nella sua fedeltà al Vangelo da non esitare a far vibrare la sua parola contro ogni compromesso.
«Noi passeremo — scrive Bo che lo conobbe, lo ascoltò e lo lesse — col rumore dei nostri problemi, con tutti i cartoni dei ridicoli teatri spirituali che abbiamo messo insieme da letterati e don Primo resterà sulla porta della sua parrocchia con le braccia aperte, a ricevere tutti, senza mai chiedere il nome o la nostra piccola odissea».
Seguono i testimoni della carità e della società come Manzoni, Semeria, Orione e Sturzo.
C’è, poi, la teoria dei sacerdoti che seppero intrecciare fede e cultura, una delle sfide che resse l’intera esistenza di Bo, a partire da quella sorta di manifesto che fu il saggio Letteratura come vita, letto al congresso degli scrittori cattolici del 1938: «Rifiutiamo una letteratura come illustrazione di consuetudini e di costumi comuni, aggiogati al tempo, quando sappiamo che è una la strada più completa per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza…
Non esiste un’opposizione fra letteratura e vita.
Per noi sono tutt’e due, e in ugual misura, strumento di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi».
Ecco, allora, don De Luca, don Cesare Angelini, Rebora, lo storico Bedeschi, il mistico Divo Barsotti, il collega all’Università di Urbino Italo Mancini con la «ragnatela delle sue meditazioni» dai molteplici fili teologici, filosofici, sociali, culturali, la cui finestra illuminata nella notte urbinate diventava un simbolo di ricerca della verità.
Ma non sono mancate neanche pagine di forte suggestione dedicate ai papi della sua maturità e degli ultimi anni: dalla lezione d’amore di Giovanni XXIII all’umanesimo cristiano di Paolo VI fino alla «Chiesa di popolo» di Giovanni Paolo II .
In questo «nugolo di testimoni» sacerdotali, per ricorrere a un’espressione biblica (Ebrei 12,1),  raccolti in un unico coro dal volume Don Mazzolari e altri preti (La Locusta, Vicenza 1979), brilla un trittico fiammeggiante.
La prima a venirci incontro è una figura segno di contraddizione, quell’Ernesto Buonaiuti che non volle mai considerarsi ex sacerdote nonostante la censura ecclesiastica abbattutasi su di lui per il suo modernismo, convinto del tradimento che talora la Chiesa storica poteva consumare, ma ancor più convinto che la salvezza avviene proprio nella stessa Chiesa storica.
C’è poi l’amato don Milani, per molti versi simile a don Mazzolari, combattente per la verità naturale e soprannaturale da cristiano e da prete, nonostante «il lungo calvario» impostogli dalle autorità ecclesiastiche.
E, infine, ecco padre Turoldo nel quale la passione si fa parola, la fede poesia e la verità storia.
Sì, perché – sulla scia della concezione di un Teilhard de Chardin letto con entusiasmo appena pubblicato in Francia – Bo è certo che «il cristiano deve bagnarsi nel mare della storia», anche correndo il rischio di infangarsi, «rifiutando quella perniciosa opposizione tra cristianesimo e mondo degli uomini».
Qui si coglie uno dei nodi fondamentali del pensiero spirituale di Carlo Bo e della sua stessa storia personale, quella del dialogo tra fede e cultura, dell’incontro tra il cristiano e l’agnostico che s’interroga, tra il tempio e la strada, nella linea della lezione di Maritain al cui “stile” di pensiero è dedicata un’altra raccolta di saggi (Lo stile di Maritain, La Locusta 1981) nella quale scriveva con amarezza: «Per anni la Chiesa è rimasta immobile e quando finalmente ha sentito il dovere di intervenire, si è accorta di non avere più gli strumenti adatti e si è limitata a ripetere altre voci o ha taciuto».
I rischi in questa operazione di incrocio tra fede e altre visioni dell’essere e dell’esistere non sono mancati, soprattutto quando ci si muoveva in territori borderline, come nel caso del dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth che ebbe una veemente e partecipe prefazione alla traduzione italiana firmata proprio da Carlo Bo.
Rimaneva, però, indiscutibile la sincerità della persona e delle sue interrogazioni e soprattutto la consapevolezza della necessità del confronto tra la Chiesa e il mondo.
Alle soglie della morte, in un’intervista, egli confessava che la magna quaestio del XXI secolo sarebbe stata il «ritrovare le ragioni ultime di quei valori che consentono una vita umanamente e umanisticamente motivata, che tenga conto non solo delle cose visibili ma anche e soprattutto di quelle invisibili…
Bisognerà insomma costruire insieme, credenti e no, un’altra civiltà che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità cristiana: cioè saper perdonare e cercare di risolvere problemi epocali, inevitabili e giganteschi, secondo uno spirito di carità».
Agli occhi di Carlo Bo il cristianesimo non era né stinto né estinto, ma aveva ancora in sé tutto il suo lievito di trasformazione della pasta della storia.
in “Il Sole 24 Ore” del 23 gennaio 2011

Nel mattino del mondo

Nel mattino del mondo di Bruno Forte in “Il Sole 24 Ore” del 23 gennaio 2011 È il silenzio il custode dell’inizio: sta oltre ogni parola ciò di cui si potrebbe parlare solo prescindendo dalle condizioni già poste del dire.
Pensare puramente l’inizio equivarrebbe a pensare quanto precede le strutture stesse del pensiero, per affacciarsi a ciò che è “fuori” dello spazio e “prima” del tempo: il vagheggiato «primo mattino del mondo» sfugge alla ricerca del soggetto, che, per quanto si sforzi, non è in grado di uscire da queste categorie dello spazio e del tempo.
L’ultimo approdo dell’indagine volta a scrutare l’inizio è dunque il senso del mistero che tutto avvolge, la percezione dell’incompiutezza di ogni sforzo teso dal basso a voler offrire una spiegazione totale.
La posta in gioco è alta, perché abbraccia il senso del vivere e del morire umano: perciò essa ci riguarda tutti, come mostrano i possibili esiti della risposta alla domanda sulle origini di tutto ciò che esiste.
Così, la resa al silenzio dell’ultima sponda può assumere la forma della rinuncia nichilista: si può rinunciare alla domanda, che muove la ricerca, sopprimendo la stessa nostalgia che è alla base dell’interrogare; si può accettare come unica evidenza attingibile la dignità di vivere eroicamente il frammento del presente, come se esso fosse capace di ospitare tutta la consistenza o la leggerezza dell’essere.
La resa nichilista, però, è solo apparente: assegnare al nulla il ruolo di orizzonte originario e finale significa restare nel trionfo del già posseduto.
Il nulla – se esteso ad avvolgere tutte le cose – resta una forma rovesciata del trionfo dell’io: ciò che manca al nichilista è la coscienza dell’altro, l’uscita dalla solitudine del soggetto e dalla rinuncia a comunicare.
L’itinerario che muove dalla domanda sull’inizio conduce, però, a un altro possibile approdo: dove è riconosciuto lo spazio silenzioso di ciò che è al di là dello spazio e il tempo senza tempo di ciò che è al di là del tempo, una voce può offrirsi.
Non una voce dell’al di qua, semplice prolungamento dei ragionamenti mondani imprigionati negli schemi dell’identità, ma la voce dell’Altro, che sia puramente tale.
L’alterità irrompe nel regno della logica prigioniera di sé; la differenza si fa strada nel dominio dell’identità.
L’evento di questo puro inizio, che supera le secche delle proiezioni dei desideri e dei fallimenti mondani, perché non diviene nella coscienza dell’uomo, ma viene a lui, indeducibile e improgrammabile, è il miracolo della rivelazione.
E la rivelazione parla dell’inizio parlando della creazione.
La creazione “preistoria” dell’alleanza.
«La Bibbia parla della creazione in guisa di racconto (Dio ha creato il mondo, gli uomini) e di corrispondente risposta espressa nella lode del Creatore.
Ma stranamente nella Bibbia ciò non costituisce una formula di fede…».
Nei racconti delle origini Israele riflette un patrimonio comune all’umanità arcaica, connesso al bisogno originario dell’essere umano di garantire in qualche modo la consistenza del mondo, dando sicurezza alla conturbante fragilità della vita.
Ciò che è nuovo e peculiare nel discorso biblico è il legame che esso stabilisce fra il racconto dell’inizio e la storia della salvezza d’Israele.
Si potrebbe dire che la testimonianza della Genesi sulla creazione è una «profezia retrospettiva»: partendo dall’esperienza che il popolo eletto ha fatto del Dio della storia, lo sguardo della fede biblica si estende ad abbracciare la realtà delle origini, colta come una sorta di «preistoria dell’alleanza» (Vorgeschichte des Bundes:Karl Barth).
Fra le due componenti non c’è semplice  sovrapposizione, ma integrazione, senza peraltro escludere una non perfetta fusione (testimoniata ad esempio dalle ripetizioni di Gen 1,6 e 7; n e 12; 14s.
e 16ss.; 24 e 25; dalla sfasatura fra il numero delle opere e il numero dei giorni; e dal contrasto fra l’atto creatore significato in Gen 1,1 e l’idea di un caos primordiale, preesistente all’azione creatrice-ordinatrice).
Diventa allora di particolare interesse discernere gli elementi di originalità del racconto biblico circa le origini del mondo (Gen 1).
Il primo di questi è l’articolazione della narrazione in sei giorni, che tendono al riposo del settimo: la presentazione della creazione della luce è posta per prima precisamente al fine di garantire la distribuzione cronologica delle opere.
L’essere nel tempo è in tal modo privilegiato rispetto al semplice dato di esistere.
Il divenire storico, il situarsi nella successione degli atti e la conseguente relazione vitale appaiono più importanti del dominio dell’oggetto.
L’essere, che sta a cuore alla fede biblica, non è statico, ma in relazione, è l’essere storico, proprio della prospettiva dell’alleanza: già qui emerge come la tradizione delle origini sia riletta alla luce dell’esperienza della fede nel Dio salvatore, venuto incontro all’uomo nel tempo.
«L’ebraismo è una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo…
L’eminente parola qadosh viene usata per la prima volta nel libro della Genesi alla fine della storia della creazione, ed è estremamente significativo che essa venga applicata al tempo: “E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò”.
Nel racconto della creazione, a nessun oggetto dello spazio viene attribuito il carattere della santità» .
I sei giorni tendono al settimo: la creazione è “ab origine” orientata a un fine.
Meta di tutte le opere e di ogni attività a esse connessa è il riposo di Dio nella creazione e del creato in Dio, in quello che sarà il sabato eterno, di cui il sabato temporale è memoria e anticipazione.
Grazie alla meta sabbatica, il tempo è celebrato in tutta la sua dignità, ma ne è anche indicata la relatività, la necessaria provvisorietà del suo essere “storico”, volto cioè a una fine e a un fine: il sabato della creazione dice non solo la finale destinazione di tutto il creato a Dio e la Sua sovrana trascendenza  rispetto a ogni creatura, ma anche l’incompiutezza del tempo, il suo costitutivo e necessario riferimento all’eterno.
Tutte le relazioni storiche devono insomma inverarsi nel sabato eterno, in cui uomo e natura, singolo e comunità saranno riconciliati nella gioia del Dio, che è all’inizio e alla fine di tutto.
«Il Sabato ci mette in sintonia con la santità nel tempo: in questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione; dal mondo della creazione alla creazione del mondo».
In questa luce, ognuna delle opere di Dio nel racconto della creazione è vista come buona, protesa verso Colui da cui proviene.
L’affermazione che conclude l’opera di ognuno dei giorni – «E Dio vide che era cosa buona» – sta a indicare come essa sia adatta al suo fine, volta a incontrare il Creatore nella festa del settimo giorno.
La testimonianza biblica afferma, dunque, la bontà e la bellezza delle creature (l’ebraico tob racchiude i due significati), che consiste nel loro essere aperte verso Dio, relative a Lui, fatte per incontrarLo ed entrare nel Suo riposo.
La storia dell’umanità, come quella del mondo, ha una meta di bellezza, e perciò un senso, che è più forte di ogni caduta possibile.
Il settimo giorno carica il tempo di dignità e di promessa, perché ne mostra l’ultimo sbocco nel giorno del riposo di Dio e della creazione intera in Lui.
Anche l’uomo rientra in quest’assoluta creaturalità: il racconto sacerdotale della Genesi non si interessa al modo della creazione dell’uomo, rispettandone il mistero e situando la creatura umana in una stretta rete di solidarietà con tutte le altre creature.
Si preoccupa, però, di evidenziare – nell’alterità da Dio – l’originaria destinazione dell’essere umano a divenirne il partner nell’alleanza: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (1,26).
Solidale col creato, l’uomo altro dal Creatore, creatura fra le creature, è centrale per esso, in quanto interlocutore del Dio vivente: è la creatura relazionale per eccellenza, fatta per la reciprocità («maschio e femmina li creò»: v.
28),  nella prospettiva dell’originaria unità dei due.
L’immagine e la somiglianza dell’uomo con Dio vanno lette, dunque, nell’orizzonte dell’alleanza: esse esprimono la capacità dell’uomo a entrare nel patto in maniera consapevole e libera, la sua attitudine a relazionarsi e a situarsi in un rapporto di accoglienza e di gratuità.
Il racconto intende, insomma, evidenziare l’originaria e costitutiva destinazione al patto della creatura responsabile e libera: «L’uomo – ogni uomo – è creato affinché accada qualcosa tra lui e Dio, e la sua vita acquisti proprio per questo il suo significato».
L’articolo di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, è un estratto della relazione “La creazione e le origini del mondo” tenuta a Palazzo Ducale di Genova mercoledì 19 gennaio.

I movimenti cattolici: Il cammino Neocatecumenale

Nel discorso rivolto due giorni fa a migliaia di membri entusiasti del Cammino Neocatecumenale, riuniti nell’aula delle udienze, Benedetto XVI ha battuto per tre volte in sole venti righe sul tasto dell’obbedienza dovuta ai vescovi.
In effetti, il rapporto con i vescovi è un punto dolente del Cammino, fondato e diretto da più di quarant’anni dai laici spagnoli Francisco José Gómez Argüello, detto Kiko, e Carmen Hernández, affiancati dal sacerdote italiano Mario Pezzi.
Tra i vescovi, il Cammino conta molti sostenitori in tutto il mondo.
Il prossimo 26 gennaio 250 di costoro, tra i quali 70 dagli Stati Uniti, si ritroveranno in Israele nella Domus Galilaeae, la residenza ideata e costruita da Kiko sulle pendici del Monte delle Beatitudini, con magnifica vista sul lago, per uno stage in cui lo stesso Kiko farà da mattatore.
Ma vi sono anche numerosi vescovi che dal Cammino si sono sentiti scottati, dopo averlo visto all’opera sul proprio territorio.
Ad esempio i vescovi del Giappone.
Il 15 dicembre 2007, nella visita “ad limina” fatta al papa, il loro presidente, che all’epoca era l’arcivescovo di Tokyo, Peter Takeo Okada, disse a Benedetto XVI che “la potente attività simile a una setta sviluppata dai membri del Cammino produce acute e dolorose divisioni e lotte all’interno della Chiesa”.
I vescovi giapponesi esigevano la chiusura del seminario che il Cammino aveva aperto nel 1990 nella diocesi di Takamatsu.
Il Cammino faceva resistenza.
Nel 2008 per due volte dei vescovi giapponesi dovettero recarsi a Roma a perorare la loro causa.
Il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone studiò la questione e diede ragione ai vescovi.
Entro l’anno i seminaristi e il loro rettore dovettero traslocare a Roma.
Ma i membri del Cammino presenti in Giappone non accettarono la cosa pacificamente.
Il vescovo di Takamatsu, Francis Osamu Mizobe, scrisse loro una lettera in cui lamentava che celebrassero liturgie separate e chiedeva che obbedissero alle diocesi invece che ai loro capi.
Da Roma, la congregazione per l’evangelizzazione dei popoli inviò in Giappone un ispettore favorevole al Cammino, Javier Sotil Vaios Espiriceta.
L’ispezione avvenne tra il 20 e il 25 marzo 2009.
Ma non ebbe effetto.
Tant’è vero che nel 2010 i vescovi giapponesi, unanimi, decisero di farla finita.
All’inizio dell’Avvento resero pubblica la loro decisione di sospendere per cinque anni la presenza del Cammino nell’intero paese.
Il Cammino fece appello a Roma, alle massime autorità della Chiesa.
E in effetti lo scorso 13 dicembre si è svolta in Vaticano una riunione fuori del comune.
Da una parte del tavolo c’erano cinque vescovi giapponesi: quello di Osaka e presidente della conferenza episcopale, Leo Jun Ikenaga, gesuita (nella foto); quello di Takamatsu, Mizobe; quello di Fukuoka, Dominic Ryoji Miyahara; quello di Niigata, Tarcisius Isao Kikuchi; e quello emerito di Oita, Peter Takaaki Hirayama.
Dall’altra parte del tavolo c’erano il papa in persona, il cardinale Bertone, altri cinque cardinali e un arcivescovo.
In curia il principale protettore dei neocatecumenali è il sostituto segretario di stato Fernando Filoni.
Le autorità vaticane hanno ordinato ai vescovi di riprendere il dialogo con il Cammino, con l’aiuto di un delegato inviato da Roma e seguendo le istruzioni della segreteria di stato e della congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
I dirigenti del Cammino hanno accolto la decisione vaticana come un loro successo.
Ma i vescovi giapponesi faticano a pazientare ancora.
Il 12 gennaio il loro presidente, l’arcivescovo Ikenaga, ha scritto sul settimanale cattolico giapponese “Katorikku Shimbun” che “noi vescovi, alla luce della nostra apostolica responsabilità pastorale, non possiamo ignorare il danno che producono i neocatecumenali”.
E così ha proseguito: “Nei luoghi dove passano quelli del Cammino aumentano la confusione, i conflitti, le divisioni, il caos.
Speriamo che diano uno sguardo realistico ai motivi per cui le cose non hanno fin qui funzionato e, per la prima volta, ci aiutino ad andare alle radici dei problemi, affinché si possa arrivare a una soluzione”.
Il delegato vaticano non è stato ancora designato.
Quando arriverà, l’arcivescovo Ikenaga ha chiesto ai cattolici giapponesi entrati a contatto col Cammino di incontrarlo e di vuotare il sacco senza reticenze, perché questo è l’unico modo per “far arrivare il vero stato delle cose a un posto così lontano come Roma”.
Nella conferenza stampa tenuta a Roma il 17 gennaio subito dopo l’udienza col papa, Kiko Argüello ha detto che il Cammino agisce sempre in obbedienza ai vescovi e quindi non opera nelle diocesi in cui il vescovo non lo consente.
Ma il caso del Giappone è la prova che le cose non si svolgono in modo così lineare.
Dove il Cammino ha messo piede è difficile che retroceda, indipendentemente da cosa pensino i vescovi.
* Nella stessa udienza del 17 gennaio, Benedetto XVI ha toccato un altro punto dolente del Cammino, quello dei suoi testi di catechismo.
Questi testi – tredici volumi trascritti dall’insegnamento orale di Kiko e Carmen, oggi riassunti sotto il titolo di “Direttorio catechetico del Cammino neocatecumenale” – sono sempre stati segreti.
Nel 1997 l’allora cardinale Joseph Ratzinger ordinò che fossero consegnati alla congregazione per la dottrina della fede, per essere sottoposti a un esame dei loro contenuti dottrinali.
L’esame si protrasse fino al 2003.
La congregazione, che all’epoca aveva Bertone come segretario, apportò delle correzioni e introdusse circa 2000 rimandi a passi paralleli del catechismo ufficiale della Chiesa cattolica.
Eppure, solo alla fine del 2010 i tredici volumi dell’opera hanno avuto l’approvazione ufficiale, comunicata da Benedetto XVI nell’udienza di due giorni fa.
  Perché questo lungo purgatorio? Stando a ciò che Kiko ha detto nella conferenza stampa del 17 gennaio, il motivo era che nel frattempo c’erano altre due questioni da sistemare: l’approvazione definitiva dello statuto del Cammino e l’approvazione del modo con cui nelle comunità neocatecumenali si celebrano la messa e altri sacramenti.
Lo statuto è stato approvato l’11 maggio del 2008 – un anno dopo che era scaduto il precedente statuto provvisorio – e in esso sono state fissate anche le regole liturgiche alle quali il Cammino deve attenersi.
Entrambi questi traguardi sono stati raggiunti con grande fatica e in capo a forti contrasti, specie in campo liturgico, come www.chiesa ha documentato a suo tempo.
E tuttora i comportamenti effettivi delle comunità neocatecumenali non obbediscono sempre e in tutto alle norme.
Le messe continuano a essere celebrate nella gran parte dei casi separatamente, gruppo per gruppo, a porte semichiuse, con largo spazio alla creatività, cioè alle modalità rituali e parlate ritenute utili ai fini del cammino di iniziazione di ciascun gruppo.
Per i catechismi il criterio sembra essere lo stesso.
“Anche ora che sono stati approvati – ha detto Kiko nella conferenza stampa del 17 gennaio – c’è un cammino di iniziazione che va rispettato.
Non è bene che uno possa vedere subito l’intero percorso, prima ancora di cominciarlo.
Se la Chiesa ce lo ordinasse li metteremmo in vendita.
Ma preferiamo di no”.
* Nell’udienza del 17 gennaio Benedetto XVI ha inviato in missione 230 famiglie neocatecumenali, che si sono aggiunte alle oltre 600 già in missione in vari paesi del mondo.
Oltre a queste, ha inviato “ad gentes” anche 13 sacerdoti accompagnati ciascuno da tre o quattro famiglie, col compito di impiantare un nucleo di Chiesa in luoghi in cui il cristianesimo è sparito o non è mai arrivato.
All’udienza erano presenti anche i 2000 seminaristi dei 78 seminari “Redemptoris Mater” che il Cammino ha in tutto il mondo, dai quali sono usciti in vent’anni 1600 preti.
Le ultime cifre danno il Cammino presente in oltre 1320 diocesi di 110 paesi nei 5 continenti, con 20.000 comunità in circa 6.000 parrocchie.
Di queste 20.000 comunità, 500 sono a Roma – definita “la diocesi del mondo in cui il Cammino si è più sviluppato” – e 300 a Madrid, suo luogo d’origine.
Se ad ogni comunità si assegnasse una media di 15 membri, il totale dei neocatecumenali adulti nel mondo sarebbe di 300.000.
“Ma con i bambini e i ragazzi passiamo il milione”, dicono.
Le famiglie neocatecumenali, infatti, sono molto prolifiche.
Tra quelle inviate in missione la media è di 4 figli per coppia.
__________ Il testo integrale del discorso di Benedetto XVI nell’udienza del 17 gennaio 2011: > “Cari amici…” __________ Il sito ufficiale del Cammino, in otto lingue: > Cammino Neocatecumenale __________ Per i precedenti servizi di www.chiesa sul tema, vedi: > Focus su MOVIMENTI CATTOLICI

Se l´Europa non difende le libertà religiose

Un pensiero struggente mi è tornato alla mente in questi giorni: le grandi aspirazioni perdute che nacquero alla fine del secolo scorso.
Allora sembrò a tutti che la libertà avrebbe presto trionfato ovunque.
Con la sconfitta del comunismo, in realtà, si apriva invece una fase dura, difficile, a tratti perfino tragica della storia mondiale, che sarebbe finita nell´attuale diffuso stato di violenza ed incertezza.
In fondo, le notizie che abbiamo appreso di recente dalla Nigeria, dal Pakistan, dalle Filippine, e poi, quasi a conclusione di un macabro rituale, dall´Egitto, sono un segnale eloquente del contemporaneo muoversi caotico di un´umanità da vent´anni a questa parte alla ricerca di una direzione che sfugge ad ogni controllo politico.
C´è di sicuro un ché di raccapricciante a vedere quanto sia facile sapere in tempo reale gli eccidi che si perpetrano su minoranze etniche, religiose e perfino laiche dovunque siano ritenute scomode, fastidiose o magari semplicemente irrilevanti da qualche gruppo preminente.
È quasi inutile chiedersi perché.
È chiara l´adiacenza del nostro tempo a quanto Benedetto Croce definiva in uno scritto del 1945, intitolato Libertà e forza, una situazione paradossale.
Egli giudicava impossibile, infatti, «pensare che il metodo della libertà potesse condurre alla soppressione della libertà, ossia che un giorno la moralità potesse giungere a sopprimere la moralità e a farsi suicida».
Oggi, per contro, la libertà entra direttamente in conflitto con se stessa, deflagrando istantaneamente in un sito web per pochi minuti come un estemporaneo misfatto di cronaca.
Ma cosa può esserci di più funesto che morire perché si assiste ad una messa, com´è avvenuto in Egitto, o perché si subisce una condanna a morte per adulterio, come avviene normalmente in Iran, o perché si è minoranza musulmana, ebrea e cristiana, magari per nascita neanche per pratica religiosa, come accade di sovente in medio e in estremo Oriente? Il disgusto diviene vero disappunto, pensando all´inedia che domina l´Unione Europea, senza un ´incisiva politica estera comune, e l´inefficacia delle Nazioni Unite, che non adempiono praticamente più al dovere di far rispettare almeno nei Paesi membri l´uguale dignità umana di ogni cittadino, a dispetto della solenne Dichiarazione dei Diritti dell´Uomo nel ´48.
Ciò nonostante, i comportamenti pubblici e privati sono dominati sempre e soltanto dalla libertà.
Non sembra esserci davvero niente che possa limitare l´esercizio collettivo o individuale di un´arbitraria forza egemone.
E così dappertutto proliferano violenze immani, con le più radicali bestialità elargite senza legalità dagli uni sugli altri.
Molte società di oggi, in definitiva, sono sempre più simili alla comunità «naturale» immaginata da Thomas Hobbes nel Leviatano, dove tutti gli individui sono perfettamente identici e liberi, e proprio perciò perennemente in guerra per avere le stesse cose a scapito dei più deboli, inermi e meno numerosi.
Al contrario dei conflitti del secolo scorso, infatti, che coinvolgevano popoli sovrani, quella odierna è la belligeranza anarchica tra due libertà orfane della verità, che si lacerano in modo fratricida nel loro reciproco rapporto.
Come ha spiegato Steven Lukes in un recente studio sul potere, si constata dappertutto una alternativa unica: o una mera esigenza di fare, di decidere, di oltrepassare la barriera di se stessi per realizzare materialmente e in modo illimitato le proprie possibilità.
E allora vi è una pulsione libera che inevitabilmente soffoca l´altro nella dittatura dell´egoismo della fede o dell´incredulità.
Di tale atteggiamento marcatamente decisionista rendono testimonianza i tanti integralismi laici e fideistici del mondo.
Oppure s´impone una testimonianza più profonda e radicale di libertà che si identifica con l´essere stesso della persona.
In questo secondo caso, non è il riuscire a fare che esprime la realizzazione suprema di ciascuno, ma l´accettazione di se stessi e degli altri nei rispettivi termini, un riconoscimento civile e degno di sé che è tanto più concreto quanto meno è immediatamente riportabile al gusto e al capriccio individuale.
I filosofi classici avevano già capito il fenomeno, distinguendo la libertà interiore da quella esteriore, una separazione che oggi torna a dividere fatalmente chi difende i diritti umani da chi vuole spegnerli nella brutalità.
Solo la prima libertà è, però, realmente positiva.
La seconda, anche quando è democratica, resta un´opzione che produce inevitabilmente violenza e ritorsioni.
Perciò, Benedetto XVI ha difeso giustamente, anche nel recente messaggio per la giornata della pace, il valore religioso che ha la libertà interiore per vincere l´integralismo fideista e laicista che intende cancellare dall´esterno l´unica verità intrinseca all´uomo, e che sola può dare l´agognata felicità.
In tal senso è importante – anzi, essenziale perfino inevitabile – che a livello internazionale si promuova una nuova cultura della libertà, ancorata alla verità umana e non sorretta dalla soddisfazione esclusiva dei propri interessi – siano atei o pseudoreligiosi – di tipo democratico o dittatoriale.
D´altronde, il segno tangibile che i diritti umani hanno presa e diffusione in un determinato contesto sociale è la fiducia etica che ciascuno possa trovare in sé con gli altri la pace e la verità, identificando il senso religioso del suo rapporto positivo o negativo con Dio con il significato stesso della sua umanità.
Niente, infatti, può mai sostituirsi al valore permanente e indisponibile di ogni persona senza distruggere al contempo quanto c´è di veramente civile in ogni essere umano.
E, in un conflitto globale come quello che viviamo, in gioco vi è molto più dellavittoria del capitalismo sul comunismo.
Si decide quotidianamente, con la rispettiva libertà religiosa, la sopravvivenza o meno di tutto il genere umano.
in “la Repubblica” del 18 gennaio 2011

La tristezza della lussuria

La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi – passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto…
– ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda.
Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell’anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati.
Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato.
Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all’atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto.
Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità.
L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico…
Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto.
Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce.
Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà – quasi sempre con prepotenza – all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.
Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l’orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi.
Linguaggio d’amore, manifestazione del dono di sé all’altro, il piacere sessuale è coronamento dell’unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione.
La lussuria, per contro, consiste nell’intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d’amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all’altro.
Quando si separa il corpo dalla persona, allora l’esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all’aggressività e alla violenza.
L’amore, che è dono di sé e accoglienza dell’altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell’altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione.
Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l’unica realtà non oscena è quella dell’erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse.
Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all’idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza.
Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell’altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell’immaginazione.
La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l’altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico.
Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell’esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l’esercizio di un eros virtuale, la  ornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l’eros per sempre.
Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l’altro nella differenza e nel rispetto dell’alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l’unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito.
Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l’essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo.
Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità.
Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l’esercizio della sessualità in un’opera d’arte, in un capolavoro che corona una storia d’amore.
in “La Stampa” del 19 gennaio 2011