Progetto di «prassi cristiana con i giovani»

 

 

Ripensare la pastorale giovanile

José Luis Moral

 

 

La società e le comunità cristiane, nel loro rapporto con i giovani, più che «in–segnare» (mettere cioè in segni, più o meno fissi, quello che sanno), «si–educano», ossia, maturano e crescono ricreando i simboli della vita e della fede. Purtroppo, la relazione della società e della Chiesa con i ragazzi, troppo spesso si è concentrata più sull’insegnare che sull’educare: all’insegnamento corrisponde l’istruzione – decifrare, catalogare e rinnovare segni già saputi –; all’educazione, invece, corrisponde l’iniziazione, ovvero, l’avvicinarsi ai simboli per scoprire i fili dell’esistenza, i vincoli e le relazioni antiche e nuove che ci fanno essere persone.

Intendo parlare in quest’articolo di un «progetto di prassi cristiana con i giovani» sviluppato attraverso tre libri[1], che giustamente inseguono le sorgenti simboliche e, a mio avviso, consentono di ripensare la pastorale giovanile, evitando la trappola di trasformare i simboli della vita in segni posseduti di cui impadronirci. Infatti, il primo volume – Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione – cerca di interpretare lo stato attuale delle risorse simboliche che tanto la cultura come la fede cristiana devono trasferire ai giovani; nel secondo – Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l’incredibile fede di Dio nell’uomo – provo a far emergere la vera e propria fonte di tutti i simboli, narrando storie sull’amore incondizionato e gratuito di Dio; il terzo – Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani –, infine, si sofferma su come concretizzare una nuova relazione tra i giovani e la Chiesa, attraverso la proposta di una prassi cristiana alternativa.

Ecco di seguito una breve sintesi di ciascun libro. Interpretare, raccontare e attuare sono rispettivamente le prospettive delle tre opere che, nel ripensare la prassi cristiana con i giovani, cercano un’alleanza effettiva con loro: interpretare (1), per definire l’orizzonte antropologico-culturale; raccontare o fare «teo-logica» (2), per cercare di sintonizzare tale orizzonte con quello teologico; infine (3) attuare, con il disegno di uno «schema-modello» a partire dal quale si possa progettare la prassi nella propria situazione concreta e particolare.

 

 

§ Libro 1: Giovani senza fede?

 

L’opera analizza la situazione contemporanea e il suo orizzonte antropologico-culturale in tre direzioni. Inizia con la constatazione che la modernità ha portato con sé un cambiamento radicale del prototipo culturale, dal quale deriva un nuovo stato di coscienza dell’essere umano, mentre, da parte sua, il cristianesimo continua ad incontrare grosse difficoltà nel rivivere la propria esperienza in consonanza con tale contesto. I ragazzi, figli di questo nuovo modo di essere e vivere, incrociano troppe interferenze nel sintonizzarsi con la religione.

Per questo motivo – ed è un ulteriore passaggio –, diventa obbligato l’impegno per una «nuova alleanza con le giovani generazioni» che ricostruisca con esse quello che da sempre – e specialmente nella vita, morte e risurrezione di Gesù, il Cristo – Dio vuole comunicarci. Non solo perché, nel bene o nel male, il futuro del cattolicesimo passa per i giovani, ma anche perché essi – più che rifiutare – sono forse arrivati al punto di capire poco o nulla del senso e valore dell’esperienza cristiana.

Infine, i ragazzi oltre che rappresentare una metafora eloquente, costituiscono una vera profezia, un’opportunità incomparabile per disimparare teologia ed esercitare la «teo–logica»: vale a dire, per entrare con decisione nella logica di Dio, per «praticare Dio», per vivere «con spirito» ed «educar–ci» con i giovani, ricreando quella genuina comunità reale di comunicazione che è la Chiesa, sulla spinta della comunità ideale di comunicazione costituita  dal Regno.

 

 

§ Libro 2: Giovani, fede e comunicazione

 

Scritto in dialogo con i giovani, questo libro tenta di ridisegnare l’orizzonte teologico. Ci troviamo di fronte un Dio che, per primo, crede nell’uomo e la cui fede in noi precede la nostra in Lui; tale consapevolezza, tra le altre cose, consente di ricostruire l’esperienza cristiana in sintonia con l’esperienza umana odierna. È questa la tematica della prima parte del volume, dove i ragazzi manifestano il bisogno di scoprire un Dio che dimostri e dia prova di noi.

Ammirando Dio come quella meravigliosa maniera infinita di essere uomo, si narra poi la «teo-logica» della creazione attraverso l’amore e la salvezza. Davanti a tutto ciò, i giovani s’interrogano sul come fare per capire questo nostro essere stati «creati creatori», quale rapporto esista tra natura e «grazia» o tra naturale e soprannaturale, che cosa significhi «fare esperienza di Dio» e, infine, come mettere in relazione teologia, comunicazione, fede, religione e Chiesa.

Dopo aver compreso l’uomo quale maniera finita di essere Dio, nonostante il peccato lo faccia cadere in «dis-Grazia», si racconta di come questa argilla frantumata venga ri-creata con un «eccesso» che gli permette di «vivere in stato di grazia». La fantasia giovanile, di fronte a un tale scenario, si scatena in mille domande sul peccato originale, il demonio e l’inferno; e, non contenta, avanza quesiti sulla comunicazione nella liturgia, sui documenti del magistero e sulla relazione tra Chiesa e mezzi di comunicazione.

 

 

§ Libro 3: Giovani e Chiesa

 

L’inizio del testo (Imparare a conoscere: Ricostruire la comunicazione), presenta il pluralismo come la «cifra» e la chiave interpretativa della situazione attuale. Ci vuole, dunque, una «prassi ermeneutica» in grado di ascoltare Dio nella realizzazione dell’uomo e, nel contempo, di ricostruire la comunicazione fra i giovani e la Chiesa.

La seconda parte (Imparare ad essere e a vivere insieme: Ripensare l’identità e l’orientamento), collocandosi sui binari della ricerca di senso, aspira a presentare un’identità umano-cristiana con cui vivere e proporre la fede senza dover fare a meno dello stato di coscienza delle donne e degli uomini, dei ragazzi contemporanei. La strada è questa perché la fede va educata dentro i dinamismi storici della crescita umana: il tutto poggia, da un lato, sulla «qualità-senso» della vita e, dall’altro, sulla «liberazione–salvezza» che Dio ci dona in Gesù Cristo.

Già nella terza parte (Imparare a fare: Ripristinare l’azione, progettare la prassi), una volta afferrato che Dio provoca la nostra libertà con un progetto di amore radicato nell’intimo di ogni esistenza umana – per cui il «sì alla vita», al senso più profondo della propria umanità è un «sì a Dio» –, arriva il momento dell’azione propriamente detta: il momento cioè della progettazione e programmazione della prassi cristiana con i giovani, entrambe finalizzate alla costruzione di veri cittadini e cristiani giovani, che affrontino la vita con lo Spirito di Gesù e accolgano la salvezza di Dio non soltanto nella ricerca del senso, ma anche – e soprattutto – nella lotta per la giustizia.

 

 

  1. 1. Prassi cristiana con i giovani

 

Si tratta, quindi, di ripensare la pastorale giovanile; il sottotitolo di queste riflessioni ne indica l’esito: disegnare una prassi in grado di far sì che i giovani diventino «cittadini nella Chiesa» e «cristiani nel mondo». Prima di entrare nel tema, però, si rende necessaria una precisazione circa lo stesso cambiamento terminologico. Infatti, opto per l’espressione «teologia della prassi cristiana» al posto della tradizionale teologia pastorale o pratica e, conseguentemente, rinomino «prassi cristiana con i giovani» quanto è abitualmente identificato con pastorale giovanile.

 

1.1. Teologia della prassi e prassi cristiana con i giovani

 

Non vorrei entrare in una inutile guerra di parole. Alla base delle modifiche linguistiche esiste un intento fermo di ricostruire la teologia pastorale o pratica in termini di «teologia della prassi cristiana», intesa quale riflessione e confronto critico dell’esperienza cristiana della comunità ecclesiale (e la sua costituzione come comunità di comunicazione nella vita interna e nell’annuncio esterno della salvezza) con l’esperienza umana attuale, alla ricerca di una realtà sociale più giusta ed umanizzante; l’obiettivo di questa specifica correlazione critica è quello di portare alla verifica della propria identità religiosa (in quanto cristiani) e dell’inserimento e collaborazione negli impegni comuni (in quanto cittadini) per dare senso alla vita e alla storia dell’umanità.

Supera le possibilità di queste righe entrare nei dettagli che, ad ogni modo, ho cercato di giustificare in un altro lavoro più tecnico[2]. Comunque, mi sembra ormai condiviso che la breve e travagliata storia della teologia pastorale continua a collocarci in un presente incerto e ci pone davanti un futuro ambiguo. Intendo reagire con un duplice spostamento: il primo, attraverso una specie di scossa simbolica legata alla modificazione dell’appellativo; il secondo, con una (corrispondente) nuova definizione dell’identità.

Il cambio nominale, da una parte, permette eliminare tanto il significato esclusivamente interno della parola «pastorale», come il tono generico e vago del termine «pratica»; dall’altra, da il via ad una nuova carica simbolica che, pur ruotando attorno a un’espressione usata in tutte le lingue (prassi), conserva i tratti originali della sua peculiarità[3].

Tuttavia il quid risiede nella definizione con cui aprivo questo punto. L’identità classica della teologia pastorale – per così dire e semplificando – gira attorno alla Chiesa, il che comporta il rischio di non mettere sufficientemente a fuoco il vero centro di tutto, cioè, il Regno di Dio. La mia proposta cerca di andare incontro vuoi a questo pericolo vuoi ad altri derivati da possibili dualismi (esperienza umana ed esperienza cristiana, comunità sociale e comunità ecclesiale, ecc), con una teologia della prassi cristiana in grado di intrecciare profondamente la costruzione del cittadino e del cristiano, della Chiesa e della società nell’orizzonte convergente del Regno, della salvezza e del senso.

Da ciò deriva la correlativa trasformazione della pastorale giovanile in «prassi cristiana con i giovani». Nonostante le concretizzazioni specifiche, servono anche le ragioni precedenti per giustificare questa seconda scelta. A ciò, si aggiunge la carica inedita dell’articolazione della parola prassi nelle due accezioni con cui si usa: nella prima – teologia della prassi – il soggetto o il sostantivo principale è la teologia; nella seconda – prassi cristiana con i giovani – è la prassi ad essere sostantivo e soggetto centrale, allargato in un rapporto di specificità («con») ineludibile. Questi aspetti sono sostanziali: nel caso della teologia della prassi, indichiamo che la chiave della sua identità ricade nelle esigenze della teologia, mentre, quando trattiamo della prassi cristiana con i giovani, il perno si sposta sulla prassi concreta dei giovani fatta o vissuta con loro[4].

 

1.2. Epistemologia, criteriologia e prospettiva educativa della prassi

 

Ovviamente non è possibile raccogliere in alcune poche pagine quanto ho scritto in più di settecento. Quindi cercherò di sottolineare gli elementi che meglio chiariscono la variazione della rotta nella direzione sopra indicata (con tutte le riserve dovute alle necessarie semplificazioni che comporta un lavoro di questo genere).

Il progetto, anzitutto, poggia su una duplice base strutturante: 1/ L’assunzione dell’epistemologia ermeneutica quale paradigma o matrice disciplinare della teologia pratica e, in genere, della prassi cristiana con i giovani; 2/ La collocazione specifica di quest’ultima in una prospettiva educativa. Ermeneutica ed educazione, inoltre, consentono di ridare una profondità coerente all’orizzonte antropologico-culturale e teologico entro il quale viene posizionata la proposta.

Ciò detto, nella situazione attuale tutto preme verso l’impegno di ripensare con i giovani – e dalla parte loro! – la religione e la fede. Insieme a questa fedeltà ai ragazzi, tre sono i criteri fondamentali che, dal punto di vista cristiano, devono guidarci: il principio Incarnazione, la ripresa dell’idea di creazione e il collegamento intrinseco fra salvezza e liberazione (liberazione, presente della salvezza; salvezza, futuro della liberazione). Recupero così l’intera sequenza «creazione–incarnazione–redenzione», riportandola da vicino alla realtà della vita contemporanea.

Al centro rimane il «principio incarnazione», insieme all’annuncio del vangelo della salvezza. Il recupero dell’importanza del concetto di creazione o, meglio, di «creazione dall’amore» permette di capire, da un lato, che ciò che a Dio interessa siamo noi nella nostra interezza – corpo e spirito, individuo e società, cosmo e storia –; dall’altro, che Dio ci ha «creati creatori» (a sua immagine), ossia, la creazione non rimanda a persone e oggetti passivi, bensì ad una realtà infinitamente partecipativa. Le conseguenze di questa centralità sono importanti, perché da questa visione nasce un modo aperto e positivo di situarsi nel mondo in sintonia con lo stato di coscienza dell’uomo contemporaneo (fiero, a ragione, della sua autonomia creativa). Si comprende allora perché, nel pensare l’azione divina e l’azione umana, “il Creatore non deve «venire» nel mondo, perché è già sempre dentro di esso, nella sua più profonda e originaria radice; e non deve ricorrere a interventi puntuali, perché la sua azione, lunghi dall’essere intermittente e sporadica, da sempre e senza tregua sostiene, dinamizza e promuove tutto: il Padre «opera da sempre» (Gv 5,17) nella sua creazione” (A. Torres Queiruga).

Quanto fin qui detto, fa capire subito che la pastorale giovanile odierna deve andare oltre la pur necessaria «mentalità di progetto», verso cioè una mentalità strategica in grado di affrontare il presente e di pensarlo in prospettiva di futuro, mediante l’indicazione di chiavi, priorità e sequenze che si inseriscano nelle dinamiche vitali delle nuove generazioni. In ogni caso, la mia posizione strategica è incentrata sulla ricostruzione dell’esperienza cristiana: tale processo va legato al recupero dell’umanità della fede e della religione, affinché sia possibile «educar–ci» insieme ai giovani accettando il pluralismo e integrando creativamente la secolarizzazione, con la conseguente ricollocazione del cattolicesimo nelle società democratiche occidentali.

La «mentalità ermeneutica» e lo «sguardo educativo», in questo contesto, portano ad una definizione rinnovata dell’obiettivo della prassi cristiana con i giovani – formulato abitualmente in termini di «sintesi tra fede e vita» (con il rischio di dare per scontato quello che si doveva definire, ossia, quale vita e quale fede volevamo unire) – attorno all’umanizzazione, ritenuta la via più adeguata perché fede e vita si armonizzino nel cammino del divenire cittadini e cristiani giovani.

Il linguaggio presenta sempre dei pericoli: consegnare l’obiettivo all’umanizzazione può apparire più dinamico, ma rischia di essere riduttivo; collocarlo nell’ambito della divinizzazione è più completo, ma può risultare astratto e persino vuoto. Nonostante umanizzazione e divinizzazione costituiscano un’unica realtà[5], lo stesso paesaggio visto da sponde diverse, se sottolineiamo eccessivamente l’umanizzazione rischiamo di nascondere l’orizzonte della divinizzazione; mentre, mettendo l’accento su questa, corriamo il pericolo di oscurare la realtà concreta dell’umanizzazione alla quale la stessa divinizzazione deve ancorarsi.

Ma non è soltanto una questione di parole: parlare di umanizzazione – vincolata alla creazione, Incarnazione e salvezza dell’uomo – risulta oggi più significativo e permette di comprendere meglio che Dio è dalla nostra parte, che è così coinvolto nei progetti umani di liberazione da trasformarli – già adesso! – in segni di salvezza che anticipano nella storia la loro realizzazione escatologica.

 

 

  1. 2. Situazione e direzione ermeneutica del progetto

 

Non basta semplicemente guardare la situazione per interpretarla e cercare di comprenderla. Il presente che viviamo è in se stesso una «situazione ermeneutica», il comprendere dipende soprattutto da un processo inserito nella storia degli effetti (o delle determinazioni) che provengono dal passato e costituiscono un «presente spiegato» (situazione ermeneutica) il quale, per essere capito e rendere possibile un futuro autenticamente umano, deve essere reinterpretato. Per questo motivo H.-G. Gadamer afferma che “chi non ha un orizzonte è un uomo che non vede abbastanza lontano e per questo motivo sopravvaluta ciò che gli sta più vicino. […] Il compito della comprensione storica porta con sé l’esigenza di appropriarsi, in ogni singolo caso, dell’orizzonte storico in base a cui ciò che si deve comprendere si presenta nelle sue vere dimensioni. Chi non si preoccupa di collocarsi nell’orizzonte storico a cui il dato appartiene e dal quale ci parla non può capire il significato di tale dato”[6].

 

2.1. Un «cambio epocale»

 

Indubbiamente, il nostro è un «tempo di crisi» e di «cambio epocale». La rivoluzione sociale e culturale viene da lontano. Di conseguenza (questi sono gli effetti fondamentali di cui servirci per l’interpretazione), ci troviamo con un nuovo modello esplicativo generale: la modernità introduce un processo irreversibile le cui ancore sono fissate nell’autonomia della realtà mondana, nella radicalità storica dell’essere umano e in una razionalità antropocentrica che si distende liberamente e creativamente (con non poche sconfitte e problemi, ma anche con tante soluzioni e conquiste!). Infatti, l’evoluzione storica dell’umanità – in particolare negli ultimi tre secoli – e le profonde trasformazioni introdotte tanto dalle scienze empiriche come dalle moderne scienze dell’uomo, non solo prospettano un universo simbolico diverso da quello che servì per formulare la fede e giustificare l’esperienza cristiana, ma soprattutto introducono un inedito paradigma o prototipo interpretativo per comprendere la vita umana, un’autentica rivoluzione dei modi di sentire, pensare, valorizzare e agire.

Qui risiede il punto: ci troviamo con il radicale mutamento della vita e del pensiero umano che una volta servirono per esprimere il contenuto dell’identità e del messaggio cristiani: l’esperienza di fondo continua ad essere la stessa; la cultura però è cambiata sostanzialmente.

Da un parte, quindi, la fede cattolica continua a narrarsi con strutture, forme, linguaggi e simboli antichi, non raramente incomprensibili; dall’altra, la sensibilità e le esperienze umane dei nostri giorni fanno sempre più fatica ad entrare in sintonia con il cristianesimo e la religione in generale. Il risultato è che oggi, in Occidente e dopo numerose vicissitudini, non sono pochi quelli che finiscono per non credere più alla storia raccontata dalla Chiesa, e non sono molti quelli che continuano a fare l’esperienza che sta alla base della fede. Non di rado, gli stessi cristiani si rassegnano ad una specie di doppia vita (la secolare e la religiosa)[7]: l’esperienza umana contemporanea, con tutti i suoi limiti, ci ha trasformati in cittadini coscienti dell’uguaglianza, dell’autonomia, della libertà, generando atteggiamenti critici e democratici; mentre l’esperienza religiosa, a causa dello sfasamento dovuto a interpretazioni premoderne, produce cristiani – mi si consenta la scarna e polarizzata descrizione – in attitudine di (religiosa?) sottomissione.

Ecco dove situo il progetto di prassi cristiana con i giovani: dall’Illuminismo in poi, tutto è stato rimosso, discusso, analizzato e sottomesso al tribunale dell’essere umano. La fede e la religione cristiane non si trovano a loro agio in questo contesto. L’obiettivo dell’ultimo Concilio di offrire un volto vivo e attuale dell’esperienza cristiana è ancora lontano, mentre incalza l’urgenza di ripensarla e ricostruirla con categorie e pratiche che ricreino la vita e vivifichino la speranza degli uomini e delle donne del nostro tempo.

È vero che l’esperienza cristiana sta ancorata alla fede; tuttavia non è meno vero che per credere in Dio c’è bisogno che sia e risulti credibile. La messa in questione dello stampo originario con cui si coniava quell’esperienza, ha rivelato una cultura religiosa preoccupata di custodire una tradizione carica di forme sempre più incomprensibili e ostacolata dal peso di una istituzione in buona parte ancora sacralizzata. Fatalmente, in tale panorama, Dio stesso rischia il discredito.

 

2.2. Quale Chiesa, quali comunità e nuove generazioni di cristiani vogliamo?

 

Bisogna dirla tutta: parecchi ingredienti del complesso percorso che delimitiamo come «modernità» sono stati oggetto di numerose critiche e debbono ancora essere sottoposti, come ogni prodotto umano, a una costante revisione. Segnalo, di seguito, alcuni degli aspetti più negativi che hanno condotto la civiltà occidentale a scontrarsi con due ostacoli pericolosissimi: la frattura culturale (e religiosa) dell’identità-orientamento della vita e la simulazione come gioco vincente nella comunicazione-azione dell’uomo.

L’identità personale e l’orientamento generale e sociale, in primo luogo, sono colpiti dai diversi guai che insediano l’umanità dal XVIII secolo in poi: da una parte, la crescente soggettivazione apre l’abisso dell’individualismo più egoista e chiuso; dall’altra, l’ideale illuminista di una «nuova società» finisce alla mercé della ragione scientifico-tecnica e dell’economia liberal-capitalista come centro produttore di significato sempre più preponderante. Una «società a rischio», dunque, dove aumentano le ingiustizie e le minacce alla stessa sopravvivenza dell’uomo: le disumane condizioni di vita nel «terzo mondo»; le esclusioni in aumento nel primo e nel secondo; la perdita collettiva di senso e direzione nell’esistenza; l’insensata distribuzione della ricchezza e l’assurda carriera consumistica; la manipolazione genetica; l’onnipresente terrorismo e la pretesa di istituzionalizzare la «guerra preventiva» contro di esso; il degrado ecologico e il pericolo delle arme biologiche e chimiche; la disuguaglianza e l’emarginazione fra culture e persone.

Altrettanto succede con la comunicazione e l’azione umane: la pretesa della modernità si può riassumere, con M. Weber, catalogandola come «processo di razionalizzazione». Processo che non solo attraversa tutte le realizzazioni intellettuali, artistiche e istituzionali dell’Occidente, ma che si pone anche alla base della conformazione mentale, delle motivazioni e dei comportamenti umani. Lo «spirito moderno» si dispiega come razionalità analitica e critica, formalismo sistematizzatore o procedurale, predisposizione per il calcolo di risultati e la verifica empirica. Inoltre, l’idea di ragione propizia una teoria della conoscenza che demarcherà i territori della scienza, delle credenze e delle superstizioni. Questo tragitto, in sé positivo, finisce però per spaccare la comunicazione e l’azione a causa di tre errori ancora presenti: la frammentazione della ragione, il predominio della razionalità strumentale e l’unidirezionalità empirica della conoscenza. Palesi sono le conseguenze di questi sbagli enormi che, alla fine, sfociano nella sostituzione della realtà con una sua immagine, il «crimine perfetto» secondo J. Baudrillard.

La nascita di un mondo in cui la tecnica s’intronizza come regina assoluta suppone dunque una rottura, non solo con le concezioni tradizionali della scienza (mai riducibile ad un semplice strumento), ma anche con le finalità della vita umana. Approdiamo così ad una sorta di sradicamento del senso per incentrare tutto sul trionfo, sul risultato come unico oggetto di culto, e rimpiazzare la «logica del senso» con la «logica della competenza». Allo stesso modo siamo ormai sopraffatti dalla sensazione che i processi storici riguardanti la nostra vita quotidiana, meccanicamente indotti, si sviluppano ad una velocità sfrenata e, soprattutto, al margine di ogni finalità visibile. Vivere, sopravvivere o realizzarsi sono intercambiabili e, quando non avviene l’insuccesso o il fallimento, sempre ci aspetta la minaccia della banalità, dell’insignificanza e del tedio. È la logica infinita e sprovvista di finalità del mondo della tecnica (e del consumo), e quando meno te lo aspetti, ti butta nelle braccia della noia.

Ma la cortesia non toglie la gagliardia. Di fronte alla razionalità autonoma, alla storicità, alla libertà e secolarizzazione, alla democrazia, ecc, non basta una pur necessaria depurazione critica, e neanche riconoscere semplicemente la loro ineluttabilità: il processo che hanno avviato è ormai irreversibile, in quanto la coscienza umana li ha introiettati nella sua configurazione centrale e d’ora in poi costituiranno il fondamento delle «credenze» che articolano il substrato culturale umano.

Ciò riconosciuto, ecco la questione: quale cristianesimo, quale Chiesa, quali comunità e nuove generazione di cristiani vogliamo? Tutto conduce qui; anzi, tutto dipende da questo interrogativo al quale non riusciamo a dare una risposta adeguata. E, se la teologia in genere si preoccupa della correlazione fra l’identità-esperienza cristiana e quella umana, lo specifico della pastorale – rispetto al resto delle discipline – consiste nel fare della prassi il punto di partenza: nel nostro caso, l’esistenza concreta dei giovani e della comunità cristiana è il «luogo teologico» per eccellenza in cui ascoltare e comprendere tanto la parola immediata di Dio come la risposta ecclesiale più adeguata alla medesima.

Risulta palese che dobbiamo pensare il cristianesimo non solo con e per le nuove generazione, ma anche dal loro punto di vista: in fin dei conti, un’essenziale pietra d’inciampo per misurare il futuro della religione cattolica risiede nella capacità di ripensarla a partire dai giovani, ai quali ovviamente va diretta, come destinatari in grado di confermare o smentire quel futuro. Inoltre, è proprio in questo contesto che si inserisce la mancanza di sintonia: c’è qualcosa che precede l’eventuale disaccordo o rigetto della fede, ed è la comprensione o meno da parte dei ragazzi di quello che diciamo e dell’esperienza che proponiamo. Tante volte il problema risiede a questo livello, per cui neanche si arriva a formulare un vero e proprio rifiuto: semplicemente si abbandona ciò che non si capisce.

Finalmente, una «società a rischio» come la nostra rappresenta sicuramente un «pericolo di vita» per i giovani, anzi, la loro esistenza è regolarmente in situazione di emergenza. C’è bisogno di una prassi cristiana, dunque, in grado di affrontare questa minaccia fondamentale che concerne la vita e la felicità, il senso e la speranza delle nuove generazioni. Una prassi che sia strutturata attorno ai nuclei problematici dell’«identità-orientamento» e della «comunicazione-azione»: nel primo si concentra la sfida del futuro, quella tra umanità o disumanità, tra giustizia o ingiustizia; mentre il secondo nucleo indica la strada del dialogo educativo e degli accordi per rendere possibile un mondo più giusto.

 

 

  1. 3. Orizzonte antropologico-culturale e teologico

 

Vengo, quindi, a sottolineare l’importanza capitale della prospettiva antropologica in questo nostro tempo di mutamento profondo dell’immagine umana; tempo che ci obbliga ugualmente a ripensare numerosi aspetti dell’orizzonte teologico, per tanti versi incapace di sintonizzarsi ed accogliere il nuovo stato di coscienza dell’essere umano odierno. Qualsiasi educazione alla fede che non assuma, con tutte le sue conseguenze, le trasformazioni ormai consolidate nel modo umano di essere e vivere, non solo metterà in grosse difficoltà la crescita e la maturazione dei giovani, ma comporterà anche l’impossibilità di unire la fede cristiana e la vita delle donne e degli uomini contemporanei.

Come accennavo al principio, i due primi volumi del progetto si dedicano maggiormente a precisare l’orizzonte antropologico-culturale (1° ) e l’orizzonte teologico (2°) della prassi cristiana con i giovani.

 

3.1. Oltre la secolarizzazione: la verità nell’orizzonte del pluralismo

 

Se, infatti, la teologia in genere si preoccupa della correlazione fra l’esperienza cristiana – quella originaria, in primis, e la sua manifestazione odierna – e l’esperienza delle donne e degli uomini contemporanei, lo specifico della pastorale consiste nel fare della prassi il punto di partenza: nel nostro caso, la vita delle comunità cristiane e il loro rapporto con i giovani è il «luogo teologico» per eccellenza.

Non entro nel merito di un tema ormai acquisito, ovvero, della prassi della comunità cristiana come luogo teologico centrale per la teologia pastorale. Nel caso della pastorale giovanile, poi, questo è ancora più vero, infatti qui non si tratta inizialmente di pensare alla luce della Scrittura e della Tradizione o di organizzare e indicare dottrine da trasmettere; anzi, e senza voler contrapporre, si potrebbe dire quasi il contrario: è dal contatto diretto con i ragazzi, con il bagaglio delle loro speranze e frustrazioni, dei loro aneliti e contraddizioni… che la comunità deve ripensare la stessa Scrittura e Tradizione, insieme al modo corrispondente di annunciare loro la salvezza, il «vangelo» e le buone notizie che vengono da Dio[8].

In tale prospettiva, senza dubbio, le nuove generazioni più che un problema per le comunità ecclesiali, sono una sfida e un’opportunità: un’eccellente occasione per ripensare l’esperienza cristiana originale e collegarla creativamente con quella umana attuale – adeguandola ai dinamismi antropologici moderni – oltre che una inestimabile occasione per ricostruire la «pratica religiosa».

Lo vogliamo o meno, la modernità e il suo prolungamento critico – lo si chiami postmodernità o postilluminismo – configurano l’habitat delle persone e dei gruppi religiosi, in quanto rappresentano una parte fondamentale del luogo teologico di ogni prassi cristiana. Qui si scorge il profilo dell’orizzonte antropologico-culturale che contiene alcune delle realtà già esposte, come il cambio del paradigma esplicativo generale e la modificazione radicale dell’esperienza umana. Riassumo il resto, semplificando forse un po’ pedestremente ed esageratamente, con una battuta heideggeriana e qualche riflessione attorno al pluralismo.

Heidegger annunciava l’evoluzione dell’antropologia col simbolo del passaggio «dall’essere come struttura all’essere come evento». Infatti, è successo proprio questo (benché da ciò non si debba dedurre la sparizione dell’essere). Ce lo manifestano chiaramente i giovani, anticipando il nuovo modo di essere e vivere che emerge dai cambiamenti sostanziali ancora in corso. Forse l’enunciato di questa anticipazione – dolorosa come qualunque nascita – risulta più chiaro se semplificato con la nota immagine della bussola e del radar. L’uomo-bussola di ieri – in accordo con il quale sono stati educati la maggior parte degli adulti – orienta la sua vita seguendo un nord (più o meno) fisso, sempre lo stesso e (più o meno) uguale per tutti; un nord che esiste a prescindere dal resto e che indica la meta suprema del cammino umano. Al contrario, l’uomo-radar – al quale tutti apparteniamo inevitabilmente, e che già configura la struttura delle giovani generazioni – si orienta attraverso uno schermo personale dal cui centro parte un raggio luminoso e vibrante che ruota a trecentosessanta gradi e reagisce con risposte sempre nuove e cangianti a seconda di quanto incontra sulla sua traiettoria.

L’insicurezza che comportano i mutamenti antropologici e culturali, alle volte, ci spinge a negare l’evidenza del cambio a causa di alcune delle sue conseguenze negative, come il relativismo e il secolarismo che ideologicamente, poi, trasformiamo in categorie essenziali per giudicare la cultura e la società contemporanea. Tutti sappiamo che tale meccanismo si utilizza frequentemente per nascondere due delle certezze acritiche distrutte dal nuovo orizzonte antropologico e culturale: la pretesa di «possedere la verità» e, per ciò stesso, la consapevolezza di avere un ruolo sociale preponderante. Invece, ancora fatichiamo tanto ad ammettere sia la relatività di ogni affermazione umana che la secolarizzazione delle strutture sociopolitiche.

Infine, la migliore carta d’identità per delimitare l’orizzonte antropologico-culturale (un fatto così ovvio che non vale la pena documentare) è il pluralismo. Tale realtà, in effetti, si presenta come l’autentico perno interpretativo in grado di decifrare il nostro momento storico, costituisce cioè il supporto in cui convivono e persino gareggiano fra di loro, con naturalezza, diverse visioni del mondo. Tale disposizione è il risultato normale che deriva dall’universo simbolico moderno: il pluralismo poggia su una visione antropologica che ritiene l’uomo capace di autodeterminarsi a partire dalla sua ragione e, oltre a rappresentare una questione centrale dello spirito umano, appare come un’esigenza radicata nella natura e nella storia.

Il pluralismo non è tanto frutto dei capricci della modernità quanto il risultato della convergenza e divergenza di numerosi fattori particolari. Manifesta, insomma, la ricchezza universale e, seppure renda più complicato l’orientamento vitale delle persone per il moltiplicarsi delle offerte e delle possibilità, non può essere interpretato riduttivamente come un segnale di confusione o debolezza. Più che difficoltà, il pluralismo è possibilità. Tuttavia, possibilità non è uguale a garanzia, e occorre riconoscere che l’attuale complessità sociale trasforma il pluralismo non solo in un argomento teorico ma anche in un grave problema pratico, che può tradursi in esperienze di disorientamento e persino di caos.

 

3.2. La rivelazione di Dio nella realizzazione dell’essere umano

 

L’orizzonte teologico della prassi cristiana si allaccia strettamente alla consapevolezza che deriva da ciò che riguarda l’orizzonte antropologico-culturale. Sintetizzo, ricorrendo ad una nuova semplificazione: l’esperienza cristiana, la sua narrazione o le formule della fede nascono all’interno di un orizzonte culturale statico. Una concezione astratta (ed essenzialista) della realtà dove tutto era fissato fin dall’inizio, dove pure il movimento era già determinato e non ammetteva deviazioni. Sotto questo aspetto, la creazione e la storia umana erano pensate perfette e complete; in quanto il male e le imperfezioni si ritenevano conseguenze negative successive (il peccato!) o causate da interventi di agenti perversi (il demonio!). Per una cultura così, ogni novità desta sospetti: la perfezione dell’uomo sta al principio (il paradiso!) e ciò che conta è il ritorno a quelle origini o la restaurazione del passato (la redenzione!).

La modernità, all’opposto, ci ha introdotti in una visione dinamica: la perfezione non sta più negli inizi, ma alla fine del cammino evolutivo, e per conoscerla non bisogna tanto volgere lo sguardo indietro quanto guardare in avanti, proiettarsi verso il futuro. Per una visione di questo tipo, il tempo e la storia acquisiscono una valenza straordinaria: più che il luogo dove accadono le cose, configurano la struttura profonda di quanto accade, l’intima realtà dello stesso essere umano. Sicuramente questo punto di vista non nega le verità che conteneva il precedente, tuttavia ci obbliga a ripensarle e a riformularle tutte in questa nuova prospettiva.

La scoperta del carattere storico ed interpretativo dell’esistenza umana o, con altre parole, il transito da una visione statica ad un’altra dinamica, ha anche condotto la teologia a trasformarsi: da scienza occupata a conoscere gli intrecci di un sapere accumulato lungo i secoli (il «deposito della fede» cristiana), a scienza che cerca di comprendere il significato di un’esperienza ancora viva. In poche parole, la teologia è passata dal sapere all’interpretazione[9]. Indubbiamente, il concilio Vaticano II sta alla base di tale conclusione, in quanto ci orientò a capire che la rivelazione di Dio avviene nella realizzazione dell’uomo[10].

Su questo scenario, l’orizzonte teologico proposto nel progetto si distende in una duplice direzione: 1/ Sistemazione dei contenuti della fede cristiana; 2/ Riformulazione dei nuclei tematici dell’antropologia teologica.

Il primo aspetto si avvia sulla meravigliosa piattaforma dell’amore (universale, gratuito, incondizionato e asimmetrico) di Dio, manifestato (Dio nessuno lo ha mai vist0) in un uomo, fatto cioè comprensibile e sperimentabile in Gesù. A partire da tale evento, sappiamo che arrivare a Dio non comporta uscire dall’uomo, ma entrare più intimamente nella propria umanità; che raggiungere Dio non significa perdere noi stessi, ma trovare la nostra più profonda e piena realizzazione. Dopodiché i nuclei teologici si concentrano nella cristologia, pneumatologia ed ecclesiologia.

Gesù, il Cristo, costituisce il modello supremo di ogni esistenza ed esperienza cristiana: in questa prospettiva, possiamo affermare che «Dio Abbà» e il Regno rappresentano le assi portanti di ogni vita e prassi cristiane.

Gesù di Nazaret, poi, non solo svela il volto amoroso di Dio, ci manifesta anche lo Spirito e il dinamismo che questi inserisce nell’essere umano: vivere «con spirito» porta ad affrontare la realtà per restituire vita e dignità, soprattutto a coloro che ne sono stati spogliati e trattati ingiustamente dai propri fratelli (cf. Lc 4,18-21).

D’altra parte, mettendo insieme il problema comunicativo con la sacramentalità e la comunione, con cui definisce il Vaticano II l’ecclesiologia, la prassi cristiana con i giovani dovrà sforzarsi per fare una lettura della Chiesa in termini di «comunità reale di comunicazione», nella quale si presuppone il Regno come «comunità ideale di comunicazione».

Finalmente, il progetto dedica tutto un libro – il secondo – alla riformulazione dell’antropologia teologica. Elenco semplicemente alcuni dei temi analizzati: una creazione fatta per amore e per la salvezza; un’immagine divina di creta o la «dis-Grazia» del peccato; l’«umiltà di Dio» per la grandezza dell’uomo; la giustificazione come umanizzazione per la fede; la filiazione divina e la fraternità umana che culminano nell’eccesso di «cieli e terra nuovi». Dietro questi enunciati stanno le cose concrete, ripensate seguendo il filo rosso delle domane dei ragazzi: Cosa vogliono dirci i racconti della Genesi? La creazione è compatibile con l’evoluzionismo? Che cosa s’intende per salvezza e per peccato? Esistono gli angeli, il demonio, il cielo e l’inferno? Per diventare persone sono necessarie la religione, la fede e la Chiesa? Cosa significa incontrare Dio, incontrare Gesù Cristo?

 

 

  1. 4. Progettare la prassi cristiana con i giovani

 

Dio provoca la nostra libertà con un progetto di amore radicato nell’intimo di ogni esistenza umana; il «sì alla vita», al senso più profondo della propria umanità è un «sì a Dio», è già risposta a Lui e fede dell’uomo in Dio. Benché la prassi cristiana con i giovani non debba fermarsi lì, in quanto indubbiamente aspira alla mèta dell’incontro con Cristo, non potrà mai saltare questo dato di base. In definitiva, dunque, il mistero dell’essere umano “trova vera luce nel mistero del Verbo incarnato. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo, [il quale] svela pienamente l’uomo a se stesso” (GS 22).

Tuttavia, nel cercare di condurre i giovani a Cristo, la prassi cristiana non può avere altro programma che quello di accostarsi alla vita dei ragazzi, all’attualità del mondo, alle gioie, alle tristezze e alle speranze delle nuove generazioni. In questa direzione deve situarsi la mutua implicazione di educazione e fede: maturare e crescere come persone, ossia, in un profondo e umano rapporto con la natura, con gli altri e con l’«Altro», che contiene la possibilità stessa della fede. Così le scienze dell’educazione e la saggezza della fede si fecondano vicendevolmente in un rapporto dialogico permanente. La prassi cristiana con i giovani sa che queste sono pietre miliari del cammino per ricercare la qualità e il senso della vita; la meta però sta più in là, e occorrerà preparare il «salto» da questa base antropologica all’esperienza cristiana della salvezza, attraverso l’incontro con Gesù Cristo e l’adesione alla comunità ecclesiale

 

4.1. Progettare l’azione educativa

 

Una volta scoperte alcune delle chiavi e la prospettiva strategica della proposta, basterà un semplice schema per capire il progetto in questione che, anzitutto si struttura, da un lato, attorno ai «pilastri dell’educazione», secondo la definizione del cosiddetto «rapporto Delors» (imparare a conoscere, imparare ad essere e vivere insieme, imparare a fare); e, dall’altro, ai nuclei problematici del nostro tempo (identità-orientamento della vita, comunicazione-azione umana). Ciò sta a manifestare che si tratta di un «progetto educativo» il quale, inoltre, prende atto del rinnovamento pedagogico in corso[11]: in poche parole, di fronte al classico «oggetto educativo» inteso, per così dire, come sapere istituito ed amministrato, la novità consiste nel costituirsi di un gruppo (animatori e giovani) che studia ed affronta le sfide della situazione: in questo modo si educano, ossia, crescono e costruiscono… insieme.

Il progetto, quindi, intreccia intimamente teologia, educazione ed umanizzazione, che si fondono senza confondersi. E dove «educar-ci» è vivere, esistere, uscire da sé; è conoscere e amare quelle relazioni con la natura, con gli altri e con Dio nelle quali maturiamo. Non è il caso di scendere nei dettagli dell’argomento epistemologico e metodologico che comportano queste affermazioni che, ad ogni modo, vogliono esprimere una chiara posizione interdisciplinare di matrice ermeneutico–prassica.

L’interpretazione, comunque, deve essere guidata dai tre criteri essenziali già segnalati: il dinamismo della creazione, il «principio incarnazione» e uno stretto rapporto fra salvezza e liberazione.

Ciò riconosciuto, subentrano le ultime due chiavi del progetto: 1/ La specificazione degli obiettivi particolari, a partire da quello generale; 2/ Il modello di educazione o, meglio, la direzione e struttura dei processi educativi.

Ho già affermato che la miglior esplicitazione dell’obiettivo della prassi cristiana con i giovani si trova nell’umanizzazione. Tale criterio deve poter essere letto quale «criterio etico» – per indicare la linea di comportamento che rifiuta in radice quanto possa contraddire l’umanità – e, alla pari, quale «criterio mistico» – in quanto integra l’autenticità umana con l’apertura alla trascendenza –. Poi, l’ulteriore concretizzazione degli obiettivi specifici deve avvenire, senz’altro, in un processo di «soluzioni dei problemi», all’interno del quale si fissano i correlativi obiettivi educativi. D’altronde, così come gli obiettivi particolari hanno come punto di riferimento basilare quello generale, si potrebbe dire che l’insieme dei problemi o sfide è anche radicato nel duplice nodo intimidatorio che minaccia il senso della vita dei ragazzi, vale a dire l’identità-orientamento e la comunicazione-azione. L’individuazione degli obiettivi a partire dalle sfide, infine, ha come scopo ultimo la maturazione umana e cristiana dei giovani.

Forse il tutto si chiarisce meglio se mi concentro nella spiegazione del modello educativo che propone il progetto. Esso, anzitutto, si compone a partire dalla tradizione educativa salesiana, da quella di don Milani e dalla pedagogia concrea di P. Freire.

Do per scontato che tutti cerchiamo di fuggire dall’idea che educare sia sinonimo di modellare le nuove generazioni. Così come stanno le cose, perciò, dobbiamo rivedere a fondo i concetti di educazione e di istruzione, distinguerli e persino separarli con cura. Affermando, ovviamente, la loro complementarietà ma cercando tuttavia di smascherare la perniciosa confusione di racchiudere l’educazione nella stessa prospettiva dell’istruzione.

Mentre nell’istruzione o nell’insegnamento sempre c’è un qualcosa che si trasferisce da uno che sa ad un altro che ignora, da uno che ha ad un altro che ne manca, da chi da a chi riceve; nell’educazione, no. Allora, possiamo chiederci, con quali verbi educhiamo? Con gli intransitivi!: vivere, crescere, uscire, sorgere, fiorire, fruttificare… Con questi, l’azione educativa cambia completamente e si capisce meglio che ci educhiamo insieme e, oltre tutto, che «nessuno educa nessuno» perché nessuno cresce nessuno, neppure lo fiorisce, né lo fruttifica[12].

Nessuno educa nessuno, affermava P. Freire, così come neanche nessuno educa se stesso: gli uomini si educano in comunione, un’educazione sempre mediata dal mondo in cui abitano. Ci educhiamo insieme, «nel mezzo e per mezzo del mondo», della vita: la realtà reclama il nostro rapporto con essa ed è lì che tutti ci giochiamo la crescita e lo sviluppo personale. È la realtà vissuta l’unica che, a dire il vero, può essere la nostra educatrice. In definitiva, quindi, ci educhiamo insieme affrontando le sfide della vita collettiva; in questo modo, ciascuno va costruendo, va crescendo come persona nello scoprire, confermare o rielaborare le relazioni che popolano e arricchiscono l’esistenza[13].

Don Bosco compendiava così la finalità del suo «sistema educativo preventivo»: “Fare quel po’ di bene che posso ai giovanetti abbandonati adoperandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti cittadini in mezzo alla civile società”[14]. Aveva piena ragione: non è sufficiente che la prassi cristiana si concentri nella crescita di cristiani responsabili, è anche necessario nel contempo fortificare la loro cittadinanza con simile esigenza di responsabilità. Il sistema preventivo, inoltre, può essere ripensato nella direzione sopra indicata, vale a dire: ci educhiamo insieme nell’affrontare le sfide della vita attraverso le relazioni quotidiane.

 

4.2. Cittadini nella Chiesa, cristiani nel mondo

 

La finalità espressa da don Bosco, da tempo, viene vincolata alla proposta e assunzione di valori. Per tanti ragioni – non è il caso di esplicitarle –, oggi appare necessario trovare un nuovo perno educativo che, in questo preciso momento storico, sembra trovarsi nella nozione di cittadinanza. Educar-ci per diventare ciò che siamo si può riassumere nell’esercizio dei valori della cittadinanza: essere un buon cittadino o cittadina esprime fedelmente ciò che ci fa umani. Emerge così la consapevolezza che, inizialmente, rispondere al Dio di Gesù, il Cristo, non è tanto questione di scoperta ed affermazione della divinità (a Lui, poi, interessa di più che gli esseri umani portino avanti il suo progetto che il semplice riconoscimento del suo autore), quanto risposta alla realtà umana primordiale. Sicuramente, non possiamo fermarci qui: i processi della prassi cristiana con i giovani aspirano alla meta dell’incontro con Cristo; ma nemmeno possiamo saltare le tappe previste sia dalla maturazione umana che dall’esperienza cristiana.

La bozza di progettazione e programmazione che si offre nel terzo volume poggia sull’intrinseca connessione fra evangelizzazione ed educazione, ricerca di senso e dono della salvezza. Orbene, questa ricerca di senso si allaccia alla costruzione di una cittadinanza cosmopolita e responsabile, oltre che legata alla propria identità. Proprio per tale strada la ricerca di senso diventa impegno per la giustizia e insieme configurano il camino più indicato per cogliere e accogliere il dono di Dio.

La mèta primaria e comune degli itinerari educativi, per così dire, non può essere altra che la cittadinanza cosmopolita e attiva, radicata nella giustizia; la mèta definitiva, invece, si trova nel rendere possibile il salto da questo senso della vita all’esperienza cristiana della salvezza, ossia, all’incontro con Gesù Cristo e all’inserimento attivo nella comunità ecclesiale.

In questa prospettiva, il progetto delinea una prassi cristiana con i giovani che sia in grado di portare le nuove generazioni a trovare la loro identità nella ricerca della giustizia, come espressione prima della ricerca di senso e, soprattutto, come terreno fertile per incontrare Gesù Cristo e affrontare la vita «con Spirito»… per essere, con tutte le conseguenze, cittadini nella Chiesa e cristiani nel mondo.

 

 


[1] Cf. J.L. Moral, Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione, ElleDiCi, Leumann (To) 2007; Id., Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l’incredibile fede di Dio nell’uomo, ElleDiCi, Leumann (To) 2008; Id., Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani, ElleDiCi, Leumann (To) 2010.

[2] cf. J.L. Moral, Ciudadanos y cristianos. Reconstrucción de la Teología Pastoral como Teología de la Praxis Cristiana, Ed. San Pablo, Madrid 2007.

[3] Inoltre, tanto l’apporto simbolico che la particolarità del vocabolo «prassi» hanno il pregio di rimuovere tutto ciò che il tradizionale nome sottintendeva (teologia pastorale o pratica) come, per esempio, la contrapposizione tra teoria e pratica letta quale distinzione gerarchica fra dogmatica e pastorale. In fin dei conti, la prassi ci ricorda che ogni pratica contiene teorie, allo stesso modo in cui ciascuna teoria implica una o più pratiche, e che – soprattutto – la riflessione e l’attività teoretica sono in se stesse anche una prassi, per cui devono essere confrontate con l’azione che cercano o di fatto stanno promuovendo. La prassi è e segnala, principalmente, atti e attività quotidiane che diventano modelli spontanei attraverso i quali le persone e le comunità cristiane si relazionano e organizzano le loro azioni dentro e fuori lo spazio religioso. Qui risiede la ragione più profonda del cambio terminologico: gli atti che compiamo nella nostra prassi quotidiana danno vita ad una realtà che ci s’impone di maniera immediata alla stregua del linguaggio stesso e, con questo, costituiscono una sorta di presupposto ineludibile nel momento della riflessione teologica.

[4] A ragione, quindi, la prassi cristiana con i giovani non può essere semplicisticamente identificata come «educazione alla fede» (o quale generica catechesi giovanile), perché tante volte – secondo il tipo di problemi – sarà piuttosto «educazione alla carità» oppure «educazione alla speranza». Ad ogni modo (in Occidente), la problematica di base ci insegna che, di fronte a chi tutto assoggetta a Dio (questo qui è niente!) o chi afferma che esiste soltanto quanto si può vedere e toccare (questo qui è tutto!), la prassi cristiana con i giovani deve scegliere la via educativa che cerca di perforare la realtà per scoprire i simboli che si nascondono sotto le cose della vita (questo qui è sacramento… dell’Altro!).

[5] Umanizzazione e divinizzazione costituiscono infatti un’unica realtà. Quando Paolo ci dice che l’essere umano deve svestirsi dell’uomo vecchio per rivestirsi dell’uomo nuovo che è Gesù Cristo (cf. 1Cor 15,49; Rm 13,14), riconosce nell’immagine di Dio la piena umanizzazione. A sua volta, Giovanni più che rimandare all’abito del nuovo Adamo, parte dall’esperienza della pienezza in Cristo (cf. 1Gv 1,1ss.) sostenendo così il linguaggio della divinizzazione.

[6] H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Fabri Ed., Milano 1972, 353.

[7] Quale cristiano non sperimenta quella «frattura dualista» della sua coscienza quando sente parlare di un Dio scarsamente credibile, i cui dettati risultano incomprensibili e del tutto imprevedibili – come se si trattasse di enunciati la cui dimostrazione rimane occulta o mandati le cui ragioni Egli tiene solo per sé –; un Dio che, molte volte, rimanda ad una verità astratta – incapace di entrare in rapporto con i processi storici e creativi dell’essere umano – e in permanente competizione con le verità dell’uomo? Chi non ha percepito dolorosamente come, quando si ha a che fare con «esigenze di religione», rimangono frequentemente compromessi alcuni dei tratti più importanti dello stato di coscienza dell’uomo contemporaneo, cioè l’autonomia, la percezione storica, la capacità critica o la libertà? Quanti non hanno avuto l’impressione, in qualche circostanza, che la Chiesa stia invecchiando e stia perdendo i riflessi, fino ad apparire un’istanza da superare, quando non una realtà già superata?

[8] Ed è per lo stesso motivo che la comunità cristiana, prima d’interrogarsi su «quello che deve trasmettere ai giovani», si deve domandare «quale annuncio è rivolto ad essa oggi» (cf. A. Fossion, Ri-cominciare a credere, Edb, Bologna 2004).

[9] Cf. C. Geffré, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, Queriniana, Brescia 2002.

[10] Cf. A. Torres Queiruga, La rivelazione di Dio nella realizzazione dell’uomo, Borla, Roma 1991.

[11] Se, da una parte, risulta palpabile l’urgenza di nuove formulazioni della fede e della pratica religiosa; dall’altra, non è meno evidente e necessario un profondo rinnovamento pedagogico che possiamo riassumere così: 1/ La novità pedagogica centrale si identifica con la sostituzione dell’oggetto stesso dell’educazione, vale a dire, col passaggio dalla trasmissione di contenuti all’elaborazione di risposte alle sfide della vita quotidiana; 2/ Poi, educare è un compito collettivo dove tutti crescono insieme, per cui l’educazione non può essere ridotta ai semplici ruoli di «educatori» ed «educandi», benché debba mantenersi la logica asimmetria di ogni rapporto educativo.

[12] Cf. J.L. Corzo, Educar es otra cosa, Ed. Popular, Madrid 2007, 53-69.

[13] Cf. P. Freire, Pedagogía del oprimido, Siglo XXI, Madrid 1992, 90ss.

[14] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1885, Las, Roma 1991, 199s.

Io e Dio

Vito MancusoIo e Dio, Garzanti, 2011, pp. 496,  € 18.60


Di quale domanda Dio è la risposta? Se non si chiarisce la domanda, la risposta-Dio può diventare semplicemente uno dei tanti strumenti di potere escogitati dalla politica per tenere buoni e compatti i popoli, o uno dei tanti hobby coltivati dagli esseri umani per non annoiarsi nel tempo libero, o uno psicofarmaco della mente, magari un po’ antiquato ma ancora abbastanza in uso e non senza qualche piacevole effetto.

A sentirli suonare così – senza saper leggere né scrivere – “Dio” e “d’io” possono trarre in confusione: sono simili al punto da generare il sospetto che i due concetti abbiano una radice comune, e non solo per il suono o le lettere di cui sono composte le parole.
Qualunque riflessione a proposito di quel che trascende la nostra vita di tutti giorni, le cose che facciamo, il senso del nostro affannarci dietro a cose di poca o nessuna importanza, non può che scaturire da noi stessi, e condurci nel vivo di una riflessione antica forse quanto il genere umano.
Oggi il dibattito sulla religione, almeno in occidente, è spesso arroccato su posizioni che vedono da un lato l’adesione cattolica (o la mancata adesione) al dogma della Chiesa e dall’altro l’interpretazione della bibbia, che secondo i protestanti è la fonte di ogni verità.
Tutto questo è troppo poco, sostiene Mancuso, e non rispecchia la complessità dei tempi in cui viviamo. 
I nostri sono tempi che richiedono a gran voce risposte nuove; risposte che sappiano andare oltre simili, piccine contrapposizioni e si facciano invece carico di quel che sappiamo e non ci è più dato ignorare.
Dando conto, insomma, del fatto che viviamo in una società secolarizzata e retta da un paradigma scientifico incompatibile con la visione del mondo espressa da una simile concezione religiosa, ormai definitivamente tramontata.
Ci vogliono risposte adeguate alla nostra perplessità.
È questa una parola chiave nel libro di Mancuso, che nell’introdurla ci spiega addirittura la sua etimologia: “perplesso” deriva dal verbo latino “plectere”, cioè “intessere”, e sta ad indicare appunto un incrocio confuso fra la trama e l’ordito.
Questa confusione, a dire del teologo, ben riassume il nostro attuale spaesamento.
Ma è uno spaesamento che faremmo bene a coltivare, o comunque a non sottovalutare e lasciare sullo sfondo, perché dalla risposta che saremo in grado di articolare dipende la nostra capacità di ricomporre la frattura – mai evidente come oggi – fra la vita che conduciamo tutti i giorni nel mondo e quella vita spirituale che è un bisogno irrinunciabile di ogni essere umano.
Accanto a queste considerazioni, di per sé ricchissime di conseguenze e implicazioni, Mancuso riporta una serie di dati che testimoniano come nel nostro mondo, in realtà, la religione stia occupando uno spazio crescente: i fedeli sono in aumento in tutte le principali religioni del mondo, e un gran numero di paesi ha addirittura governi che si ispirano nel loro operare ai precetti religiosi.
Ma la religione, nella maggior parte dei casi, non produce più una cultura, intesa come una visione del proprio stare al mondo che sappia declinarsi in tante forme – letteratura, arte, musica – e quindi resta lettera morta, sotto molti punti di vista: insieme di precetti oppure semplice sistema normativo che ci dice cosa fare e cosa non fare, senza darci gli strumenti per capire perché.
D’altra parte, una civiltà che rinunci a ogni forma di vita spirituale si consegna a sterilità certa, non solo nella produzione di forme artistiche ma anche – e soprattutto – nel cinismo e nell’egoismo che ne derivano, permeando ogni rapporto fra le persone.
Come uscire dall’impasse?
Riappropriandosi, o meglio: reinventandosi un rapporto con il sacro, con il legame insito nella radice stessa della parola “religione”: non insieme di vincoli ma relazione viva, presente, con una dimensione trascendente capace di non dimenticarsi mai della vita, che in sé è l’espressione biologica, spirituale e culturale più sacra che ci sia.
Soprattutto, Mancuso ci sprona a non delegare mai ad una chiesa, qualunque essa sia, la nostra personale ricerca di una verità: in quell’itinerario, complesso e fortunatamente inesauribile, il laico e il religioso in qualche modo procedono in parallelo, pur avvalendosi di strumenti diversi e giungendo (quando vi giungono) a conclusioni magari diametralmente opposte, ma ugualmente degne di rispetto perché scaturite da una ricerca personale.
Questo libro, che tutto ci dice volersi proporre come l’opus magnum di Mancuso, riesce ad attingere a una quantità sterminata di fonti e disporne organicamente le testimonianze assieme alle riflessioni dell’autore, per accompagnarci passo dopo passo in un cammino di grande fascino e di assoluta attualità.

Vito MancusoIo e Dio 496 pag., € 18.60 – Garzanti libri

Il Vangelo fuoco che arde nonostante la cenere della storia

“È possibile vivere il Vangelo?”.

 

Chi come me ha una certa età, avendo ormai attraversato le varie stagioni della vita ed essendo approdato all’ultima, riconosce che questa domanda ha ricevuto e continua a ricevere risposte diverse.
C’è stata una stagione, che per la mia generazione è coincisa con la giovinezza, in cui le attese, le speranze, le forti convinzioni tipiche del tempo in cui i giovani si affacciano alla vita e vi entrano, erano convergenti con le speranze della chiesa e del mondo. Erano gli anni del disgelo tra l’occidente e l’oriente comunista, gli anni in cui si riprendeva un dialogo interrotto da tempo, e la primavera sembrava essere la metafora più appropriata per definire quell’epoca in cui molte realtà sembravano germogliare e alcune sbocciare. Questo avveniva anche nella chiesa: un papa che appariva innanzitutto come un cristiano; un concilio da lui voluto in cui ci si ascoltava, ci si confrontava anche aspramente ma con la passione della fedeltà al Signore; un dibattito tra singoli cristiani e tra comunità cristiane che avvertivano nel loro quotidiano il bisogno di mutamento, di rinnovamento, potremmo anche dire di conversione. Si respirava nell’aria una novità che non  era l’arrivo di una “moda”, ma era un ritorno al Vangelo, alla forma vitae della chiesa primitiva.


Per questo si parlava, con molto timore, anche di aggiornamento, qualcuno ardiva persino parlare di riforma della vita della chiesa. Per i cristiani con una certa consapevolezza era il Vangelo che
diventava una presenza dinamica, un riferimento, un principio che veniva invocato come un’urgenza, una realtà da viversi concretamente e, oserei dire, visibilmente: questo non per “un’ostensione davanti agli uomini” ma per verificare che il Vangelo ispirava veramente la vita di molti cristiani ed era assunto dalla chiesa come presenza egemone. In questo cammino si  coniavano parole ed espressioni nuove: ritorno alle fonti, riscoperta della chiesa dei padri, ispirazione alla comunità apostolica, autorevolezza della chiesa indivisa…


Qualcuno oggi, analizzando quella stagione, conclude che nella chiesa si era instaurato un mito – il mito di un’età dell’oro, il mito delle origini – e che questo era dovuto soprattutto a Erasmo da Rotterdam, il quale agli inizi del XVI secolo plasmò un certo vocabolario e una certa filosofia della riforma ecclesiale. In verità chi conosce più in profondità la storia della chiesa sa che nella vicenda stessa del cristianesimo è insita questa nostalgia degli inizi. Anzi, potremmo dire che già nell’Antico Testamento i profeti, a partire da Osea, ricordavano al popolo del Signore il bisogno di ritornare ai tempi del fidanzamento, ai tempi del deserto, contrassegnati dalla fedeltà e dall’amore (cf. Os 2,16- 25): quell’amore che sa cantare la convinzione forte e la grande speranza in cui sembra non apparire la stanchezza e non esserci posto per la frustrazione, la delusione, il misurare la propria debolezza.


Quando, di fronte alla chiesa costantiniana sorta nel IV secolo, avvenne la protesta del monachesimo e la sua fuga nel deserto, i padri monastici chiesero di tornare alla koinonía, alla comunità descritta da Luca nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli (cf. At 2,42-47; 4,32- 35). Ritorno alle fonti, quindi. In seguito ogni tradizione attingerà sempre a quella forma della chiesa primitiva: questo avverrà per i vari tentativi di riforma, da quello di Cluny a quello di Bernardo di Clairvaux, ai movimenti mendicanti e anche a quelli ereticali, tutti tesi a riprendere la prassi di chi “nudo segue il Cristo nudo”.


Mito della riforma? O non piuttosto capacità del Vangelo di essere un fuoco che continua a covare sotto la cenere, che resta brace incandescente la quale può sempre dare origine a un roveto  ardente?
“Il Vangelo è dýnamis, potenza di Dio” (Rm 1,16), dice l’apostolo Paolo! Può essere smentito, fatto tacere, reso inefficace, può essere addirittura contraddetto e pervertito, e allora sembra restare inerte sotto la cenere. Ma poi riprende ad ardere, perché è un fuoco che subito rinasce non appena un cristiano getta sulla cenere qualche sterpo del suo vivere, alla ricerca della luce e della presenza divina. Non si può far tacere per sempre il Vangelo: per qualche tempo sì, e la storia della chiesa lo testimonia; ma poi basta che un uomo o una donna, alla ricerca di luce vera e di fuoco che consumi, abbia il coraggio di scostare un po’ di cenere e di gettarvi sopra una bracciata di legna secca, che subito il fuoco e la luce si fanno nuovamente vedere.


Ormai vecchio, vicino alla morte, un grande spirituale italiano confidò a me e a un mio fratello: “Me ne vado dopo aver combattuto per riformare la chiesa, ma ora sono convinto che la chiesa sia irriformabile”. Quelle parole mi stupirono, mi fecero male, ma non nego che ora a volte sono tentato di condividerle. Siamo capaci di dare alla chiesa un volto nuovo, più fedele e conforme al volto  di Cristo, oppure questa è solo una speranza, e la sposa di Cristo sarà tale solo quando verrà lo Sposo? Mi ostino a credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere adardere, riscaldando i nostri cuori e illuminando l’umanità intera. Sì, il Vangelo si può ancora vivere in ogni stagione.


in “Jesus” n. 9 del settembre 2011

Un ateo tra i cristiani

 


intervista a Alfred Grosser, a cura di Jérôme Anciberro

 

Politologo, specialista delle relazioni internazionali e commentatore dell’attualità politica francese e tedesca, Alfred Grosser è stato una delle colonne del riavvicinamento franco-tedesco fin  dagli anni cinquanta. Questo osservatore è anche conosciuto negli ambienti cristiani per il suo sguardo insieme critico e amichevole di ateo sul mondo della fede.

 

Lei non è né tedesco né cattolico, eppure spesso capita che la prendano per l’uno o per l’altro. Come vive questo paradosso?
È un paradosso reale. Ma anche se non faccio parte né della comunità tedesca, né di quella cattolica, mi sento partecipe della vita, delle speranze e delle delusioni degli uni e degli altri. Se parlo con un uomo politico tedesco appartenente ad una generazione un po’ anziana, lui dimentica in capo a cinque minuti che non sono tedesco. Abbiamo gli stessi punti di riferimento. Succede la stessa cosa quando discuto con un prete cattolico. Parlo la lingua della “tribù”, sono al corrente di quello che succede nella Chiesa. Insomma, ho tutti i segni esteriori di un buon parrocchiano. Mi è del resto capitato di dover far rettificare degli articoli che mi definivano tale.

Si può capire che la prendano per un tedesco, perché è nato tedesco e, come formazione, è germanista. Ma come mai succede così per il cattolicesimo?
La mia famiglia è ebrea e io personalmente sono ateo: ateo e non agnostico. Quest’ultima parola mi sembra che abbia a che fare con la civetteria o con il politicamente corretto. Un po’ come si  diceva “israelita” per non dire “ebreo”. Ma io non credo in Dio, credo in moltissime cose… La mia conoscenza del cattolicesimo si è costruita attraverso delle letture, la mia attività di “compagno di strada” dell’Azione cattolica delle gioventù francese (ACJF), la mia collaborazione a La Croix dal 1955, le mie amicizie, ad esempio con il padre gesuita François Varillon. E quando mia moglie, cattolica per nascita, ha veramente iniziato una vita di fede negli anni settanta, anch’io ho seguito gli insegnamenti da lei ricevuti al Centre Sèvres, la facoltà dei gesuiti di Parigi. Si potrebbe dire  che sono stato “ingesuitato”…

Ma che cosa le dà la frequentazione dei cattolici?
Mi permette di parlare con delle persone che hanno una linea di vita, dei principi con i quali tentano di essere coerenti, anche se questo talvolta lascia a desiderare e anche se non sempre sono d’accordo. Ma, soprattutto, i cristiani pensano, riflettono e questo fa sempre bene. Del resto, anche se il cattolicesimo francese vive oggi una crisi istituzionale profonda, in particolare per il crollo del numero di praticanti e di vocazioni, rimane un luogo di grande vitalità intellettuale.

 

Certi critici affermano al contrario che questa vitalità intellettuale del cattolicesimo francese sia in declino da qualche decennio.
Penso sinceramente che questo giudizio sia sbagliato, ma forse ho cattive frequentazioni… Siamo seri: ci sono degli ambiti oggi in cui certi intellettuali cattolici non possono non essere presi in considerazione. Si può forse parlare seriamente di bioetica ignorando gli studi di Olivier de Dinechin? Capire i fondamenti teologici dell’opera di Bach senza gli studi del gesuita Philippe Charnu e di Christophe Theobold? L’intelligenza cattolica è lì! Quello che si potrebbe forse rimproverare al cattolicesimo francese e che contribuisce alla sua relativa scomparsa dal dibattito pubblico, è una tendenza esagerata alla sottomissione. All’esterno, la Chiesa – più dei laici – è spesso discreta, quando fa riferimento alla laicità che le dà il diritto di intervenire sulla scena pubblica. All’interno, si assiste ad episodi sorprendenti. L’atteggiamento di sottomissione di Mons. Ricard nel 2009 quando Roma gli ha imposto, nella sua diocesi, la costituzione dell’Istituto tradizionalista del Buon Pastore ne è una illustrazione evidente. Ma si tratta di un esempio in più della tendenza cattolica ad accettare tutto, quando si tratta di cose che vengono dalla parte identitaria e conservatrice.

 

Qui le rimprovereranno di occuparsi di cose che non la riguardano, dato che lei non fa veramente parte della famiglia.
Non vedo perché questo mi impedirebbe di analizzare i fatti. Ma è vero che se facilmente reagisco sul cattolicesimo, è perché mi sento coinvolto. Forse perché sono anch’io ferito quando vedo come le persone vicine a me, i miei amici cattolici vengono trattati. Indipendentemente dal fatto che la cosa venga dall’esterno o dall’interno. Sono il primo ad essere impressionato dagli attacchi, in particolare mediatici, che subisce la Chiesa, attacchi che sono nella maggior parte dei casi di una stupidità incredibile. Ma prendiamo un altro esempio, interno questa volta, quello dei preti- operai, alcuni dei quali erano miei amici. Quelle persone sono andate da altre persone, a cui hanno detto che il loro impegno nella vita operaia era definitivo, che non erano andati lì solo a fare una visitina.
E tutt’a un tratto, la gerarchia chiede loro di interrompere tutto. Ci si può immaginare facilmente la sensazione di confusione e la perdita di credibilità. È un po’ quello che è successo in Algeria con gli ufficiali francesi che avevano promesso a certe popolazioni che le avrebbero protette qualunque cosa fosse successa e a cui è stato improvvisamente chiesto di lasciar perdere.

 

Il confronto è per lo meno originale…
Forse, ma è proprio osando fare confronti che si capiscono meglio le cose. All’inizio può irritare, ma è estremamente stimolante. Ho scioccato molti intitolando un capitolo di uno dei miei libri “Auschwitz par comparaison” (1). Contrariamente a ciò che pretendono certe persone, il confronto non porta all’assimilazione di ciò che si mette a confronto, al relativismo o all’indifferenza, permette semplicemente di avanzare nella comprensione, di cogliere meglio certi punti di vista, anche, certamente, arrivando a mantenere alla fine il proprio. Prendiamo un altro esempio, quello del terrorismo in Medio Oriente. È sempre interessante ricordare a degli israeliani che anche loro sono ricorsi al terrorismo in una certa epoca. Questo non giustifica nulla, e soprattutto non il terrorismo di certi gruppi armati palestinesi, ma se mi si risponde che questo “non ha niente a che vedere”, allora non chiedo altro che di poter discutere per essere convinto. Ma a discutere  davvero, con argomenti, spiegazioni, discorsi razionali.

 

Che cosa pensa dei dibattiti mediatici sull’identità francese che hanno fatto molto discutere?
Se faccio astrazione dai calcoli politici del momento, faccio molta fatica a capire questi dibattiti.
Abbiamo tutti molteplici appartenenze, nazionali o meno. Io sono un francese ben integrato, il che non impedisce affatto il mantenimento e anzi lo sviluppo della mia cultura tedesca. Non vedo perché non dovrebbe essere così per altra gente proveniente da altri paesi e che possiede altre culture. Certo, io ho avuto un trattamento privilegiato. Quando sono arrivato in Francia all’età di nove anni senza sapere una parola di francese, eravamo solo due stranieri nella mia classe. Le maestre si sono occupate di me in maniera particolare e un anno dopo ho avuto il primo premio in francese. L’essenziale è mantenere una distanza critica rispetto a tutte le nostre appartenenze. È perché sono francese che mi sono opposto agli orrori della guerra d’Algeria, è perché la mia famiglia era ebrea che critico Israele più di ogni altro paese. Trovo del resto che certi cristiani ci guadagnerebbero molto adottando questa distanza critica, non tanto verso la loro fede, quanto verso le credenze che essa sembra implicare.

 

Quali sono i punti di dottrina cristiana o cattolica che le appaiono più estranei, a lei come ateo?
Ce ne sono moltissimi… Il problema della salvezza, ad esempio. Ho l’impressione che il cristiano abbia bisogno di essere salvato almeno quattro volte: c’è stata la prima alleanza con Abramo, la seconda con Gesù, poi il battesimo, e ancora non è finita. Faccio molta fatica anche a comprendere certe forme di devozione mariana. Un esempio: perché, nelle sue “apparizioni” Maria appare come una ragazza giovane e mai come una vecchia ebrea? Più seriamente, se posso dire: ci raccontano anche – sarebbe il famoso terzo segreto di Fatima – che la Vergine avrebbe modificato il percorso della pallottola che doveva colpire Giovanni Paolo II nell’attentato di cui quest’ultimo è stato vittima. Benissimo. Ma perché non ha fatto niente per i sei milioni di ebrei morti durante la Shoah?

 

E in materia di morale, lei che rivendica volentieri il ruolo di moralista?
Qui sono combattuto. Sono contento di vedere che, in generale, le mie convinzioni morali e quelle della Chiesa sono vicine, in particolare per quanto riguarda l’etica sociale. E non sono io ad essere cambiato! Il Dio che punisce, che vedica, che uccide il nemico, anche cristiano, ha lasciato posto al Dio che si è fatto uomo sofferente. Molti valori evangelici, cristiani, sono stati reinventati  contro le Chiese nei secoli XVI, XVIII e XIX.

 

Ci sono comunque dei punti che restano secondo lei problematici nel discorso morale tenuto dalla Chiesa?
Penso ad esempio alla pena di morte. Certo, ci sono dichiarazioni che vanno nel senso della condanna, ma il discorso ufficiale a questo riguardo resta troppo astruso e, stranamente, molto meno vigoroso della condanna dell’aborto… Per quanto riguarda ciò che attiene alla morale sessuale e familiare, non riesco proprio a capire che dei preti che, per definizione, non hanno mai avuto figli e  non hanno mai vissuto in coppia, diano lezioni di vita familiare. Soprattutto se sono cardinali di curia e non hanno mai veramente esercitato come semplici preti di parrocchia.

 

(1) Dans le crime et la mémoire, Flammarion, 1989.

in “Témoignage chrétien” n° 3456 del 1° settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

La liturgia nell’insegnamento della religione cattolica

 

 

Rivista Liturgica 98/4 (2011) :

Editoriale

 

 

Nella sua storia quasi centenaria Rivista Liturgica ha elaborato monografie di vario genere e spessore tematico. Alcune “nuove” rispetto all’ordinario modo di considerare la liturgia; altre “ovvie” per l’importanza del tema che, di tanto in tanto, ha bisogno di essere riproposto anche in base alle variabili che la vita liturgica richiede.

Il presente volume rientra nella prima tipologia di temi mai affrontati; e anche questa volta lo facciamo quasi in punta di piedi, consapevoli della complessità dei problemi e delle realtà in gioco. E, soprattutto, tenendo presente che l’argomento considera in modo pressoché esclusivo la situazione italiana (ma l’urgenza della formazione liturgica dei docenti è presente anche in altri contesti culturali ed ecclesiali).

 

1. Educazione e formazione a partire anche dalla scuola?

 

La storia di ogni persona è anche la storia della propria educazione. Tutti – o quasi – vanno a scuola. E se molti pensano che la scuola sia il luogo dove si studiano varie discipline, pochi invece sono convinti che anche materie “figlie di un dio minore” – come l’educazione fisica, la religione, ecc. – sono saperi scolastici da studiare. Meno ancora sono coloro che pensano che l’educazione e la formazione integrale dell’uomo sono le finalità della scuola che con orgoglio si definisce laica, ma anche confessionale e libera.

Quando invece consideriamo la formazione non soltanto compito della scuola ma anche di quelle altre scuole frequentabili nei non-luoghi della quotidianità e in famiglia, molti non ne valutano la portata. Nel contesto si tenga presente la distinzione che intercorre tra catechesi e insegnamento della religione. Una distinzione che se in passato non è stata sempre chiara a livello operativo-scolastico, oggi risulta imprescindibile, anche in vista di un’accettazione più libera dell’offerta formativa nella scuola pubblica.

Rivista Liturgica non ha mai trattato questo argomento; se ora lo fa è per rispondere a istanze che provengono da luoghi e sensibilità di vario genere, ma soprattutto per non perdere l’occasione di ribadire che la liturgia non è solo “rito” fine a se stesso, ma espressione culturale che si inscrive nell’intimo della persona, e che è capace di incidere in modo determinante al fine di elaborare cultura proprio a partire da ciò che il culto è nella sua essenza.

 

2. Tra istanze e problematiche

 

Una prima e sia pur parziale risposta all’emergenza formativa è presente in Rivista Liturgica n. 2, sotto il titolo: La risorsa educativa della liturgia. Nelle pagine che seguono siamo andati oltre e soprattutto è stata attuata la scelta di far interagire due ambiti che tradizionalmente trovano luoghi diversi di realizzazione: la liturgia nella Chiesa e l’insegnamento della religione nella scuola. Potrebbe mai durante l’ora di insegnamento della religione cattolica (= irc) verificarsi un’actuositas culturale a partire anche da istanze e contenuti che provengono dalla liturgia?

I contributi di questo numero tentano di evidenziare l’interazione tra liturgia e irc; ma soprattutto si impegnano a motivare istanze non sempre considerate in primo piano da parte di liturgisti e docenti di religione (= idr). Istanze che tentano di dare un contributo reale, concreto, professionale a quell’urgenza educativa più volte ricordata dal Magistero, e implicitamente condivisa da quelle voci senza pulpito di coloro che credono e operano nella scuola.

Le istanze alle quali queste pagine intendono offrire un’analisi concreta invitano ad una ulteriore ricerca per aprirsi a risposte operative e di competenza. È in questa linea che formuliamo domande che ci sembrano urgenti:

 

  • È possibile insegnare la liturgia – nella sua dimensione culturale – in quel tempo di apprendimento costituito dall’irc?
  • Quale definizione di sé la liturgia deve darsi per potersi presentare, quasi con un suo statuto epistemologico costituito da un metodo e da contenuti scolastici allo scopo di acquisire competenze adeguate ai traguardi previsti dall’irc?
  • Cosa pensano i liturgisti e gli IDR di queste prime due problematiche? Possono offrire lo spazio per un dibattito e soprattutto per un positivo incontro?
  • Docenti di altre discipline, che insegnano in sinergia e in cooperazione con l’iDR, ritengono che la liturgia sia da riservare alla catechesi e non all’irc? Come è possibile interagire con loro quotidianamente da parte dell’IDR anche nell’ambito della proposta culturale della liturgia?
  • Simili posizioni sono in sintonia con le risoluzioni d’intesa e di programmazione tra le due Istituzioni che presiedono all’irc, cioè il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (= MIUR) e la Conferenza Episcopale Italiana (= CEI), che regolamentano la configurazione e l’operatività scolastica dell’irc?

 

3. Per un quadro di riferimento e di azione

 

Alcune risposte a questi e ad altri interrogativi possono essere raccolte anche nelle pagine che seguono. Possiamo infatti trovare riferimenti a documentazione non sempre conosciuta sia in ambito ecclesiastico che statale. Ma possiamo incontrarci anche con letture degli obiettivi di apprendimento correlati in modo esplicito o implicito con la liturgia.

Un aspetto che va tenuto ben presente è costituito dal fatto di non creare confusione tra gli ambiti e gli obiettivi propri della catechesi e quelli dell’IRC; complementarietà rimanda alla differenza e alla distinzione, e viceversa, purché tutto concorra – secondo i rispettivi contesti e metodologie – alla formazione integrale della persona.

Poiché ogni insegnamento si avvale di strumenti di mediazione didattica specifici (libri di testo) come pure di media complementari e realmente incidenti (come internet, cellulari, face book, …) nell’apprendimento, si impone il confronto con i risultati circa la presenza del linguaggio liturgico nei testi per l’irc. Dall’esame fatto emerge che il riferimento alla liturgia è scarso. Una situazione che pone ulteriori interrogativi:

 

  • Qual è la formazione liturgica degli Autori?
  • Qual è la cura redazionale ed editoriale di consulenza (liturgica) nella progettazione e pubblicazione di un testo di religione da parte delle case editrici?
  • Qual è la competenza professionale pedagogico-didattica e biblico-teologico-liturgica dei revisori-censori che provvedono a valutare i libri di testo?

 

Quest’ultimo interrogativo richiama l’attenzione sui revisori-recensori scelti dal Servizio Nazionale per l’irc della CEI per quanto riguarda l’ambito pedagogico-didattico, e dell’Ordinario per quanto riguarda la “conformità alla dottrina della Chiesa”. Senza il nulla osta dalla CEI e l’imprimatur dell’Ordinario diocesano non è possibile infatti pubblicare e quindi adottare un testo, come concordato nell’Intesa originaria tra l’allora Ministero della Pubblica Istruzione e la CEI, e in quella aggiornata tra il MIUR e la CEI. La vigilanza appare alquanto delegata o addirittura disattesa qualora si considerino i risultati rilevabili dall’esame dei testi. E poiché ogni insegnamento è incarnato da un docente, ci si domanda ancora:

 

  • Quale consapevolezza hanno gli IDR circa il ruolo della liturgia nella formazione religiosa? E quale spazio di proposta formativa occupa la liturgia nella loro programmazione didattica?
  • Dal momento che la liturgia è “atto teologale” nel suo divenire esperienziale – e dunque espresso in una forma concreta e storicizzata –, può trovare valenze epistemologiche nei confronti di saperi destinati a divenire vita?

 

Da tutto ciò scaturisce il dovere di suscitare sensibilità negli idr. Si tratta di un impegno affidato dal MIUR esclusivamente alla CEI e al suo Servizio Nazionale per l’irc e delegato agli Ordinari diocesani che, a loro volta, si avvalgono degli Uffici di Curia (Ufficio scuola per l’irc, Ufficio di pastorale scolastica e irc, Servizio diocesano per l’irc, ecc.). Da qui il bisogno di rilevarne la sensibilità e la consapevolezza mediante la richiesta di quanto questi organismi istituzionali avessero fatto o prevedono di realizzare con interventi, convegni, corsi di aggiornamento… sulla liturgia e sulla sua didattica nell’irc. Richiesta da noi proposta a circa cinquanta Uffici scuola per l’irc, tra cui quelli di diocesi come Milano, Torino, Bologna, Bari, Napoli, Palermo… che gestiscono la formazione e l’aggiornamento di migliaia di idr.

Quali i risultati? I pochissimi Uffici che hanno risposto non pensano a un corso di formazione liturgica per sensibilizzare gli idr per la valorizzazione anche della cultura liturgica durante l’ora di religione. Una constatazione che solleva interrogativi, come si evince anche dalle risposte raccolte nel dossier.

Un servizio di qualificazione professionale per l’idr dovrebbe essere offerto da riviste specializzate. Da qualche anno in Italia per gli idr esistono soltanto quelle edite dalla Elle Di Ci: una per la Scuola dell’infanzia e primaria (L’Ora di Religione) e l’altra per la Scuola secondaria di primo e secondo grado (Insegnare religione). Abbiamo consultato le due ultime annate. Non c’è niente di liturgia, ancor meno di liturgia nell’irc. Formuliamo l’auspicio che queste pagine possano stimolare l’orgoglio e l’impegno di periodici che orbitano nel campo dell’educazione ad interessarsi di cultura specificamente liturgica.

Alcuni Uffici scuola per l’irc propongono l’aggiornamento degli IDR anche mediante pubblicazioni in carta oppure on line, come per esempio l’ufficio scuola dell’arcidiocesi di Milano (Informazioni IRC), di Bari-Bitonto (Tempo pieno, rivista per la scuola). La diocesi di Roma ha dismesso la rivista Religione Scuola Città, che si pubblicava in carta da quasi quindici anni. Ora occasionalmente appare qualche numero “in forma ridotta e digitale”, per “aiutare gli insegnanti nel proprio cammino personale, sia dal punto di vista spirituale che culturale” più che per professionalizzare gli idr. Altre riviste ospitano occasionalmente notizie riguardanti l’irc e gli idr. Per le une e le altre è possibile farsi un’opinione più documentata visitando i variegati e difformi siti delle diocesi italiane.

Vari docenti invece si sono fatti operatori di carità professionale grazie ai propri siti: qui è possibile rintracciare quel menu di operatività (esperienze didattiche, aggiornamenti, consulenze giuridiche), e quella solidarietà professionale che permette di sentirsi sempre in compagnia in un lavoro che rischia di autoreferenziarsi. Ed è possibile rintracciare anche qualcosa di liturgico, come documenta una ricerca pubblicata nelle pagine che seguono.

La formazione a monte degli idr avviene negli Istituti Superiori di Scienze Religiose (= ISSR). Era necessario quindi rintracciare nella ratio studiorum la presenza della liturgia, per quanto si può intravedere nei titoli e nel numero dei corsi, nella presenza di seminari di didattica dell’irc. E tutto questo alla luce della missio degli ISSR, che è quella di offrire opportunità di approfondimento della fede in vista di due competenze educative, quella del catechista e quella dell’idr, per quanto distinte e complementari.

L’impegno per un’educazione integrale, interculturale e interreligiosa, che le istituzioni scolastiche italiane tentano di dichiarare nelle intenzioni e i docenti progettano e praticano, induce anche a rilevare quanto la liturgia può favorire questo dialogo interreligioso nell’irc.

 

4. Se non nell’insegnamento della religione cattolica, dove? Se non l’insegnante di religione, chi?

 

Tutte queste, ed altre possibili questioni, sono sottese al contesto di problematicità, ma anche di progettualità formative reali che oggi la scuola e i suoi professionisti vivono, e talora subiscono. Nel caso dell’interazione liturgia-irc sono coinvolti i liturgisti e i docenti di religione, e con loro tutto quell’universo di ecclesialità e di cittadinanze civili che esigono una distinzione e complementarietà tra la confessionalità della liturgia nella catechesi e la laicità dello Stato nella scuola mediante i loro responsabili rappresentanti e professionisti.

Queste pagine intendono elevare ad urgenza educativa il problema dell’interazione liturgia-irc; e soprattutto evidenziare il bisogno di gestire questa presenza della liturgia nell’irc. I docenti sono consapevoli che l’urgenza formativa è veramente sentita e assunta solo quando si propongono soluzioni che si sperimentano. Altrimenti un’altra urgenza sarà sciupata e con essa sarà perduta un’ulteriore opportunità di responsabilizzare chi educa nella Chiesa e nella scuola.

E se contestualizziamo questo specifico ambito di relazione tra liturgia e irc in quello più ampio delle opportunità di cultura religiosa, è necessario riconoscere che da molti anni è solo l’idr con il suo irc che assicura un’alfabetizzazione alle future generazioni. Da qui ancora altri interrogativi:

 

  • Se non è l’idr, chi può oggi incontrare una media del 91% degli studenti italiani che si avvalgono, ogni settimana, anche se in piccola misura, dell’ora di religione?
  • Perché non si investe di più e meglio sulla professionalità degli idr, senza per questo diminuire l’impegno nei confronti degli operatori della pastorale e della catechesi?
  • La formazione degli educatori non dovrebbe essere un’urgenza prioritaria nell’educazione stessa?
  • Chi educherà, se l’educatore non è educato e non si lascia educare?

 

Forse anche per queste considerazioni, dal versante ecclesiastico cominciano a pervenire riconoscimenti all’irc e anche all’idr; tardivi, ma pur sempre gratificanti nelle parole sono almeno tre documenti ufficiali:

 

– Il Discorso pronunciato da Benedetto XVI durante l’incontro con i docenti di religione italiani (1 maggio 2009) dove, tra l’altro, si afferma:

 

«L’insegnamento della religione cattolica è parte integrante della storia della scuola in Italia, e l’insegnante di religione costituisce una figura molto importante nel collegio dei docenti. […]

Con la piena e riconosciuta dignità scolastica del vostro insegnamento, voi contribuite, da una parte, a dare un’anima alla scuola e, dall’altra, ad assicurare alla fede cristiana piena cittadinanza nei luoghi dell’educazione e della cultura in generale. Grazie all’insegnamento della religione cattolica, dunque, la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l’apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto e a raffinare il senso critico, ad attingere dai doni del passato per meglio comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro. […]

Certamente uno degli aspetti principali del vostro insegnamento è la comunicazione della verità e della bellezza della Parola di Dio, e la conoscenza della Bibbia è un elemento essenziale del programma di insegnamento della religione cattolica. Esiste un nesso che lega l’insegnamento scolastico della religione e l’approfondimento esistenziale della fede, quale avviene nelle parrocchie e nelle diverse realtà ecclesiali. Tale legame è costituito dalla persona stessa dell’insegnante di religione cattolica: a voi, infatti, oltre al dovere della competenza umana, culturale e didattica propria di ogni docente, appartiene la vocazione a lasciar trasparire che quel Dio di cui parlate nelle aule scolastiche costituisce il riferimento essenziale della vostra vita. Lungi dal costituire un’interferenza o una limitazione della libertà, la vostra presenza è anzi un valido esempio di quello spirito positivo di laicità che permette di promuovere una convivenza civile costruttiva, fondata sul rispetto reciproco e sul dialogo leale, valori di cui un Paese ha sempre bisogno […]».

 

L’Esortazione apostolica Verbum Domini di Benedetto XVI, frutto della XII Assemblea generale del Sinodo su: La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (ottobre 2008), 30 settembre 2010:

 

«Non si deve trascurare, poi, l’insegnamento della religione, formando accuratamente i docenti. In molti casi esso rappresenta per gli studenti un’occasione unica di contatto con il messaggio della fede. È bene che in questo insegnamento sia promossa la conoscenza della sacra Scrittura, vincendo antichi e nuovi pregiudizi, e cercando di far conoscere la sua verità» (n. 11).

 

– Gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2011-2020, in Educare alla vita buona del Vangelo, 4 ottobre 2010:

 

«Al raggiungimento [degli] obiettivi può dare un qualificato contributo il docente di religione cattolica, che insegna una disciplina curriculare inserita a pieno titolo nelle finalità della scuola e promuove un proficuo dialogo con i colleghi, rappresentando […] una forma di servizio della comunità ecclesiale all’istituzione scolastica.

L’insegnamento della religione cattolica permette agli alunni di affrontare le questioni inerenti il senso della vita e il valore della persona, alla luce della Bibbia e della tradizione cristiana. Lo studio delle fonti e delle forme storiche del cattolicesimo è parte integrante della conoscenza del patrimonio storico, culturale e sociale del popolo italiano e delle radici cristiane della cultura europea. Infatti, “la dimensione religiosa… è intrinseca al fatto culturale, concorre alla formazione globale della persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita”.

Per questo motivo la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l’apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto e a raffinare il senso critico, ad attingere dai doni del passato per meglio comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro» (n. 47).

 

5. Il presente fascicolo

 

L’insieme della ricerca lascia intravedere prospettive programmatiche in merito ad un progetto culturale della Chiesa italiana per e nella scuola, da concretizzare valorizzando l’irc e i suoi professionisti, praticando e testimoniando nei fatti la laicità e la confessionalità dell’irc, esigendo una qualità professionale dagli idr e dalle istituzioni che cooperano, e infine non abbandonando all’iniziativa personale chi, come l’idr, non può che insegnare in cooperazione e in comunione.

Tema di attualità: ne siamo ben consapevoli noi e tutti coloro che hanno risposto all’invito di collaborare a questo progetto, come pure coloro che non hanno risposto sia pur con motivazioni diversificate. L’urgenza comunque della trattazione non ci ha distolti dal realizzare il progetto che ora affidiamo ai lettori; e siamo ben lieti di poter accogliere eventuali “reazioni” che possono contribuire al dibattito e alla soluzione di problematiche che chiamano in causa la formazione integrale delle persone. È in questa linea che va ricordato il significato dell’IRC come luogo di confronto per un dialogo fra culture e religioni, come ambito di nuovi percorsi per favorire una reciproca accoglienza, ma anche per offrire a chi viene da altri orizzonti culturali l’opportunità di conoscere gli elementi essenziali della cultura che li accoglie.

 

Studi. I primi sei contributi tracciano il quadro generale della problematica affrontando da prospettive diversificate la complessa questione e situazione dell’IRC in Italia.

Note. I quattro successivi approfondimenti danno completezza a ciò che è richiesto dai docenti nell’affrontare una simile missio nella scuola.

Dossier. Le tre risposte a domande specifiche costituiscono il contenuto racchiuso nel dossier che avrebbe potuto essere ben più ampio; le testimonianze possono comunque rimanere esemplificative di una situazione molto articolata.

 

Affidiamo queste pagine soprattutto a due categorie di colleghi. Ai professori di religione, perché si confrontino con le istanze proprie della liturgia: la loro riscoperta potrà continuare ad offrire elementi preziosi per una formazione professionale che integri la liturgia e la renda proponibile nel loro insegnamento. Ai liturgisti, perché nella loro missione di docenti tengano ben presente la formazione dei futuri docenti di religione: qui non si tratta di presentare la liturgia come si fa ad uno studente di teologia che si prepara ad essere presbitero; al contrario, si tratta di far conoscere una liturgia non solo nella sua integrità misterica ma anche in quelle sue dimensioni che ne favoriscono la comprensione sia nelle assemblee celebranti come in quelle mediazioni culturali e didattiche proprie dell’IRC.

 

«Rivista Liturgica»

 

www.rivistaliturgica.it

 

 

Sommario del numero

 

Rivista Liturgica 98/4 (2011)

la liturgia nell’insegnamento della religione cattolica

 

Sommario

Editoriale pp. 000-000

Studi

B. Bordignon                                                                                pp. 000-000

L’impianto delle Indicazioni nazionali per l’irc

 

L’impianto, cioè il principio ordinatore dell’articolazione delle Indicazioni nazionali, è approfondito sia con riferimento all’organizzazione della scuola italiana che alla teoria della conoscenza che sottostà ad esse, con un breve accenno allo sviluppo della dimensione logica della conoscenza umana. Il problema di fondo è rappresentato da un’assurda identità della scuola di Stato, che tende a livellare l’esperienza religiosa, per relegarla al di fuori dei processi di insegnamento e di apprendimento e delle scuole. Senza autentiche esperienze religiose, liberamente scelte e tolleranti, non si sviluppano i valori e viene soffocata la convivenza civile.

 

C. Cibien                                                                                         pp. 000-000

Presenza-assenza di riferimenti liturgici in alcuni Documenti della CEI relativi all’irc

 

Nel maggio 1991 la CEI emanò la Nota pastorale sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche: Insegnare religione cattolica oggi. Ogni anno, poi, i Vescovi della Commissione per l’Educazione cattolica, la Scuola, la Cultura e l’Università scrivono una Lettera nella quale si sollecitano gli studenti italiani di ogni ordine ad “avvalersi” dell’Insegnamento della religione cattolica. Tutto questo materiale viene letto, alla ricerca di indicazioni che in qualche modo si possano riferire alla liturgia.

 

V. Trapani                                                                                               pp. 000-000

La liturgia nei vari ordini e gradi scolastici. Una lettura critica degli obiettivi di apprendimento per l’irc correlati alla liturgia

 

L’articolo si prefigge di rilevare la presenza del dato liturgico nei Traguardi per lo Sviluppo delle Competenze e gli obiettivi di Apprendimento, al fine di valutare il ruolo dell’approccio didattico in prospettiva liturgica nell’irc. Di fronte ad una carenza metodologica e contenutistica in merito, si cerca di indagarne le cause, non mancando altresì di formulare proposte operative che possano recuperare, anche nell’attuale assetto didattico, delle piste percorribili al fine di rendere giustizia del ruolo fontale della liturgia nell’insegnamento della religione cattolica.

 

P. Troía                                                                                          pp. 000-000

La liturgia e i suoi linguaggi di comunicazione in alcuni recenti libri di testo per l’irc

 

Le recenti Indicazioni per l’irc nel primo ciclo hanno indotto la CEI ad esigere nuovi testi scolastici per l’imminente anno scolastico 2011-2012. Nelle Indicazioni sono riscontrabili elementi che richiamano la liturgia cristiana. In alcuni recenti libri di testo, ritenuti adottabili e conformi alle Indicazioni, sono state rilevate puntualmente alcune tipologie del ‘liturgico’ e in particolare la definizione della liturgia. Mediamente emerge una conoscenza ‘solitaria’ e ‘vecchia’ della liturgia da parte degli Autori e di chi ha concesso l’adozione. Rispetto ad una precedente e simile ricerca pubblicata nel 1998 in Rivista Liturgica (pp. 605-626), i testi attuali sono migliorati, ma non più di quanto sarebbe necessario.

 

G. Usai                                                                                           pp. 000-000

Ars celebrandi e ars educandi: una lettura dialogica dalla prospettiva dell’irc

L’articolo intende sviluppare un confronto dialogico tra liturgia ed educazione nella mediazione dell’insegnamento della religione cattolica. Tale contestualizzazione conferisce alla riflessione un preciso indirizzo di tipo scolastico, vincolato a finalità, obiettivi e metodi specifici. La consonanza tra liturgia ed educazione è evidenziata da un’argomentazione centrata su aspetti di indole culturale, antropologica e religiosa, coagulati attorno al tema della celebrazione, delle competenze simboliche e della mediazione significativa. L’approccio si muove in una traiettoria pratico-teorica, in cui l’uso della categoria di “arte” meglio evidenzia la natura prassica tanto dell’educazione quanto della liturgia.

 

V. Annicchiarico                                                                          pp. 000-000

La liturgia nella catechesi e nell’irc: complementarietà e differenza

L’Autore, dopo aver delineato che cosa si intenda per liturgia, illustra la natura della catechesi e traccia il profilo dell’IRC oggi in Italia, al fine di farne cogliere le differenti finalità e allo stesso tempo la complementarità che ne consegue proprio per il fatto che l’una e l’altro si svolgano nell’orizzonte culturale italiano in Europa, segnato dalla presenza del cristianesimo-cattolico. Giunge in questo modo a far notare come, sia la catechesi che l’IRC attingano alla “liturgia” la linfa per le loro trattazioni e argomentazioni educative e formative, e sia la catechesi che l’IRC, nella originalità dei loro metodi, in qualche modo “celebrino” quell’incontro tra l’umano e il divino che la liturgia, mirabile sintesi, esprime nel culto pubblico e nel rito.

 

note

 

N. Galantino                                                                                pp. 000-000

La preparazione degli insegnanti alla luce delle ratio studiorum degli ISSR

Nel rispetto dello statuto epistemologico della Teologia liturgica, l’insegnamento impartito negli ISSR non può ignorare il proprium derivante dalle finalità della istituzione all’interno della quale questo insegnamento viene offerto. Per questo, il compito di offrire indicazioni precise perché l’insegnamento della Teologia liturgica contribuisca a “qualificare i docenti di religione” spetta ai singoli ISSR e, prima ancora, al docente di questa disciplina. Solo la pigrizia mentale o una ingessata interpretazione dello statuto epistemologico di una disciplina di insegnamento può impedire a un docente di rendersi conto della differente destinazione del suo servizio. Solo chi accetta la sfida proveniente dalla diversità dei destinatari del proprio insegnamento riesce a trasformarlo in veicolo di “formazione qualificata” e riesce ad armonizzare metodi e contenuti e finalità.

 

A. Toniolo                                                                                              pp. 000-000

Quali aspetti liturgici sono da valorizzare nei testi per l’irc?

Dopo aver tratteggiato le motivazioni che caratterizzano le modalità della presenza dell’irc nella scuola italiana, l’A., soffermandosi sull’esperienza dell’uso del libro di testo da parte dell’insegnante della disciplina scolastica dell’irc riflette sulla opportunità di introdurre elementi di Liturgia nell’IRC. Individua quattro settori di compartecipazione scientifica: linguistico, fenomenologico, storico e pedagogico. La conclusione ritorna sugli elementi espressi nella premessa, perché l’aspetto normativo giuridico dell’IRC ne condiziona le caratteristiche fondamentali, vincolando ogni forma di rapporto, dalla valutazione ai contenuti.

P. Troía                                                                                          pp. 000-000

Feste e tradizioni ebraiche in alcuni recenti libri di testo per l’irc

La parentela familiare tra ebraismo e cristianesimo esigerebbe una particolare e specifica compresenza dell’ebraismo nell’irc e nei suoi media di comunicazione scolastica. In questa ricerca sono documentate alcune costatazione relative alle feste e alle tradizioni ebraiche in recenti libri di testo per l’irc. Gli Autori non evidenziano competenze di eccellenza in merito all’ebraismo, la loro documentazione è alquanto generica. In questi testi per l’irc non emerge la specificità della preghiera liturgica e delle feste ebraiche e l’ebraismo non è mediamente valorizzato come una risorsa per l’irc. Purtroppo è veramente un’occasione mancata per contribuire al dialogo ebraico-cristiano, soprattutto mediante i testi per l’irc e per l’irc stesso.

L. Paolini                                                                                       pp. 000-000

Universi liturgici nel web

Il web è una fonte inesauribile di materiali, che hanno a che fare anche con la/le liturgia/e; specialmente con l’avvento del web 2.0, con il web sociale, le fonti di informazioni si sono moltiplicate e diversificate proprio perché create dagli utenti stessi. È questa una opportunità unica per insegnanti ed educatori di reperire strumenti e informazioni che possano aiutare il loro lavoro a scuola o in parrocchia. L’articolo prende in esame le principali risorse presenti al momento sul web suggerendo metodi e strategie di applicazione pratica.

 

DOSSIER pp. 000-000

 

Corsi di aggiornamento professionale per l’idr: quale rilevanza per la liturgia? (M. Maretti – F. Morlacchi – B. Tarantino)

Libertà religiosa: indagine mondiale del Pew Forum

 

L’indagine mondiale del Pew Forum registra l’aumento di restrizioni e violenze. Il primato negativo a Egitto, Pakistan e India. Tra i paesi musulmani l’unico in controtendenza è la Turchia. I più maltrattati: i cristiani

 

 

L’indagine del Pew Forum ha preceduto le rivolte che sconvolgono il Nordafrica e il Medio Oriente. Ma non promette nulla di buono sui loro sviluppi futuri.

Già prima dello scoppio delle rivolte, infatti, gli indicatori segnavano quasi ovunque un peggioramento.

L’indagine ha riguardato le restrizioni alla libertà religiosa in 198 paesi del mondo: sia le restrizioni imposte dai governi, sia quelle prodotte da violenze di persone e di gruppi.

Rispetto a un’analoga indagine del Pew Forum di tre anni prima, il confronto segna un diffuso aumento di tali restrizioni.

E il paese che più di tutti è cambiato in peggio è proprio uno di quelli della cosiddetta “primavera araba”: l’Egitto.

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Limitando lo sguardo ai paesi con più di 50 milioni di abitanti – come nel grafico sopra riprodotto – si può notare, rispetto alla precedente indagine, il netto peggioramento della situazione anche in Pakistan e in Nigeria.

I due colossi, l’India e la Cina, cambiano di poco rispetto a tre anni prima.

L’India rimane il paese record per le ostilità tra i gruppi religiosi, che si aggiungono alle già pesanti restrizioni di legge. A dispetto della fama pacifista che questo paese reca con sé.

Mentre la Cina mantiene il record – conteso solo da Iran ed Egitto – delle restrizioni di tipo politico. Con un aumento sensibile, però, anche delle ostilità interreligiose nella popolazione, in precedenza più contenute.

Va notato che tra i paesi con gli indicatori peggiori vi sono quelli con la più numerosa popolazione musulmana del globo: Indonesia, Pakistan, Egitto, Iran, Bangladesh…

Tra i grandi paesi musulmani solo la Turchia ha attenuato il proprio grado di restrizione alla libertà religiosa, rispetto a tre anni prima.

Proprio in questi giorni il primo ministro turco Tayip Erdogan ha deciso la restituzione alle fondazioni religiose non musulmane di più di mille proprietà confiscate dal regime dopo il 1936:

> Storica decisione: Erdogan restituisce le proprietà sequestrate alle minoranze religiose

Tra i paesi europei quello con gli indicatori peggiori, sia politici che sociali, è la Russia. Ma anche il Regno Unito e la Francia hanno irrigidito le restrizioni legali alla libertà religiosa.

Una curiosità. Tra le cinque nuove potenze emergenti le due maggiori, la Cina e l’India, hanno pessimi standard per quanto riguarda la libertà religiosa.

Il Brasile e il Sudafrica, invece, sono all’estremo opposto, con ampi spazi di libertà.

Mentre la Russia era tre anni fa in una posizione intermedia, ma ha fatto rapidi passi di avvicinamento alla zona critica.

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In sintesi, uno su quattro dei paesi che già nel 2006 registravano forti restrizioni alla libertà religiosa hanno ulteriormente peggiorato i loro standard negli anni successivi.

Ma se si guarda non ai singoli stati ma al numero degli abitanti, i risultati dell’indagine sono ancor più impressionanti: ben il 59 per cento della popolazione mondiale vive oggi con restrizioni alla libertà religiosa “alte” o “altissime”.

La religione che più soffre tale situazione è il cristianesimo. Ma anche i musulmani ne sono vittima. In Nigeria lo scontro sociale è con i cristiani, ma altrove i musulmani sono soggetti a restrizioni legali e a violenze soprattutto ad opera di loro correligionari. In Iraq, ad esempio, sono molto più numerose le vittime di attentati islamisti alle moschee che alle chiese.

Ricchissima di dati, la doppia indagine del Pew Forum – l’autorevole centro ricerche sulla religione e la vita pubblica con sede a Washington – è tutta da leggere.

Sia quella pubblicata il 17 dicembre 2009:

> Global Restrictions on Religion

Sia quella messa in rete il 9 agosto di quest’anno, con le variazioni intercorse in ciascun paese:

> Rising Restrictions on Religion

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Alla precedente indagine del Pew Forum www.chiesa aveva dedicato il seguente servizio:

> Libertà di religione? Per 5 miliardi di uomini è un sogno proibito (8.1.2010)

Quale giustizia senza perdono?

Perché il perdono è un tema così decisivo nella nostra vita umana e cristiana?


Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa negazione del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, che noi facciamo a noi stessi e agli altri, che gli altri ci fanno. Il male – nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo  parlare – è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male – dice Gesù – è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cf. Mc  7,20-23; Mt 15,18-20) . Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo (cf. Rm 7,18-19) . Non a caso le domande che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro sono: “Non abbandonarci alla tentazione” e “Liberaci dal male” (Mt 6,13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché ci renda capaci di perdonare i nostri fratelli: “Rimetti  a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).
Il male come azione malvagia ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale… L’uomo si abitua al male, e soprattutto, la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? Non giungiamo perlomeno a sperare il male per chi ci ha fatto soffrire?
Questo è l’istinto di conservazione: vogliamo vivere a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi ci difendiamo attaccando, come gli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e vendetta che finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto interruzione del male, dire no a una logica di morte.
Gesù con la sua vita ha cercato di narrarci il volto di Dio fino a vivere lui stesso il perdono fino all’estremo. Perdono donato anche ai suoi carnefici, ai suoi aguzzini, a chi lo ha condannato a morte e angariato durante la sua esecuzione: “Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno” (cf. Lc 23,34). Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l’insegnamento di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ci ha rivelato Dio quale fonte di ogni perdono. Ecco lo straordinario annuncio dell’Apostolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,8-10) .
È una scandalosa simultaneità: mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo, a tal punto che Hannah Arendt,  filosofa ebrea e non credente, ha scritto: “A scoprire il ruolo del perdono nell’ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret” ( Vita activa. La condizione umana ). Questo è lo scandalo della croce  di Cristo , e solo nella folle logica della croce si può comprendere il perdono di Dio verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi e gli altri.
Ma nel nostro cuore, di fronte a questo perdono così radicale ed esteso, sorge una domanda: e la giustizia? Misericordia, perdono sì, ma la giustizia? Certo, è anch’essa un attributo del Nome di Dio (“… non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”: Es 34,7 ). Ma guai a noi se misurassimo la giustizia di Dio con i nostri criteri umani, se proiettassimo in Dio la nostra giustizia. La giustizia degli uomini è necessaria, capace di sanzionare il male, di arginarlo; ma solo la misericordia sa rendere all’uomo la sua dignità, sa fare del colpevole una creatura nuova, perché l’uomo ha bisogno di giustizia, ma anche di amore e gratuità del perdono. Solo la misericordia permette di fare giustizia senza vendicarsi, senza umiliare il colpevole, e di perdonare senza svuotare la legge, il diritto. Noi cristiani dobbiamo fare un altro passo avanti nella comprensione della giustizia e nel cammino di umanizzazione. È stato il beato Giovanni Paolo II ad aprirci il cammino alla comprensione di come sia possibile coniugare perdono e giustizia. Nel suo Messaggio per la giornata mondiale della pace del 2002 egli ha  confessato che, confrontandosi con la Parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, era giunto a comprendere che il Vangelo esige che il principio “perdono” sia immanente a quello di “giustizia”.
Così ha potuto coniare un’affermazione che dà il titolo al suo testo: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Questo il messaggio che chiede a tutti una prassi di perdono affinché sia possibile edificare insieme una polis, segnata da giustizia, pace, solidarietà comune. Ma Giovanni Paolo II ha anche chiesto che il perdono sia anche una virtù proposta alla comunità civile. Così scriveva: “Solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una ’politica del perdono’, espressa in atteggiamenti sociali e istituti  giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano”.
Questa la risposta alle patologie della società, ai conflitti che dividono gli uomini contrapponendoli tra loro. L’ordine sociale e la costruzione della polis non possono avvenire senza coniugare  giustizia e perdono. Bisogna quindi situare il perdono anche in ambito giuridico: occorre arginare e disarmare il colpevole, occorre la detenzione per impedirgli di reiterare i delitti; ma nello  stesso tempo occorre pensare a una rieducazione, a un cammino di umanizzazione e di reinserimento nella società, mostrando anche la possibilità di un perdono, di un condono. Già ad Atene,  nell’antichità, si conosceva l’amnistia, con lo scopo della riconciliazione nella polis. Nel contesto economico, il perdono può essere esercitato con la remissione del debito dei Paesi poveri, dando  loro la possibilità di un’economia che conosca uno sviluppo. Sì, il perdono, come ha detto Giovanni Paolo II (“Le famiglie, i gruppi, gli stati, la stessa comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale”): a livello giuridico, politico ed economico internazionale non è solo un atto che vuole dimenticare un  passato che altrimenti potrebbe alimentare il conflitto, ma apre a un nuovo futuro. Perdonare è prendere coscienza che è necessario rinnovare la comunicazione, la relazione con l’altro, per non negarlo, per non lasciarlo nella condizione di nemico. Si pensi al perdono reciproco che si è attuato tra neri e bianchi in Sudafrica o a quello tra ebrei e palestinesi al fine di giungere a una pace vera e duratura. Il cammino del perdono è il cammino dell’umanizzazione, è il cammino di Dio per noi uomini.

 

in “Avvenire” del 27 agosto 2011

Chiesa di fede e di governo

Chiesa e Stato (o società): quante analisi e discussioni si sono avviluppate e ingarbugliate attorno a questo binomio. E i colori dei discorsi il più delle volte si sono fatti accesi e le tonalità squillanti.

Tanto per esemplificare gli estremi cromatici: «La Chiesa è lo spietato cuore dello Stato», scriveva Pasolini in un poemetto della Religione del mio tempo (1961), mentre Martin Luther King, nella Forza di amare (1968), ribatteva: «La Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, bensì la sua coscienza». C’è, poi, un altro equivoco da schiodare nell’opinione comune, ossia l’equazione d’identità Chiesa-Clero, con esiti spesso fieramente polemici, come già accadeva a Machiavelli che, intingendo la penna nel curaro, scriveva queste righe nei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: «Abbiamo con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo: di essere diventati senza religione e cattivi»!

Ma che cos’è effettivamente la Chiesa, questa realtà così celebrata e contestata, considerata anche il nodo più aggrovigliato che l’ecumenismo tenta vanamente di dipanare? Se dovessimo cercare la risposta nella bibliografia anche solo post-conciliare, ci troveremmo immersi subito in una foresta dai mille sentieri, nella quale si muovono a fatica già i teologi e dalla quale fedeli e “laici” uscirebbero ben presto spossati. Certo, si potrebbe consegnare loro quella sorta di mappa chiara e ben definita che è il documento del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, denominato dalle prime parole Lumen gentium, ma forse anche in quel caso sarebbe necessaria un’esegesi di quel testo così denso e intenso, a causa della sua funzione “ufficiale”. Si potrebbe rimandare a quel Dizionario di Ecclesiologia, edito lo scorso anno da Città Nuova e da noi presentato proprio in queste pagine, ma si cadrebbe nel rischio della dispersione. Non sono neppure più agevoli i percorsi suggeriti dai manuali o trattati teologici, grossi tomi la cui lettura estenua già gli specialisti.

Vorremmo indicare una via un po’ più pianeggiante e breve. L’ha abbozzata in un volume ridotto ma succoso uno dei nostri migliori teologi contemporanei, Severino Dianich, docente emerito della facoltà di Teologia di Firenze, che ha sulle spalle una personale panoplia bibliografica poderosa, ma che qui ama indossare un’attrezzatura leggera quasi da viaggiatore. Sì, perché quello che egli propone è un viaggio, anzi, un’«esperienza» dal momento che presentare un tema della fede «non è mai un’operazione asettica, da svolgersi come si fosse col camice bianco in laboratorio». Alla radice della Chiesa c’è un dato originario. È «l’atto della comunicazione della fede da un credente a un’altra persona che l’accoglie e la fa sua», creando così una profonda comunione interpersonale; questo evento è «frutto di un disegno divino e della grazia di Dio che opera nella storia per attuarlo». In pratica, la Chiesa si rivela come il punto di incrocio fra l’orizzontalità dell’incontro tra  persone nella fede e la verticalità del rivelarsi di Dio nella grazia.
Si comprende, quindi, che la definizione della Chiesa come società è imperfetta: essa, certo, proprio perché comunità di uomini e donne inserite nelle coordinate spazio-temporali, insiste ed esiste nella storia e ha una dimensione “carnale”; ma al tempo stesso nel suo cuore intimo custodisce una realtà trascendente fatta appunto di grazia e di fede, senza la quale si sterilizzerebbe in una mera istituzione. La mappa ecclesiale che Dianich delinea è, perciò, ritmata costantemente su questi due livelli. Da un lato, c’è l’evento germinale che è dono divino e annuncio di fede. Esso vede in  azione la gratuità e l’efficacia superiore del sacramento, che genera continuità, indefettibilità, verità. D’altro lato, questo evento si attua nel mondo, ha per attori non solo Dio, ma anche persone,  apostoli, ministri, testimoni. La Chiesa, perciò, è dotata di una sua visibilità che si esprime nelle strutture e si espande nell’universalità (la «cattolicità»).

È su questo secondo versante che si colloca appunto il nesso Chiesa-politica da cui siamo partiti. La stessa «incarnazione», anzi, il cuore del messaggio evangelico e del Regno di Dio, fondato sulla giustizia, sulla libertà, sulla dignità umana, sulla salvezza, non possono non avere ridondanze sociali. Se Dio e il suo Cristo sono il principio dell’umanità nella sua nobiltà nativa, «nessun uomo, nessuna forza nazionale o economica – scrive Dianich –, nessun partito e nessuna ideologia possono pretendere di dominare l’uomo nella sua totalità, rifiutando di essere giudicati dalla coscienza  di ciascuno». Questa sorgente primordiale della dignità umana nella sua libertà, nella vita, nella moralità, nell’amore, nel bene comune (è il «Date a Dio quel che è di Dio», del celebre asserto di Gesù) non esclude, tuttavia, che esista uno spazio di autonomia proprio della politica e dell’economia nella gestione storica dell’umanità: è appunto il «Date a Cesare quel che è di Cesare» che Cristo  imboleggia nella moneta con l’«immagine» di Cesare, laddove però non si deve dimenticare che «immagine» di Dio è l’uomo nella sua profonda identità trascendente, come proclama la Scrittura (Genesi 1, 27).
È, però, altrettanto ovvio che questa evidenza di principio si fa più complessa, si appesantisce e si offusca quando deve mettersi concretamente in azione nel groviglio delle vicende storiche. E qui  si apre un altro più delicato capitolo, al quale abbiamo già fatto riferimento in passato, quello della dottrina sociale della Chiesa, e a livello più generale, la corretta declinazione della categoria «laicità», indispensabile nella visione cristiana che non è teocratica, ma neppure totalmente secolaristica per i principi sopra enunciati. Fermiamoci qui, rimandando al testo di Dianich e alla bibliografia ragionata che egli propone in finale. A chi non è digiuno di studi teologici e volesse ulteriormente procedere nell’orizzonte specifico dell’ecclesiologia, suggeriamo la recente  raccolta di scritti del cardinale Walter Kasper, un importante teologo che è stato a lungo a capo del dicastero vaticano per il dialogo ecumenico, dopo essere stato vescovo della rilevante diocesi di  Stoccarda.

Anche nelle sue pagine, che sono di approfondimento, si vedrà emergere la categoria ecclesiale fondante della comunione e del dialogo.

Severino Dianich, La Chiesa mistero di comunione, Marietti 1820, Genova – Milano, pagg. 246, € 24,00
Si vedano anche:
Walter Kasper, La Chiesa di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia, pagg. 488, € 43,00
Thomas Söding, Gesù e la Chiesa, Queriniana, Brescia, pagg. 362, € 31,00

 

 

 

 

 

in “Il Sole 24 Ore” del 28 agosto 2011

Economia e gratuità

 

Le vacanze stanno per terminare e presto ritroveremo dei ritmi di vita più consuetudinari. La società della merce manifesta chiaramente le sue convinzioni profonde. Il gioco produzione-consumo costituisce il ritmo essenziale. Non solo produzione e consumo delle cose, ma visione di sé come quantità-merce da gestire con progetti di carriera o più prosaicamente con attese in coda ai centri per l’impiego.
Al contempo, la nostra epoca conosce i momenti della speculazione selvaggia dove una sola operazione di borsa può permettere di acquisire patrimoni che un tempo necessitavano il lavoro di intere vite. Il fascino idolatrico per il regno della merce finanziarizzata ha occultato ogni altro rapporto con il tempo poiché, è il ritornello martellante, “time is money”: “La razionalità occidentale ha dispiegato un’economia secondo la quale il tempo deve essere produttivo, utile, redditizio. Per questo, dare il proprio tempo, dispensarlo o perderlo, lasciarlo passare, sono i soli modi di resistere oggi all’economia generale del tempo” (1).
Questo lavoro indispensabile di resistenza e di invenzione di nuovi paradigmi economici è stato analizzato particolarmente bene da Elena Lasida nel suo libro “Le goût de l’autre. La crise, une chance pour réinventer le lien” (Il gusto dell’altro. La crisi, un’opportunità per reinventare il rapporto). Elena Lasida insegna economia solidale all’Institut catholique di Parigi. Di origini uruguaiane, ha conosciuto l’emigrazione e le frontiere: “La frontiera, la mancanza e l’estraneità, scrive, hanno così segnato il mio sguardo sull’economia” (2). Con molta intelligenza, attinge dai testi biblici
dei concetti come la creazione, l’alleanza, la promessa che illuminano l’economia di luce nuova e le ridanno tutta la sua ricchezza esistenziale: “L’economia è un luogo di vita, un luogo in cui  si impara a vivere, un luogo in cui si costruisce la propria vita personale con altri. L’economia (…) ci obbliga in permanenza a definire le nostre finalità e ci insegna a fare delle scelte” (3).
Questa riflessione la porta a ripensare l’economia non innanzitutto come la moltiplicazione dei beni di consumo, ma come la promozione in ciascuno delle proprie capacità creatrici: “È il fatto di partecipare alla creazione dei beni, piuttosto che quello di beneficiarne, che permette di considerare una vita come veramente umana. Il senso dello sviluppo cambia così obbiettivo: il miglioramento della qualità della vita non si riduce alla capacità di accesso ai beni, ma si definisce piuttosto con l’aumento della capacità di ciascuno di essere creatore” (4).

Ora, ogni creazione è innanzitutto una questione di relazione con se stessi, con gli altri, con il mondo, con la trascendenza.

In poche linee molto dense, Elena Lasida rovescia tranquillamente i dogmi economici: “la funzione dell’economia non sarebbe quindi sopprimere la mancanza, ma metterla in movimento. La sua finalità non sarebbe rendere le persone autosufficienti, ma interdipendenti. Il valore che crea non sarebbe solo misurato dall’uso o dallo scambio dei beni ma soprattutto dal rapporto che questa circolazione produce” (5).Nel 2003, Bernard Maris pubblicava un Antimanuale di economia che dedicava così: “All’economista sconosciuto morto per la guerra economica, che per tutta la sua vita ha spiegato magnificamente, il giorno dopo, il motivo per cui si era sbagliato il giorno prima, a tutti coloro, ben vivi, che gustano la parola gratuità” (6). È una bellissima cosa che degli economisti  ci ricordino che la gratuità non è ristretta in una parentesi vacanziera, ma che essa sola dà senso all’arte di vivere da esseri umani.

 

1 – Sylviane Agacinski : Le passeur de temps. Modernité et nostalgie. Éditions du Seuil, 2000, pag. 12
2 – Elena Lasida : Le goût de l’autre. La crise, une chance pour réinventer le lien. Éditions Albin Michel, 2011, pag. 27
3 – Idem, pag. 31-32
4 – Idem, pag. 59
5 – Idem, pag. 169
6 – Bernard MarisS : Antimanuel d’économie. Éditions Bréal, 2003


in “www.garrigues-et-sentiers.org” del 28 agosto 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)