8 – 9 novembre 2024 in Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 – 00139 Roma (RM) Italia
L’Istituto di Catechetica (ICa), la cui nascita risale all’A.A. 1953/54, festeggia il suo 70° di vita. Nel 2023, tra le tante iniziative ordinarie e straordinarie, la rivista on line “Catechetica ed Educazione” ha pubblicato diversi contributi che nel loro insieme fanno memoria dei settant’anni di vita e di attività dell’ICa, in particolare dell’ultimo ventennio. Richiamando il Convegno in occasione del 60° (15-16 maggio 2015) imperniato sul tema della catechesi come comunicazione nell’era digitale e del conseguente “cambio di paradigma”, il Simposio dell’8-9 novembre 2024 intende soffermare l’attenzione sulla dimensione educativa della catechesi.
Alcune informazioni importanti:
La scadenza delle prenotazioni al Simposio è prorogata fino alla fine del mese corrente
L’eventuale rimborso dei costi avverrà al termine dell’evento
Per ulteriori informazioni chiamare al: 375.6427896
Siamo lieti di comunicare che è in partenza il “1° CORSO DI FORMAZIONE per Équipe e Operatori Pastorali ed Educatori dei vari servizi che lavorano nell’ambito dell’inclusione e della disabilità”, promosso dall’Istituto di Catechetica (ICa) della Facoltà di Scienze dell’Educazione (FSE) dell’Università Pontificia Salesiana (UPS), in collaborazione con il Servizio Nazionale per la Pastorale delle Persone con disabilità della Conferenza Episcopale Italiana.
Il Corso si svolgerà dal 13 novembre 2024 al 30 giugno 2025. Le lezioni saranno online in modalità asincrona, accessibili in LIS e con sottotitolazione.
È previsto un incontro introduttivo online il 13 novembre p.v., dalle ore 17:30 alle ore 19:30, anch’esso accessibile in LIS e con sottotitolazione, per la presentazione dei contenuti del Corso e le istruzioni sulle modalità di utilizzo della piattaforma.
Alleghiamo il programma con le rispettive indicazioni per effettuare l’iscrizione, la quale sarà consentita entro e non oltre il 3 novembre 2024.
A seguire un video promozionale accessibile relativo al Corso:
Per maggiori informazioni potete contattare la Segreteria Organizzativa della Facoltà di Scienze dell’Educazione al seguente indirizzo email: formazione.disabili@unisal.it.
Il presente contributo riporta i risultati di uno studio esplorativo di alcuni progetti di didattica interreligiosa portati avanti durante le ore di insegnamento di religione cattolica. La ricerca mette in luce come siano stati affrontati sia temi riguardanti un sapere critico sulle religioni contrastando l’analfabetismo religioso, sia questioni specifiche della pedagogia interculturale come l’accoglienza dell’altro e il contrasto a stereotipi e pregiudizi. Allo stesso tempo il contributo riflette su alcune criticità dell’insegnamento religioso in Italia dovute forse alla sua funzione nella scuola e all’epistemologia disciplinare. Si ritiene infatti che alla luce di diversi studi europei e dei dati emersi in questa ricerca, sia necessario un cambiamento nello status della disciplina. Per provare quanto segue, l’articolo prospetta una nuova indagine didattica e pedagogico-sociale, così da fornire ai decisori politici ed ecclesiastici nuovi spunti di riflessione per un rinnovamento dell’insegnamento religioso nella scuola.
Christoph Theobald, Un concilio in incognito? Il sinodo, via di riconciliazione e creatività, EDB, Bologna 2024, pp. 192.
Christoph Theobald, An Incognito Council? The Synod, a Path to Reconciliation and Creativity, EDB, Bologna 2024, pp. 192.
The Author is a well-known theologian of German origin, resident in Paris, professor at the Centre Sèvres, the Jesuit institute of the French capital. It may be useful to know that many of his works, including this one, have been translated into Italian, in particular by EDB (publisher of the Dehonians) of Bologna.
Theobald is recognized for his thinking on ecumenical dialogue and for an innovative vision of the role of the Catholic Church in the contemporary world. He affirms, deepens and disseminates the need for a “synodal” and fraternal Church, in line with the reforms promoted by Pope Francis.
The book we present is easy to read and understand, written in a calm style, well documented on the reality of the Synod in progress without a feeling of hypercriticism of which the synodal work is often criticized and even more ignored.
We note well that the Author does not want to express personal thoughts, but to report and interpret the path of the Synod so far. It includes two stages: the result, from the beginning of the work (2021-2022), is summarized in the first Synod (October 2023); a second stage follows that concludes in the second Synod (October 2024). Theobald obviously cannot speak about this, since his text was written first, but he foresees the tasks in light of the documents gradually published by the Pope and the General Secretariat. Significant conclusions and new proposals for the continuation of the synodal journey are to be expected.
The A.’s vision is already expressed in the title: An incognito council? The synod, a path of reconciliation and creativity. For Theobald, the current synod is not the expiration of a commitment among many synods, usual in the history of the Church. First of all, it has a close connection, indeed by root, with the Second Vatican Council, of which it wants to be an extension, not only aspiring to be understood as a council not declared as such (incognito), but to be so in fact, notably with two of its distinctive traits defined as “path of reconciliation and creativity”, for which the Synod in progress is called by him a path, made of openness and dialogue at a religious and social level, with a profoundly innovative, creative purpose, in view of a new evangelization under the guidance of the Spirit of Jesus (or Holy Spirit) that does not make a new Church, but the same Church renewed as in the origins, “not a different Church, but a different Church”.
Theobald’s book is placed within this framework of ideas. It is 190 pages well structured in six chapters of which we give here, in brief summary, the contents. Essential inspiration comes from the Scriptures as a “missionary travel report” that wants to continue in the Synod and is its soul (chap. 1); the A. the question is asked: “if synodality is a “constitutive dimension of the Church”, how is it constituted?”. The answer is clear and dominant: it is based on Baptism which creates a fraternal equality of the baptized; it takes its orientation and inspiration from Vatican II; for which the Church must always be understood as “people of God” (chap. 2); a clarification on the Synod itself follows: it is an intercontinental and intercultural journey (some experiences in Africa and Europe are reported, seen as “gifts” of the Holy Spirit) (chap. 3); a solid reflection on the soul of the synodal journey could not be missing: “A journey of spiritual and institutional conversion” (chap. 4); in chaps. 5 and 6 the strong points of the first synodal stage are summarized (until October 2024). The task that engages the Church in profoundly reforming itself remains central. Chap. 5 mentions the basic contents and problems: the renewed and indispensable participation of women in the life of the Church; the real involvement of all Christians and not only the clergy; a regained credibility especially with regard to scandals and institutional crises, underlining the importance of a structural and spiritual reform to regain the trust of the faithful; to this end the Church must renew its way of exercising authority, transforming it into an “authority of fraternity”, capable of promoting dialogue and inclusion; the Church should overcome internal and social conflicts through a spirit of brotherhood, thus contributing to cohesion in secular societies. Last but not least, theological science must give its contribution to the elaboration of emerging thoughts and proposals. In chapter 6 Theobald expresses, so to speak, his synodal dream with a statement that he repeats elsewhere: “synodality must be seen within a messianic vision of the world”.
He concludes by asking whether the breadth, novelty and depth of the synod can be outlined as “a council incognito?”. It is a question that, reading the book, sounds like a challenge: who and how can one say no?
Il 13 settembre, segnalando l’inizio del nuovo anno formativo, l’Istituto di Catechetica (ICa) ha organizzato una giornata di incontro e dialogo di condivisione con una delegazione ecumenica proveniente dalla Finlandia. Questo incontro si inserisce all’interno del quadro più ampio dell’Istituto a promuovere reti internazionali di collaborazione (networking) con università e gruppi ecclesiali.
Nella mattinata, il gruppo, composto da otto rappresentanti di diverse chiese e denominazioni cristiane finlandesi, ha visitato il Centro di Formazione Professionale dell’Istituto Salesiano Pio XI di Roma. Qui, i partecipanti hanno avuto l’opportunità di vivere un’esperienza pratica sui temi dell’educazione e dell’animazione cristiana offerti dal Centro. La delegazione ha inoltre incontrato don Michelangelo Dessì, direttore dell’opera, per un confronto sull’insegnamento della religione nelle scuole.
Nel pomeriggio, il gruppo si è riunito presso l’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana (UPS) per un incontro con alcuni membri dell’Istituto, in particolare con i docenti di Insegnamento della Religione, proff. Giampaolo Usai, Sergio Cicatelli, Cristina Carnevale, e Giuliana Migliorini. L’incontro si è svolto in un clima di apertura e fraternità, ponendo costantemente l’accento sull’importanza del dialogo e del confronto tra esperienze diverse. Particolare attenzione è stata dedicata alla condivisione di punti di vista e riflessioni su come migliorare l’insegnamento della religione, in contesti propri.
Al termine della visita, i partecipanti hanno espresso grande apprezzamento per l’accoglienza calorosa e per la profondità degli scambi avuti. L’evento è stato descritto come un passo significativo nel cammino verso il miglioramento della pratica, evidenziando il valore della formazione e del dialogo. L’incontro si colloca pienamente nell’orizzonte di promuovere una cultura dell’incontro e della fraternità, come richiamato più volte dal magistero di Papa Francesco, che sottolinea l’urgenza di costruire ponti di dialogo e condivisione.
Uno degli obiettivi del progetto strategico 2022-2027 dell’Università Pontificia Salesiana è quello di curare il contatto con gli ex-studenti (Progetto Strategico, Obiettivo 4). Quest’obiettivo è stato assunto e declinato in modalità differenti nelle cinque Facoltà della nostra istituzione. Nella Facoltà di Scienze dell’Educazione abbiamo implementato diverse iniziative per rinsaldare il contatto con chi ha studiato da noi; queste includono sia momenti di formazione e aggiornamento sia attività di monitoraggio dell’inserimento lavorativo. È importante sottolineare che in tutte queste attività abbiamo sempre cercato di coinvolgere gli ex allievi, ascoltando innanzitutto le loro esigenze e proposte. Crediamo che questo contatto con i nostri studenti del passato sia di vitale importanza e di arricchimento reciproco. Da una parte la Facoltà può offrire a chi lavora sul campo occasioni di un aggiornamento rispetto alla formazione ricevuta durante gli anni di studio, dall’altra la Facoltà può comprendere come concretamente siano state impiegate le conoscenze e le competenze acquisite ricevendo così suggerimenti utili per la definizione dei propri profili professionali. In questa linea si colloca anche la ricerca realizzata dall’Istituto di Catechetica (ICa). Quanto presentato di seguito si pone in continuità con la tradizione dell’Istituto. L’ICa, nei suoi settant’anni di storia (1953-2023) si è ripetutamente impegnato in ricerche sul campo, in modo particolare nell’ambito specifico della Catechesi e dell’Insegnamento della Religione Cattolica. Dopo aver ultimato la Ricerca sui Catechisti in Italia con la pubblicazione del volume Catechisti oggi in Italia. Indagine Mixed Mode a 50 anni dal “Documento Base” (LAS, Roma 2021), l’Istituto ha svolto quest’indagine rivolta alle recenti generazioni di ex allievi (2000- 2020) per verificare la qualità del servizio reso ma anche per orientare la progettazione futura. Centrale in questo senso è il concetto di “competenza”. Anche per quanto riguarda la catechesi e la catechetica come scienza che se ne occupa, si avverte la necessità di passare dalle conoscenze (Knowledge) e dalle abilità (Skills) in genere considerate non solo distinte, ma anche distanti e separate, all’acquisizione di competenze (Competences)3 che in quanto capacità complessive sono finalizzate all’unità di apprendimento e alla soluzione di problemi e criticità, e sono calibrate sulle situazioni reali da affrontare e centrate sull’unicità della persona. La Veritatis Gaudium sottolinea la necessità di questo cambio di paradigma:
Gli studi ecclesiastici non possono limitarsi a trasferire conoscenze, competenze, esperienze, agli uomini e alle donne del nostro tempo, desiderosi di crescere nella loro consapevolezza cristiana, ma devono acquisire l’urgente compito di elaborare strumenti intellettuali in grado di proporsi come paradigmi d’azione e di pensiero, utili all’annuncio in un mondo contrassegnato dal pluralismo eticoreligioso. Ciò richiede non solo una profonda consapevolezza teologica, ma la capacità di concepire, disegnare e realizzare, sistemi di rappresentazione della religione cristiana capace di entrare in profondità in sistemi culturali diversi. Tutto questo invoca un innalzamento della qualità della ricerca scientifica e un avanzamento progressivo del livello degli studi teologici e delle scienze collegate (VG 5).
In questa linea si pone la ricerca svolta, che aveva l’obiettivo di verificare se e fino a che punto l’offerta formativa curriculare dell’ICa abbia accompagnato gli allievi a conseguire le competenze necessarie, idonee allo svolgimento effettivo dei servizi nelle proprie realtà di origine, di riscontrare eventuali deficit o carenze, di evidenziare eventuali forme di recupero da parte dei soggetti (supplementi di formazione o di autoformazione) e rilevare eventuali bisogni formativi da soddisfare in futuro e, infine, ipotizzare modalità di formazione ricorrente e permanente che possono essere garantite dallo stesso ICa. Per questo sono stati presi in considerazione i profili e le competenze che hanno contraddistinto le proposte formative che si sono susseguite dal 2000 in avanti e che tengono conto dell’evoluzione della collocazione dell’ICa, dapprima all’interno del Dipartimento di Pastorale giovanile e Catechetica (DPGC, fino al 2016) e poi nella Facoltà di Scienze dell’Educazione (FSE).
Scorrendo l’indice dei contributi presentati in questo numero monografico della rivista on line dell’ICa «Catechetica ed Educazione» sono evidenti due aspetti. Il primo: sono stati coinvolti molti docenti che provengono da discipline differenti sia nel campo delle Scienze dell’Educazione, della Comunicazione che della Teologia; molti dei docenti hanno una lunga esperienza didattica nel curricolo di catechetica, la loro esperienza è stata messa a servizio della lettura del Report di ricerca. Il secondo aspetto da sottolineare è la circolarità tra dati empirici, prospettive teoriche e aspetti applicativi. Alla rigorosa indagine empirica fanno seguito le diverse letture dei dati (sociologica, psicologica, biblica, teologica, pedagogica, comunicativa, metodologica e propriamente catechetica). Alla lettura della situazione fatta da prospettive differenti fa seguito un momento prospettico (la sezione Attinenze e sviluppi) e la ricaduta applicativa nella progettazione e verifica del curriculum. Auspichiamo che l’iniziativa non sia estemporanea ma sproni a progettare forme di monitoraggio continuo degli sbocchi professionali dei nostri ex allievi.
L’augurio è, infine, che i contributi presentati possano essere di utilità per i docenti del curricolo in vista di un miglioramento continuo della didattica e per i lettori esterni al fine di una conoscenza sempre più approfondita di un modello formativo che da settant’anni prepara i futuri professionisti della catechetica in diverse nazioni.
Prof. Antonio Dellagiulia Decano della Facoltà di Scienze dell’Educazione dellagiulia@unisal.it
CATECHETICA ED EDUCAZIONE Rivista «online» dell’«Istituto di Catechetica» della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma «Catechetica ed Educazione» è una testata telematica, iscritta al Tribunale di Roma (registrazione n. 151/16 dicembre 2020), che persegue finalità culturali in ambito pedagogico-catechetico Anno IX Numero 2 – Agosto 2024
A QUANTI LEGGERANNO QUESTA LETTERA LA SPERANZA RICOLMI IL CUORE
1. «Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5). Nel segno della speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il Papa indice ogni venticinque anni. Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti, non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese particolari. Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, «porta» di salvezza (cfr. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale «nostra speranza» (1Tm 1,1). Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma.
Una Parola di speranza
2. «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. […] La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,1-2.5). Sono molteplici gli spunti di riflessione che qui San Paolo propone. Sappiamo che la Lettera ai Romani segna un passaggio decisivo nella sua attività di evangelizzazione. Fino a quel momento l’ha svolta nell’area orientale dell’Impero e ora lo aspetta Roma, con quanto essa rappresenta agli occhi del mondo: una sfida grande, da affrontare in nome dell’annuncio del Vangelo, che non può conoscere barriere né confini. La Chiesa di Roma non è stata fondata da Paolo, e lui sente vivo il desiderio di raggiungerla presto, per portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto, come annuncio della speranza che compie le promesse, introduce alla gloria e, fondata sull’amore, non delude.
3. La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo. È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35.37-39). Ecco perché questa speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita. Sant’Agostino scrive in proposito: «In qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare».[1]
4. San Paolo è molto realista. Sa che la vita è fatta di gioie e di dolori, che l’amore viene messo alla prova quando aumentano le difficoltà e la speranza sembra crollare davanti alla sofferenza. Eppure scrive: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4). Per l’Apostolo, la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti di incomprensione e di persecuzione (cfr. 2Cor 6,3-10). Ma in tali situazioni, attraverso il buio si scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura. Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal “qui ed ora”, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto decisiva sia la pazienza. Attendere l’alternarsi delle stagioni con i loro frutti; osservare la vita degli animali e i cicli del loro sviluppo; avere gli occhi semplici di San Francesco che nel suo Cantico delle creature, scritto proprio 800 anni fa, percepiva il creato come una grande famiglia e chiamava il sole “fratello” e la luna “sorella”.[2] Riscoprire la pazienza fa tanto bene a sé e agli altri. San Paolo fa spesso ricorso alla pazienza per sottolineare l’importanza della perseveranza e della fiducia in ciò che ci è stato promesso da Dio, ma anzitutto testimonia che Dio è paziente con noi, Lui che è «il Dio della perseveranza e della consolazione» (Rm 15,5). La pazienza, frutto anch’essa dello Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e stile di vita. Pertanto, impariamo a chiedere spesso la grazia della pazienza, che è figlia della speranza e nello stesso tempo la sostiene.
Un cammino di speranza
5. Da questo intreccio di speranza e pazienza appare chiaro come la vita cristiana sia un cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù. Mi piace pensare che un percorso di grazia, animato dalla spiritualità popolare, abbia preceduto l’indizione, nel 1300, del primo Giubileo. Non possiamo infatti dimenticare le varie forme attraverso cui la grazia del perdono si è riversata con abbondanza sul santo Popolo fedele di Dio. Ricordiamo, ad esempio, la grande “perdonanza” che San Celestino V volle concedere a quanti si recavano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della misericordia. E ancora prima, nel 1216, Papa Onorio III aveva accolto la supplica di San Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. È bene che tale modalità “diffusa” di celebrazioni giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle comunità e delle persone. Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Anche nel prossimo anno i pellegrini di speranza non mancheranno di percorrere vie antiche e moderne per vivere intensamente l’esperienza giubilare. Nella stessa città di Roma, inoltre, saranno presenti itinerari di fede, in aggiunta a quelli tradizionali delle catacombe e delle Sette Chiese. Transitare da un Paese all’altro, come se i confini fossero superati, passare da una città all’altra nella contemplazione del creato e delle opere d’arte permetterà di fare tesoro di esperienze e culture differenti, per portare dentro di sé la bellezza che, armonizzata dalla preghiera, conduce a ringraziare Dio per le meraviglie da Lui compiute. Le chiese giubilari, lungo i percorsi e nell’Urbe, potranno essere oasi di spiritualità dove ristorare il cammino della fede e abbeverarsi alle sorgenti della speranza, anzitutto accostandosi al Sacramento della Riconciliazione, insostituibile punto di partenza di un reale cammino di conversione. Nelle Chiese particolari si curi in modo speciale la preparazione dei sacerdoti e dei fedeli alle Confessioni e l’accessibilità al sacramento nella forma individuale. A questo pellegrinaggio un invito particolare voglio rivolgere ai fedeli delle Chiese Orientali, in particolare a coloro che sono già in piena comunione con il Successore di Pietro. Essi, che hanno tanto sofferto, spesso fino alla morte, per la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa, si devono sentire particolarmente benvenuti in questa Roma che è Madre anche per loro e che custodisce tante memorie della loro presenza. La Chiesa Cattolica, che è arricchita dalle loro antichissime liturgie, dalla teologia e dalla spiritualità dei Padri, monaci e teologi, vuole esprimere simbolicamente l’accoglienza loro e dei loro fratelli e sorelle ortodossi, in un’epoca in cui già vivono il pellegrinaggio della Via Crucis, con cui sono spesso costretti a lasciare le loro terre d’origine, le loro terre sante, da cui li scacciano verso Paesi più sicuri la violenza e l’instabilità. Per loro la speranza di essere amati dalla Chiesa, che non li abbandonerà, ma li seguirà dovunque andranno, rende ancora più forte il segno del Giubileo.
6. L’Anno Santo 2025 si pone in continuità con i precedenti eventi di grazia. Nell’ultimo Giubileo Ordinario si è varcata la soglia dei duemila anni della nascita di Gesù Cristo. In seguito, il 13 marzo 2015, ho indetto un Giubileo Straordinario con lo scopo di manifestare e permettere di incontrare il “Volto della misericordia” di Dio,[3] annuncio centrale del Vangelo per ogni persona in ogni epoca. Ora è giunto il tempo di un nuovo Giubileo, nel quale spalancare ancora la Porta Santa per offrire l’esperienza viva dell’amore di Dio, che suscita nel cuore la speranza certa della salvezza in Cristo. Nello stesso tempo, questo Anno Santo orienterà il cammino verso un’altra ricorrenza fondamentale per tutti i cristiani: nel 2033, infatti, si celebreranno i duemila anni della Redenzione compiuta attraverso la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo così dinanzi a un percorso segnato da grandi tappe, nelle quali la grazia di Dio precede e accompagna il popolo che cammina zelante nella fede, operoso nella carità e perseverante nella speranza (cfr. 1Ts 1,3). Sostenuto da una così lunga tradizione e nella certezza che questo Anno giubilare potrà essere per tutta la Chiesa un’intensa esperienza di grazia e di speranza, stabilisco che la Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano sia aperta il 24 dicembre del presente anno 2024, dando così inizio al Giubileo Ordinario. La domenica successiva, 29 dicembre 2024, aprirò la Porta Santa della mia cattedrale di San Giovanni in Laterano, che il 9 novembre di quest’anno celebrerà i 1700 anni della dedicazione. A seguire, il 1° gennaio 2025, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, verrà aperta la Porta Santa della Basilica papale di Santa Maria Maggiore. Infine, domenica 5 gennaio sarà aperta la Porta Santa della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura. Queste ultime tre Porte Sante saranno chiuse entro domenica 28 dicembre dello stesso anno. Stabilisco inoltre che domenica 29 dicembre 2024, in tutte le cattedrali e concattedrali, i Vescovi diocesani celebrino la santa Eucaristia come solenne apertura dell’Anno giubilare, secondo il Rituale che verrà predisposto per l’occasione. Per la celebrazione nella chiesa concattedrale, il Vescovo potrà essere sostituito da un suo Delegato appositamente designato. Il pellegrinaggio da una chiesa, scelta per la collectio, verso la cattedrale sia il segno del cammino di speranza che, illuminato dalla Parola di Dio, accomuna i credenti. In esso si dia lettura di alcuni brani del presente Documento e si annunci al popolo l’Indulgenza Giubilare, che potrà essere ottenuta secondo le prescrizioni contenute nel medesimo Rituale per la celebrazione del Giubileo nelle Chiese particolari. Durante l’Anno Santo, che nelle Chiese particolari terminerà domenica 28 dicembre 2025, si abbia cura che il Popolo di Dio possa accogliere con piena partecipazione sia l’annuncio di speranza della grazia di Dio sia i segni che ne attestano l’efficacia. Il Giubileo Ordinario terminerà con la chiusura della Porta Santa della Basilica papale di San Pietro in Vaticano il 6 gennaio 2026, Epifania del Signore. Possa la luce della speranza cristiana raggiungere ogni persona, come messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti! E possa la Chiesa essere testimone fedele di questo annuncio in ogni parte del mondo!
Segni di speranza
7. Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre. Come afferma il Concilio Vaticano II, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche».[4] È necessario, quindi, porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza.
8. Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza. Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subito? Com’è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle Nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno «operatori di pace saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura.
9. Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita. A causa dei ritmi di vita frenetici, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie lavorative e tutele sociali adeguate, di modelli sociali in cui a dettare l’agenda è la ricerca del profitto anziché la cura delle relazioni, si assiste in vari Paesi a un preoccupante calo della natalità. Al contrario, in altri contesti, «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi».[5] L’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne, una missione che il Signore affida agli sposi e al loro amore. È urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti, perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza. La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo. Ma tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti.
10. Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi. È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10). Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2). Sono le parole che Gesù ha fatto proprie all’inizio del suo ministero, dichiarando in sé stesso il compimento dell’“anno di grazia del Signore” (cfr. Lc 4,18-19). In ogni angolo della terra, i credenti, specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento.[6] Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita.
11. Segni di speranza andranno offerti agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili. Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera.
12. Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. È bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia. L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione e la ricerca dell’effimero creano in loro più che in altri confusione e nascondono la bellezza e il senso della vita, facendoli scivolare in baratri oscuri e spingendoli a compiere gesti autodistruttivi. Per questo il Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!
13. Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Le loro attese non siano vanificate da pregiudizi e chiusure; l’accoglienza, che spalanca le braccia ad ognuno secondo la sua dignità, si accompagni con la responsabilità, affinché a nessuno sia negato il diritto di costruire un futuro migliore. Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale. La comunità cristiana sia sempre pronta a difendere il diritto dei più deboli. Spalanchi con generosità le porte dell’accoglienza, perché a nessuno venga mai a mancare la speranza di una vita migliore. Risuoni nei cuori la Parola del Signore che, nella grande parabola del giudizio finale, ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto», perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,35.40).
14. Segni di speranza meritano gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di abbandono. Valorizzare il tesoro che sono, la loro esperienza di vita, la sapienza di cui sono portatori e il contributo che sono in grado di offrire, è un impegno per la comunità cristiana e per la società civile, chiamate a lavorare insieme per l’alleanza tra le generazioni. Un pensiero particolare rivolgo ai nonni e alle nonne, che rappresentano la trasmissione della fede e della saggezza di vita alle generazioni più giovani. Siano sostenuti dalla gratitudine dei figli e dall’amore dei nipoti, che trovano in loro radicamento, comprensione e incoraggiamento.
15. Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo. Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa. Spesso non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti, i poveri siano «la maggior parte […], miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto».[7] Non dimentichiamo: i poveri, quasi sempre, sono vittime, non colpevoli.
Appelli per la speranza
16. Facendo eco alla parola antica dei profeti, il Giubileo ricorda che i beni della Terra non sono destinati a pochi privilegiati, ma a tutti. È necessario che quanti possiedono ricchezze si facciano generosi, riconoscendo il volto dei fratelli nel bisogno. Penso in particolare a coloro che mancano di acqua e di cibo: la fame è una piaga scandalosa nel corpo della nostra umanità e invita tutti a un sussulto di coscienza. Rinnovo l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa».[8] Un altro invito accorato desidero rivolgere in vista dell’Anno giubilare: è destinato alle Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: «C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi».[9] Come insegna la Sacra Scrittura, la terra appartiene a Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati.
17. Durante il prossimo Giubileo cadrà una ricorrenza molto significativa per tutti i cristiani. Si compiranno, infatti, 1700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio Ecumenico, quello di Nicea. È bene ricordare che, fin dai tempi apostolici, i Pastori si riunirono in diverse occasioni in assemblee allo scopo di trattare tematiche dottrinali e questioni disciplinari. Nei primi secoli della fede i Sinodi si moltiplicarono sia nell’Oriente sia nell’Occidente cristiano, mostrando quanto fosse importante custodire l’unità del Popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo. L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo. Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre. Erano presenti circa trecento Vescovi, che si riunirono nel palazzo imperiale convocati su impulso dell’imperatore Costantino il 20 maggio 325. Dopo vari dibattimenti, tutti, con la grazia dello Spirito, si riconobbero nel Simbolo di fede che ancora oggi professiamo nella Celebrazione eucaristica domenicale. I Padri conciliari vollero iniziare quel Simbolo utilizzando per la prima volta l’espressione «Noi crediamo»,[10] a testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione, e tutti i cristiani professavano la medesima fede. Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, «della stessa sostanza del Padre»,[11] che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Al Concilio di Nicea si trattò anche della datazione della Pasqua. A tale riguardo, vi sono ancora oggi posizioni differenti, che impediscono di celebrare nello stesso giorno l’evento fondante della fede. Per una provvidenziale circostanza, ciò avverrà proprio nell’Anno 2025. Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale proposito.
Ancorati alla speranza
18. La speranza, insieme alla fede e alla carità, forma il trittico delle “virtù teologali”, che esprimono l’essenza della vita cristiana (cfr. 1Cor 13,13; 1Ts 1,3). Nel loro dinamismo inscindibile, la speranza è quella che, per così dire, imprime l’orientamento, indica la direzione e la finalità dell’esistenza credente. Perciò l’apostolo Paolo invita ad essere «lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Sì, abbiamo bisogno di «abbondare nella speranza» (cfr. Rm 15,13) per testimoniare in modo credibile e attraente la fede e l’amore che portiamo nel cuore; perché la fede sia gioiosa, la carità entusiasta; perché ognuno sia in grado di donare anche solo un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito, sapendo che, nello Spirito di Gesù, ciò può diventare per chi lo riceve un seme fecondo di speranza. Ma qual è il fondamento del nostro sperare? Per comprenderlo è bene soffermarci sulle ragioni della nostra speranza (cfr. 1Pt 3,15).
19. «Credo la vita eterna»:[12] così professa la nostra fede e la speranza cristiana trova in queste parole un cardine fondamentale. Essa, infatti, «è la virtù teologale per la quale desideriamo […] la vita eterna come nostra felicità».[13] Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «Se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione».[14] Noi, invece, in virtù della speranza nella quale siamo stati salvati, guardando al tempo che scorre, abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e quella di ciascuno di noi non corrono verso un punto cieco o un baratro oscuro, ma sono orientate all’incontro con il Signore della gloria. Viviamo dunque nell’attesa del suo ritorno e nella speranza di vivere per sempre in Lui: è con questo spirito che facciamo nostra la commossa invocazione dei primi cristiani, con la quale termina la Sacra Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).
20. Gesù morto e risorto è il cuore della nostra fede. San Paolo, nell’enunciare in poche parole, utilizzando solo quattro verbi, tale contenuto, ci trasmette il “nucleo” della nostra speranza: «A voi […] ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Cristo morì, fu sepolto, è risorto, apparve. Per noi è passato attraverso il dramma della morte. L’amore del Padre lo ha risuscitato nella forza dello Spirito, facendo della sua umanità la primizia dell’eternità per la nostra salvezza. La speranza cristiana consiste proprio in questo: davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve la certezza che, grazie a Cristo, alla sua grazia che ci è stata comunicata nel Battesimo, «la vita non è tolta, ma trasformata»,[15] per sempre. Nel Battesimo, infatti, sepolti insieme con Cristo, riceviamo in Lui risorto il dono di una vita nuova, che abbatte il muro della morte, facendo di essa un passaggio verso l’eternità. E se di fronte alla morte, dolorosa separazione che costringe a lasciare gli affetti più cari, non è consentita alcuna retorica, il Giubileo ci offrirà l’opportunità di riscoprire, con immensa gratitudine, il dono di quella vita nuova ricevuta nel Battesimo in grado di trasfigurarne il dramma. È significativo ripensare, nel contesto giubilare, a come tale mistero sia stato compreso fin dai primi secoli della fede. Per lungo tempo, ad esempio, i cristiani hanno costruito la vasca battesimale a forma ottagonale, e ancora oggi possiamo ammirare molti battisteri antichi che conservano tale forma, come a Roma presso San Giovanni in Laterano. Essa indica che nel fonte battesimale viene inaugurato l’ottavo giorno, cioè quello della risurrezione, il giorno che va oltre il ritmo abituale, segnato dalla scadenza settimanale, aprendo così il ciclo del tempo alla dimensione dell’eternità, alla vita che dura per sempre: questo è il traguardo a cui tendiamo nel nostro pellegrinaggio terreno (cfr. Rm 6,22). La testimonianza più convincente di tale speranza ci viene offerta dai martiri, che, saldi nella fede in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita stessa di quaggiù pur di non tradire il loro Signore. Essi sono presenti in tutte le epoche e sono numerosi, forse più che mai, ai nostri giorni, quali confessori della vita che non conosce fine. Abbiamo bisogno di custodire la loro testimonianza per rendere feconda la nostra speranza. Questi martiri, appartenenti alle diverse tradizioni cristiane, sono anche semi di unità perché esprimono l’ecumenismo del sangue. Durante il Giubileo pertanto è mio vivo desiderio che non manchi una celebrazione ecumenica in modo da rendere evidente la ricchezza della testimonianza di questi martiri.
21. Cosa sarà dunque di noi dopo la morte? Con Gesù al di là di questa soglia c’è la vita eterna, che consiste nella comunione piena con Dio, nella contemplazione e partecipazione del suo amore infinito. Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà. Sant’Agostino in proposito scriveva: «Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te».[16] Cosa caratterizzerà dunque tale pienezza di comunione? L’essere felici. La felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti. Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi». Ricordiamo ancora le parole dell’Apostolo: «Io sono […] persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).
22. Un’altra realtà connessa con la vita eterna è il giudizio di Dio, sia al termine della nostra esistenza che alla fine dei tempi. L’arte ha spesso cercato di rappresentarlo – pensiamo al capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina – accogliendo la concezione teologica del tempo e trasmettendo in chi osserva un senso di timore. Se è giusto disporci con grande consapevolezza e serietà al momento che ricapitola l’esistenza, al tempo stesso è necessario farlo sempre nella dimensione della speranza, virtù teologale che sostiene la vita e permette di non cadere nella paura. Il giudizio di Dio, che è amore (cfr. 1Gv 4,8.16), non potrà che basarsi sull’amore, in special modo su quanto lo avremo o meno praticato nei riguardi dei più bisognosi, nei quali Cristo, il Giudice stesso, è presente (cfr. Mt 25,31-46). Si tratta pertanto di un giudizio diverso da quello degli uomini e dei tribunali terreni; va compreso come una relazione di verità con Dio-amore e con sé stessi all’interno del mistero insondabile della misericordia divina. La Sacra Scrittura afferma in proposito: «Hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento […] e ci aspettiamo misericordia, quando siamo giudicati» (Sap 12,19.22). Come scriveva Benedetto XVI, «nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo e in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia».[17] Il giudizio, quindi, riguarda la salvezza nella quale speriamo e che Gesù ci ha ottenuto con la sua morte e risurrezione. Esso, pertanto, è volto ad aprire all’incontro definitivo con Lui. E poiché in tale contesto non si può pensare che il male compiuto rimanga nascosto, esso ha bisogno di venire purificato, per consentirci il passaggio definitivo nell’amore di Dio. Si comprende in tal senso la necessità di pregare per quanti hanno concluso il cammino terreno, solidarietà nell’intercessione orante che rinviene la propria efficacia nella comunione dei santi, nel comune vincolo che ci unisce in Cristo, primogenito della creazione. Così l’indulgenza giubilare, in forza della preghiera, è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto, perché ottengano piena misericordia.
23. L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”, proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini. Il Sacramento della Penitenza ci assicura che Dio cancella i nostri peccati. Ritornano con la loro carica di consolazione le parole del Salmo: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. […] Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. […] Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe» (Sal 103,3-4.8.10-12). La Riconciliazione sacramentale non è solo una bella opportunità spirituale, ma rappresenta un passo decisivo, essenziale e irrinunciabile per il cammino di fede di ciascuno. Lì permettiamo al Signore di distruggere i nostri peccati, di risanarci il cuore, di rialzarci e di abbracciarci, di farci conoscere il suo volto tenero e compassionevole. Non c’è infatti modo migliore per conoscere Dio che lasciarsi riconciliare da Lui (cfr. 2Cor 5,20), assaporando il suo perdono. Non rinunciamo dunque alla Confessione, ma riscopriamo la bellezza del sacramento della guarigione e della gioia, la bellezza del perdono dei peccati! Tuttavia, come sappiamo per esperienza personale, il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle conseguenze: non solo esteriori, in quanto conseguenze del male commesso, ma anche interiori, in quanto «ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio».[18] Dunque permangono, nella nostra umanità debole e attratta dal male, dei “residui del peccato”. Essi vengono rimossi dall’indulgenza, sempre per la grazia di Cristo, il quale, come scrisse San Paolo VI, è «la nostra “indulgenza”».[19] La Penitenzieria Apostolica provvederà ad emanare le disposizioni per poter ottenere e rendere effettiva la pratica dell’Indulgenza Giubilare. Tale esperienza piena di perdono non può che aprire il cuore e la mente a perdonare. Perdonare non cambia il passato, non può modificare ciò che è già avvenuto; e, tuttavia, il perdono può permettere di cambiare il futuro e di vivere in modo diverso, senza rancore, livore e vendetta. Il futuro rischiarato dal perdono consente di leggere il passato con occhi diversi, più sereni, seppure ancora solcati da lacrime. Nello scorso Giubileo Straordinario ho istituito i Missionari della Misericordia, che continuano a svolgere un’importante missione. Possano anche durante il prossimo Giubileo esercitare il loro ministero, restituendo speranza e perdonando ogni volta che un peccatore si rivolge a loro con cuore aperto e animo pentito. Continuino ad essere strumenti di riconciliazione e aiutino a guardare l’avvenire con la speranza del cuore che proviene dalla misericordia del Padre. Auspico che i Vescovi possano avvalersi del loro prezioso servizio, specialmente inviandoli laddove la speranza è messa a dura prova, come nelle carceri, negli ospedali e nei luoghi in cui la dignità della persona viene calpestata, nelle situazioni più disagiate e nei contesti di maggior degrado, perché nessuno sia privo della possibilità di ricevere il perdono e la consolazione di Dio.
24. La speranza trova nella Madre di Dio la più alta testimone. In lei vediamo come la speranza non sia fatuo ottimismo, ma dono di grazia nel realismo della vita. Come ogni mamma, tutte le volte che guardava al Figlio pensava al suo futuro, e certamente nel cuore restavano scolpite quelle parole che Simeone le aveva rivolto nel tempio: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). E ai piedi della croce, mentre vedeva Gesù innocente soffrire e morire, pur attraversata da un dolore straziante, ripeteva il suo “sì”, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore. In tal modo ella cooperava per noi al compimento di quanto suo Figlio aveva detto, annunciando che avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31), e nel travaglio di quel dolore offerto per amore diventava Madre nostra, Madre della speranza. Non è un caso che la pietà popolare continui a invocare la Vergine Santa come Stella maris, un titolo espressivo della speranza certa che nelle burrascose vicende della vita la Madre di Dio viene in nostro aiuto, ci sorregge e ci invita ad avere fiducia e a continuare a sperare. In proposito, mi piace ricordare che il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, a Città del Messico, si sta preparando a celebrare, nel 2031, i 500 anni dalla prima apparizione della Vergine. Attraverso il giovane Juan Diego la Madre di Dio faceva giungere un rivoluzionario messaggio di speranza che anche oggi ripete a tutti i pellegrini e ai fedeli: «Non sto forse qui io, che sono tua madre?».[20] Un messaggio simile viene impresso nei cuori in tanti Santuari mariani sparsi nel mondo, mete di numerosi pellegrini, che affidano alla Madre di Dio preoccupazioni, dolori e attese. In questo Anno giubilare i Santuari siano luoghi santi di accoglienza e spazi privilegiati per generare speranza. Invito i pellegrini che verranno a Roma a fare una sosta di preghiera nei Santuari mariani della città per venerare la Vergine Maria e invocare la sua protezione. Sono fiducioso che tutti, specialmente quanti soffrono e sono tribolati, potranno sperimentare la vicinanza della più affettuosa delle mamme, che mai abbandona i suoi figli, lei che per il santo Popolo di Dio è «segno di sicura speranza e di consolazione».[21]
25. In cammino verso il Giubileo, ritorniamo alla Sacra Scrittura e sentiamo rivolte a noi queste parole: «Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi» (Eb 6,18-20). È un invito forte a non perdere mai la speranza che ci è stata donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio. L’immagine dell’àncora è suggestiva per comprendere la stabilità e la sicurezza che, in mezzo alle acque agitate della vita, possediamo se ci affidiamo al Signore Gesù. Le tempeste non potranno mai avere la meglio, perché siamo ancorati alla speranza della grazia, capace di farci vivere in Cristo superando il peccato, la paura e la morte. Questa speranza, ben più grande delle soddisfazioni di ogni giorno e dei miglioramenti delle condizioni di vita, ci trasporta al di là delle prove e ci esorta a camminare senza perdere di vista la grandezza della meta alla quale siamo chiamati, il Cielo. Il prossimo Giubileo, dunque, sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella in Dio. Ci aiuti pure a ritrovare la fiducia necessaria, nella Chiesa come nella società, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova (cfr. 2Pt 3,13), dove abitare nella giustizia e nella concordia tra i popoli, protesi verso il compimento della promessa del Signore. Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: «Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore» (Sal 27,14). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 9 maggio, Solennità dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, dell’Anno 2024, dodicesimo di Pontificato. FRANCESCO
_______________________ [1] Agostino, Discorsi, 198 augm., 2. [2] Cfr. Fonti Francescane, n. 263,6.10. [3] Cfr. Francesco, Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della misericordia, 11 aprile 2015, nn. 1-3. [4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 7 dicembre 1965, n. 4. [5] Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, n. 50. [6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267. [7] Francesco, Laudato si’, cit., n. 49. [8] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre 2020, n. 262. [9] Francesco, Laudato si’, cit., n. 51. [10] Simbolo niceno: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 125. [11] Ibid. [12] Simbolo degli Apostoli: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30. [13] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1817. [14] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, cit., n. 21. [15] Messale Romano, Prefazio dei defunti I. [16] Agostino, Confessioni, X, 28. [17] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 47. [18] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1472. [19] Paolo VI, Lettera Apostolica Apostolorum limina, 23 maggio 1974, II. [20] Nican Mopohua, n. 119. [21] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, 21 novembre 1964, n. 68.
In occasione dell’Anno della Preghiera, il Dicastero per l’Evangelizzazione ha preparato una serie di strumenti e sussidi utili per accompagnare le comunità cristiane e i singoli credenti nel percorso di preparazione al Giubileo 2025. È disponibile il sussidio “Insegnaci a Pregare”, il cui titolo è tratto dal capitolo undicesimo del Vangelo di Luca (Lc 11,1). Il volumetto, ispirato dal magistero di Papa Francesco, vuole essere un invito a intensificare la preghiera come dialogo personale con Dio, per condurre a riflettere sulla propria fede, sull’impegno nel mondo di oggi, nei diversi ambiti in cui si è chiamati a vivere. Si propone di offrire riflessioni, indicazioni e consigli per vivere più pienamente il dialogo con il Signore, nel rapporto con gli altri. Il sussidio si compone di sezioni dedicate alla preghiera nella comunità parrocchiale, in quella familiare, altre dedicate ai giovani, alle comunità claustrali, alla catechesi e ai ritiri spirituali.
Pablo Vadillo Costa (1992), sacerdote della Diocesi di Zaragoza (Spagna), è dottore in teologia con specializzazione in catechetica presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma. Ha svolto la sua tesi di dottorato sull’autismo e l’iniziazione cristiana. Attualmente è docente presso il Centro Regionale di Studi Teologici dell’Aragona, dove insegna diverse discipline nel corso della Laurea in Teologia Catechistica e presso l’Università San Jorge, dove insegna Dottrina sociale della Chiesa. Accompagna i processi di iniziazione cristiana delle persone con disabilità.
PROFILO DELL’OPERA
Pablo Vadillo offre chiavi di lettura e di azione per una catechesi fruttuosa per una comunità inclusiva. La catechesi con le persone con autismo è una realtà plausibile nelle comunità cristiane e per questo vengono offerte alcuni orientamenti di visione e di percorsi formativi per i responsabili degli itinerari di fede. Mettere la catechesi in dialogo con l’autismo è una sfida perché possono far parte della “loro” comunità cristiana e della “nostra” Chiesa.
Si è svolto nei giorni scorsi, a Napoli-Scampia, il 3° Convegno nazionale promosso dal Servizio Nazionale per la Pastorale delle persone con Disabilità (SNPPD) della CEI.
Del convegno hanno dato ampia informazione i quotidiani e le agenzie specializzate (Agensir). Un’ampia raccolta di commenti e immagini è presente nel sito del SNPPD (https://pastoraledisabili.chiesacattolica.it) che, a breve, renderà disponibile tutto il materiale presentato nel Convegno.
Noi offriamo qui il breve intervento del prof. Ubaldo Montisci, membro dell’Istituto di Catechetica dell’UPS, che ha affrontato in chiave pastorale il tema dell’accompagnamento delle persone in età minore.
“Accompagnare i percorsi che portano a costruire il proprio progetto di vita è un compito pastorale essenziale, che coinvolge tutti i battezzati”. A ricordarlo è don Ubaldo Montisci, docente di metodologia catechetica e formazione all’Università pontificia salesiana, durante la tavola rotonda dedicata all’età evolutiva, all’interno della prima giornata del Convegno “Noi, non loro”, promosso dal Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità Cei, aperto oggi a Scampia.
“Ritengo – ha aggiunto don Montisci – che ci sia bisogno urgente di un cambio di mentalità nel realizzare i percorsi di maturazione nella fede”. In un altro passaggio, l’esperto spiega come l’impegno educativo nelle comunità cristiane debba considerare “che la catechesi di iniziazione nelle età minori non ha il compito di generare il cosiddetto ‘adulto fedele’ ma pone le basi”. “Lo sguardo – ha suggerito – deve spingersi più in là, e cioè nell’adolescenza, una età in cui in fondo si determinano quei tratti del credente che normalmente diverranno permanenti”. In particolare, il docente ha spiegato come le “persone con disabilità vadano considerate come una risorsa e non un problema. Per fare ciò, ci vuole un soprassalto d’amore perché solo l’amore è creativo. Papa Francesco richiama spesso la necessità di essere creativi, di non fermarsi alle logiche del ‘si è sempre fatto così’. Le norme sono utili e talvolta necessarie ma, ordinariamente, stabiliscono il limite minimo di azione dovuta. Ciò – ha concluso – non è sufficiente quando si tratta di elaborare un progetto di vita: noi abbiamo la consapevolezza che quel “di più” può essere dato da un soprassalto d’amore ispirato ai valori evangelici”.
Giovedì 11 aprile 2024, l’Università Pontificia Salesiana ha sottoscritto un accordo con l’Università ungherese Gál Ferenc che prevede, in particolare, attività di collaborazione con l’Istituto di Catechetica.
Diverse le possibilità di cooperazione che vanno dalla condivisione di progetti di ricerca e percorsi didattici allo scambio e collaborazione tra docenti delle due università.
Il Rettore, prof. don Andrea Bozzolo, insieme al Segretario Generale don Jaroslaw Rochowiak e al prof. Ubaldo Montisci, ha accolto la delegazione ungherese composta dal Rettore dell’Università Gál Ferenc, prof. László Dux; dal direttore per gli affari internazionali della Diocesi di Szeged-Csanád, dott. Róth Márton; dal Vescovo della Diocesi di Szeged-Csanád, mons. László Kiss-Rigó; dal Rettore del seminario della Diocesi di Szeged-Csanád, Kovács József e dal Direttore dell’Istituto di Catechetica e nostro ex allievo, Levente Gabor Serfózó.