XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31

 

    Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita. Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare. Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.

 

  • Il Libro dei Proverbi è una collezione di detti sapienziali, riguardanti il retto comportamento di tutte le categorie umane, dal tempo di Salomone (10,1-22,26:25-29) fino a dopo l’esilio (circa il 500 d.C.): vi si esprime la saggezza del popolo ebreo, ispirandosi nei più antichi, preferibilmente alla concezione sapienziale profana degli orientali, nei recenti più esplicitamente all’etica della religiosità javistica. A quest’ultima categoria appartiene sia il Prologo (cc. 1-9), sia l’epilogo (31,10-31); il quale è un piccolo poema in versi acrostici (ognuno dei quali, cioè, inizia con una lettera dell’alfabeto ebraico): ha come tema l’elogio della donna veramente «saggia» dal punto di vista morale, sociale, religioso. Qui vengono riportati i versi più significativi.
  1. 10: «Una donna forte chi potrà trovarla?».

L’interrogativo enfatico mette in risalto il valore di una donna che ha in sé tutte le qualità di cui il poeta sta per tessere l’elogio: è inestimabile come «le perle preziose»!

  1. 11 : «In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto». Spiega in che consiste la sua preziosità: contribuisce al benessere della famiglia ed è fonte di gioia per il suo sposo.
  2. 13-19: «Si procura lana e lino… Stende la sua mano alla conocchia».

Esemplifica la sua cooperazione: confeziona tele e vesti, compra campi e vi coltiva vigne, vende i prodotti, ne fornisce i suoi di casa.

  1. 20: «Apre le sue palme al misero».

Come nel v. 13 essa si prodiga per la felicità del suo consorte, così ora estende la sua generosità ai concittadini più poveri, in piena sintonia col consiglio dei sapienti: «chi ha l’occhio generoso sarà benedetto, perché dona del suo pane al povero» (22,9.22-23).

  1. 30: «Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare».

In conclusione viene in risalto la dote specifica che la rende degna della lode più grande, cioè la rettitudine delle sue opere: agisce con solerzia e accortezza (vv. 14-19.25), parla con prudenza e bontà (v. 26), veste se stessa e i suoi con decoro (vv. 21.25); realizza quella che è la vera «sapienza» in armonia col timore santo del Signore. Ha molto di più

che la semplice avvenenza femminile. La sua fama non resterà circoscritta tra i rioni; arriverà alle «porte della città», dove si radunano i notabili e gli uomini di affari; ne sarà coinvolto anche suo marito (v. 23): «le sue opere la lodino alle porte della città».

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi 5,1-6

 

   Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.  Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.  Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.  

 

  • In questa lettera S. Paolo si intrattiene con i Tessalonicesi (Macedoni, che egli aveva evangelizzato da poco) sulle liete notizie che ha ricevuto attraverso Timoteo riguardanti la loro fede e il loro affettuoso ricordo (3,6-10). La presenza ostile dei Giudei in mezzo a loro gli aveva procurato serie preoccupazioni (3,14-15). Adesso ringrazia di cuore il Signore. Arriva a esclamare: «voi nostra gioia e nostra corona!» (2,19). Col medesimo affetto nella seconda parte (cc. 4-5) richiama le fondamentali esortazioni per una vita autenticamente cristiana: perseveranza nelle norme dateci dal Signore Gesù, purezza di costumi, sincera carità fraterna, laboriosità, pace con tutti, e in particolare vigilanza serena (4,13-18) e costante per quanto riguarda «il giorno del Signore» (5,1-6).
  1. 1 : «Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva». Dopo aver risposto, pare, a una preoccupazione dei Tessalonicesi sulla risurrezione dei defunti prima della Parusia, Paolo si premura di rassicurarli su un aspetto fondamentale riguardante quel giorno: la sua assoluta imprevedibilità (era ormai un dato risaputo: Mt 24,36.43; Ap 16,15), e insieme la sua ineludibilità: nessun essere umano ne potrà sfuggire, «nessuno scamperà» (v. 3).
  2. 3: «E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà». Gli uomini un giorno potranno illudersi di aver raggiunto nelle loro realizzazioni l’apice dell’efficienza e della stabilità e si esalteranno come i costruttori della torre di Babele, o azzarderanno previsioni apocalittiche, ma il credente in Cristo guarderà alle loro affermazioni con indomabile scetticismo, «Il cielo e la terra passeranno, ma non le mie parole» (Mt 24,35).
  3. 6: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri». È la logica conclusione, a cui si devono attenere costantemente «i figli del giorno», i discepoli del maestro divino e del suo fedelissimo apostolo: perseverare in tutte le virtù già ricordate (4,9-12) e attendere con fiducia e gioia l’ora della palingenesi finale.

 

Vangelo: Matteo 25,14-30

 

  In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.  Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.           

     Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.

       Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

 

Esegesi

 

Gesù ha parlato della grande tribolazione all’avvicinarsi del suo ritorno glorioso sulla terra (24,1-35), ha messo in guardia i discepoli perché si trovino pronti, con le lampade accese, in quel fatidico incontro con lo sposo divino (24,36-25,13); occorreva quindi precisare il compito che si esigeva da loro per essere giudicati degni di partecipare alla gloria del suo regno (valorizzazione dei doni ricevuti, opere di vero amore per i fratelli – 25,31-46).

Il discorso originario probabilmente risale a una situazione più generica, forse in risposta a quei seguaci che, salendo con lui da Gerico — città di Lazzaro — verso Gerusalemme si interrogavano sull’imminenza del suo regno (Lc 19,11-13): badate, avrà detto Gesù, a eseguire fedelmente i compiti che vi avrà affidato il Signore supremo; è importante che egli vi trovi solerti e efficienti in qualunque tempo vorrà apparire; saprà ricompensare abbondantemente chi gli è stato fedele e manderà a mani vuote o punirà chi non avrà adempiuto il suo volere. Era un avvertimento per tutti, sia i discepoli sia gli amici di Lazzaro (i farisei), che dopo la conversione di costui lo accompagnavano (Lc 19,1-10).

Matteo, inserendo il racconto nell’ultimo discorso del maestro, lo rende più solenne menzionando «i talenti» (somma ingente di fronte alle «mine» di cui parla Luca 19,13), e più chiaro del parallelo di Mc 13,34 e finisce per applicarlo alla comunità cristiana forse un po’ in crisi, ma ricca di carismi e di nuove possibilità di espansione.

  1. 15: «A uno diede cinque talenti, a un altro due … secondo le capacità di ciascuno». Un talento sarebbe computato 6.000 dracme greche, corrispondenti a 6.000 denari ebraici; e, poiché un denaro equivaleva alla paga di una giornata lavorativa, 5 talenti risulterebbero una somma per allora ingente: il compenso di 30.000 giornate lavorative; mentre una mina sarebbe solo 1/60 di talento, che era la somma consegnata a ciascuno dei servi in Lc 19. L’intento del donatore è quello di far fruttare le sue proprietà durante la sua assenza, e perciò fa affidamento sull’abilità dei suoi collaboratori: consegna di più a chi può rendere di più; di meno agli altri, in proporzione.
  2. 16-17: «Colui che aveva ricevuto cinque talenti…ne guadagnò altri cinque…».

I primi due comprendono bene il progetto del loro padrone e si danno da fare per raddoppiare la loro somma. Il testo non dice nulla sulle modalità seguite per raggiungere il loro scopo. Al narratore importava piuttosto mostrare la solerzia di quei due per rispondere al desiderio del loro signore. «Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone» (v. 18).

  1. 19: «Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò… a chi aveva guadagnato altri cinque talenti disse: “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto».

Il padrone dimostra al primo e al secondo servo che hanno raddoppiato i talenti tutta la sua compiacenza. Sono stati leali e fedeli, ciascuno in proporzione del denaro ricevuto e della loro abilità, «il poco»: saranno ricompensati tutti e due nel «molto» con grandi onori e promozioni.

  1. 24: «Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: “Signore, so che sei un uomo duro… Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra».

Il terzo servitore espone anzitutto il giudizio che ha del suo padrone. Lo ritiene un personaggio esoso e intransigente, «che miete dove non ha seminato» e che sarebbe stato capace di esigere il suo talento anche nell’eventualità di una qualsiasi perdita. Non ha quindi osato trafficarlo. Altro che servo abile e devoto!

  1. 26: «Il padrone gli rispose: Servo malvagio… avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri».

Non ha tenuto conto del suo desiderio e della sua fiducia. Non ha osato correre il minimo rischio per accontentarlo. Si è lasciato guidare solo dal suo egoismo e dalla paura; era così semplice mettere a frutto la sua somma presso un fidato banchiere per ricavarne almeno gli interessi!

  1. 28: «Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti». Un simile uomo, dice quel signore, non è più degno di essere al mio servizio; sia privato del talento ricevuto, che sarà consegnato in premio a chi si è impegnato generosamente per il mio piano; lui sia ormai dimesso dalla mia azienda. Fuori metafora è chiaramente descritta la situazione dei credenti che attendono l’incontro finale col loro supremo Signore.
  2. 29: «Perché a chiunque ha, verrà dato… E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

Gesù dice: ai suoi seguaci sono stati conferiti grandi doni di grazia e di luce: i suoi esempi e i suoi sublimi insegnamenti, i carismi dello Spirito, «i preziosi talenti», da mettere a frutto nella loro vita e in seno alla comunità; era suo desiderio che si adoperassero con impegno in santità e testimonianza evangelica. Non tutti però si sono premurati di compiacerlo. Chi per paura, chi per ignavia, molti si sono contentati di crogiolarsi nei belli sentimenti e di tenere solo per sé il luminoso messaggio dell’eterna salvezza. Saranno esemplarmente ripagati: gli uni ammessi in quel giorno all’immensa gioia del loro Signore, gli altri espulsi dove è tenebra e strider di denti.

 

Meditazione

 

Il legame tra prima lettura e vangelo emerge se si considera che il testo di Proverbi non descrive solamente il tipo di donna che il sapiente, al termine del percorso di formazione e studio, delinea per i suoi allievi come moglie ideale, ma se si coglie quella figura femminile nella sua valenza simbolica per cui designa a un tempo la sapienza e il sapiente, ovvero, il dono e il frutto che tale dono suscita nell’uomo. Al cuore del ritratto della donna forte vi è la responsabilità. Responsabilità che si configura, tra l’altro, come affidabilità (Pr 31,11), laboriosità (31,13.19), vigilanza (31,27), generosità (31,20). E responsabilità è anche parola chiave per cogliere la differenza di comportamento tra i due tipi di servi nella parabola evangelica: il servo buono e fedele (Mt 25,21.23) e il servo malvagio e pigro (Mt 25,26). La responsabilità cristiana è coscienza del dono ricevuto e fedeltà ad esso. Anzi, più radicalmente, fedeltà al Donatore.

Secondo Ireneo di Lione, il denaro affidato dal padrone ai suoi servi significa il dono della vita accordato da Dio agli uomini. Dono che è anche compito e che chiede di non essere sprecato o ignorato o disprezzato, ma accolto con gratitudine attiva e responsabile. Paolo scrive: «Che cosa hai che non hai ricevuto?» (1Cor 4,7). Potremmo aggiungere che non solo ciò che abbiamo, ma anche ciò che siamo è dono di Dio. Noi siamo dono.

In questa luce vi è un aspetto del giudizio che incombe su chi non ha fatto fruttare i talenti ricevuti che non ha a che fare anzitutto con la prospettiva escatologica (Mt 25,30), ma già qui e ora con il rischio di sprecare la vita, di non viverla, di sciuparla «fino a farne una stucchevole estranea» (Constantinos Kavafis). Il rischio è quello di una vita insignificante, di una vita non vissuta.

L’idea essenziale che unifica i tre casi di servi che ricevono talenti in misura diversa è che in ogni caso, per ciascuno, all’origine vi è un dono che proviene da un altro, e che ciascuno riceve secondo la propria capacità. Si tratta dunque di un dono «personalizzato». Il dono affidatemi mi rivela a me stesso. Entrare nella logica del paragone e magari nella recriminazione, distoglie l’uomo dall’unica attività veramente sensata: conoscere se stesso e conoscere Dio, il Donatore, riconoscendo e accogliendo i doni ricevuti.

È una finezza psicologica la sottolineatura che è il servo che ha nascosto il denaro per paura è quello che ha ricevuto meno degli altri. Questi fatica ad accettare la propria minore forza-capacità rispetto ad altri è maggiormente esposto al rischio di cadere nell’invidia e nel risentimento. L’adesione al principio-realtà, ovvero, l’accettazione della realtà così come si presenta, in noi e fuori di noi, è allora misura salvifica umanamente e spiritualmente.

Investire il denaro ricevuto significa esporsi al rischio di perdite che dovrebbero poi essere rimborsate al padrone: la paura del servo, che lo ha paralizzato, è anche paura del rischio. Ed essendo evidente che questa parabola non vuole insegnare l’uso del denaro e non può essere usata per un’apologia di un sistema economico che assolutizzi il profitto, ecco che la paura di eventuali perdite va intesa come paura della vita che nasce da un’immagine di Dio distorta. Il desiderio di sicurezza, la paura di spendersi, il timore del giudizio altrui, hanno neutralizzato in quest’uomo la volontà di Dio che era che egli cercasse un guadagno (Mt 25,27) con il denaro ricevuto: e quel cercare un guadagno avrebbe significato anche un suo vivere, lavorare, rischiare, gioire e soffrire, insomma, un suo dare senso all’esistenza.

Dio vuole che l’uomo viva e cerchi la felicità, che osi la propria unicità e la propria umanità, che non si lasci paralizzare da paure e da immagini di Dio distorte. Il dono impegnativo che Dio affida all’uomo è anche la sua fiducia nei confronti dell’uomo.

Contrario di fedeltà (Mt 25,21.23) nella parabola, è pigrizia (Mt 25,26). Il pigro è colui su cui non si può fare affidamento, colui che delega, che spreca il proprio tempo, l’irresponsabile, colui che non assume la vita e la fede come compito di cui rispondere a Dio.

Immagine della domenica

LUNGO IL CAMMINO DI SANTIAGO      –       2018

 

«Chi non spera

l’insperabile,

non lo troverà».

(Eraclito)

 


Preghiere e racconti

La misura del nostro coraggio

Come nella parabola dei talenti (Mt 25,14-30), la paura determina uno stile fallimentare – ieri, oggi e in ogni tempo – davanti ai doni di Dio. Anche oggi la paura paralizza l’uomo, paralizza la società, fa ingigantire i problemi: Tanto nell’ambito sociale, come può essere, per fare un esempio, rispetto all’accoglienza degli immigrati, quanto nella sfera personale, segnata dalle nostre paure psicologiche…

I talenti della parabola, sono la misura del nostro coraggio, della nostra disponibilità ad agire secondo l’amore.

Mettono in luce la nostra capacità di dire:

”Riconosco, Dio, quanto mi hai dato,

riconosco le mie forze,

investo i tuoi doni,

investo i talenti perché voglio farli fruttare”

Questo passaggio, questo atto di riconoscimento,

è la risposta di chi crede nella vita,

di chi ha fede…

E’ la fede che permette al nostro cuore

di guardare oltre l’ostacolo…

Anche chi ha un solo talento, può,

se crede, farlo fruttare.

Nel Dio che ce l’ha donato possiamo trovare

la forza di farlo fruttare,

di condividerlo,

per andare oltre la nostra paura,

oltre le nostre paure.

”Colui che aveva ricevuto un solo talento,

allontanandosi scavò una buca nel terreno

e vi nascose il denaro…”

Ecco questo è il punto:

l’isolamento accresce la paura…

la relazione la fa diminuire e ci aiuta a rischiare…

E’ sommando i nostri doni,

le nostre potenzialità

che possiamo vincere la paura,

liberare il nostro amore,

costruire segni vivi di speranza.

(Giancarlo Maria Bregantini, Parole condivise, Fondazione talenti).

 

Il talento di coltivare e custodire la felicità degli altri

 Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. Dio ci consegna qualcosa e poi esce di scena. Ci consegna il mondo, con poche istruzioni per l’uso, e tanta libertà. Un volto di Dio che ritroviamo in molte parabole: ha fiducia in noi, ci innalza a con-creatori, lo fa con un dono e una regola, quella di Adamo nell’Eden “coltiva e custodisci ” il giardino dove sei posto, vale a dire: ama e moltiplica la vita, sacerdote di quella che è la liturgia primordiale del mondo. Nessun uomo è senza giardino, perché ciò che è stato vero per Adamo è vero da allora per ogni suo figlio.

I talenti dati ai servi, dal padrone generoso e fiducioso, oltre a rappresentare le doti intellettuali e di cuore, la bellezza interiore, di cui nessuno è privo, di cui la luce del corpo è solo un riflesso, annunciano che ogni creatura messa sulla mia strada è un talento di Dio per me, tesoro messo nel mio campo. E io sono l’Adamo coltivatore e custode della sua fioritura e felicità. Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli: «l’essenza dell’amore non è in ciò che è comune, è nel costringere l’altro a diventare qualcosa, a diventare infinitamente tanto, a diventare il massimo che gli consentono le forze» (Rilke).

Arriva il momento del rendiconto, e si accumulano sorprese. La prima: colui che consegna dieci talenti non è più bravo di chi ne consegna solo quattro. Non c’è una tirannia o un capitalismo della quantità, perché le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. Occorre solo sincerità del cuore e fedeltà a se stessi, per dare alla vita il meglio di ciò che possiamo dare.

La seconda sorpresa: Dio non è un padrone esigente che rivuole indietro i suoi talenti con gli interessi. La somma rimane ai servitori, anzi è raddoppiata: sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. I servi vanno per restituire, e Dio rilancia. Questo accrescimento di vita è il Vangelo, questa spirale d’amore crescente è l’energia di Dio incarnata in tutto ciò che vive.

Si presentò infine colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: ho avuto paura. La parabola dei talenti è un invito a non avere paura delle sfide della vita, perché la paura paralizza, ci rende perdenti: quante volte abbiamo rinunciato a vincere solo per la paura di finire sconfitti! Il Vangelo è maestro della sapienza del vivere, della più umana pedagogia che si fonda su tre regole: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. E soprattutto da quella che è la paura delle paure: la paura di Dio.

 

Non lasciamoci ingannare dalla paura

Il Vangelo di questa domenica è la parabola dei talenti, tratta da san Matteo (25,14-30). Racconta di un uomo che, prima di partire per un viaggio, convoca i servitori e affida loro il suo patrimonio in talenti, monete antiche di grandissimo valore. Quel padrone affida al primo servitore cinque talenti, al secondo due, al terzo uno. Durante l’assenza del padrone, i tre servitori devono far fruttare questo patrimonio. Il primo e il secondo servitore raddoppiano ciascuno il capitale di partenza; il terzo, invece, per paura di perdere tutto, seppellisce il talento ricevuto in una buca. Al ritorno del padrone, i primi due ricevono la lode e la ricompensa, mentre il terzo, che restituisce soltanto la moneta ricevuta, viene rimproverato e punito.

E’ chiaro il significato di questo. L’uomo della parabola rappresenta Gesù, i servitori siamo noi e i talenti sono il patrimonio che il Signore affida a noi. Qual è il patrimonio? La sua Parola, l’Eucaristia, la fede nel Padre celeste, il suo perdono… insomma, tante cose, i suoi beni più preziosi. Questo è il patrimonio che Lui ci affida. Non solo da custodire, ma da far crescere! Mentre nell’uso comune il termine “talento” indica una spiccata qualità individuale ad esempio talento nella musica, nello sport, eccetera , nella parabola i talenti rappresentano i beni del Signore, che Lui ci affida perché li facciamo fruttare. La buca scavata nel terreno dal «servo malvagio e pigro» (v. 26) indica la paura del rischio che blocca la creatività e la fecondità dell’amore. Perché la paura dei rischi dell’amore ci blocca. Gesù non ci chiede di conservare la sua grazia in cassaforte! Non ci chiede questo Gesù, ma vuole che la usiamo a vantaggio degli altri. Tutti i beni che noi abbiamo ricevuto sono per darli agli altri, e così crescono. È come se ci dicesse: “Eccoti la mia misericordia, la mia tenerezza, il mio perdono: prendili e fanne largo uso”. E noi che cosa ne abbiamo fatto? Chi abbiamo “contagiato” con la nostra fede? Quante persone abbiamo incoraggiato con la nostra speranza? Quanto amore abbiamo condiviso col nostro prossimo? Sono domande che ci farà bene farci. Qualunque ambiente, anche il più lontano e impraticabile, può diventare luogo dove far fruttificare i talenti. Non ci sono situazioni o luoghi preclusi alla presenza e alla testimonianza cristiana. La testimonianza che Gesù ci chiede non è chiusa, è aperta, dipende da noi.

Questa parabola ci sprona a non nascondere la nostra fede e la nostra appartenenza a Cristo, a non seppellire la Parola del Vangelo, ma a farla circolare nella nostra vita, nelle relazioni, nelle situazioni concrete, come forza che mette in crisi, che purifica, che rinnova. Così pure il perdono, che il Signore ci dona specialmente nel Sacramento della Riconciliazione: non teniamolo chiuso in noi stessi, ma lasciamo che sprigioni la sua forza, che faccia cadere muri che il nostro egoismo ha innalzato, che ci faccia fare il primo passo nei rapporti bloccati, riprendere il dialogo dove non c’è più comunicazione… E così via. Fare che questi talenti, questi regali, questi doni che il Signore ci ha dato, vengano per gli altri, crescano, diano frutto, con la nostra testimonianza.

Credo che oggi sarebbe un bel gesto che ognuno di voi prendesse il Vangelo a casa, il Vangelo di San Matteo, capitolo 25, versetti dal 14 al 30, Matteo 25, 14-30, e leggere questo, e meditare un po’: “I talenti, le ricchezze, tutto quello che Dio mi ha dato di spirituale, di bontà, la Parola di Dio, come faccio che crescano negli altri? O soltanto li custodisco in cassaforte?”.

E inoltre il Signore non dà a tutti le stesse cose e nello stesso modo: ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi; ma in tutti, in tutti c’è qualcosa di uguale: la stessa, immensa fiducia. Dio si fida di noi, Dio ha speranza in noi! E questo è lo stesso per tutti. Non deludiamolo! Non lasciamoci ingannare dalla paura, ma ricambiamo fiducia con fiducia! La Vergine Maria incarna questo atteggiamento nel modo più bello e più pieno. Ella ha ricevuto e accolto il dono più sublime, Gesù in persona, e a sua volta lo ha offerto all’umanità con cuore generoso. A Lei chiediamo di aiutarci ad essere “servi buoni e fedeli”, per partecipare “alla gioia del nostro Signore”.

(Papa Francesco, Angelus, 16 novembre 2014).

 

Ognuno di noi è un originale fatto da Dio

C’è una vecchia trazione giudeo-cristiana secondo la quale Dio manda ognuno di noi in questo mondo con un messaggio speciale da consegnare, con uno speciale atto d’amore da compiere. Il tuo messaggio e il tuo atto d’amore sono affidati soltanto a te, il mio è affidato soltanto a me. Se questo messaggio debba raggiungere solo poche persone o tutti gli abitanti di una città o il mondo intero dipende esclusivamente dalla scelta di Dio. L’unica cosa importante è essere convinti che ognuno di noi è adeguatamente equipaggiato: tu hai i doni giusti per consegnate il tuo messaggio ed io ho i doni appositamente scelti per consegnare il mio.

Un aspetto particolare della verità di Dio è stato messo nelle tue mani, e Dio ti ha chiesto di condividerlo con ognuno di noi, e lo stesso vale per me. Proprio perché tu sei unico, la tua verità è data soltanto a te e nessun altro può dire al mondo la tua verità, o compiere per gli altri il tuo atto d’amore. Solo tu hai tutti i requisiti per essere e fare ciò che devi essere e fare. Solo io ho tutto ciò che è necessario per portare a termine il compito per cui sono stato inviato in questo mondo.

Sarebbe inutile e anche sciocco confrontare me stesso con te. Ognuno di noi è unico, non esistono fotocopie o cloni di nessuno di noi. Un simile confronto significherebbe la morte dell’accettazione di sé. Guarda la tua mano: le dita non sono di uguale lunghezza. Se lo fossero, tu non potresti di fatto afferrare una mazza da baseball o lavorare ai ferri. Allo stesso modo, alcuni sono alti e altri bassi, alcuni hanno un talento e altri un dono diverso. Tu sei fatto su misura per realizzare il tuo compito, e così tu non sei me e io non sono te. E questo è bene, è meraviglioso. Noi dobbiamo non solo accettare, ma anche esaltare le nostre differenze. Il mondo custodisce gelosamente gli originali, e ognuno di noi è un originale fatto da Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 23-24).

Utilizzare tutti i miei talenti

Nel II secolo d.C., sant’Ireneo scrisse che «la gloria di Dio è una persona che vive in pienezza». Non ti è mai capitato di fare un regalo a qualcuno e poi venire a sapere che l’altro non l’ha mai usato? Forse avresti voluto chiedere: «Non ti è piaciuto il mio regalo? Perché non l’hai usato?». Forse Dio desidera porci qualche domanda sui doni che ci ha fatto. Quando diciamo nel Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà!», sono certo che parte di questo volere è che io mi sforzi di utilizzare tutti i miei talenti. So che Dio vuole che io sviluppi i miei sensi, le mie emozioni, la mia mente, la mia volontà ed il mio cuore nel modo più completo. «La gloria di Dio è una persona che vive in pienezza».

Qualcosa dentro di me sa con certezza che il nostro amore per Dio viene sicuramente misurato dal nostro impegno nel compiere queste due cose: amare gli altri come amiamo noi stessi e fare la volontà di Dio in ogni cosa.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).

 

Racconto

Ricordo spesso un lungo racconto che si trovava, ai miei tempi nell’antologia delle medie: è la storia di un ragazzo che nella scuola, la vecchia media o forse addirittura il vecchio ginnasio, era un fallimento totale. La sua incapacità, ad esempio, di distinguere i verbi transitivi da quelli intransitivi, scoraggiava il suo professore di lettere, che ci vedeva il segno di una radicale incapacità intellettuale. Poi, mortogli il padre, quel ragazzo abbandonò la scuola e se lo risucchiò la vita. Qualche anno dopo il vecchio professore fu preso dal capriccio di farsi lui un po’ di vino, di vero vino di uva e si recò al mercato all’ingrosso per comperare appunto quella partita di uva che gli abbisognava. Ma qui scoprì quanto inetto egli fosse in cose di questo genere e quanto poco gli valesse il suo latino ad affrontare le cose concrete della vita. E qui gli capitò di imbattersi proprio in quel ragazzo, ormai uno splendido giovanotto, che subentrato al padre nella gestione di un suo commercio, sul mercato era di casa e ci si moveva come un pesce nell’acqua: conosciuto il problema se ne prese cura lui e quello che non era riuscito al vecchio professore con tutto il suo sapere, riuscì in pochi minuti all’allievo fallito nella scuola ma riuscito nella vita. E prima di lasciarlo si prese persino lo sfizio di una innocente ironia: “Professore – gli chiese – mi tolga una curiosità, i verbi transitivi sono quelli che passano o che non passano?”

 

Nessuno dica: «Ho un solo talento e non posso fare niente»

Nella parabola dei talenti quelli che presentano i guadagni riconoscono con animo grato ciò che è loro e ciò che è del padrone. L’uno dice: «Signore mi hai dato cinque talenti» (Mt 25,20) e l’altro: «due» mostrando che avevano ricevuto da lui la possibilità di lavorare, che gliene erano molto grati e attribuivano tutto a lui. Che disse allora il padrone? «Bene, servo buono – è proprio di una persona buona mostrare interesse per il prossimo – e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21); con queste parole mostrò tutta la beatitudine. L’altro servo non si comportò così; come si comportò? «Sapevo che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura ho nascosto il tuo talento: ecco qui il tuo (Mt 25,24-25). Che cosa disse allora il padrone? «avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri» (Mt 25,27), cioè avresti dovuto parlare, esortare, consigliare. Ma non danno ascolto. Questo non ti riguarda. Che cosa ci potrebbe essere di più mite? […]

Ascoltiamo queste parole. Finché c’è tempo, diamoci cura della nostra salvezza, prendiamo l’olio per le lampade, mettiamo a frutto il talento. Se siamo inoperosi, se viviamo nella pigrizia, nessuno là in alto avrà compassione di noi, per quanto ci lamentiamo. Condannò se stesso chi aveva le vesti immonde e nulla gli fu d’aiuto. Chi aveva un solo talento restituì quello che aveva ricevuto in deposito e così fu condannato. Le vergini supplicarono, si presentarono e bussarono alla porta, ma tutto fu inutile e vano. Sapendo questo, offriamo denaro, impegno, aiuto, ogni cosa per renderci utili al prossimo. I talenti qui indicano le possibilità di ciascuno per quanto riguarda l’aiuto, il denaro, l’insegnamento o altre cose del genere. Nessuno dica: «Ho un solo talento e non posso fare niente». Anche con un solo talento puoi farti onore. Non sei più povero di quella vedova (cfr. Lc 21,2), né più incolto di Pietro e di Giovanni che erano ignoranti e illetterati, ma poiché diedero prova di zelo e fecero tutto nell’interesse comune, conquistarono il cielo. Nulla è così caro a Dio quanto vivere per il bene comune. Per questo Dio ci ha dato mani, piedi, forza fisica, mente e intelligenza, per servirci di tutto questo per la nostra salvezza e a utilità del prossimo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento sul vangelo di Matteo, om. 78,2, PG 58,713-715).

 

L’amore è il più grande talento umano

«Per coloro che non hanno amato, la vecchiaia è un inverno di solitudine. L’amore, il più grande talento umano, era stato sotterrato perché non si perdesse, e alla fine andò perduto davvero. Nessuno venne o se ne prese cura. Rimase soltanto una persona priva di amore e sola nell’attesa della morte.

Per coloro che hanno amato, la vecchiaia è il momento del raccolto. I semi di amore piantati con così grande cura tanti anni prima, sono maturati col tempo. La persona che ama è circondata, al tramonto della vita, dalla presenza e dall’affetto degli altri. Il bene ripaga sempre. Ciò che era stato donato in modo così spontaneo e gioioso, è stato restituito con gli interessi».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995,69).

 

I talenti

E perché tu comprenda bene, colui al quale furono affidati cinque talenti è un maestro; colui a cui ne fu affidato uno è un discepolo. Ma se il discepolo dicesse: «Sono un semplice discepolo, non corro pericoli», e nascondesse la parola, comune e spoglia, ricevuta da Dio, e non pensasse di ammonire, di parlar con franchezza, di rimproverare, di correggere, se possibile, ma la nascondesse in terra: è davvero terra e cenere questo cuore che seppellisce la grazia di Dio! Se dunque la nascondesse per pigrizia o per malvagità, non lo scuserebbe nulla il dire: «Ho un solo talento». Hai un solo talento? Dovevi aggiungerne un altro e raddoppiare il tuo talento; se ne avessi aggiunto un altro, non saresti rimproverato. A colui che presentò due talenti, infatti, non fu detto: «Perché non ne porti cinque?», ma fu ritenuto degno degli stessi premi dati a colui che ne presentò cinque. E perché? Perché fece fruttare ciò che aveva e pur avendo ricevuto meno di quello che ne aveva avuti cinque, non per questo si abbandonò all’infingardaggine usando il poco che aveva per ozieggiare. Non dovevi guardare i due talenti; piuttosto dovevi guardare a lui che, avendone due, imitò quello che ne aveva cinque, e così tu devi imitare quello che ne aveva due. Se per chi è ricco e non fa parte delle sue ricchezze sta già preparato il castigo, per chi può esortare quanto vuole e non lo fa, non ci sarà forse un castigo maggiore? In quel caso si nutre il corpo, in questo l’anima: ivi si impedisce la morte temporanea, qui la morte eterna.

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

 

La simbologia dei talenti

Sarà infatti come d’un uomo il quale, stando per fare un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, all’altro due, e a un altro uno solo: a ciascuno secondo la sua capacità” (Mt 25,14-15). Non v’è dubbio che quest’uomo, questo padrone di casa, è Cristo stesso, il quale, mentre s’appresta vittorioso ad ascendere al Padre dopo la Risurrezione, chiamati a sé gli apostoli, affida loro la dottrina evangelica, dando a uno più e a un altro meno, non perché vuol essere con uno più generoso e con l’altro più parco, ma perché tiene conto delle forze di ciascuno (l’Apostolo dice qualcosa di simile quando afferma di aver nutrito col latte coloro che non erano ancora in grado di nutrirsi con cibi solidi) (1Co 3,2). Infatti poi con uguale gioia ha accolto colui che di cinque talenti, trafficandoli, ne ha fatto dieci e colui che di due ne ha fatto quattro, considerando non l’entità del guadagno, ma la volontà di ben fare. Nei cinque, come nei due e nell’unico talento, scorgiamo le diverse grazie che a ciascuno vengono date. Oppure si può vedere, nel primo che ne riceve cinque, i cinque sensi, nel secondo che ne ha due, l’intelligenza e le opere, e nel terzo che ne ha uno solo, la ragione, che distingue gli uomini dalle bestie.

“Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti, se ne andò a negoziarli e ne guadagnò altri cinque” (Mt 25,16). Ricevuti cioè i cinque sensi terreni, li raddoppiò acquisendo per mezzo delle cose create la conoscenza delle cose celesti, la conoscenza del Creatore: risalendo dalle cose corporee a quelle spirituali, dalle visibili alle invisibili, dalle contingenti alle eterne.

“Come pure quello che aveva ricevuto due talenti ne guadagnò altri due (Mt 25,17). Anche costui, le verità che con le sue forze aveva appreso dalla Legge le raddoppiò nella conoscenza del Vangelo. O si può intendere che, attraverso la scienza e le opere della vita terrena, comprese le caratteristiche ideali della futura beatitudine.

“Ma colui che ne aveva ricevuto uno solo, andò a scavare una buca nella terra e vi nascose il denaro del suo padrone” (Mt 25,18). Il servo malvagio, dominato dalle opere terrene e dai piaceri del mondo, trascurò e macchiò i precetti di Dio. Un altro evangelista dice che questo servo tenne la sua moneta legata in una pezzuola (Lc 19,20), cioè, vivendo nella mollezza e nelle delizie, rese inefficiente l’insegnamento del padrone di casa.

“Ora, dopo molto tempo, ritornò il padrone di quei servi e li chiamò a render conto. Venuto dunque colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, tu mi desti cinque talenti; ecco, io ne ho guadagnati altri cinque»” (Mt 25,19-20). Molto tempo c’è tra l’Ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Ora, se gli apostoli stessi dovranno render conto e risorgeranno col timore del giudizio, che dobbiamo mai far noi?

“E il padrone gli disse «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore». Si presentò poi l’altro che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, tu mi desti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». Il suo padrone gli disse: «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore» (Mt 25,21-23). Ambedue i servi, e quello che di cinque talenti ne ha fatto dieci e quello che di due ne ha fatto quattro, ricevono identiche lodi dal padrone di casa. E dobbiamo rilevare che tutto quanto possediamo in questa vita, anche se può sembrare grande e abbondante, è sempre poco e piccolo a confronto dei beni futuri. «Entra – dice il padrone – nella gioia del tuo Signore»: cioè ricevi quel che occhio mai vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare (1Co 2,9). Che cosa mai di più grande può essere donato al servo fedele, se non di vivere insieme col proprio signore e contemplare la gioia di lui?

“Presentatosi infine quello che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco, prendi quello che ti appartiene» (Mt 25,24-25). Quanto sta scritto nel salmo: A cercare scuse per i peccati (Ps 141,4), si applica anche a questo servo, il quale alla pigrizia e negligenza, ha aggiunto anche la colpa della superbia. Egli che non avrebbe dovuto fare altro che confessare la sua infingardaggine e supplicare il padrone di casa, al contrario lo calunnia, e sostiene di aver agito con prudenza non avendo cercato alcun guadagno per timore di perdere il capitale.

“Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il talento e datelo a colui che ne ha dieci» (Mt 25,26-28). Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come negligente. Se – dice in sostanza il Signore – sapevi che io son duro e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio, e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l’argento che ti avevo affidato? L’una e l’altra cosa significa infatti la parola greca arghyrion. Sta scritto: “La parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco, temprato nella terra, purificato sette volte” (Ps 12,7). Il denaro e l’argento sono la predicazione del Vangelo e la parola divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono raddoppiarla e restituirla con l’interesse, in quanto compiono con le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci affinché comprendiamo che – sebbene uguale sia la gioia del Signore per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due – maggiore è il premio che si deve a colui che più ha trafficato col denaro del padrone. Per questo l’Apostolo dice: “Onora i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto coloro che s’affaticano nella parola di Dio (1Tm 5,17). E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che violano la legge scritta.

“Poiché a chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere” (Mt 25,29). Molti, pur essendo per natura sapienti e avendo un ingegno acuto, se però sono stati negligenti e con la pigrizia hanno corrotto la loro naturale ricchezza, a confronto di chi invece è un poco più tardo, ma con il lavoro e l’industria ha compensato i minori doni che ha ricevuto, perderanno i loro beni di natura e vedranno che il premio loro promesso sarà dato agli altri. Possiamo capire queste parole anche così: chi ha fede ed è animato da buona volontà nel Signore, riceverà dal giusto Giudice, anche se per la sua fragilità umana avrà accumulato minor numero di opere buone. Chi invece non avrà avuto fede, perderà anche le altre virtù che credeva di possedere per natura. Efficacemente dice che a costui «sarà tolto anche quello che crede di avere». Infatti, anche tutto ciò che non appartiene alla fede in Cristo, non deve essere attribuito a chi male ne ha usato, ma a colui che ha dato anche al cattivo servo i beni naturali.

“E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridor di denti” (Mt 25,30). Il Signore è la luce; chi è gettato fuori, lontano da lui, manca della vera luce.

(San Girolamo, in Matth. IV, 22, 14-30).

 

Ogni uomo semplice

Ogni uomo semplice porta in cuore un sogno,

con amore ed umiltà potrà costruirlo.

Se davvero tu saprai vivere umilmente,

più felice tu sarai anche senza niente.

Se vorrai ogni giorno con il tuo sudore,

una pietra dopo l’altra in alto arriverai.

Nella vita semplice troverai la strada

che la calma donerà al tuo cuore puro.

E le gioie semplici sono le più belle,

sono quelle che alla fine sono le più grandi.

Dai e dai ogni giorno con il tuo sudore,

una pietra dopo l’altra in alto arriverai.

(Dal film Fratello sole, sorella luna, di F. Zeffirelli)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004.

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

Includere la disabilità, un incontro online

Martedì 7 novembre 2023 alle ore 17,00 in diretta su YouTube la presentazione del Rapporto 2023 sulla scuola cattolica in Italia
20 Ottobre 2023

Il Centro Studi per la Scuola Cattolica della CEI ha dedicato il suo Rapporto del 2023 all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità.

Il rapporto verrà presentato in collaborazione con il Servizio Nazionale per la pastorale delle persone con disabilità della CEI martedì 7 novembre 2023 alle ore 17,00 in diretta online sul canale YouTube della CEI:
https://www.youtube.com/@ChiesaCattolicaItaliana 

Intervengono:

  • E. mons. Claudio Giuliodori, Presidente della Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università della CEI
  • Sergio Cicatelli, coordinatore scientifico del Centro Studi per la Scuola Cattolica
  • suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio Nazionale per la pastorale delle persone con disabilità
  • Luigi D’Alonzo, docente ordinario di Pedagogia speciale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
  • Fabio Bocci, docente ordinario di Didattica inclusiva presso l’Università Roma Tre
  • padre Domenico Fidanza, Istituto Piamarta – Brescia
  • suor Daniela Galletto, Scuola Materdomini – Roccapiemonte (SA)

In allegato la locandina dell’iniziativa.

 

«Creare casa» (Christus vivit, 217)

La tematica che l’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni propone in vista della 61a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni che si celebrerà la quarta domenica di Pasqua, il 21 aprile 2024 intende cogliere l’invito di Papa Francesco a creare ambienti adeguati nei quali sperimentare il miracolo di una nuova nascita: «in tutte le nostre istituzioni dobbiamo sviluppare e potenziare molto di più la nostra capacità di accoglienza cordiale […], le comunità come la parrocchia e la scuola dovrebbero offrire percorsi di amore gratuito e promozione, di affermazione e di crescita […]. Quanto sradicamento! Se i giovani sono cresciuti in un mondo di ceneri, non è facile per loro sostenere il fuoco di grandi desideri e progetti. Se sono cresciuti in un deserto vuoto di significato, come potranno aver voglia di sacrificarsi per seminare? L’esperienza di discontinuità, di sradicamento e la caduta delle certezze di base, favorita dall’odierna cultura mediatica, provocano quella sensazione di orfanezza alla quale dobbiamo rispondere creando spazi fraterni e attraenti dove si viva con un senso. Fare ‘casa’ […] è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici e funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi. È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere […]. Così si attua il miracolo di sperimentare che qui si nasce di nuovo […] perché sentiamo efficace la carezza di Dio che ci rende possibile sognare il mondo più umano e, perciò, più divino» (Cf. Francesco, Christus vivit, 216-217).

L’invito conduce alle radici della fede e riporta agli inizi della Chiesa nella quale da subito i primi credenti si sono adoperati per creare spazi di condivisione della vita nei quali poter sperimentare «la gioia di una casa comune: una domus ecclesiae. Prima che di un edificio – già insegnava il card. Carlo Maria Martini all’inizio del Millennio – ci sia un contesto, un luogo permanente di incontro […] in cui si respiri uno stile di fraternità, di lavoro e di preghiera. Tutte le nostre comunità siano attente alle esigenze giovanili di vita comune, sapendo che i giovani, oggi più che mai, hanno bisogno di formazione intelligente e affettiva per appassionarsi al Signore, alla comunità cristiana e ai fermenti evangelici disseminati tra i loro coetanei nel mondo. La Parola di Dio ha bisogno di un terreno buono e l’Eucarestia ha bisogno di una casa» (C.M. Martini, Attraversava la città. Risposta al Sinodo dei Giovani, 23 marzo 2002).

Il Cammino Sinodale delle Chiese d’Italia delle Chiese d’Italia ci sta aiutando a riscoprire la gioia e la fatica del camminare insieme, il lavoro fattivo e concreto del costruire cantieri capaci di immaginare gli elementi fecondi già presenti nell’oggi e che dischiudono il futuro; invita, sull’icona dei discepoli di Emmaus, a riconoscere il passante che si fa prossimo nel cammino e ospitarlo in casa perché là si manifesti nel suo volto del Signore Risorto (cf. Lc 24,29).

Anche la vocazione ha bisogno di un terreno buono perché possa attecchire e di una casa nella quale fare Eucarestia, ringraziamento e benedizione per la Parola ricevuta e il dono di quella fraternità che è offerta della propria vita perché insieme agli altri diventi feconda nella carità, a servizio di tutti. Come la vita, ha bisogno di trovare uno spazio accogliente per nascere, crescere e maturare. Il desiderio di appartenere ad una persona o ad una comunità nasce da una frequentazione feriale e una conoscenza graduale di quella casa alla quale si sogna di appartenere per essere fecondi. Creare casa è un invito rivolto alle Chiese, alle comunità, alle parrocchie, ai presbitéri, alle famiglie, ai monasteri perché siano sempre più spazi capaci di quell’accoglienza cordiale e libera che fa crescere la vocazione sia di chi li abita che di chi li visita, diviene terreno fecondo di nuove vocazioni.

«Chi ha sete, venga!» (Ap 22,20)

L’immagine preparata è un’icona del Cristo che viene; anch’essa porta direttamente alla radice della vocazione cristiana e alla sorgente di ogni chiamata perché la vocazione è incontrare e riconoscere il Signore Risorto che abita i passi della propria storia. Tutta la Scrittura termina con un grido che racchiude una promessa: «Lo Spirito e la Sposa dicono: ‘Vieni!’. E chi ascolta, ripeta: ‘Vieni!’. Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17). Se il nostro sguardo potesse attraversare il cielo, se potesse guardare attraverso la storia e i fatti della vita altro non vedrebbe che il Cristo che viene perché raggiungerci – venire verso di noi – è l’unica cosa che anch’egli ardentemente desidera; stare in nostra compagnia, fare casa con noi: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Intrattenersi con il Signore Risorto, parlare con lui come con un amico (cf. Concilio Vaticano II, Dei verbum, 3) è l’origine della vocazione che si può riconoscere nella Parola – sovente anche un solo versetto di tutta la Scrittura – che è il grembo della fede (cf. Rm 10,17) e il Principio di ogni cosa (cf. Gv 1,3). Qui è simboleggiata dalla raffigurazione dei quattro evangelisti che occupano gli angoli della tavola: Matteo (l’angelo), Giovanni (l’aquila), Marco (il leone) e Luca (il bue).

La fede e la vocazione – così come la vita e la realtà – hanno a che fare con un invisibile (cf. Eb 11,27) che contiene una promessa, quella della vita eterna (cf. 1Gv 2,25) che è la vita vera, la vita come dovrebbe essere, la vita che è semplicemente vita, semplicemente felicità (cf. Benedetto XVI, Spe salvi, 11). Il cerchio esterno con i cherubini e i serafini che fanno capolino dai lati del quadrato più interno simboleggia il mondo celeste e ricorda che tutta l’avventura della vita si svolge sotto il cielo ormai aperto (cf. At 7,56) dalla Pasqua di Cristo (cf. Gv 1,51). Cerchio e quadrato ricordano il movimento – immaginando di far ruotare il quadrato attorno al suo centro – iniziato nel Battesimo. Immersa nell’acqua del fonte la vita di terra (cf. 1Cor 15,47) ha cominciato a camminare verso la perfezione della carità che potrà essere ricevuta in dono solo nella Gerusalemme celeste ma che già può essere gustata in questo tempo, nella consapevolezza che solo l’amore vale la pena e la bellezza del vivere, l’unica cosa che rimane per sempre.

Intuire la propria vocazione è discernere il calore del divino – ha il volto di Cristo e il sapore dei suoi gesti – che traspare da ciò che è umano come il rosso delle vesti del Signore emerge dal blu che simboleggia la storia, è condividerne la Passione e spendere la vita nel suo amore: il volto di una persona che si accende di una luce particolare nella quale ci si riconosce chiamati come sposi, il mistero di una Chiesa che si desidera servire come ministri ordinati, una famiglia religiosa che chiama ad una appartenenza e ad una consacrazione particolare, una storia di relazioni quotidiane per il quale adoperarsi semplicemente con il lavoro delle proprie mani.

L’icona è stata realizzata anche in una copia stampata su legno così che possa diventare pellegrina nelle diocesi in occasione che volta per volta organizzeranno l’animazione della Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni.

“Fare Catechesi in Italia”: conosciamo gli autori

In questa sezione puoi trovare tutte le presentazioni video degli autori del volume “Fare Catechesi in Italia”:

 

“Fare Catechesi in Italia” attraverso la voce degli autori

7° video: don Rinaldo Paganelli S.C.I.
– docente invitato di  catechetica presso la facoltà di Scienze dell’Educazione dell’UPS di Roma

Visualizza i video precedenti:

 

 

“Laudate Deum”, il grido del Papa per una risposta alla crisi climatica

Pubblicata l’esortazione apostolica di Francesco che specifica e completa l’enciclica del 2015.

 

«“Lodate Dio” è il nome di questa lettera. Perché un essere umano che pretende di sostituirsi a Dio diventa il peggior pericolo per sé stesso». Con queste parole si conclude la nuova esortazione apostolica di Papa Francesco, pubblicata il 4 ottobre, festa del Santo di Assisi. Un testo in continuità con la più ampia enciclica Laudato si’ del 2015. In 6 capitoli e 73 paragrafi il Successore di Pietro intende specificare e completare quanto già affermato nel precedente testo sull’ecologia integrale, e al tempo stesso lanciare un allarme e una chiamata alla corresponsabilità di fronte all’emergenza del cambiamento climatico, prima che sia troppo tardi. L’esortazione guarda in particolare alla COP28 che si terrà a Dubai tra fine novembre e inizi di dicembre. Il Pontefice scrive: «Con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura» e «non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie» (2). È una «delle principali sfide che la società e la comunità globale devono affrontare» e «gli effetti del cambiamento climatico sono subiti dalle persone più vulnerabili, sia in patria che nel mondo»

I segni del cambio climatico sempre più evidenti

Il primo capitolo è dedicato alla crisi climatica globale. «Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti» spiega il Papa. Che osserva come «negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra», una «malattia silenziosa che colpisce tutti noi». Inoltre Francesco afferma: «è verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano significativamente la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi». Il Pontefice, dopo aver ricordato che se si superano i 2 gradi di aumento della temperatura «le calotte glaciali della Groenlandia e di gran parte dell’Antartide si scioglieranno completamente, con conseguenze enormi e molto gravi per tutti» (5), a proposito di chi minimizza il cambiamento climatico, risponde: «quello a cui stiamo assistendo ora è un’insolita accelerazione del riscaldamento, con una velocità tale che basta una sola generazione – non secoli o millenni – per accorgersene». «Probabilmente tra pochi anni molte popolazioni dovranno spostare le loro case a causa di questi eventi» (6). Anche i freddi estremi sono «espressioni alternative della stessa causa» (7).

La colpa non è dei poveri

«Nel tentativo di semplificare la realtà – scrive Francesco – non mancano coloro che incolpano i poveri di avere troppi figli e cercano di risolvere il problema mutilando le donne dei Paesi meno sviluppati. Come al solito, sembrerebbe che la colpa sia dei poveri. Ma la realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei Paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita più della metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?» (9).

Il Papa mette a tema anche la posizione di chi dice che gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico riducendo l’uso di combustibili fossili «porteranno a una riduzione dei posti di lavoro». Ciò che sta accadendo, in realtà «è che milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico: l’innalzamento del livello del mare, la siccità e molti altri fenomeni che colpiscono il pianeta hanno lasciato parecchia gente alla deriva». Mentre «la transizione verso forme di energia rinnovabile, ben gestita» è in grado «di generare innumerevoli posti di lavoro in diversi settori. Per questo è necessario che i politici e gli imprenditori se ne occupino subito» (10).

Indubitabile origine umana

«L’origine umana – “antropica” – del cambiamento climatico non può più essere messa in dubbio» afferma Francesco. «La concentrazione dei gas serra nell’atmosfera… è rimasta stabile fino al XIX secolo… Negli ultimi cinquant’anni l’aumento ha subito una forte accelerazione» (11). Allo stesso tempo la temperatura «è aumentata a una velocità inedita, senza precedenti negli ultimi duemila anni. In questo periodo la tendenza è stata di un riscaldamento di 0,15 gradi centigradi per decennio, il doppio rispetto agli ultimi 150 anni… A questo ritmo, solo tra dieci anni raggiungeremo il limite massimo globale auspicabile di 1,5 gradi centigradi» (12). Con conseguente acidificazione dei mari e scioglimento dei ghiacci. La coincidenza fra questi eventi e la crescita di emissioni di gas serra «non può essere nascosta. La stragrande maggioranza degli studiosi del clima sostiene questa correlazione e solo una minima percentuale di essi tenta di negare tale evidenza». Purtroppo, osserva amaramente il Pontefice, «la crisi climatica non è propriamente una questione che interessi alle grandi potenze economiche, che si preoccupano di ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibili» (13).

Siamo appena in tempo per evitare danni più drammatici

«Sono costretto – continua Francesco – a fare queste precisazioni, che possono sembrare ovvie, a causa di certe opinioni sprezzanti e irragionevoli che trovo anche all’interno della Chiesa cattolica. Ma non possiamo più dubitare che la ragione dell’insolita velocità di così pericolosi cambiamenti sia un fatto innegabile: gli enormi sviluppi connessi allo sfrenato intervento umano sulla natura» (14). Purtroppo alcune manifestazioni di questa crisi climatica sono già irreversibili per almeno centinaia di anni, mentre «lo scioglimento dei poli non può essere invertito per centinaia o migliaia di anni» (16). Siamo dunque appena in tempo per evitare danni ancora più drammatici. Il Papa scrive che «alcune diagnosi apocalittiche sembrano spesso irragionevoli o non sufficientemente fondate», ma «non possiamo dire con certezza» ciò che accadrà (17).  È quindi «urgente una visione più ampia… Non ci viene chiesto nulla di più che una certa responsabilità per l’eredità che lasceremo dietro di noi dopo il nostro passaggio in questo mondo» (18). Ricordando l’esperienza della pandemia di Covid-19 Francesco ripete «Tutto è collegato e nessuno si salva da solo» (19).

Il paradigma tecnocratico: l’idea di un essere umano senza limiti

Nel secondo capitolo Francesco parla del paradigma tecnocratico che «consiste nel pensare come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia» (20) e «si nutre mostruosamente di sé stesso» (21) basandosi sull’idea di un essere umano senza limiti. «Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo… È terribilmente rischioso che esso risieda in una piccola parte dell’umanità» (23). Purtroppo, come insegna anche la bomba atomica, «l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza» (24). Il Papa ribadisce che «il mondo che ci circonda non è un oggetto di sfruttamento, di uso sfrenato, di ambizione illimitata» (25). Ricorda pure che noi siamo inclusi nella natura, e «ciò esclude l’idea che l’essere umano sia un estraneo, un fattore esterno capace solo di danneggiare l’ambiente. Dev’essere considerato come parte della natura» (26); «i gruppi umani hanno spesso “creato” l’ambiente» (27).

Decadenza etica del potere: marketing e falsa informazione

Abbiamo compiuto «progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza» (28). «La decadenza etica del potere reale è mascherata dal marketing e dalla falsa informazione, meccanismi utili nelle mani di chi ha maggiori risorse per influenzare l’opinione pubblica attraverso di essi». Grazie a questi meccanismi si convincono gli abitanti delle zone dove si vogliono realizzare progetti inquinanti illudendoli che si potranno generare delle opportunità economiche e occupazionali ma «non viene detto loro chiaramente che in seguito a tale progetto» resterà «una terra devastata» (29) e condizioni di vita molto più sfavorevoli. «La logica del massimo profitto al minimo costo, mascherata da razionalità, progresso e promesse illusorie, rende impossibile qualsiasi sincera preoccupazione per la casa comune e qualsiasi attenzione per la promozione degli scartati della società… Estasiati davanti alle promesse di tanti falsi profeti, i poveri stessi a volte cadono nell’inganno di un mondo che non viene costruito per loro» (31). Esiste «un dominio di coloro che sono nati con migliori condizioni di sviluppo» (32). Francesco li invita a chiedersi, «di fronte ai figli che pagheranno per i danni delle loro azioni», quale sia il senso della loro vita (33).

Politica internazionale debole

Nel capitolo successivo dell’esortazione il Papa affronta il tema della debolezza della politica internazionale, insistendo sulla necessità di favorire «gli accordi multilaterali tra gli Stati» (34). Spiega che «quando si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto, non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale» ma di «organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali». Che «devono essere dotate di una reale autorità per “assicurare” la realizzazione di alcuni obiettivi irrinunciabili» (35). Francesco deplora che «le crisi globali vengano sprecate quando sarebbero l’occasione per apportare cambiamenti salutari. È quello che è successo nella crisi finanziaria del 2007-2008 e che si è ripetuto nella crisi del Covid-19», che hanno portato «maggiore individualismo, minore integrazione, maggiore libertà per i veri potenti, che trovano sempre il modo di uscire indenni» (36). «Più che salvare il vecchio multilateralismo, sembra che oggi la sfida sia quella di riconfigurarlo e ricrearlo alla luce della nuova situazione globale» (37) riconoscendo che tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale. Il Papa cita il processo di Ottawa sulle mine antiuomo che mostra come la società civile crea dinamiche efficienti che l’ONU non raggiunge.

Inutili le istituzioni che preservano i più forti

Quello proposto da Francesco è «un multilateralismo “dal basso” e non semplicemente deciso dalle élite del potere… È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali» (38). Dopo aver riaffermato il primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza, Francesco spiega che «non si tratta di sostituire la politica, perché… le potenze emergenti stanno diventando sempre più rilevanti». «Proprio il fatto che le risposte ai problemi possano venire da qualsiasi Paese, per quanto piccolo, conduce a riconoscere il multilateralismo come una strada inevitabile» (40). È necessario dunque «quadro diverso per una cooperazione efficace. Non basta pensare agli equilibri di potere, ma anche alla necessità di rispondere alle nuove sfide e di reagire con meccanismi globali». Servono «regole universali ed efficienti» (42). «Tutto ciò presuppone che si attui una nuova procedura per il processo decisionale»; servono «spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore “democratizzazione” nella sfera globale, per esprimere e includere le diverse situazioni. Non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti» (43).

Le conferenze sul clima

Nel capitolo seguente Francesco descrive le diverse conferenze sul clima tenutesi fino ad oggi. Ricorda quella di Parigi, il cui accordo è entrato in vigore nel novembre 2016, ma «pur essendo vincolante, non tutti i requisiti sono obblighi in senso stretto e alcuni di essi lasciano spazio a un’ampia discrezionalità» (47), non sono previste sanzioni per gli obblighi non rispettati e mancano strumenti efficaci per farla osservare, non prevede sanzioni vere e proprie e non ci sono strumenti efficaci per garantirne l’osservanza. E «si sta ancora lavorando per stabilire procedure concrete di monitoraggio e fornire criteri generali per confrontare gli obiettivi dei diversi Paesi» (48). Il Papa accenna alla delusione per la COP di Madrid e ricorda che quella di Glasgow ha rilanciato gli obiettivi di Parigi, con molte “esortazioni”, ma «le proposte volte a garantire una transizione rapida ed efficace verso forme di energia alternativa e meno inquinante non sono riuscite a fare progressi» (49). La COP27 in Egitto del 2022 «è stata un ulteriore esempio della difficoltà dei negoziati» e anche se ha prodotto «almeno un progresso nel consolidamento del sistema di finanziamento per le “perdite e i danni” nei Paesi più colpiti dai disastri climatici» (51) anche su questo molti punti sono rimasti “imprecisi”. I negoziati internazionali «non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale. Quanti subiranno le conseguenze che noi tentiamo di dissimulare, ricorderanno questa mancanza di coscienza e di responsabilità» (52).

Cosa ci si aspetta dalla COP di Dubai?

Guardando alla COP28 Francesco scrive che «dire che non bisogna aspettarsi nulla sarebbe autolesionistico, perché significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti del cambiamento climatico» (53). «Non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente. Questa Conferenza può essere un punto di svolta» (54). Il Papa osserva che «la necessaria transizione verso energie pulite… abbandonando i combustibili fossili, non sta procedendo abbastanza velocemente. Di conseguenza, ciò che si sta facendo rischia di essere interpretato solo come un gioco per distrarre» (55). Non si può cercare soltanto un rimedio tecnico ai problemi, «corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare… mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare» (57).

Basta ridicolizzare la questione ambientale

Francesco chiede di porre fine «all’irresponsabile presa in giro che presenta la questione come solo ambientale, “verde”, romantica, spesso ridicolizzata per interessi economici. Ammettiamo finalmente che si tratta di un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli. Per questo si richiede un coinvolgimento di tutti». A proposito delle proteste dei gruppi radicalizzati, il Papa afferma che «essi occupano un vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana pressione, perché spetta a ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei propri figli» (58). Il Pontefice auspica che dalla COP28 emergano «forme vincolanti di transizione energetica» che siano efficienti, «vincolanti e facilmente monitorabili» (59). «Speriamo che quanti interverranno siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda. Possano così mostrare la nobiltà della politica e non la sua vergogna… Ai potenti oso ripetere questa domanda: “Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?”» (60).

Un impegno che scaturisce dalla fede cristiana

Infine il Papa ricorda che le motivazioni di questo impegno scaturiscono dalla fede cristiana, incoraggiando «i fratelli e le sorelle di altre religioni a fare lo stesso» (61). «La visione giudaico-cristiana del mondo sostiene il valore peculiare e centrale dell’essere umano in mezzo al meraviglioso concerto di tutti gli esseri». «Noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile» (67). «Questo non è un prodotto della nostra volontà, ha un’altra origine che si trova alla radice del nostro essere, perché Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda» (68). Ciò che conta, scrive Francesco è ricordare che «non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali, senza una maturazione del modo di vivere e delle convinzioni sociali, e non ci sono cambiamenti culturali senza cambiamenti nelle persone» (70). «Gli sforzi delle famiglie per inquinare meno, ridurre gli sprechi, consumare in modo oculato, stanno creando una nuova cultura. Il semplice fatto di cambiare le abitudini personali, familiari e comunitarie» contribuisce «a realizzare grandi processi di trasformazione che operano dal profondo della società» (71). Il Pontefice conclude la sua esortazione ricordando che «le emissioni pro capite negli Stati Uniti sono circa il doppio di quelle di un abitante della Cina e circa sette volte maggiori rispetto alla media dei Paesi più poveri». E afferma che «un cambiamento diffuso dello stile di vita irresponsabile legato al modello occidentale avrebbe un impatto significativo a lungo termine. Così, con le indispensabili decisioni politiche, saremmo sulla strada della cura reciproca» (72).

Coltivare una fede che trasforma. Manuale di catechetica fondamentale (rivisto e aggiornato)

Jerome Vallabaraj e Antony Christy Lourdunathan

Cultivating a Faith that Transforms A Handbook of Fundamental Catechetics (Revised and Updated)

Description

This book is envisaged as a handbook of fundamental or general catechetics an endeavour or an effort at a systematic reflection on the identity and the general conditions for implementation of the catechetical enterprise at present. Our chief interest is to create and form the mind-set of catechists and of those responsible for catechesis, and to provide useful and key elements for understanding and responding to questions that underlie the practice of catechesis. Keeping with the signs of the times, this volume, revised and updated, is an attempt to remould and promote an adequate understanding of the science of catechesis and to evolve a catechetical process that would lead to a renewed understanding of catechesis as truly essential for the transformation of the life of the Christian and the Christian community.

Coltivare una fede che trasforma. Manuale di catechetica fondamentale (rivisto e aggiornato)

Autori:

Jerome Vallabaraj e Antony Christy Lourdunathan

 

Descrizione

Questo libro si propone come un manuale di catechetica fondamentale o generale, uno sforzo o uno sforzo di riflessione sistematica sull’identità e sulle condizioni generali di attuazione dell’impresa catechetica attuale. Il nostro interesse principale è creare e formare la mentalità dei catechisti e dei responsabili della catechesi, e fornire elementi utili e chiave per comprendere e rispondere alle domande che stanno alla base della pratica della catechesi. Al passo con i segni dei tempi, questo volume, rivisto e aggiornato, è un tentativo di rimodellare e promuovere un’adeguata comprensione della scienza della catechesi e di sviluppare un processo catechetico che conduca a una rinnovata comprensione della catechesi come veramente essenziale per la trasformazione della vita del cristiano e della comunità cristiana.

Auguri alla nuova direzione Aica

Auguri alla nuova direzione AIca

Casarotto Giovanni, presidente

Borghi Stefano, segretario

Capetti Raffaello

Coha Giuseppe

Miscio Salvatore

 

nominata durante il Convegno Aica 2023 –  del ROMA 6-8 settembre 2023

Il ministero del catechista e i ministeri laicali
in una comunità sinodale. Realtà, percorsi formativi, trasformazioni verso li futuro

Alleghiamo il video di presentazione del Presidente AIca al nostro volume Fare Catechesi in Italia

 

 

 

Carissimi amici e amiche dell’AICa,

Nel nostro convegno associativo 2023 continueremo a riflettere sul rinnovamento della ministerialità ecclesiale alla luce dell’istituzione del ministero del catechista, in una Chiesa che sta tentando di riconfigurare le sue azioni fondamentali, tra cui la catechesi, in senso sempre più sinodale.

In questo secondo anno metteremo più risalto gli aspetti formativi collegati alla ministerialità ecclesiale. La prospettiva del convegno è ancora quella di mettere in dialogo apporti teorici interdisciplinari, esperienze in atto nel contesto italiano e competenze dei partecipanti al convegno, perché possiamo tutti arricchirci questa riflessione comune.

Mi preme ricordare che il primo giorno del convegno sarà dedicato all’elezione della nuova Direzione nazionale dell’AICa e quindi anche del nuovo Presidente. Decisamente un motivo in più per chiedervi di partecipare, sentendoci tutti coinvolti nel portare avanti la missione della nostra associazione, da tanti anni a servizio della catechesi in Italia.

don Francesco Zaccaria,
presidente AICa

 

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Per informazioni:

don Stefano Borghi (segretario AICa)
segreteria@c