Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2024
Cari fratelli e sorelle!
Quando il nostro Dio si rivela, comunica libertà: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). Così si apre il Decalogo dato a Mosè sul monte Sinai. Il popolo sa bene di quale esodo Dio parli: l’esperienza della schiavitù è ancora impressa nella sua carne. Riceve le dieci parole nel deserto come via di libertà. Noi li chiamiamo “comandamenti”, accentuando la forza d’amore con cui Dio educa il suo popolo. È infatti una chiamata vigorosa, quella alla libertà. Non si esaurisce in un singolo evento, perché matura in un cammino. Come Israele nel deserto ha ancora l’Egitto dentro di sé – infatti spesso rimpiange il passato e mormora contro il cielo e contro Mosè –, così anche oggi il popolo di Dio porta in sé dei legami oppressivi che deve scegliere di abbandonare. Ce ne accorgiamo quando ci manca la speranza e vaghiamo nella vita come in una landa desolata, senza una terra promessa verso cui tendere insieme. La Quaresima è il tempo di grazia in cui il deserto torna a essere – come annuncia il profeta Osea – il luogo del primo amore (cfr Os 2,16-17). Dio educa il suo popolo, perché esca dalle sue schiavitù e sperimenti il passaggio dalla morte alla vita. Come uno sposo ci attira nuovamente a sé e sussurra parole d’amore al nostro cuore.
L’esodo dalla schiavitù alla libertà non è un cammino astratto. Affinché concreta sia anche la nostra Quaresima, il primo passo è voler vedere la realtà. Quando nel roveto ardente il Signore attirò Mosè e gli parlò, subito si rivelò come un Dio che vede e soprattutto ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,7-8). Anche oggi il grido di tanti fratelli e sorelle oppressi arriva al cielo. Chiediamoci: arriva anche a noi? Ci scuote? Ci commuove? Molti fattori ci allontanano gli uni dagli altri, negando la fraternità che originariamente ci lega.
Nel mio viaggio a Lampedusa, alla globalizzazione dell’indifferenza ho opposto due domande, che si fanno sempre più attuali: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Il cammino quaresimale sarà concreto se, riascoltandole, confesseremo che ancora oggi siamo sotto il dominio del Faraone. È un dominio che ci rende esausti e insensibili. È un modello di crescita che ci divide e ci ruba il futuro. La terra, l’aria e l’acqua ne sono inquinate, ma anche le anime ne vengono contaminate. Infatti, sebbene col battesimo la nostra liberazione sia iniziata, rimane in noi una inspiegabile nostalgia della schiavitù. È come un’attrazione verso la sicurezza delle cose già viste, a discapito della libertà.
Vorrei indicarvi, nel racconto dell’Esodo, un particolare di non poco conto: è Dio a vedere, a commuoversi e a liberare, non è Israele a chiederlo. Il Faraone, infatti, spegne anche i sogni, ruba il cielo, fa sembrare immodificabile un mondo in cui la dignità è calpestata e i legami autentici sono negati. Riesce, cioè, a legare a sé. Chiediamoci: desidero un mondo nuovo? Sono disposto a uscire dai compromessi col vecchio? La testimonianza di molti fratelli vescovi e di un gran numero di operatori di pace e di giustizia mi convince sempre più che a dover essere denunciato è un deficit di speranza. Si tratta di un impedimento a sognare, di un grido muto che giunge fino al cielo e commuove il cuore di Dio. Somiglia a quella nostalgia della schiavitù che paralizza Israele nel deserto, impedendogli di avanzare. L’esodo può interrompersi: non si spiegherebbe altrimenti come mai un’umanità giunta alla soglia della fraternità universale e a livelli di sviluppo scientifico, tecnico, culturale, giuridico in grado di garantire a tutti la dignità brancoli nel buio delle diseguaglianze e dei conflitti.
Dio non si è stancato di noi. Accogliamo la Quaresima come il tempo forte in cui la sua Parola ci viene nuovamente rivolta: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). È tempo di conversione, tempo di libertà. Gesù stesso, come ricordiamo ogni anno la prima domenica di Quaresima, è stato spinto dallo Spirito nel deserto per essere provato nella libertà. Per quaranta giorni Egli sarà davanti a noi e con noi: è il Figlio incarnato. A differenza del Faraone, Dio non vuole sudditi, ma figli. Il deserto è lo spazio in cui la nostra libertà può maturare in una personale decisione di non ricadere schiava. Nella Quaresima troviamo nuovi criteri di giudizio e una comunità con cui inoltrarci su una strada mai percorsa.
Questo comporta una lotta: ce lo raccontano chiaramente il libro dell’Esodo e le tentazioni di Gesù nel deserto. Alla voce di Dio, che dice: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (Mc 1,11) e «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), si oppongono infatti le menzogne del nemico. Più temibili del Faraone sono gli idoli: potremmo considerarli come la sua voce in noi. Potere tutto, essere riconosciuti da tutti, avere la meglio su tutti: ogni essere umano avverte la seduzione di questa menzogna dentro di sé. È una vecchia strada. Possiamo attaccarci così al denaro, a certi progetti, idee, obiettivi, alla nostra posizione, a una tradizione, persino ad alcune persone. Invece di muoverci, ci paralizzeranno. Invece di farci incontrare, ci contrapporranno. Esiste però una nuova umanità, il popolo dei piccoli e degli umili che non hanno ceduto al fascino della menzogna. Mentre gli idoli rendono muti, ciechi, sordi, immobili quelli che li servono (cfr Sal 114,4), i poveri di spirito sono subito aperti e pronti: una silenziosa forza di bene che cura e sostiene il mondo.
È tempo di agire, e in Quaresima agire è anche fermarsi. Fermarsi in preghiera, per accogliere la Parola di Dio, e fermarsi come il Samaritano, in presenza del fratello ferito. L’amore di Dio e del prossimo è un unico amore. Non avere altri dèi è fermarsi alla presenza di Dio, presso la carne del prossimo. Per questo preghiera, elemosina e digiuno non sono tre esercizi indipendenti, ma un unico movimento di apertura, di svuotamento: fuori gli idoli che ci appesantiscono, via gli attaccamenti che ci imprigionano. Allora il cuore atrofizzato e isolato si risveglierà. Rallentare e sostare, dunque. La dimensione contemplativa della vita, che la Quaresima ci farà così ritrovare, mobiliterà nuove energie. Alla presenza di Dio diventiamo sorelle e fratelli, sentiamo gli altri con intensità nuova: invece di minacce e di nemici troviamo compagne e compagni di viaggio. È questo il sogno di Dio, la terra promessa verso cui tendiamo, quando usciamo dalla schiavitù.
La forma sinodale della Chiesa, che in questi anni stiamo riscoprendo e coltivando, suggerisce che la Quaresima sia anche tempo di decisioni comunitarie, di piccole e grandi scelte controcorrente, capaci di modificare la quotidianità delle persone e la vita di un quartiere: le abitudini negli acquisti, la cura del creato, l’inclusione di chi non è visto o è disprezzato. Invito ogni comunità cristiana a fare questo: offrire ai propri fedeli momenti in cui ripensare gli stili di vita; darsi il tempo per verificare la propria presenza nel territorio e il contributo a renderlo migliore. Guai se la penitenza cristiana fosse come quella che rattristava Gesù. Egli dice anche a noi: «Non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano» (Mt 6,16). Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.
Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività: il balenare di una nuova speranza. Vorrei dirvi, come ai giovani che ho incontrato a Lisbona la scorsa estate: «Cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo» ( Discorso agli universitari, 3 agosto 2023). È il coraggio della conversione, dell’uscita dalla schiavitù. La fede e la carità tengono per mano questa bambina speranza. Le insegnano a camminare e, nello stesso tempo, lei le tira in avanti. [1]
Benedico tutti voi e il vostro cammino quaresimale.
Roma, San Giovanni in Laterano, 3 dicembre 2023, I Domenica di Avvento.
FRANCESCO
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[1] Cfr Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milano 1978, 17-19.
Il poster realizzato per il Messaggio del Papa per la Quaresima 2024, con l’illustrazione dell’artista Mauro Pallotta (Maupal
I DOMENICA DI QUARESIMA
Prima lettura: Genesi 9,8-15
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra». Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne». |
- L’Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell’alleanza sinaitica, fino ai primordi della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico. Di fatti Noè, tramite suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in Abramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).
In realtà Dio aveva benedetto l’uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn 1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia ricomincia da capo. Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf. Gn 9,1), depone la sua ira anche se non l’ha mai avuta e torna amico dell’uomo e di tutti gli esseri del creato. Non farà più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.
Il Dio dell’antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c’è raccolta tutta la nuova umanità.
Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l’uomo è l’arcobaleno. C’era anche prima della comparsa di Noè, ma d’ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire. Ogni volta che apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza.
Seconda lettura: 1 Pietro 3,18-22
Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze. |
- La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo Testamento. Soprattutto il brano della liturgia odierna.
I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecuzioni che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si trovavano anche loro, i destinatari dello scritto petrino.
Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf. Mt 26,41). Morendo non ha fatto altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo «spirito» perciò spirituale. È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di «salire» nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di sopra degli stessi Principati e delle Potenze. Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.
Il potere di Gesù giudice, secondo l’autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua salvezza. A tal proposito l’autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol, nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.
I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell’antico Testamento, ma i contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale rifiuto furono puniti.
Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a determinarsi. Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio» che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico. Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e Catechismo, Paideia, 1999, p. 163).
Vangelo: Marco 1,12-15
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». |
Esegesi
Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa seguito un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con un pronunciamento programmatico.
Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima di mettersi all’opera ha bisogno di fare un po’ di chiarezza nel suo animo, di comprendere più a fondo il senso della chiamata che l’ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera più opportuna di darle esecuzione. Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l’ascolto della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.
Un profeta sembra che abbia una veste d’obbligo da indossare, un atteggiamento inconfondibile da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell’asprezza, come Giovanni dava a vedere. A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano rispondere all’agire divino più di quello della mitezza, dell’umiltà, del nascondimento, ma nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze. Un’immagine che a Gesù era stata fatta balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare. L’alternativa pertanto era tra il discendente davidico e il «servo di JHWH».
Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente. Dall’esperienza sinaitica il «deserto» era diventato il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio. Qui Mosè aveva parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a rinnovare l’intesa con l’Altissimo (cfr. Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23). Non per nulla Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito. Quindi si tratta di una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso. È un esame che egli dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull’attuazione che intende dargli.
I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia. In tutti i modi segnala la durata e ricorda il combattimento spirituale che Gesù ebbe a sostenere con Satana. Il numero «quaranta» è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una certa esperienza. Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant’anni nel deserto per verificare la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Nm 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40 giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni impiegano 40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco sinistro 40 giorni per scontare l’empietà d’Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).
Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per verificare la scelta compiuta. Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo «peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentabatur», si può dire iterativo, come a indicare che non fu una prova sporadica, ma persistente per tutto il tempo trascorso nel deserto. Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.
La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono all’Avversario del bene, a Satana. Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio noto ai suoi lettori. Per l’uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio. Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della sua opera, soprattutto la felicità dell’uomo. Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento, ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova esegesi. La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall’intimo di ciascun uomo e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene comune. Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta del padre. Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode, onerose, umilianti. Deve capirlo e soprattutto accettarlo.
Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menziona accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli». Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l’uomo era in pace con le fiere e godeva dell’amicizia di Dio (cfr. Is 11,6-9). Il «paradiso» si poteva considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf. Gv 1,51). Il Cristo si scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine conseguirà.
Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l’apertura dell’attività messianica di Gesù. Essa coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Battista. La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola con quella di alcun altro. Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono. Con lui si «compiono i tempi» dell’attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione della salvezza. E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio. Molti profeti l’hanno preceduto ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono di Dio. Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).
Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea. Un richiamo non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni. I fatti non si potevano smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l’avallo delle Scritture. Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitrariamente, a un detto di Isaia (8,23-9.1).
I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale condizione per accogliere l’uno e l’altro. Il «vangelo di Dio» è un’espressione propria di Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l’avvenuta realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni che si erano verificate nel tempo tra l’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro. Il tutto equivaleva all’instaurazione del regno di Dio. Non è che il Signore avviava un suo particolare dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo. Essi saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.
Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, riconoscere cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall’alto e conformare ad essa la propria condotta. La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.
Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi della divinità nei confronti dei propri simili. Il regno di Dio si realizza quando gli uomini tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio. Il regno porta la denominazione di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.
Meditazione
Nelle tre letture con cui la liturgia della Parola di questa prima domenica ci introduce nel tempo quaresimale (quel tempo che un antico inno chiama tempus acceptabile, tempo favorevole che deve essere accolto come momento di grazia nel cammino di conversione di ogni credente), c’è un forte richiamo al tema della alleanza, della comunione e della fedeltà di Dio all’uomo e al mondo che ha creato. Il segno dell’arco di Dio sulle nubi ricongiunge il cielo alla terra e ristabilisce quel legame interrotto dal peccato del primo uomo, Adamo. È una alleanza tra Dio e l’uomo e «con ogni essere che vive in ogni carne» (Gen 9,15).
Lo sguardo di speranza a cui l’arco sulle nubi orienta si spinge fino ad abbracciare ogni creatura e Dio stesso fissa il suo sguardo su questo segno di comunione per fare memoria della sua fedeltà: «Io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna… e non ci saranno più le acque… per distruggere ogni carne» (9,16.15).
La memoria dell’alleanza eterna assume nella storia della salvezza il volto di Gesù, il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo; nel racconto delle tentazioni Gesù si rivela come colui che, tentato nella sua carne di uomo, si affida totalmente alla parola del Padre e vince ogni idolatria, ristabilendo quell’armonia impressa da Dio nella sua creazione. La vittoria di Cristo sul male che tenta di distruggere ogni legame tra Dio e la sua creazione è radicale: raggiunge il luogo in cui questo male dimora, strappando da esso ogni creatura. La fedeltà di Dio all’uomo è così annunciata sino agli inferi (cfr. IPt 3,19-29). È il mistero pasquale del Cristo morto e risorto che la liturgia ci fa intravedere fin dall’inizio del cammino quaresimale; ma è il mistero a cui ogni credente partecipa mediante il battesimo, diventando segno di questa alleanza nuova ed eterna in Cristo.
Tra i tre testi scritturistici proposti dalla liturgia, certamente quello che maggiormente caratterizza la prima domenica di quaresima è il racconto delle tentazioni di Gesù. In questa prospettiva, l’icona cristologica che il racconto evangelico ci tratteggia è come uno squarcio sul cammino di sequela che il discepolo di Gesù è chiamato a rinnovare nel tempo quaresimale; collocare all’inizio di questo cammino il racconto delle tentazione, diventa allora un richiamo alla essenzialità e alla verità della propria scelta. Si è posti di fronte alla serietà dell’impegno battesimale, mediante la consapevolezza di ciò che quotidianamente comporta il vivere da figli in sintonia con la volontà del Padre; si è condotti dallo Spirito nel deserto per prendere coscienza di questa presenza misteriosa che guida i nostri passi ed educa la nostra libertà nelle scelte secondo Dio (il discernimento spirituale) ; si è invitati ad accogliere con umiltà la nostra debolezza, sapendo che essa è stata accolta e trasfigurata da Cristo stesso; si è messi in guardia da ogni forma di idolatria che intacca il servizio all’unico Signore e che rende la nostra vita divisa interiormente; si è educati a camminare pazientemente verso la Pasqua, accogliendo nel volto di Cristo tentato e nel volto di Cristo trasfigurato l’unica e inaudita bellezza del Dio che si dona all’uomo per strapparlo alla morte e comunicargli la vita.
Il ciclo delle letture dell’anno B ci presenta il racconto delle tentazioni secondo la versione di Marco. Lo scontro tra Gesù e lo spirito del male, narrato da Matteo e Luca attraverso una descrizione fortemente drammatica e mediante un martellante dialogo in cui si alternano le suggestioni diaboliche e i testi della Scrittura, è raccontato da Marco in due soli versetti. L’essenzialità della narrazione, spogliata di ogni elemento descrittivo, rende ancora più brusco il passaggio dalla esperienza di pienezza del battesimo (dopo aver udito la parola del Padre, «Tu sei il Figlio mio, l’amato», Gesù viene spinto «subito» nel deserto). E, d’altra parte, nei due versetti di Marco abbiamo tutti gli elementi necessari per definire questo ‘inaudito’ episodio del cammino di Gesù: lo Spirito che «lo sospinge nel deserto»; il deserto come luogo della prova; i quaranta giorni, come tempo di prova; la tentazione e il tentatore. Satana. In più Marco aggiunge: «(Gesù) stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano» (v. 13). Possiamo dire che in questa prospettiva il racconto diventa quasi una icona in cui ogni elemento acquista una portata simbolica, sia in rapporto a Gesù, sia in rapporto al lettore. Sottolineiamo alcuni elementi.
Anzitutto la collocazione dell’esperienza delle tentazioni tra il battesimo e l’inizio del ministero pubblico di Gesù appare significativa; diventa come lo squarcio iniziale di tutta la vicenda terrena di Cristo, il suo rapporto con il Regno e la sua relazione con quell’umanità di cui ha assunto totalmente la fragilità e la povertà. E qui possiamo anche comprendere, sotto un’altra angolatura, la collocazione delle tentazione subito dopo il battesimo. Al Giordano, Gesù si mescola ai peccatori che vanno da Giovanni per farsi battezzare; è appunto la solidarietà con l’uomo peccatore che si manifesta in modo drammatico proprio nel racconto delle tentazioni. Così collocata all’inizio del vangelo, l’esperienza del deserto appare non solo come il primo atto pubblico di Gesù (quasi un solenne ‘sì’ al Padre e all’uomo) , ma come il quadro entro il quale si svolgerà tutto il suo ministero, fino alla croce. Vediamo così che lo Spirito, donato al battesimo, non separa Gesù dalla storia e dalle sue ambiguità, dalle sue contraddizioni; al contrario, colloca Gesù all’interno della storia e all’interno della lotta che in essa si svolge. E proprio qui si rivela in profondità e nella totale trasparenza dalle ambiguità che affascinano l’uomo ciò che il Padre dice in Mc 1,11: «Tu sei il Figlio mio, l’amato». Inoltre, se teniamo presente la ricca simbologia biblica degli elementi del racconto (che ci rimanda al cammino di Israele nel deserto e all’ingresso nella terra promessa), allora possiamo scorgere nella successione battesimo – tentazioni nel deserto – proclamazione del Regno, una sorta di cammino in cui Gesù ripercorre la storia di Israele: passaggio attraverso le acque del Mar Rosso, permanenza nel deserto per quarant’anni, ingresso nella Terra promessa sotto la guida di Giosuè.
Pur nella loro scarna essenzialità descrittiva, i personaggi presentati da Marco ci rivelano ciò che avviene nell’esperienza della tentazione. Gesù è delineato come l’icona dell’uomo ‘spirituale’, che sa discernere secondo lo Spirito. E questo non perché è collocato in uno spazio immateriale e estraneo alla drammatica situazione umana, quasi sottratto alla fatica di ogni scelta o esente dalla prova, ma perché ci insegna a scegliere secondo Dio, donandoci i criteri per un reale discernimento ‘spirituale’. Gesù accetta la sfida della tentazione e attraverso di essa scopre in profondità la sua identità di Figlio di Dio, quel nome udito nella teofania del battesimo. Accanto a Gesù vi è la misteriosa presenza dello Spirito. È lui a condurre (a «sospingere», ekbalein) Gesù nel cuore stesso della lotta, nella solitudine del deserto, il luogo dell’esperienza della fragilità umana; qui, e non altrove, matura il discernimento e lo Spirito sta a fianco di Gesù in questo cammino, quasi a guidarlo per mano, facendosi presente nella forza della Parola donata come arma per combattere la suggestione diabolica (aspetto presente nei racconti di Luca e Matteo). E infine, di fronte a Gesù, vi è il tentatore, che Marco chiama Satana. Esso appare come la proposta alternativa alla parola di Dio, la contro-proposta subdola, affascinante, falsa, idolatrica, che abusa della debolezza dell’uomo, lo tenta nella sua carne per raggiungere il cuore. Satana vuole distruggere il rapporto confidenziale e obbedienziale tra uomo e Dio, presentare Dio come nemico dell’uomo, geloso della libertà e delle possibilità che gli sono offerte. E più l’immagine di Dio crea paura nell’uomo, più lo minaccia diventando ingombrante e soffocante, più il tentatore è sicuro della riuscita della sua opera: separare, creare un progetto contrario a Dio, illusorio, in cui l’uomo è schiavo del proprio idolo, vittima del suo «essere come Dio» (cfr. Gen 3,5).
Da questa esperienza Gesù non fugge: accettando la nostra umanità (e la fragilità di cui la tentazione è elemento costitutivo), in essa riporta la vittoria su ogni idolatria che mira a separare l’uomo da Dio. E Marco sottolinea, quasi visivamente, il frutto di questa vittoria: è l’armonia ristabilita tra il mondo creato e il mondo sovrumano, di cui Gesù, e in esso ogni uomo, è testimone.
Veramente «il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino». A noi non resta che entrare con Gesù in questo luogo di prova per lasciarci trasformare a sua immagine; non resta che accogliere l’invito «convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15).
L’immagine della domenica
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«L’anima fortunatamente
ha un interprete,
spesso inconsapevole,
ma fedele: lo sguardo».
(Charlotte Brontë)
Preghiere e racconti
Quaresima 2024
«Per vivere con serietà l’ascesi quaresimale, siamo invitati ad assumere tre impegni: la carità, che accorcia le distanze tra i fratelli e rende attenti alle necessità dei poveri; la preghiera, che nel frastuono ritaglia spazi di silenzio e irriga l’esistenza dell’uomo; il digiuno, che ordina i sensi e contribuisce a dare il giusto valore alle cose». Questa esortazione la scrive il segretario generale della CEI mons. Giuseppe Baturi nella Guida al tempo di Quaresima, che assieme ai relativi sussidi liturgici è stata curata dall’Ufficio Liturgico Nazionale con la collaborazione del Settore per l’Apostolato Biblico dell’Ufficio Catechistico Nazionale, del Servizio per la Pastorale delle Persone con Disabilità e di Caritas Italiana.
Nell’introduzione, dopo alcune coordinate storiche, una riflessione sulla riscoperta del battesimo ci parla di questo tempo «come segno sacramentale della nostra conversione, di ritorno al Signore contrassegnato da un intenso proposito spirituale, nel quale i battezzati sono chiamati a fare esperienza di Cristo e testimoniarlo con la vita». Il cammino di conversione che viene chiesto, però, «non può essere ristretto al solo aspetto morale, benché sempre importante», ma va percorso mediante opere di penitenza e soprattutto di carità. È un tempo esigente, dice il documento, «perché ci vorrà forza di speranza e di verità per poter riflettere sulla propria vita e decidere il cambiamento mediante la celebrazione del sacramento della Penitenza, che consentirà di rialzare lo sguardo verso lo splendore della Pasqua».
Dopo i prefazi quaresimali, preghiere che sgorgano dalla Parola di Dio e mettono in luce elementi che configurano l’esperienza cristiana della fede, la guida propone come cantare la Quaresima, puntando alla scelta testi «pertinenti teologicamente e degni da un punto di vista letterario, e allo stesso tempo comprensibili dalle assemblee a cui sono destinati», oltre che melodie semplici ed essenziali «per aiutare i fedeli a immergersi nel “digiuno” quaresimale». Infine, alcune parole sono dedicate a come vivere la Quaresima. In particolare, tra le pratiche per verificare il nostro cammino di fede c’è, insieme al digiuno e la preghiera, l’elemosina: «durante questa Quaresima chiediamo al Signore di convertire il nostro modo di “fare” elemosina, chiediamo il coraggio di avvicinarci al prossimo con gesti di gentilezza».
Dai sassi emerge la vita, crediamo nell’amore
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Nel giardino di pietre che è il deserto, nuovo spettrale giardino dell’Eden, Gesù vince il vecchio, spento sguardo sulle cose (le tentazioni) e ci aiuta a seminare occhi nuovi sulla vita. Que sueño el de la vita: sobre aquel abiso petreo! Che sogno quello della vita e sopra quale abisso di pietre (Miguel de Unamuno). Il deserto e il regno, la sterilità e la fioritura, la morte e la vita: i versetti di Marco dipingono nella prima pagina del suo vangelo i paesaggi del cuore dell’uomo.
Gesù inizia dal deserto: dalla sete, dalla solitudine, dall’angoscia delle interminabili notti. Sceglie di entrare da subito nel paesaggio della nostra fatica di vivere. Ci sta quaranta giorni, un tempo lungo e simbolico. Si fa umanità lungo le piste aride delle mie faticose traversate. In questo luogo di morte Gesù gioca la partita decisiva, questione di vita o di morte. Il Messia è tentato di tradire la sua missione per l’uomo: preferire il suo successo personale alla mia guarigione.
Resiste, e in quei quaranta giorni la pietraia intorno a lui si popola. Dai sassi emerge la vita. Una fioritura di creature selvatiche, sbucate da chissà dove, e presenze lucenti di angeli a rischiarare le notti. Da quando Gesù lo ha abitato, non c’è più deserto che non sia benedetto da Dio, dove non lampeggino frammenti scintillanti di regno. Il regno di Dio è simile a un deserto che germoglia la vita, un rimettere al mondo persone disgregate e ferite. Un’energia trasformativa risanante cova tra le pietre di ogni nostra tristezza, come una buona notizia: Dio è vicino convertitevi e credete nel Vangelo. Credete nell’amore. All’inizio di Quaresima, come ai tornanti della vita, queste parole non sono una ingiunzione, ma una promessa. Perché ciò che converte il cuore dell’uomo è sempre una promessa di più gioia, un sogno di più vita. Che Gesù racchiude dentro la primavera di una parola nuova, la parola generatrice di tutto il suo messaggio: il regno di Dio è vicino.
Il Regno di Dio è il mondo nuovo come Dio lo sogna, e si è fatto vicino da quando Dio è venuto ad abitare, con amore, il nostro deserto. Gesù non viene per denunciare, ma per annunciare, viene come il messaggero di una novità straordinariamente promettente. Il suo annuncio è un ‘sì’, e non un ‘no’: è possibile per tutti vivere meglio, vivere una vita buona bella beata come la sua.
Per raggiungerla non basta lo sforzo, devi prima conoscere la bellezza di ciò che sta succedendo, la grandezza di un dono che viene da fuori di noi. E questo dono è Dio stesso, che è vicino, che è dentro di te, mite e possente energia, dentro il mondo come seme in grembo di donna. E il suo scopo è farti diventare il meglio di ciò che puoi diventare.
(Ermes Ronchi)
“Convertitevi e credete nel Vangelo!”
Nel Il vangelo di questa I domenica di Quaresima è breve: quattro versetti, anche se in realtà mi concentrerò quasi esclusivamente sui primi due, avendo commentato i vv. 14-15 poche domeniche fa (III domenica del tempo Ordinario). I vv. 12-13 sono molto intensi, capaci di comunicarci l’essenziale sulle tentazioni di Gesù, anche se nel nostro immaginario è impressa, dunque da noi memorizzata, la narrazione più drammatica e più precisa dei vangeli secondo Matteo e Luca (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13).
Concentriamoci dunque sul racconto di Marco. Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano da Giovanni, il suo maestro, e nell’uscire dall’acqua ha visto i cieli aprirsi, lo Spirito di Dio scendere su di lui con la dolcezza di una colomba (cf. Mc 1,9-10) e, soprattutto, ha sentito una dichiarazione rivolta a lui solo. Dal cielo, infatti, dal luogo dimora di Dio, lo raggiunge una voce che proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho messo tutta la mia gioia” (Mc 1,11; cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1). È la voce del Padre, che gli conferma il proprio amore e la sua identità di Figlio amato; è la voce che lo abilita, con la forza dello Spirito, “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), alla missione pubblica tra i figli di Israele.
Ma appena questo è avvenuto, “subito” (euthýs) lo Spirito disceso su di lui lo spinge dove i cieli non sono aperti, bensì chiusi; lo spinge nel deserto, dove è presente più che mai il diavolo, Satana, il tentatore, la cui missione è dividere e separare, soprattutto da Dio. Gesù entra così in una zona d’ombra, entra nella prova, perché il deserto è terra di prova, di tentazione.
Lo era stato per Israele, “battezzato” e uscito dalle acque del mar Rosso; lo era stato per Mosè e per Elia; lo era stato per quanti erano andati nel deserto per preparare una strada al Signore (cf. Is 40,3), combattendo da “figli della luce” contro il demonio e la sua tenebra; lo era stato per Giovanni il Battista. Gesù dunque sta camminando sulle tracce lasciate dagli inviati di Dio, e in tal modo sa che deve prepararsi a quella che sarà la prova, la lotta quotidiana, fino alla morte. In quel deserto di Giuda, accanto al mar Morto, tra quelle rocce aride, Gesù “dimora quaranta giorni, continuamente tentato da Satana”.
La sua è una lotta corpo a corpo, della quale nessuno è spettatore; è una lotta interiore attraverso la quale deve imparare l’obbedienza del Figlio – “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), legge con intelligenza l’autore della Lettera agli Ebrei – e vincere il tentatore che si oppone alla venuta del Regno nel modo in cui Dio lo vuole e che Gesù deve assumere e fare suo, fino a rivestirsene. Marco non ci dice nulla di preciso su queste tentazioni che gli altri evangelisti, in una sorta di midrash, racconteranno come lotta contro le tre libidines dell’eros, della ricchezza e del potere, insomma lotta contro una manifestazione mondana, prepotente e arrogante del Regno.
L’evangelista più antico mette invece l’accento sul fatto che Gesù è costantemente tentato, per quaranta giorni, senza mai cedere a una visione trionfalistica della venuta del Regno. Pienamente sottomesso al Padre, creatura tra le creature non umane del deserto (rocce, pietre, arbusti, rettili, volatili, bestie selvagge), Gesù è in profonda comunione con tutta la creazione. È come collocato al centro di essa, è il vero Adamo come Dio l’ha voluto, capace di vivere riconciliato e in pace con tutte le creature e con tutta la terra.
Gesù appare come l’uomo mite, armonioso, rappacificato con il cielo e la terra, così da inaugurare l’era messianica profetizzata da Isaia: “Il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme … Il leone si ciberà di paglia come il bue, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso” (Is 11,6-8). Sì, è il Regno messianico promesso da Dio a tutta la terra, che certamente è veniente. Gesù lo inaugura nel deserto, per questo subito dopo può proclamare: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino”.
Ma occorre ricordare che questa “armonia” e questa “pace” sono a caro prezzo: il prezzo della kénosis, dello svuotamento e dell’abbassamento di colui che “era in condizione di Dio e svuotò se stesso (heautòn ekénosen)”, diventando uomo e spogliandosi delle sue prerogative divine, invece di tenerle gelosamente per se stesso e di considerarle un privilegio (cf. Fil 2,6-7). Proprio in questa profonda umiliazione, che è testimonianza della sua tentazione vera, reale (non un teatrino esemplare per noi!), Gesù fa pace tra cielo e terra, sicché le creature del cielo, gli angeli, nel deserto gli si accostano e lo servono. Lo riconoscono quale Dio nella carne di un uomo: Gesù da Nazaret, il figlio di Maria.
Gesù, amato in pienezza dell’amore del Padre dichiaratogli nell’ora del battesimo e accompagnato dallo Spirito santo, è ormai operante quale vincitore su Satana, sul male, sulla malattia, sulla morte. È il Messia veniente che porta la vita; basta dunque seguirlo, accogliendo il suo invito pressante che riassume in sé tutto il vangelo appena iniziato: “Convertitevi e credete nel Vangelo!”.
(Enzo Bianchi)
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2024
Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà
Cari fratelli e sorelle!
Quando il nostro Dio si rivela, comunica libertà: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). Così si apre il Decalogo dato a Mosè sul monte Sinai. Il popolo sa bene di quale esodo Dio parli: l’esperienza della schiavitù è ancora impressa nella sua carne. Riceve le dieci parole nel deserto come via di libertà. Noi li chiamiamo “comandamenti”, accentuando la forza d’amore con cui Dio educa il suo popolo. È infatti una chiamata vigorosa, quella alla libertà. Non si esaurisce in un singolo evento, perché matura in un cammino. Come Israele nel deserto ha ancora l’Egitto dentro di sé – infatti spesso rimpiange il passato e mormora contro il cielo e contro Mosè –, così anche oggi il popolo di Dio porta in sé dei legami oppressivi che deve scegliere di abbandonare. Ce ne accorgiamo quando ci manca la speranza e vaghiamo nella vita come in una landa desolata, senza una terra promessa verso cui tendere insieme. La Quaresima è il tempo di grazia in cui il deserto torna a essere – come annuncia il profeta Osea – il luogo del primo amore (cfr Os 2,16-17). Dio educa il suo popolo, perché esca dalle sue schiavitù e sperimenti il passaggio dalla morte alla vita. Come uno sposo ci attira nuovamente a sé e sussurra parole d’amore al nostro cuore.
L’esodo dalla schiavitù alla libertà non è un cammino astratto. Affinché concreta sia anche la nostra Quaresima, il primo passo è voler vedere la realtà. Quando nel roveto ardente il Signore attirò Mosè e gli parlò, subito si rivelò come un Dio che vede e soprattutto ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,7-8). Anche oggi il grido di tanti fratelli e sorelle oppressi arriva al cielo. Chiediamoci: arriva anche a noi? Ci scuote? Ci commuove? Molti fattori ci allontanano gli uni dagli altri, negando la fraternità che originariamente ci lega.
Nel mio viaggio a Lampedusa, alla globalizzazione dell’indifferenza ho opposto due domande, che si fanno sempre più attuali: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Il cammino quaresimale sarà concreto se, riascoltandole, confesseremo che ancora oggi siamo sotto il dominio del Faraone. È un dominio che ci rende esausti e insensibili. È un modello di crescita che ci divide e ci ruba il futuro. La terra, l’aria e l’acqua ne sono inquinate, ma anche le anime ne vengono contaminate. Infatti, sebbene col battesimo la nostra liberazione sia iniziata, rimane in noi una inspiegabile nostalgia della schiavitù. È come un’attrazione verso la sicurezza delle cose già viste, a discapito della libertà.
Vorrei indicarvi, nel racconto dell’Esodo, un particolare di non poco conto: è Dio a vedere, a commuoversi e a liberare, non è Israele a chiederlo. Il Faraone, infatti, spegne anche i sogni, ruba il cielo, fa sembrare immodificabile un mondo in cui la dignità è calpestata e i legami autentici sono negati. Riesce, cioè, a legare a sé. Chiediamoci: desidero un mondo nuovo? Sono disposto a uscire dai compromessi col vecchio? La testimonianza di molti fratelli vescovi e di un gran numero di operatori di pace e di giustizia mi convince sempre più che a dover essere denunciato è un deficit di speranza. Si tratta di un impedimento a sognare, di un grido muto che giunge fino al cielo e commuove il cuore di Dio. Somiglia a quella nostalgia della schiavitù che paralizza Israele nel deserto, impedendogli di avanzare. L’esodo può interrompersi: non si spiegherebbe altrimenti come mai un’umanità giunta alla soglia della fraternità universale e a livelli di sviluppo scientifico, tecnico, culturale, giuridico in grado di garantire a tutti la dignità brancoli nel buio delle diseguaglianze e dei conflitti.
Dio non si è stancato di noi. Accogliamo la Quaresima come il tempo forte in cui la sua Parola ci viene nuovamente rivolta: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). È tempo di conversione, tempo di libertà. Gesù stesso, come ricordiamo ogni anno la prima domenica di Quaresima, è stato spinto dallo Spirito nel deserto per essere provato nella libertà. Per quaranta giorni Egli sarà davanti a noi e con noi: è il Figlio incarnato. A differenza del Faraone, Dio non vuole sudditi, ma figli. Il deserto è lo spazio in cui la nostra libertà può maturare in una personale decisione di non ricadere schiava. Nella Quaresima troviamo nuovi criteri di giudizio e una comunità con cui inoltrarci su una strada mai percorsa.
Questo comporta una lotta: ce lo raccontano chiaramente il libro dell’Esodo e le tentazioni di Gesù nel deserto. Alla voce di Dio, che dice: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (Mc 1,11) e «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), si oppongono infatti le menzogne del nemico. Più temibili del Faraone sono gli idoli: potremmo considerarli come la sua voce in noi. Potere tutto, essere riconosciuti da tutti, avere la meglio su tutti: ogni essere umano avverte la seduzione di questa menzogna dentro di sé. È una vecchia strada. Possiamo attaccarci così al denaro, a certi progetti, idee, obiettivi, alla nostra posizione, a una tradizione, persino ad alcune persone. Invece di muoverci, ci paralizzeranno. Invece di farci incontrare, ci contrapporranno. Esiste però una nuova umanità, il popolo dei piccoli e degli umili che non hanno ceduto al fascino della menzogna. Mentre gli idoli rendono muti, ciechi, sordi, immobili quelli che li servono (cfr Sal 114,4), i poveri di spirito sono subito aperti e pronti: una silenziosa forza di bene che cura e sostiene il mondo.
È tempo di agire, e in Quaresima agire è anche fermarsi. Fermarsi in preghiera, per accogliere la Parola di Dio, e fermarsi come il Samaritano, in presenza del fratello ferito. L’amore di Dio e del prossimo è un unico amore. Non avere altri dèi è fermarsi alla presenza di Dio, presso la carne del prossimo. Per questo preghiera, elemosina e digiuno non sono tre esercizi indipendenti, ma un unico movimento di apertura, di svuotamento: fuori gli idoli che ci appesantiscono, via gli attaccamenti che ci imprigionano. Allora il cuore atrofizzato e isolato si risveglierà. Rallentare e sostare, dunque. La dimensione contemplativa della vita, che la Quaresima ci farà così ritrovare, mobiliterà nuove energie. Alla presenza di Dio diventiamo sorelle e fratelli, sentiamo gli altri con intensità nuova: invece di minacce e di nemici troviamo compagne e compagni di viaggio. È questo il sogno di Dio, la terra promessa verso cui tendiamo, quando usciamo dalla schiavitù.
La forma sinodale della Chiesa, che in questi anni stiamo riscoprendo e coltivando, suggerisce che la Quaresima sia anche tempo di decisioni comunitarie, di piccole e grandi scelte controcorrente, capaci di modificare la quotidianità delle persone e la vita di un quartiere: le abitudini negli acquisti, la cura del creato, l’inclusione di chi non è visto o è disprezzato. Invito ogni comunità cristiana a fare questo: offrire ai propri fedeli momenti in cui ripensare gli stili di vita; darsi il tempo per verificare la propria presenza nel territorio e il contributo a renderlo migliore. Guai se la penitenza cristiana fosse come quella che rattristava Gesù. Egli dice anche a noi: «Non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano» (Mt 6,16). Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.
Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività: il balenare di una nuova speranza. Vorrei dirvi, come ai giovani che ho incontrato a Lisbona la scorsa estate: «Cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo» (Discorso agli universitari, 3 agosto 2023). È il coraggio della conversione, dell’uscita dalla schiavitù. La fede e la carità tengono per mano questa bambina speranza. Le insegnano a camminare e, nello stesso tempo, lei le tira in avanti (Cfr Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milano 1978, 17-19).
Benedico tutti voi e il vostro cammino quaresimale.
Roma, San Giovanni in Laterano, 3 dicembre 2023, I Domenica di Avvento.
FRANCESCO
Il deserto nella città
Quando partii per il deserto avevo veramente lasciato tutto, com’è l’invito di Gesù: famiglia, denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno… le mie idee che avevo su Dio e che tenevo ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me laggiù.
E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in una idea e se avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui. Il mio maestro di noviziato mi continuava a dire: “Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti all’Eucarestia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare… contempla…”.
Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ancorato nelle mie idee.
Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare.
Mamma mia!
Lavorare nell’oasi con un caldo infernale non è facile! Mi sentivo distrutto. Quando tornavo in fraternità non ne potevo più. Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta.
Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca mi usciva solo qualche lamento.
L’unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà coi poveri, i veri poveri. Mi sentivo vicino a chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno durante l’estate.
Se per pregare era necessario un po’ di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino ad allora, era la preghiera dei ricchi, della gente comoda, ben pasciuta, che è padrona del suo tempo, che può disporre del suo orario. Non capivo più niente, meglio, incominciavo a capire le cose vere. Piangevo! […] E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io feci la scoperta più importante della mia vita di preghiera. Volete conoscerla?
La preghiera passa nel cuore, non nella testa. […] Il dolore accettato per amore era come una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose. Ho intuito la stabilità di Dio.
Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa. Il dono che Dio fa di sé a chi gli offre la vita come dice il Vangelo: “Chi perde la sua vita la troverà” (Matteo 10,39).
(Carlo CARRETTO, Il deserto nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1986, 29-33).
Le due vite
L’ansia, lo stress, la contemplazione, l’abbondanza di pesticidi e di prodotti tossici hanno snaturato i cicli biologici della nostra vita. La ricca, supertecnologica, superlibertaria società occidentale è arrivata al capolinea. È una società fatta di esseri disperati che vagano in un deserto popolato di oggetti e hanno in mente un solo concetto: il diritto alla felicità. Dove felicità significa, soprattutto, pieno assolvimento dei desideri, dei sogni, delle istanze di quella cosa piccola e spesso confusa che si chiama ego. E questa felicità è sempre qualcosa che deve ancora venire e che verrà, sempre e comunque, da qualcosa di esterno. […] Quello che la società ha fatto dimenticare a tutti è che la ricchezza della vita umana si manifesta nelle relazioni – e nella capacità di fare progetti, di superare ostacoli. La nostra mente, col suo vortice continuo di parole, col suo saper costruire concetti sempre più complessi, ha cancellato la verità fondante della vita, la più semplice: ogni essere umano ha bisogno di essere accolto, amato e di amare.
(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 14-16)
Quaresima!
Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell’inverno,
prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera,
tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore
e ci inviti a percorrere l’itinerario della Quaresima.
Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri,
ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.
Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera
un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.
Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno,
di avvertire quella fame profonda
che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia,
da tante brame che attraversano la nostra esistenza.
Strada antica, quella della Quaresima,
sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.
Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo,
con audacia e con gioia,
perché è un percorso di liberazione,
che ci conduce a sperimentare
la forza e la bellezza della Pasqua.
Deserto
«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b‑5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,8‑15). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1‑2). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1‑14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19‑24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa‑Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alleanza nuziale…
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11‑12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!
Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».
(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).
Soli nel deserto
Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre. Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire. Quando mia madre offre degli amaretti di Ladurée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgranocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.
Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139)
Il deserto
Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo Spirito quando si ritirò nella solitudine. Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la violenza della persecuzione si attenui. Non sto parlando in primo luogo del deserto dei monaci, ma di quello dei cristiani. Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chiamato e abilitato dalla grazia. Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza addossata al deserto: essa vive in situazione di diaspora oggi più che mai. Noi tutti siamo come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sappiamo trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore. Ma nel contempo, ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profonda povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra difesa.
(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp. 9-20).
«Fuggi, taci e prega»
Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell’imperatore Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio. Quando era ancora a corte, l’abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato». Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto. Indicano i tre modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.
(H.J.M. NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).
Preghiera
Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.
È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.
Sono ancora così diviso!
Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza.
Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.
So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.
La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita.
Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni.
Non vi sono tempi o luoghi senza scelte.
E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.
Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.
Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.
Amen.
(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi, Chinellato.
PER L’APPROFONDIMENTO:
GIORNALISMO E RELIGIONI: corso di aggiornamento
Portiamo a vostra conoscenza il Corso di Aggiornamento in programma a partire dal prossimo 24 febbraio 2024:
GIORNALISMO E RELIGIONI
(20 ORE IN PRESENZA E ONLINE)
Docente: Prof.ssa Cristina Uguccioni, giornalista professionista
Interverranno:
Dott. Fabrizio Mastrofini, giornalista professionista (2 ore)
Prof. Pierangelo Sequeri, teologo (2 ore)
Prof.ssa Mariapia Veladiano, scrittrice (2 ore)
OBIETTIVI PRINCIPALI DEL CORSO
Offrire una formazione teorica e tecnica in materia di informazione religiosa a quanti, a vario titolo, lavorano nell’ambito della comunicazione; proporre agli insegnanti di religione e di altri ambiti disciplinari alcune competenze specifiche, anche tecniche, per affrontare sotto diversi aspetti il tema della informazione relativa alle diverse religioni.
A questo scopo saranno presi in esame argomenti quali, ad esempio: i doveri e le peculiarità del buon giornalista, la ricerca delle notizie religiose, le fonti per le diverse religioni, come la scuola aiuta a capire le notizie religiose, il corretto uso del linguaggio, notizie religiose e social media, notizie religiose e fake news, i modi per relazionarsi con i media.
sabato mattina 9.30 – 11.10
Calendario: 24 febbraio; 2, 9, 16, 23 marzo; 13, 20 aprile; 4, 11, 18 maggio 2024
Per la domanda di iscrizione:
https://www.issrmilano.it/2023/12/14/dfp-corsi-di-aggiornamento-a-a-2023-24/
V DOMENICA TEMPO ORDINARIO
Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7
Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene». |
- Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è destinato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).
Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al versetto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope. Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili. Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fondamentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dall’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui. Il «vedere» di Giobbe e di Dio.
Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente alternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio. «L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1). Il paragone della vita è il servizio militare (cf. Gb 14,14) duro, senza possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato. A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf. Gb 14,6) e lo schiavo. La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf. Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dallo schiavo (Gb 7,2). Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).
Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti. Egli insiste sull’insonnia. La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica. Le ore della notte sembrano interminabili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo conforto. La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf. 3,6, 9,25).
Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf. 19,20; Ab 3,16). La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo. Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio, come il responsabile ultimo della vita. A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita umana. Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, perché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale. Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10). L’immagine del vedere è molto insistente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).
Seconda lettura: 1 Corinzi 9,16-19.22-23
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. |
- Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense materiali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa. Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire. Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».
Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi. E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce. Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf. 1Ts 2.9).
Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predicare. Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, senza nessuna imposizione. Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno. Paolo dunque proclama di essersi messo in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto delle loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22). Il Vangelo non va predicato e basta. Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo accettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).
Vangelo: Marco 1,29-39
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni. |
Esegesi
La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guarigione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf. Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf. Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf. Mt 4,23).
Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo familiare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.
Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf. 1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.
Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione. I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suocera, che del resto rimane nell’anonimato.
Il verbo puresso, avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.
Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano». In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda alla febbre di lasciarla.
La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre. Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.
Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».
Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neutro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».
«Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.
Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due termini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».
Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34). È ricorrente in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità. Vengono tacitati i demoni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37). Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9). Soltanto con la risurrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente. Tale teoria risale a W. Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formulata da questo autore.
Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo. Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare. Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35). Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la preghiera di Gesù. Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21). Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12). Mentre è un’altra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf. Lc 9, 28-29). A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).
Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che seguiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio. Possiamo pensare, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’opera finora compiuta secondo il volere del Padre. Tale opera è predicare. I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf. Mc 1,15).
Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).
«E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf. 1,34; 7,29; 16,9). È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predicazione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno della vicinanza del regno di Dio (cf. Mt 12,28).
Meditazione
L’evangelista Marco apre il suo Vangelo narrando la prima giornata di Gesù a Cafarnao. È come una giornata tipo di Gesù. E ci appare subito molto diversa dalle nostre giornate, segnate spesso dalla monotonia, dalla tristezza, dalla banalità, e talora dal nonsenso. Altre volte invece è la durezza e la drammaticità della vita a prendere il sopravvento. E sentiamo vere anche per noi le parole scritte nel libro di Giobbe: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario?» (Gb 7,1). Se poi il nostro sguardo si allarga verso coloro che sono più direttamente toccati dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla malattia e dalla guerra, il lamento di Giobbe assume un valore ancor più tragico: «A me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: quando mi alzerò? La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba… Ricordati che un soffio è la mia vita; il mio occhio non rivedrà più il bene» (7, 6-7). La vita degli uomini è davvero dura, ci dice questo brano della Scrittura. Lo constatiamo soprattutto di questo tempo, in cui la crisi economica colpisce tanti, soprattutto i più poveri. Ebbene, la «giornata di Cafarnao», potremmo dire, quella che oggi ci è stata annunciata dal Vangelo, entra dentro le nostre giornate per infondervi forza ed energia, quasi come il lievito che messo nella pasta la fermenta tutta.
Dopo aver scacciato uno spirito impuro da un poveretto mentre si trovava nella sinagoga di Cafarnao, Gesù si reca nella casa di Simone e Andrea, dove probabilmente come altre volte cercava un po’ di tranquillità e di pace. Ma non fa in tempo ad entrare in casa che subito gli prospettano un caso: la suocera di Simone è febbricitante. Senza frapporre tempo Gesù si avvicina a lei e la guarisce; non dice nessuna parola, neppure una preghiera, la prende per mano e la fa alzare. E una narrazione semplice che contiene però tutta la forza vittoriosa di Gesù contro il male. Non è solo un caso che l’evangelista per indicare la guarigione della donna usi lo stesso verbo che usa per la resurrezione di Gesù (Mc 16,6). La risposta della donna — «essa li serviva» — non è un semplice gesto di grata cortesia, ma la «diaconia» (questo è il verbo usato per indicare quello che la donna si è messa a fare), ossia il servizio al Signore e ai fratelli. In questa guarigione sono in certo modo presen-ti tutte le altre, sia quelle che Gesù farà nel corso della sua vita terrena sia quelle dei discepoli di allora e di ogni tempo. Infatti, subito l’evangelista allarga la scena e passa dalla guarigione di una singola persona alle guarigioni di tanti. Non siamo più nella casa di Simone, ma alla porta della città. In un giorno Gesù è entrato in ogni luogo di vita: la sinagoga, luogo della preghiera, la casa, la porta della città, luogo dell’incontro. Il Vangelo di Gesù non ha confini. Egli va ovunque, non solo da coloro che se lo aspettano o che lo conoscono. Gesù è venuto a lottare contro il male, contro ogni tipo di male, sia fisico che mentale-psichico, con la su parola e la sua opera. Emerge già qui, nella prima pagina del Vangelo, e così deve essere nella vita della Chiesa, quella «compassione» per i deboli, per i malati, per i poveri, per le folle stanche e sfinite di cui spesso sentiremo parlare nei Vangeli delle prossime domeniche e che riassume in certo modo tutta la missione di Gesù.
Viene spontaneo pensare ai milioni di persone colpite dalla guerra, dalla fame che vagano cercando una porta a cui bussare, e constatare con indicibile tristezza che sempre più spesso il loro durissimo pellegrinaggio è stroncato dalla ferrea chiusura di tutte le porte delle case degli uomini. E come non pensare anche alle porte delle nostre chiese par-rocchiali e chiedersi: sono le loro porte come quella della casa di Cafarnao? Riescono le nostre chiese ancora a radunare davanti a sé tutta la città? e se, come più spesso accade, sono approdo di speranza per poveri e disperati sanno, quelle porte, aprirsi per consolare e guarire? come vengono trattati quei mendicanti che si fermano davanti alle porte per chiedere l’elemosina?
E c’è anche un altro interrogativo che ci riguarda personalmente: non siamo noi tutti, chi in un modo chi un altro, tutti malati? San Girolamo, commentando questo brano evangelico, non esita a dire che ciascuno di noi è malato, febbricitante: «Quando sono colto dall’ira, ho la febbre; anzi, ogni vizio è febbre». Tutti siamo malati e febbricitanti, quindi bisognosi di affollarci davanti alla porta della casa del Signore. E il Vangelo non sembra neppure chiedere una particolare chiarezza di coscienza. Tutta quella folla non sapeva bene cosa ci fosse dietro quella porta, ma certo aveva riposto solo in quel luogo la sua speranza; del resto tutte le altre porte erano rimaste chiuse. Ora in tanti speravano che di lì uscisse un aiuto, qualcuno che li sollevasse dalla condizione triste in cui versavano. L’evangelista dice che Gesù ne guarì molti. E quando tutti erano andati via, guariti e rincuorati, Gesù continuò la sua giornata. Noi ci saremmo forse ritirati stanchi ma orgogliosi e soddisfatti. Gesù uscì e si recò in un luogo appartato, per pregare. Quel momento era, in verità, il culmine e la fonte di tutte le sue giornate, di tutto ciò che faceva. Era la sua prima e fondamentale opera. E possiamo allora immaginare la preghiera notturna di Gesù dopo che, per un giorno intero, aveva toccato con mano le angosce e le speranze di tanta gente. L’intimità con il Padre non era una fuga dal mondo e dalla vita per godersi finalmente un po’ di tranquillità, che pure sarebbe stata ben meritata. Molto più verosimilmente tali incontri erano colloqui appassionati (forse anche drammatici) tra il Figlio e il Padre sulla missione che aveva ricevuto, sulle condizioni del mondo, sulla salvezza di tutti coloro che Gesù aveva incontrato e su quella degli altri che avrebbe dovuto e voluto incontrare ancora. Questo può spiegare la sua reazione quando i discepoli, dopo averlo raggiunto, gli dicono che tutti lo cercano: «Andiamocene altrove, — risponde — nei villaggi vicini, perché io predichi anche là». Gesù non si ferma in una sola casa, in un solo gruppo, in un clan, in una sola nazione; e non esce da una sola porta. Egli vuole visitare tutte le case e tutte le città, perché ovunque c’è bisogno del Vangelo. E vuole che i discepoli, di ieri e di oggi, non si chiudano in una sterile autoreferenzialità, ma sentano l’urgenza di continuare a comunicare il vangelo ovunque nel mondo.
Lo capì bene Paolo: «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!». La comunicazione del Vangelo è una responsabilità da sempre affidata ad ogni singolo credente e ad ogni singola comunità cristiana. E forse è proprio questa responsabilità la medicina che ci fa alzare dalle febbri dell’egocentrismo e che ci permette di aiutare e guarire chiunque ha bisogno di salvezza. Una Chiesa senza missione, senza annuncio del Vangelo, è una Chiesa autoreferenziale, che parla sempre di se stessa e a se stessa, ed è destinata ad inaridirsi. Quel «guai» non è una minaccia, ma un monito sì, perché nella Bibbia il «guai» è usato per i lamenti funebri. Una comunità che non vive la passione missionaria, si celebra già il suo funerale. Paolo lo sapeva bene, perché aveva esperimentato su di sé la forza del vangelo del Signore morto e risorto. Per questo l’apostolo «si è fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno». Questa fu la sua vita, che per noi rimane una domanda e una sfida.
L’immagine della domenica
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«Il nostro vero problema è che siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto».
(G. Vannucci)
Preghiere e racconti
Il nascondimento di Dio
«Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso! ” Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità. E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza».
(BENEDETTO XVI, Meditazione dopo l’atto di venerazione della Sindone, in BENEDETTO XVI et al., Icona del Sabato Santo, 14-15).
Non passate oltre davanti alla sofferenza umana
«Cari giovani, che l’amore di Dio per noi aumenti la vostra gioia e vi spinga a rimanere vicini ai meno favoriti.
Voi che siete molto sensibili all’idea di condividere la vita con gli altri, non passate oltre davanti alla sofferenza umana, dove Dio vi attende affinché offriate il meglio di voi stessi: la vostra capacità di amare e di compatire. Le diverse forme di sofferenza che, lungo la Via Crucis, sono sfilate davanti ai nostri occhi sono chiamate del Signore per edificare la vita seguendo le sue orme e fare di noi i segni della sua consolazione e salvezza. «Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso». Auspico che sappiamo accogliere queste lezioni e metterle in pratica. Volgiamo lo sguardo perciò a Cristo, appeso sul ruvido legno, e chiediamogli che ci insegni questa sapienza misteriosa della croce, grazie alla quale l’uomo vive».
(Viaggio apostolico di sua santità Benedetto XVI a Madrid (Spagna) in occasione della XXVI Giornata mondiale della gioventù (18-21 agosto 2011). Via crucis con i giovani nella Plaza de Cibeles – Madrid, 19 agosto 2011).
Dio si avvicina con amore e guarisce la vita
Marco presenta il resoconto della giornata-tipo di Gesù, una cronaca dettagliata delle sue fondamentali attività quotidiane: guarire, pregare, annunciare. Guarire. E vediamo come il suo agire prenda avvio dal dolore del mondo: tocca, parla, prende per mano, guarisce. Come il primo sguardo di Gesù si posi sempre sulla sofferenza delle persone, e non sul loro peccato. E la porta della piccola Cafarnao scoppia di folla e di dolore e poi di vitalità ritrovata.
Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, il collaudo del Regno, il laboratorio del mondo nuovo: mostra che è possibile vivere meglio, per tutti, e Gesù ne possiede la chiave. Che un altro mondo è possibile e vicino. Che il regno di Dio viene con il fiorire della vita in tutte le sue forme. La suocera di Simone era a letto con la febbre, e subito gli parlarono di lei.
È bello questo preoccuparsi degli apostoli per i problemi e le sofferenze delle persone care, e metterne a parte Gesù, come si fa con gli amici. Non solo la gratuità, quindi, ma anche tutto ciò che occupa e preoccupa il cuore dell’uomo può e deve entrare, a pieno titolo, nel dialogo con Dio nella preghiera.
Gesù ascolta e risponde: si avvicina, si accosta, va verso il dolore, non lo evita, non ha paura. E la prese per mano. Mano nella mano, come forza trasmessa a chi è stanco, come a dire “non sei più sola”, come un padre o una madre a dare fiducia al figlio bambino, come un desiderio di affetto. Chi soffre chiede questo: di non essere abbandonato da chi gli vuole bene, di non essere lasciato solo a lottare contro il male.
E la fece alzare. È il verbo della risurrezione. Gesù alza, eleva, fa sorgere la donna, la riaffida alla sua statura eretta, alla fierezza del fare, alla vita piena e al servizio: per stare bene l’uomo deve dare! Mano nella mano, uomo e Dio, l’infinito e il mio nulla, e aggrapparmi forte: per me è questa l’icona mite e possente della buona novella.
Pregare. Mentre era buio, uscì in un luogo deserto e là pregava. Gesù, pur assediato dalla gente, sa inventare spazi. Di notte! Quegli spazi segreti che danno salute all’anima, a tu per tu con Dio, a liberare le sorgenti della vita, così spesso insabbiate.
Annunciare. I discepoli infine lo rintracciano: tutti ti cercano! E lui: Andiamocene nei villaggi vicini, a predicare anche là. Gesù non cerca il bagno di folla, non si esalta per il successo di Cafarnao, non si deprime per i fallimenti che incontra. Lui avvia processi, inizia percorsi, cerca altri villaggi, altre donne da rialzare, orizzonti più larghi dove poter compiere il suo lavoro: essere nella vita datore di vita, predicare che il Regno è vicino, che «Dio è vicino, con amore, e guarisce la vita».
(Ermes Ronchi)
La malattia diviene pertanto, in una prospettiva di fede, un possibile luogo di vangelo
Il confronto con la malattia, con il proprio corpo malato (Giobbe) e con i corpi segnati da malattia di altri uomini e donne (Gesù): questo il tema che unifica la pagina di Giobbe e quella evangelica. E anzitutto emerge la legittimità del linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell’uomo quando si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio la propria rabbia.
Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà aggressività verso i suoi amici che si rivelano in realtà nemici, “medici da nulla”, ma non conforma il proprio discorso a quello teologicamente corretto dei suoi amici. Giobbe osa esprimere ciò che sente. E Dio stesso, dirà Gb 42,8, gradisce maggiormente le sue invettive che le prediche dei suoi amici. Vi è una legittimità per il malato, nella sua sofferenza, di esprimere una reazione anche di collera, anche irrazionale.
In verità, quell’urlo è la maniera con cui il malato cerca di dirsi nella malattia, cerca di esprimere ciò che sta avvenendo alla propria vita. Ed è un momento positivo e vitale in quanto è il primo passo di un possibile cammino di guarigione, o quanto meno di assunzione della malattia: il malato lotta, chiede “perché?”, inveisce, non si rassegna, non la dà vinta al male.
Questa presa di parola di fronte al male che invade il proprio corpo non va soffocata da chi sta accanto al malato con esortazioni al silenzio o a “non dire così” o a non disturbare, ma va accolta come un momento importante del faticoso processo di assunzione della crisi esistenziale introdottasi nella vita dell’uomo. Come dice ancora Giobbe: “Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente” (Gb 6,14); “per il malato c’è la pietà degli amici, anche quando Dio si mette contro di lui” (Gb 19,21).
L’incontro di Gesù con i malati, presentato nella pagina evangelica anche mediante un sommario che parla dell’attività di cura e di guarigione dei sofferenti come di un’attività consueta di Gesù (cf. Mc 1,32-34), è istruttivo per il discorso spirituale cristiano circa malattia e sofferenza. Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute all’uomo.
Egli si presenta come “medico” (Mc 2,17), attualizzando in sé la potenza del Dio il cui nome è “Colui che ti guarisce” (Es 15,26). E soprattutto l’attività di cura e guarigione che Gesù compie sta all’interno della finalità prima della sua missione: “predicare il vangelo” (cf. Mc 1,38; 1,14), annunciare il Regno di Dio: le guarigioni operate da Gesù appaiono così vangelo in atti e profezia del Regno di Dio. La malattia diviene pertanto, in una prospettiva di fede, un possibile luogo di vangelo.
Gesù non si lascia travolgere dalle folle che vogliono guarigioni, ma cerca e trova spazio e tempo di solitudine e di silenzio per pregare. E sa porre un limite all’attività, sa dire dei no, non si lascia sedurre dal fatto che “tutti lo cercano”. Gesù si rifiuta di divenire un fornitore di prestazioni terapeutiche e sa anche sottrarsi alle richieste che provengono dalla gente.
I gesti che egli compie sono sacramentali, sono trasparenza dell’azione divina, nella misura in cui egli vive la sua missione non tanto cercando di soddisfare i bisogni di coloro cui è inviato, quanto nutrendo la relazione con colui che l’ha inviato. Per questo Gesù prega e rivendica il primato dell’annuncio della parola sull’operare il bene che pure è una caratteristica del suo agire (cf. At 10,38). Del resto: da dove attinge Gesù la sua forza? Da dove attinge la pazienza, la dedizione, l’abnegazione, lo spendersi? Da dove, se non dalla relazione nutrita quotidianamente con il Padre?
(Luciano Manicardi)
Amare le domande, vivere le risposte
Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato. A questo proposito, rileggo spesso il consiglio del poeta Rainer Maria Rilke:
“..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle. Il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora. Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.
(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).
Diventare l’amato – Spezzato
La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a distanza, ignorarla, aggirarla o negarla. La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non dovrebbe esserci. È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.
Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se favorirla può sembrare a prima vista masochismo. Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore. Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “essere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa. Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.
(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).
Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese
Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.
Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.
La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.
“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in un’intervista telefonica. “Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.
Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.
Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.
Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura. “Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per contribuire alla società”.
Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.
La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006. Il porporato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.
“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’. Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato. “Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.
“Ora penso ‘Perché non io?’. Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.
Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.
Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.
(Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina. Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946. E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955. E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991. Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006).
La prospettiva della sofferenza e della morte
Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speranza di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.
Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà. È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare. Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi. Gesù è il «Dio che soffre con noi». Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologicamente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario. Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non esporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri. È per questo che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica meglio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.
L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare queste sofferenze in un mezzo di liberazione. Probabilmente conosci bene le obiezioni sollevate da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio. Come può Dio amare davvero il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inutile?
I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivide le loro sofferenze. In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà. E loro compagno nella sofferenza. Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino. Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta. È solidale con loro. Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.
(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).
«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano»
Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39). Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto. E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amorevolmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).
Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).
È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento. Anzi, non solo torna la salute, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata. Per dirla con linguaggio figurato, le membra che avevano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf. Rm 6,19).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang. Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commento al Vangelo di Marco. Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol. 1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p. 61-63).
Dammi coraggio
Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.
Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.
Non darmi alleati nella lotta della vita… eccetto la forza che mi proviene da te.
Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.
Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo;
ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.
Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone;
quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita,
bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.
Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.
Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta:
i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.
(Rabindranath Tagore)
Preghiera per il servizio
Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo. Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia. Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza. Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
o serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER L’APPROFONDIMENTO:
IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO
Prima lettura: Deuteronomio 18,15-20
Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”». |
- Tutta la fede biblica è fondata sulla parola di Dio, feconda come la pioggia e la neve (cf. Is 55,10-11). Ed è di sempre il problema che essa sia autentica ed efficace. La prima lettura riporta il passo del Deuteronomio che fa risalire a Mosè l’origine dei profeti, gli inviati di Dio a portare la sua parola, e che ha suscitato pure l’attesa del Messia come profeta. Il discorso è in bocca a Mosè che parla a Israele, al di là del Giordano di fronte a Gerico, sul modo di comunicare con Dio.
Nei versetti che precedono il brano liturgico (Dt 18,9-14), egli esclude perentoriamente che possa farlo l’uomo, perché i suoi mezzi sono del tutto inadeguati e falsi. Sacrifici umani, divinazione, sortilegio, magia, evocazione dei morti, spiritismo, indovini, incantatori, ecc. sono un «abominio» davanti a Dio. Solo Dio può comunicare con l’uomo in modo autentico.
Ecco allora la promessa, che risponde alla richiesta già fatta dagli Israeliti al Sinai: dopo Mosè, Dio stesso continuerà a parlare ad Israele, mediante la figura del profeta, del quale tratteggia così le caratteristiche. Lo susciterà Lui stesso, quindi ne garantirà la vocazione e il carisma. Sarà un fratello tra fratelli e starà in mezzo a loro: sarà cioè, non uno stravagante, ma una persona normale che vive dentro alle situazioni normali, perché di esse deve capire il senso, per vivere davvero secondo Dio. Sarà suo porta-parola: «Gli porrò in bocca le mie parole…». E come tale dovrà essere ascoltato.
Dio poi prospetta un possibile duplice falso profeta: quello che parla falsamente a nome di Dio e quello che parla in nome di falsi dei. In entrambi i casi è comminata la pena di morte, spiegabile con la rigidità dei tempi e non certo da riesumare. Testimonia comunque l’importanza data alla parola di Dio. E può far riflettere se la mentalità moderna, assai severa contro le trasgressioni di ordine economico e materiale, non sia invece troppo indifferente e permissiva di fronte agli scandali e alle corrosioni dei valori morali.
Mosè usa sempre il singolare, un profeta, ma con significato collettivo, riferito a tutto il profetismo. Egli stesso, del resto, condivide il suo spirito profetico con i 70 Anziani (Nm 11,16-30 e Es 18,21-26) e ad essi e ai Leviti dà in consegna la Legge, da custodire, ripetere e attualizzare continuamente (Dt 10,8-9 e 31,9-13.24-27).
Il singolare ha pure fatto attendere il Cristo, come Profeta per eccellenza, come appare da interrogativi dei Giudei (cf. Gv 1,21.25). Gesù di Nazaret lo è effettivamente. Venuto da Dio, si è fatto vero fratello tra fratelli, partecipe del nostro essere e della nostra storia: «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Seconda lettura: 1Corinzi 7,32-35
Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni. |
- La seconda lettura riporta uno stralcio delle risposte di Paolo alle domande scritte, su matrimonio e verginità, fattegli pervenire dalla comunità di Corinto e concentrate in 1Cor 7. Un legame col tema dell’annuncio e dell’ascolto della parola di Dio c’è nelle distinzioni che l’apostolo fa tra quello che dice lui e quello che ha detto il Signore. Anche lui cerca la parola autentica o quantomeno la traduzione autentica della parola di Cristo nella vita vissuta.
Quanto alle vergini, delle quali parla in questo brano, ha infatti premesso: «Non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1Cor 7,25). Parla quindi come un convertito, ma assunto alla dignità di apostolo. E dà consigli per un comportamento lineare nel proprio stato di vita, conforme alla propria vocazione, senza preoccupazioni che dividano l’animo. Questo lo vede più facile in chi non è sposato, come la vergine, perché si preoccupa delle cose del Signore. Mentre chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, di come piacere alla moglie o al marito. Proteso alla trascendenza e alle realtà ultime, per cose del mondo egli intende quelle provvisorie di questa vita che passa e per cose del Signore quelle dei valori più profondi ed eterni. Ma non è a senso unico quanto dice. Perché appena prima ha raccomandato: «Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla» (1Cor 7,27). E all’inizio ha scritto: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono da Dio» (1Cor 7,7). Importante è vivere secondo il dono ricevuto.
Paolo dunque invita ciascuno a vedere il proprio stato di vita come una vocazione da parte del Signore, alla quale dare risposta con una vita autentica, coerente e non divisa. E ciò è possibile solo nell’ascolto consapevole, continuo e profondo della parola di Dio.
Vangelo: Marco 1,21-28
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea. |
Esegesi
La liberazione di un indemoniato è il primo miracolo che Marco racconta. Con esso egli introduce la descrizione di un sabato tipico di Gesù a Cafarnao. Ma in primo piano mette il suo insegnamento, lui che poi si sofferma più sui fatti che sui discorsi. Riporta, infatti, un episodio accaduto durante la liturgia della parola, nel culto sinagogale. E sviluppa il racconto in tre momenti, che mostrano come la parola nuova di Cristo ha provocato e compiuto il miracolo.
Dapprima (vv. 21-22), riferisce sommariamente l’insegnamento di lui nella sinagoga e lo stupore di tutti, perché lo fa «con autorità» e non come gli scribi.
Poi racconta il miracolo (vv. 23-26), compiuto dopo uno scontro verbale con un uomo, che si è messo a gridargli contro. L’uomo è posseduto da uno «spirito immondo», detto così perché lo spinge lontano da Dio e a comportamenti indegni. Egli riconosce che Gesù, all’opposto, è «il santo di Dio», cioè tutto dedito a lui e rivestito delle sue perfezioni. Lo deve aver percepito dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti. E si è messo in agitazione perché avverte lucidamente che ciò comporta la rovina del dominio diabolico. Ma con arroganza contesta a Cristo il diritto di intromettersi, usando un plurale col quale si identifica con tutte le potenze demoniache e nel quale pare voler coinvolgere anche gli uditori, presumendoli dalla sua parte. Al demonio Gesù prima comanda di tacere e poi di uscire da quell’uomo. Ciò avviene tra convulsioni e grida ancora più forti, provocate dal potere sconvolgente della parola di Dio. Si è trattato di un esorcismo, ma si può dire che tante resistenze a Dio sono fatte di contorcimenti e strepiti di vario genere, che si placano solo a partire dal silenzio delle nostre parole e dal lasciarsi prendere dalla forza della parola di Dio.
Infine (vv. 27-28) Marco torna sulla meraviglia generale, ancora più grande dopo il miracolo, accompagnata da timore reverenziale, di fronte alla potenza di Dio, e da interrogativi su che cosa questo significhi per tutti nella lotta contro il demonio.
La risposta viene dalla differenza, rimarcata in tutto il racconto, fra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi. Gli scribi insegnavano, commentando i testi sacri, con tante sottigliezze, elucubrazioni, accomodamenti interessati, per i quali si appellavano alle tradizioni e ai maestri umani: un insegnamento formalistico e sterile, che può ripetersi fra i cristiani. Gesù invece insegna con autorità. Cioè, egli parla a nome proprio, con la propria autorità divina: «Ma io vi dico…». Parla con la coerenza della vita, diversamente dagli scribi e farisei, che dicono e non fanno (cf. Mt 23,2-3). E la sua parola produce quello che afferma, in particolare ha la forza di contrapporsi al demonio e di vincerlo. Perché egli va al valore originario della parola di Dio e la propone come una semente da sviluppare, non come una teoria sulla quale dissertare o come un formalismo da assumere.
Meditazione
Subito dopo la chiamata dei primi discepoli, Gesù manifesta che cosa significa che il regno di Dio è iniziato con la sua parola e la sua opera: insegnamento e liberazione dal male, guarigione. Va nella sinagoga di Cafarnao, cittadina importante sul lago di Galilea, stazione di frontiera del territorio di Erode Antipa, a quel tempo governatore della Galilea in nome dei Romani, sede di una guarnigione romana, città di commercio con una popolazione mista.
Gesù entra nel giorno di sabato nella sinagoga, nel luogo della preghiera, e si mette ad insegnare, come ogni domenica continua ad insegnare nel luogo dove la comunità cristiana si riunisce per la Liturgia Eucaristica. Ciò si inserisce perfettamente nella struttura della preghiera sinagogale. Gesù doveva essere conosciuto a Cafarnao, come è conosciuto da noi, e con tutta probabilità il capo della sinagoga lo invitava a spiegare la Scrittura proprio per questo. Un episodio analogo avverrà nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16 ss.; Mc 6,1-6). L’insegnamento di Gesù provoca reazioni di stupore, perché sempre il Vangelo suscita stupore in chi lo ascolta con il cuore e non distrattamente. L’autorevolezza di Gesù è quella di una parola che tocca il cuore e suscita domande, non come quelle parole che talvolta si pronunciano, e che non interrogano nessuno, perché sono o troppo teoriche o troppo banali. La sua parola suscita una reazione persino in un uomo posseduto dal male.
L’impurità di quell’uomo indica lontananza da Dio, che è il puro e il santo per eccellenza. Ma Gesù non lo disprezza, non lo allontana, come farebbe il nostro mondo davanti a gente che porta in sé i segni del male e del dolore. Non si arrabbia anche quando viene offeso da quell’uomo. Egli capisce che le sue parole violente esprimono paura, lacerazione interiore, incapacità a liberarsi da solo dallo spirito del male. Anzi Gesù coglie in esse una domanda di guarigione. «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?, grida con violenza quell’uomo, sentendosi minacciato da Gesù e dal suo insegnamento. Sì, il bene eccessivo appare una minaccia per chi è abituato al male fino ad esserne posseduto. Quanta ironia in questa pagina del Vangelo: uno spirito impuro, sentendosi minacciato, riconosce in Gesù il Santo di Dio, mentre quelli che stanno attorno a lui, convinti di conoscerlo, a contatto della sua figura santa, non sanno riconoscerlo. Così avviene spesso anche nella vita dei cristiani, che si abituano a vivere con Gesù senza però riconoscerne la forza di amore e di guarigione.
Gesù ordina allo spirito impuro di uscire da quel corpo, tutto sommato incolpevole. L’autorità di Gesù vince il male, vince la terribile frattura che sconquassa quell’uomo. Gesù lotta autorevolmente contro il male, non si lascia intimorire da esso, comanda che la vita di Dio entri nelle strutture vitali, nel corpo, nella mente, nel cuore, nelle viscere degli uomini incatenate dal male, un male tanto forte da spaccare, lacerare l’uomo. «Taci! Esci», egli dice. Taci! — quasi che il male stesso parli attraverso l’uomo. E poi: «esci»!, quasi a dire che questo spazio non è tuo; nella vita di quest’uomo hai preso troppo spazio; esci e lascia il posto di Dio. La parola di Gesù vince il male, lo ridimensiona, creando spazio a Dio dentro quest’uomo dal quale è stato cacciato ciò che esclude Dio. L’uomo, immagine di Dio, non può essere abitato dal male per sempre. Il male è forte nel mondo e nella vita degli uomini, e non sempre se ne è consapevoli, perché tutti presi da se stessi, incapaci di fermarsi, di riflettere, perché il male fa paura e fa chiudere gli occhi, allontana gente interessata solo al proprio benessere. Esorcismo senza gesti magici, senza formule magiche, quello di Gesù. Basta la sua parola autorevole. Non che questa uscita, questo svuotamento sia indolore. Strazio, urla. Si ha l’impressione comunque di un taglio netto, rapido. Di un autentico strappo. La parola di Gesù, portatrice della forza del bene, vince anche il male più resistente.
«Tutti furono presi da timore» di fronte a Gesù. Una emozionata meraviglia, profonda, è il primo sentimento degli astanti, che si interrogano seriamente su Gesù e sul suo insegnamento. Che cosa succede qui adesso? Che cosa è questo? Una nuova dottrina? Perché questo scossone nella vita di quell’uomo… e nella nostra? Nuovo, diverso da quello degli scribi: un insegnamento autorevole e nuovo. Qual è la novità che balza evidente al primo sguardo? L’insegnamento di Gesù è subito e soprattutto lotta diretta contro lo spirito impuro, contro il male che abita negli uomini, facendola indebitamente da padrone. La parola di Gesù è allora una forza che cambia, perché entra nella vita degli uomini, anche nei peggiori, perché nessuno è così posseduto dal male da essere del tutto lontano da Dio. Anzi Gesù è venuto proprio per rendere possibile a tutti l’incontro con Dio, che è perdono e guarigione. Per questo Gesù, subito dopo aver chiamato i discepoli, incontra i malati e tra essi per primi gli indemoniati. Il Regno di Dio comincia a realizzarsi nel fare posto a Dio nella vita degli uomini, nello scacciare il male perché il bene penetri dovunque senza resistenze.
Gesù entra nella vita degli uomini, innanzitutto nello spazio religioso per eccellenza: la sinagoga, dove si predica abitualmente la Parola di Dio. Gesù indica una nuova, entusiasmante dimensione del rapporto con Dio, che scuote gli uomini, anche quelli che pensano di conoscerlo. Egli mette in discussione radicalmente la struttura religiosa tradizionale, provocando la guarigione degli uomini dal male. E gli uomini sono scossi, si meravigliano, cosicché alcuni saltano nella fede, mentre altri si trincerano in un atteggiamento difensivo, ostile. Lo stupore è ambivalente e, solo, non basta per compiere il salto della fede. Infatti l’ostilità è la reazione evidente nell’episodio di Gesù che parla nella sinagoga di Nazaret (Mc 6,1-6). Gesù è davvero il profeta annunciato a Mosè nel libro del Deuteronomio. Proprio a lui Dio ha «messo in bocca le sue parole», perché possano liberare il mondo dal male. Il regno di Dio ha preso avvio e continua a manifestarsi ogni volta che viene comu-nicato il Vangelo di Gesù. Forse non si è sempre consapevoli della forza di bene che il Signore ha posto nelle mani dei suoi discepoli. Per questo si vive in modo rassegnato e pessimista, come se il male fosse così forte da non poter essere sconfitto. Forse, come avverte l’apostolo Paolo, siamo troppo presi dalle preoccupazioni quotidiane, che ci assillano più di prima, e non poniamo mente e cuore alla forza del Vangelo del regno. Forse dovremmo preoccuparci di più di piacere al Signore, facendoci scuotere dalla sua parola, perché essa ci converta a lui e al bene, liberando anche noi dal male che si annida nei cuori.
L’immagine della domenica
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«Quando perdi il contatto con la quiete interiore, perdi il contatto anche con te stesso. Quando perdi il contatto con te stesso, ti perdi nel mondo».
(Eckhart Tolle)
Preghiere e racconti
Dire Dio oggi
La parola ha dato la possibilità all’uomo di coltivare la propria ricchezza interiore e di condividerla con chi gli stava vicino. La parola ha permesso all’essere umano di creare un’intensità e una complessità di relazioni che è unica, almeno nel nostro mondo conosciuto. È stata proprio la parola ad averci permesso di tramandare – attraverso la scrittura – le esperienze più complesse e dunque ad averci aiutato a costruire la memoria, che è il grande patrimonio della nostra specie. Nella parola è racchiuso il mistero della relazione con Dio. C’è una voce che chiama – la Sua – e una voce – la nostra – che può scegliere se rispondere o meno. Il rapporto con Dio non è un rapporto passivo, bensì quello tra due volontà vive e autonome. […] La delusione, l’amarezza, la depressione che tante persone esprimono al giorno d’oggi nei riguardi della vita, delle aspettative tradite, sono proprio dovuto al fatto che la parola si è ritirata, e le poche rimaste hanno perso il loro legame profondo con la verità.
Così, dire Dio oggi vuol dire soprattutto proporre l’idea di un’esistenza come scelta tra una vita autentica – che segue le parole della Rivelazione – e una vita rappresentata – plasmata dalle contingenze del proprio tempo, tra una vita posseduta e una vita consumata.
(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Torino, Lindau, 2011, 148-149)
Quel Dio che s’immerge nelle nostre ferite
Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore, quella esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione della passione, quella che smuove anche le montagne. Salviamo lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il centro della vita perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.
La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che nutrono la vita e la fanno fiorire; Gesù ha autorità perché non è mai contro l’uomo ma sempre in favore dell’uomo, e qualcosa dentro chi lo ascolta lo sa.
Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù: la sua persona è il messaggio, l’intera sua persona. Come emerge dal seguito del brano: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulle fragilità dell’uomo e la prima di tutte le povertà è l’assenza di libertà, come per un uomo «posseduto», prigioniero di uno più forte di lui.
E vediamo come Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non cerca spiegazioni sul male, Gesù mostra Dio che si immerge nelle ferite dell’uomo; è Lui stesso il Dio che si immerge, come guarigione, nella vita ferita, e mostra che «il Vangelo non è un sistema di pensiero, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).
Lui è il Dio il cui nome è libertà e che si oppone a tutto ciò che imprigiona l’uomo. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore. A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano e divorano l’uomo: denaro, successo, potere, egoismi. A essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui.
Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia, vanno in rovina le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l’uomo libero e amante. Posso diventarlo anch’io, se il Vangelo diventa per me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro «Cristo, mia dolce rovina» (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, che libera le mie braccia da tutte le cose vuote, e che dilata gli orizzonti che respiro.
(Ermes Ronchi)
«Che è mai questo?»
- Gesù l’annunciatore della vicinanza regale di Dio è la vicinanza regale di Dio, è il farsi prossimo in maniera compiuta di Dio alle attese del povero mondo. Una buona notizia che domanda accoglienza riconoscente e che pone in una nuova condizione, l’ambito dell’amore di Dio. Oggi i chiamati da Gesù entrano con lui nella sinagoga di una città di nome Cafarnao. Di sabato (Mc1,21). E assieme ai presenti nella sinagoga assistono a un primo e singolare porsi in atto della regalità di Dio in Gesù.
- Sta scritto: «Entrato nella sinagoga… insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc1,21-22). Gesù è un maestro di sapienza nella cui parola il pensiero, il sentimento e il volere di Dio si rendono presenti in maniera diretta, vera, efficace e decisiva per chi ascolta. Con autorità appunto. Egli non appartiene alle scuole della interpretazione della volontà di Dio, egli è il dirsi e il dire di Dio, e questo lo contraddistingue dagli scribi: «Avete inteso…ma io vi dico» dirà analogamente il Gesù di Matteo.
E il contenuto di tale volontà viene immediatamente raccontato dall’esorcismo che segue, l’ incontro-scontro tra Gesù e uno spirito impuro a cui è nota l’identità di Gesù: «Io so chi tu sei: il Santo di Dio!» (Mc1,24), e so perché ci sei: «Sei venuto a rovinarci» (Mc1,24). L’evangelista legge l’uomo come terreno di contesa tra uno spirito-demone detto impuro a motivo del suo appartenere alla sfera del male totalmente dedito a inserirvi l’uomo, e Gesù detto santo a motivo del suo appartenere alla sfera del bene totalmente dedito a inserirvi l’uomo.
Dio in Gesù è venuto a rovinare chi rovina l’uomo, un chi annidato nell’uomo e di lui padrone (Mc1,23). Uno spirito impuro a cui Gesù ordina: «Taci! Esci da lui! E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui» (Mc 1,25-26). All’evangelista preme sottolineare tre cose. La prima consiste in una visione disincantata dell’uomo nel senso che il suo profondo può essere abitato, qualunque siano i nomi che gli si voglia attribuire, da forze oscure che lo alienano dalla propria verità muovendolo verso sentieri di menzogna, l’odio che genera morte (Gv 8,44s).
La seconda è la proclamazione che Dio nel suo Santo, equivalente di Messia (Gv 6,69; At 3,14; 4,27.30), è più forte di ogni male, è potenza di Dio al cui «esci» segue l’»uscì». E in questo sta l ’insegnare con autorità, il proferire una parola che fa accadere quanto dice, parola che al contempo è ingiunzione di silenzio: «Taci», non è ancora giunto il tempo dei pieni svelamenti della identità di Gesù. Inoltre, detto per inciso, è bene che taccia ora e in ogni tempo una confessione di fede radicalmente sganciata dall’amore e dalla sequela.
Lo spirito impuro è dottrinalmente perfetto, inappuntabile dal punto di vista dell’ortodossia cristologica, ed è diabolicamente perfetto nel volere lucidamente stravolgerla. Infatti confessare Gesù il Santo di Dio è proclamarlo traduzione della passione d’amore di Dio per l’uomo, cosa programmaticamente detestata dal male che fa di tutto per spegnerne la presenza e il messaggio nel cuore dell’uomo felice della rovina dell’uomo.
Diabolico è il sapere ciò che è vero e il sapere di volere negarlo ad occhi aperti. In questa prospettiva la lotta tra Gesù il bene e il male è senza quartiere, e l’uomo ne è il diretto interessato. La terza cosa infine che Marco vuole sottolineare è lo stupore dei presenti nella sinagoga: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità» (Mc1,27). La novità di una parola che con autorità comanda a chi ha sempre comandato rendendo l’uomo panno sporco.
- Questo avvenimento accadde di sabato, il giorno consacrato alla proclamazione della parola di Dio nella Legge e nei profeti, e in una sinagoga, il luogo del raduno assembleare per l’ascolto della parola di Dio; questo avvenimento accade oggi di domenica in ogni assemblea attraverso la lettura. Siamo ancora capaci di stupirci di una parola potente che ove accolta è in grado di dire «esci» al male oscuro che impedisce il dilatarsi e l’esprimersi in verità secondo le proprie potenzialità?
Siamo ancora capaci di riconoscere in Gesù il medico della nostra interiorità malata? Il sole che chiede ospitalità nella zona d’ombra di ciascuno per guarirla dagli spiriti impuri che la abitano? Il culto di sé, del denaro, del successo, del possesso incontinente di corpi e di merci, del non senso, del demoniaco e ancora di sensi di colpa che straziano legando il presente a un passato che impedisce futuri diversi.
Lista breve di un lungo elenco a cui è buona notizia un Dio che in Gesù viene a liberare il tuo cuore da ogni spirito impuro, da ogni pensiero, sentimento desiderio e volere non abitati dal sapersi e dal volersi presenza di bene per l’uomo. La qualità della cui vita dipende da chi e da che cosa lo abita.
(Giancarlo Bruni)
L’enigma del male
«Dobbiamo essere consapevoli», dice Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, «che siamo fragili, esposti al grande enigma del male. Non ci sono per l’uomo luoghi sicuri, “paradisi”. Coscienti del nostro limite, dobbiamo respingere ogni pretesa di onnipotenza. Non si tratta, per questa catastrofe, di incolpare Dio, ma neanche noi uomini. Con la fede, possiamo dire che Dio vuole vincere il male con noi, e l’esito finale sarà la trasfigurazione dell’universo».
(Da «Famiglia Cristiana», 2005, 3).
Sofferenza materia prima della redenzione
Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.
Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.
Tu dici del tuo amico:
lo porto nel mio cuore,
mi vergogno per lui del suo peccato,
la sua sofferenza mi fa male.
È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.
Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito. Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.
Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, «cancellali», le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte. Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.
(M. QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).
Si stupivano della sua dottrina
Entrarono in Cafarnao, e subito, entrato di sabato nella sinagoga insegnava loro, insegnava affinché abbandonassero gli ozi del sabato e cominciassero le opere del Vangelo. Egli li ammaestrava come uno che ha autorità, non come gli scribi. Egli non diceva, cioè «questo dice il Signore», oppure «chi mi ha mandato così parla»: ma era egli stesso che parlava, come già prima aveva parlato per bocca dei profeti. Altro è dire «sta scritto», altro dire «questo dice il Signore», e altro dire «in verità vi dico».
Guardate altrove. «Sta scritto — egli dice — nella legge: Non uccidere, non ripudiare la sposa». Sta scritto: da chi è stato scritto? Da Mosè, su comandamento di Dio. Se è scritto col dito di Dio, in qual modo tu osi dire «in verità vi dico», se non perché tu sei lo stesso che un tempo ci dette la legge? Nessuno osa mutare la legge, se non lo stesso re. Ma la legge l’ha data il Padre o il Figlio? […] Qualunque cosa tu risponda, l’accetterò volentieri: per me, infatti, l’hanno data ambedue. Se è il Padre che l’ha data, è lui che la cambia: dunque il Figlio è uguale al Padre, poiché la muta insieme a colui che l’ha data. Se l’uno l’ha data e l’altro la muta è con uguale autorità che essa è stata data e che viene ora mutata: infatti nessuno che non sia il re può mutare la legge.
Si stupivano della sua dottrina. Perché, mi chiedo, insegnava qualcosa di nuovo, diceva cose mai udite? Egli diceva con la sua bocca le stesse cose che aveva già detto per bocca dei profeti. Ecco, per questo si stupivano, perché esponeva la sua dottrina con autorità, e non come gli scribi. Non parlava come un maestro, ma come il Signore: non parlava per l’autorità di qualcuno più grande di lui, ma parlava con la sua propria autorità. Insomma egli parlava e diceva oggi quello che già aveva detto per mezzo dei profeti. «Io che parlavo, ecco, sono qui» [Is 52,6].
(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2)
Il silenzio di Dio
Il problema del male con la sua enorme portata di sofferenza prova a fondo la fiducia in Dio del credente e «…molti si arrestano perché dicono: Forse c’è qualcuno là di sopra, però se ci fosse davvero tanto male non ci sarebbe, dunque… Qui la fede entra nella sua agonia più profonda» è posta di fronte al silenzio di Dio e sembra non aver attenuanti, non aver parole che siano sufficienti, appare… «intrinsecamente insicura, non è fondata, come diceva Agostino: la mia fede non è fondata, non è un fondamento, la mia fede sta appesa alla croce. La mia fede non da alcuna sicurezza. L’esperienza del silenzio di Dio conduce sull’orlo del «forse», un «forse» che per Andrè Neher «sta all’inizio della silenziosa vertigine della libertà»».
(C.M. MARTINI, Prima sessione della Cattedra dei non credenti, 1987).
L’uomo vicino alla finestra
Due uomini, entrambi molto malati, occupavano la stessa stanza d’ospedale. A uno dei due uomini era permesso mettersi seduto sul letto per un’ora ogni pomeriggio per aiutare il drenaggio dei fluidi dal suo corpo. Il suo letto era vicino all’unica finestra della stanza. L’altro uomo doveva restare sempre sdraiato. Infine i due uomini fecero conoscenza e cominciarono a parlare per ore. Parlarono delle loro mogli e delle loro famiglie, delle loro case, del loro lavoro, del loro servizio militare e dei viaggi che avevano fatto. Ogni pomeriggio l’uomo che stava nel letto vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra. L’uomo nell’altro letto cominciò a vivere per quelle singole ore nelle quali il suo mondo era reso più bello e più vivo da tutte le cose e i colori del mondo esterno. La finestra dava su un parco con un delizioso laghetto. Le anatre e i cigni giocavano nell’acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo. Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c’era una bella vista della città in lontananza. Mentre l’uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l’uomo dall’altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena.
In un caldo pomeriggio l’uomo della finestra descrisse una parata che stava passando. Sebbene l’altro uomo non potesse vedere la banda, poteva sentirla. Con gli occhi della sua mente così come l’uomo dalla finestra gliela descriveva. Passarono i giorni e le settimane. Un mattino l’infermiera del turno di giorno portò loro l’acqua per il bagno e trovò il corpo senza vita dell’uomo vicino alla finestra, morto pacificamente nel sonno. L’infermiera diventò molto triste e chiamò gli inservienti per portare via il corpo. Non appena gli sembrò appropriato, l’altro uomo chiese se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. L’infermiera fu felice di fare il cambio, e dopo essersi assicurata che stesse bene, lo lasciò solo. Lentamente, dolorosamente, l’uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Si sforzò e si voltò lentamente per guardare fuori dalla finestra vicina al letto. Essa si affacciava su un muro bianco. L’uomo chiese all’infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori da quella finestra. L’infermiera rispose che l’uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. ”Forse, voleva farle coraggio.” disse.
Di fronte a fenomeni come la guerra in Terra Santa, il male, la sofferenza, come si può spiegare l’Amore misericordioso del Creatore?
Intervista al Padre Aurelio:
«Da sempre la sofferenza è la grande e inquietante domanda che sfida la fede in un Dio buono. È significativo che proprio nella terra del Santo, dove il Signore ha scritto la sua storia di amore e alleanza con un popolo da Lui scelto in vista della salvezza di tutti, proprio in quella terra la pace sembra non aver mai trovato casa. Dai tempi dei patriarchi, all’Esodo e all’entrata in quella terra, come in tutta la storia successiva, il popolo di Israele sembra non avere mai avuto pace.
Ben si addice il pianto e lamento di Gesù sopra Gerusalemme: “Oh, se tu, proprio tu, avessi riconosciuto almeno in questo tuo giorno le cose necessarie alla tua pace! Ma ora esse sono nascoste agli occhi tuoi” (Lc 19,42).
Dio ha fatto buone tutte le cose, come afferma il ritornello alla fine di ogni giorno della creazione: “E Dio vide ciò che aveva fatto ed era cosa buona” (cfr. Gen 1). La Parola del Signore risponde al mistero del male che lacera l’umanità, non con una teoria, ma con la sottolineatura di quella libertà che gli uomini, cedendo al tentatore, hanno indirizzato al male anziché al bene, cadendo così nella maledizione (cfr. Gen 3).
Eppure è proprio di fronte a questa estrema miseria che si rivela l’infinita misericordia di Dio. S. Paolo la riassume in una frase: “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia”. Il Signore si è messo da subito alla ricerca della pecora smarrita (“Adamo, dove sei?”): con una pazienza e tenerezza immensa, parlando e intervenendo molte volte e in diversi modi, per mezzo dei suoi inviati e attraverso gli eventi della storia.
Un amore gratuito che si è rivelato in modo sommo e inimmaginabile nell’incarnazione del Figlio di Dio. Tutta la vita di Gesù, soprattutto la sua morte e risurrezione è la risposta definitiva di Dio al perché della sofferenza e del male del mondo. “Dio è amore”, ed è la lontananza da Lui che precipita l’uomo nella morte del male, dell’odio, della violenza cieca. “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!”, dirà Gesù morente sulla croce, croce che concentra tutto il male fisico, morale e spirituale che c’è nel mondo.
Lui ha voluto prendere su di sé questo male e sconfiggerlo con la Risurrezione, rivelando così che l’Amore e la Vita di Dio, sono più grandi del peccato, dell’odio, di ogni forma di male.
(Intervista fatta da Zenit al padre Aurelio Pérez, Superiore generale dei Figli dell’Amore misericordioso (FAM), 13 gennaio 2009).
Le preghiere della vita
Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste.
Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande benevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie.
Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pregassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.
Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito immondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine.
(Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Brescia, 1993).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
o serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER L’APPROFONDIMENTO:
La gestione della classe e degli alunni difficili
Venerdì 26 e sabato 27 gennaio 2024 presso l’Università Salesiana di Roma, l’istituto di Psicologia organizza un corso di formazione e aggiornamento dedicato alle strategie innovative per affrontare le sfide della gestione della classe e per supportare gli alunni nell’ambito scolastico. Il corso di formazione e aggiornamento vuole fornire competenze teoriche e pratiche sulle dinamiche e la gestione del gruppo classe con focalizzazione sulle difficoltà di relazione con classi e alunni difficili nella scuola. A tal proposito, sarà presentata una proposta formativa specifica che consenta di acquisire le abilità necessarie per un intervento efficace tra i diversi soggetti coinvolti nell’ambiente scolastico (insegnanti, alunni e genitori). Il corso pone l’accento sulle possibilità di un intervento mirato alla prevenzione e alla promozione di un benessere socio-relazionale nella scuola, nonché alla gestione e al recupero delle situazioni di classi e alunni problematiche, utilizzando un approccio teorico integrato e materiale operativo da utilizzare nei diversi ordini e gradi di scuola.
Obiettivi del corso:
- Comprendere i fattori che facilitano e ostacolano la gestione del gruppo classe;
- aumentare le competenze gestionali di un gruppo classe;
- aumentare la competenza concreta dei docenti nella gestione delle regole all’interno della classe e
della scuola; - migliorare la collaborazione scuola-famiglia;
- aumentare le competenze gestionali sul conflitto;
- comprendere come gestire gli “alunni difficili”.
Destinatari:
- Insegnanti (di ogni ordine e grado)
- Dirigenti Scolastici
- Psicologi scolastici
- Educatori
Programma:
- Modulo 1 – Il gruppo classe | Prof. Marco Maggi (venerdì 26 Gennaio ore 15.00-19.00): La scuola è una comunità, La classe è un gruppo!, Che cos’è un gruppo?, I fenomeni di una vita di gruppo, Le fasi di sviluppo di un gruppo, La gestione del gruppo classe, Ruoli e leader e leaderschip, Dinamiche di gruppo, Il metodo Freedom writers.
- Modulo 2 – Alunni difficili e gestione dei conflitti | Prof. Alessandro Ricci (sabato 27 Gennaio ore 9.00-13.00): Disagio e il disagio scolastico, Segnali di disagio, Gestire I comportamenti problema, Studenti “difficili”, Il conflitto e le diverse tipologie del conflitto, Origini e cause del conflitto, L’arco di vita di un conflitto, Gli elementi fondamentali di un conflitto: come analizzarlo?, I diversi modi di affrontare il conflitto, Tecniche per la gestione del conflitto.
- Modulo 3 – Le regole e gli studenti e le famiglie di oggi | Prof. Zbigniew Formella (sabato 27 Gennaio ore 14.00-18.00): Le norme e le regole, Diritti e doveri, La funzione delle regole a scuola, Lo sviluppo sociale e morale, La regola limita, Regole prescrittive a scuola, Autorità, Interiorizzazione delle regole: obbedienza o responsabilità?, Trasgressioni e sanzioni, Regole discrezionali, Collaborazione e alleanza educativa famiglia-scuola
Dettagli del corso:
- Sede: Università Pontificia Salesiana, Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1, 00139-Roma
- Durata: 12 ore
- Tempi e modalità d’iscrizione: entro il 23 gennaio 2024, scrivere a psicologia@unisal.it
- Costo: 100,00 euro (IBAN: IT76T0569603219000004600X29 – intestato a PONTIFICIO ATENEO SALESIANO)
- Previsto il pagamento tramite la carta del docente
- Il corso è registrato sulla piattaforma S.O.F.I.A. (id 89918)
Contatti: + 39 06 87290 308 – e-mail: psicologia@unisal.it
Allegati
III DOMENICA TEMPO ORDINARIO
Prima lettura: Giona 3.1-5.10
Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Signore. Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta». I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece. |
- Incontrare Dio e farlo incontrare anche agli altri è l’idea fondamentale della prima lettura.
Senza addentrarci nel ginepraio dei problemi sollevati dal testo, consideriamo Giona un libro più da meditare che da studiare. Vogliamo solo ricordare che il libro, annoverato di solito tra i profeti, è collocato oggi da molti studiosi tra i libri didattici. Infatti, diversamente dagli altri testi profetici, non presenta una raccolta di oracoli, limitandosi a quello scarno annuncio: «Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta» che rimangono le uniche parole del suo messaggio. L’assenza di oracoli è felicemente compensata dalla vita stessa del profeta che annuncia più con i fatti che con le parole, a tal punto da poter affermare che tutta la sua vicenda diventa epifania di Dio. L’insegnamento allora non sta tanto nelle parole, quanto piuttosto nella trama che rivela così il suo intento didattico.
Il brano liturgico propone un profeta che ha già sperimentato sulla sua pelle il significato della conversione: non voleva recarsi a Ninive ad annunciare la salvezza ai pagani, ha voluto fare di testa sua. Si è ritrovato solo, in mezzo al mare, con l’unica possibilità: quella di morire annegato. L’amorosa provvidenza divina lo salva (è il significato del grosso pesce) e li riporta al punto di partenza.
Troviamo ora Giona in seconda edizione, riveduta e migliorata. Di nuovo gli è rivolto l’invito del Signore che lo invia a Ninive con un ultimatum; « Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta » (v. 4). Il numero 40 indica un tempo opportuno per fare qualcosa e prendere decisioni, indica un’occasione decisiva e forse irripetibile. È il momento di grazia per i Niniviti. Di fatto costoro accolgono l’occasione e, sebbene pagani, acconsentono al Dio di Giona con un’adesione plebiscitaria che interessa re e animali, due estremi per indicare tutti.
Il brano liturgico salta i vv. 6-9 che mostrano l’itinerario di conversione dei Niniviti.
La conclusione del v. 10 sottolinea:
- Dio si qualifica come Dio della vita perché vuole la salvezza di ogni uomo e di tutti gli uomini (universalismo).
- Dio si serve degli uomini per operare i suoi prodigi (collaborazione): Dio ha voluto aver bisogno degli uomini.
Finché Giona privatizzava la sua vita, lontano da Dio, non solo non poteva essere utile agli altri, ma neppure realizzava la propria persona. Aderendo al programma divino, da una parte Giona realizza se stesso perché fa il profeta e dall’altra diviene elemento e tramite di salvezza per gli altri. Così è ciascun uomo quando accetta di far parte dell’organigramma divino.
A questo punto parrebbe di poter concludere il libro di Giona, visto che la sua missione ha avuto successo, convertendo prima se stesso e poi i Niniviti. Ma terminando così, sembrerebbe che la conversione sia un tornare indietro una volta sola, il lasciarsi convincere da Dio una volta per tutte. Il che non è proprio vero. Lo ricorda il capitolo che segue: la conversione è un’opera continua. Lo afferma, per aliam viam anche la seconda lettura.
Seconda lettura: 1Corinti 7,29-31
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo! |
- La conversione è uno stato di premurosa e amorosa attenzione alla volontà di Dio, un impegno a sintonizzare sempre più e sempre meglio la propria vita alle esigenze del Regno di Dio. Ogni attaccamento morboso viene bocciato, così come risulta un perditempo ogni cocciutaggine a perpetuare ciò che è effimero. Potrebbe essere questa una chiave di lettura del minuscolo brano liturgico proposto come seconda lettura.
A partire dal cap. 7 della prima lettera ai Corinti, Paolo, apostolo e catecheta, risponde ai quesiti che la comunità gli aveva sottoposto. Il primo di essi trattava del matrimonio e della verginità. Paolo ribadisce il valore del matrimonio (forse contro tendenze che lo svalutavano) anche se la verginità sembra rispondere ad un ideale maggiore (cf. v. 7). La cosa più importante, al di là di possibili gerarchie, consiste nel rispondere alla vocazione del Signore (cf. v. 17 ss.).
Il brano liturgico è racchiuso tra due affermazioni di transitorietà: «il tempo si è fatto breve» e «passa infatti la figura di questo mondo!». All’interno sono elencate alcune situazioni e il loro contrario (aver moglie / non aver moglie; piangere / non piangere…).
Paolo non intende fare previsioni cronologiche, quando afferma che il tempo è breve. Egli ha di mira il Signore morto e risorto che ha dato avvio ad una situazione nuova e definitiva: siamo ormai nel tempo finale, quello definitivo. In altre parole, non c’è da aspettarsi nulla di nuovo perché la vera novità, quella definitiva, è Lui, il Signore risorto. Se siamo alla svolta finale, significa che la realtà prende senso e colore solo alla luce di Cristo risorto. Viene tolto il plusvalore che normalmente viene attribuito alle situazioni (sposarsi, piangere, possedere), soprattutto se considerate solo nel loro aspetto esteriore (possibile traduzione del greco schema, reso in italiano con «scena», v. 31). Ciò che rimane, oltre il tempo, è l’attaccamento a Cristo Signore, la configurazione a Lui nel mistero pasquale. Il brano è quindi una calda esortazione a orientare tutto e a orientarsi definitivamente verso Lui. Anche questo è conversione. Paolo ha il merito di averci insegnato un altro aspetto del mai esaurito tema della conversione.
Vangelo: Marco 1,14-20
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui. |
Esegesi
Le letture bibliche della presente domenica sono caratterizzate dalla duplice nota: la conversione è accoglienza dell’invito divino al rinnovamento; tale rinnovamento porta però sulla strada della solidarietà: alcuni annunciano ad altri la loro esperienza di salvezza, perché tutti ne possono beneficiare. C’è lievitazione per tutti.
La preziosità del brano evangelico poggia sul duplice motivo di novità: incontriamo le prime parole di Gesù riportate dal Vangelo secondo Marco (vv. 14 -15), cui segue la prima azione di Gesù, quella di convocare alcune persone, introducendole al suo seguito, con lo scopo di allargare la cerchia con nuove persone, per la costruzione di una nuova famiglia,
quella della Chiesa (vv. 16-20).
- Quando Gesù incomincia a parlare, fa riferimento a qualcosa che si è concluso e, più ancora, ad una novità che irrompe nella storia e alla quale bisogna prepararsi. Tutto questo è espresso con la categoria a noi nota anche se non sempre molto familiare, come «regno di Dio». Si tratta di un tema centrale che il novello predicatore propone subito al suo uditorio. Ma è pure una chiave interpretativa per aprire in parte il mistero della sua persona. Egli, certamente «rabbi» e pure «profeta» come lo chiama la gente (cf Mc 6,14s; 8,28), si definisce piuttosto come l’annunciatore del Regno, colui che con la parola dice che il Regno è presente e con la sua azione lo visibilizza. Mc 1,15, diventa sotto questo aspetto particolarmente illuminante.
Mediante le coordinate spazio-temporali l’annuncio di Gesù viene situato in un contesto geografico ben preciso, la Galilea, e in un contesto storico definito, l’arresto del Battista, il quale, in veste di precursore, era stato l’ultima voce autorevole capace di invitare gli uomini ad un rinnovamento, espresso esternamente con l’abluzione battesimale. Spentasi questa voce profetica, ben si può dire: «II tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo».
Numerosi commentatori sono concordi nel leggere in queste parole la visione riassuntiva del pensiero di Gesù, non necessariamente la citazione ad litteram delle sue parole. È certo comunque che esse segnano il trapasso da un’epoca ad un’altra, da un atteggiamento di fiduciosa attesa ad uno di imminente realizzazione. Infatti nel dire «il tempo è compiuto» si capisce che un processo è arrivato al suo termine dopo uno sviluppo più o meno lungo. Nel linguaggio di Mc l’espressione fa riferimento al tempo preparatorio dell’A.T. e presuppone la conoscenza delle varie tappe del piano divino, collegate tra loro da quella continuità che in Dio è semplice unità, nell’uomo è progressiva rivelazione. Solo Gesù, pienezza della rivelazione, può dire che il tempo preparatorio è giunto al suo termine e solo dopo la Pasqua, pienezza della manifestazione di Gesù, la comunità dei credenti può aderire alla verità secondo cui lui, figlio dell’uomo e figlio di Dio, da inizio ad un’epoca nuova.
Questo tempo allora non è un chronos ma un kairos, vale a dire, non una successione di attimi fuggenti qualitativamente simili ad altri, bensì un’occasione unica da vivere ora nella sua interezza ed esclusività, perché questo tempo che «è compiuto» (al perfetto in greco per indicare un’azione del passato ma con effetti presenti) è la porta di accesso alla situazione nuova, che Paolo chiama «pienezza dei tempi» (Gal 4,4) e che Marco riconosce nella presenza del Regno di Dio. Infatti il verbo greco enghiken si può tradurre tanto «è vicino», «è arrivato», quanto «è giunto», «è presente».
La venuta del Regno di Dio deve essere veramente qualcosa di straordinario se esige un cambiamento radicale espresso dall’imperativo «convertitevi» che unito al seguente «credete al vangelo» indica che passato e presente non si possono mescolare; lo conferma linguisticamente il termine greco «metanoia» che allude ad un cambiamento di mentalità (nous = mente), corrispondente all’ebraico shub che esprime il ritorno da una strada sbagliata, ovviamente per imboccare quella giusta. Bisogna cambiare o ritornare per aderire con cuore nuovo al «vangelo».
- Alle prime parole di Gesù segue la prima azione. Anch’essa merita attenzione, proprio per capire le intenzioni di Gesù. La conversione appena annunciata ha bisogno di mediatori, di persone che abbiano sperimentato per prime che cosa significhi. Due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, colti nella quotidianità del loro lavoro, sono chiamati ad un nuovo servizio. Non dovranno più interessarsi di pesci, ma di uomini, non tirarli fuori dall’acqua, ma da una vita scialba e insulsa. Devono prospettare loro «il Regno» che è l’amorosa presenza di Dio nella storia, così come è dato percepirlo con la venuta di Gesù.
Con la chiamata dei primi discepoli alla sequela di Gesù, si pongono le basi della comunità ecclesiale. Alcuni punti sono di grande attenzione:
- Sono persone coinvolte nel Regno. Se l’annuncio del Regno è stata la ‘passione’ di Gesù, anche loro dovranno avere a cuore la diffusione del Regno.
— Sono persone chiamate ad una vita di comunione, con Gesù prima di tutto e poi tra loro. Esse non aderiscono ad un programma, ad un ‘manifesto’, ma ad una persona.
— I chiamati, rispondono con un’adesione personale, pronta e totale. Si aderisce con tutta la vita e per sempre. Non sono ammessi lavoratori part time.
— Il gruppo non ha nulla della setta. È vero che all’inizio sono solo quattro, ma poi diventeranno dodici e tutti avranno come compito primario l’annuncio del Regno, la sua diffusione in mezzo agli uomini (cf. 6,6ss).
Ciò vuol dire che la loro esperienza di incontro con il Signore e di vita con Lui diventa l’oggetto del loro annuncio. Andranno a presentare una persona, quella verso la quale vale la pena orientare tutta la propria vita. Sono dei ‘convertiti’ che avranno la passione di convertire altre persone. Per la stessa causa. Per il Regno. Perché Dio sia tutto in tutti.
Meditazione
Da questa domenica la liturgia ci fa ascoltare il Vangelo di Marco, il primo dei Vangeli. Marco a Roma raccolse la predicazione dell’apostolo Pietro e, intorno all’anno 70, la ordinò nel suo Vangelo, che divenne poi di riferimento per i Vangeli di Matteo e Luca. Oggi ci viene proposto l’inizio della vita pubblica di Gesù e le sue prime parole. Giovani Battista era stato arrestato da Erode e ucciso. Il Signore sente giunto il suo tempo, il tempo del regno di Dio, che egli è venuto ad inaugurare con la buona notizia, il vangelo di Dio. Anche il mondo di oggi ha bisogno di questa buona notizia in un tempo dove solo le cattive notizie fanno cronaca. Le parole di questa buona notizia sono semplici, piene di speranza, ma anche impegnative: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo».
È giunto a compimento il tempo dell’attesa, quello preparato da Dio mediante i sapienti e i profeti di Israele, rappresentato da Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti. Ora è il tempo del regno di Dio che prende avvio con la vita e le opere del Signore Gesù. Gesù non comincia da Gerusalemme, la capitale della provincia romana di Giudea, ma dalla periferia, la Galilea, la più settentrionale delle tre regioni abitate dal popolo d’Israele. Ai tempi di Gesù la Galilea era diventata una regione malfamata a motivo di forti infiltrazioni pagane che contaminavano la purezza della fede e la correttezza dei riti ebraici. Terra anche di gente rivoltosa, mal sopportata dai romani, che allora governavano la Palestina. Ma Gesù, proprio da questa terra periferica e lontana dalla capitale, inizia la predicazione del Regno di Dio; qui raccoglie i primi seguaci e qui, da risorto, attenderà i discepoli per il «secondo» inizio della predicazione evangelica. Insomma, la Galilea sembra assurgere a terra simbolica per ogni missione evangelica. Si potrebbe dire che se c’è da scegliere un luogo da cui partire per annunciare il Vangelo, questo dev’essere il luogo periferico, marginale, escluso, disprezzato, povero, che non conta nulla. Nella «Galilea delle genti» si sentì risuonare per la prima volta il Vangelo, la buona notizia. Qui, dove poveri, pagani ed emarginati, zelati rivoluzionari si mescolavano, Gesù cominciò a dire: «il tempo è compiuto», ossia sono finiti i giorni nei quali la violenza, l’odio, l’abbandono, l’ingiustizia e l’inimicizia hanno il sopravvento, e sono iniziati gli ultimi tempi, quelli della vittoria di Dio sul demonio, del bene sul male, della vita sulla morte. La storia degli uomini subisce una svolta: «il Regno di Dio è vicino», annuncia Gesù.
Il tempo di Dio irrompe nella vita degli uomini in modo inaspettato, mettendo in discussione le abitudini e i tempi consolidati di ciascuno. Questo inizio chiede una scelta in un mondo di uomini e donne trascinati dal conformismo, in cui si ha paura di scegliere, di impegnarsi per qualcosa che non sia solo a proprio vantaggio. Due sono le richieste di questo inizio: «Convertitevi e credete nel Vangelo». La novità del Vangelo di Gesù inizia con una richiesta rivolta a ciascuno personalmente, che è anche il segreto rivoluzionario del cristianesimo. Per cambiare il mondo non si deve innanzitutto chiedere agli altri di cambiare, ma bisogna cominciare da se stessi. Conversione è infatti cambiamento di se stessi, del proprio cuore, dei sentimenti, dei pensieri, dell’agire. Insomma un vero sovvertimento di se stessi. Oggi è facile ed istintivo pretendere che gli altri cambino, ma Gesù lo chiede per prima cosa a ciascuno dei suoi discepoli. Solo così si può vivere da cristiani, altrimenti si è come tutti, conformisti nel lamento e nella rassegnazione, senza sogni e senza visioni per sé e per il mondo. La conversione tuttavia non è un atto magico, ma una risposta al Signore che parla agli uomini. Essa comincia quando si «crede al Vangelo», smettendo di credere solo in se stessi. La fede nasce e cresce in una chiamata, come avvenne quel giorno sul lago di Galilea, quando Gesù incontrò Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Erano pescatori, un mestiere che permetteva una vita dignitosa. In ambedue le situazioni tutto comincia con il «vedere» di Gesù, come avevamo ascoltato già domenica nel Vangelo di Giovanni. Gesù «vede», non è distratto, si accorge di noi, ci guarda nella quotidianità delle diverse occupazioni, cogliendo il desiderio di una vita migliore. Non disprezza il lavoro di quegli uomini, ma rivolge loro un invito: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». «Venite dietro a me» è l’invito alla sequela, ad andare dietro a Gesù, non davanti. Davanti sta lui. Il discepolo lo segue per poter imitarlo, essere come lui, smettere di fare il protagonista e il padrone della sua vita. Seguire Gesù è la vita del cristiano, per il quale non esiste un tempo di apprendimento dopo il quale si diventa maturi e si smette di seguire Gesù, perché si è diventati maestri. Chi non rimane discepolo per tutta la vita, sarà un pessimo maestro. Poi segue una promessa: «Vi farò diventare pescatori di uomini». Gesù vuole trasformare la vita di quei pescatori, e insegnerà loro un nuovo modo di lavorare, non solo per sé, bensì per gli altri. Il mondo ha bisogno di pescatori, di gente che nel mare cerca uomini e donne che si uniscano con loro a Gesù. È l’inizio della missione. Fin dal primo momento il Signore mostra che chiamata e missione vanno di pari passo. Infatti non esiste cristiano autentico che non sia anche uno che comunica il Vangelo ricevuto, come non esiste Chiesa se non missionaria.
Lo possiamo capire bene dalla vicenda di Giona, profeta difficile che non accetta di buon grado la chiamata di Dio, anche perché lo voleva mandare a Ninive, la capitale di un grande impero, la grande nemica di Israele. Per questo era fuggito una prima volta, ma poi aveva accettato di annunciare la Parola di Dio dopo essere stato salvato dall’abisso della morte. Il testo evidenzia la grandezza della città, che Giona cominciò a percorrere. La sorpresa fu grande: non era ancora arrivato a percorrerne la metà, che già i cittadini di Ninive «credettero a Dio» e si convertirono. Avevano ascoltato la parola di Dio proclamata da Giona e questo aveva cambiato il loro cuore. La parola di Dio compie il miracolo della conversione se viene ascoltata. E Dio mostra la sua grande misericordia davanti a un popolo che ascolta. Erano lontani da Dio, erano nemici di Israele, eppure Dio si preoccupò di loro, perché Dio si accorge della forza del male e cerca uomini che possano essere suoi profeti, comunicare che è possibile cambiare, cessare di compiere il male ascoltando la parola di Dio e facendo il bene.
«Il tempo si è fatto breve», dice Paolo ai cristiani di Corinto. «D’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono come se non gioissero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo come se non li usassero pienamente; passa infatti la figura di questo mondo» (7, 29-31). Gli affetti, il pianto, il godere, il comprare, l’usare… spesso esauriscono le nostre giornate, la nostra mente, la nostra vita, a tal punto da rinchiuderla come in una rete inestricabile. C’è come una corsa inarrestabile verso il vivere individuale, con il problema centrale dell’affermazione di sé, con il culto scatenato del proprio corpo, con la paura di invecchiare, di non prevalere… Dopo la fine delle ideologie e dei sogni sul mondo, sembra che l’unica vera passione sia l’amore per se stessi e l’unico vero oltranzismo sia l’individualismo. Il Signore viene dentro questa rete ingarbugliata che imprigiona, mortifica e intristisce con sempre più violenza la nostra vita per scioglierla e per allargarla. Gesù vuole ampliare il nostro cuore all’amore per tante altre persone, vuole che piangiamo non solo su noi stessi ma che ci uniamo semmai al pianto di coloro che sono nell’afflizione, vuole che la gioia non sia riservata a pochi fortunati ma che tanti possano gioire, vuole che i beni di questo mondo non siano privilegio di alcuni, perché essi sono destinati da Dio a tutti. È quello che intuirono i quattro discepoli, dopo aver ascoltato l’invito di Gesù. Il Vangelo è «la» parola sulla nostra vita: indica a ciascuno la sua vocazione, la sua strada, il suo cammino. Quei quattro, anche se non lo avevano capito appieno, si fidarono di quella chiamata e, «subito, lasciarono le reti e lo seguirono». Il Regno di Dio inizia in questo modo, sulle rive del lago di Galilea. E continua lungo la storia con la stessa logica: la parola di Gesù, il Vangelo, percorre le rive delle tante Galilee di oggi cercando uomini e donne disponibili a diventare «pescatori di uomini».
L’immagine della domenica
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«La noche sosegada
en par de los levantes de la aurora,
la música callada,
la soledad sonora,
la cena que recrea y enamora».
(Juan de la Cruz, Cántico espiritual B, estrofa 15)
Preghiere e racconti
Il Regno e la guarigione dal male di vivere
Marco ci conduce al momento sorgivo e fresco del Vangelo, a quando una notizia bella inizia a correre per la Galilea, annunciando con la prima parola: il tempo è compiuto, il regno di Dio è qui. Gesù non dimostra il Regno, lo mostra e lo fa fiorire dalle sue mani: libera, guarisce, perdona, toglie barriere, ridona pienezza di relazione a tutti, a cominciare dagli ultimi della fila. Il Regno è Dio venuto come guarigione dal male di vivere, come fioritura della vita in tutte le sue forme.
La seconda parola di Gesù chiede di prendere posizione: convertitevi, giratevi verso il Regno. C’è un’idea di movimento nella conversione, come nel moto del girasole che ogni mattino rialza la sua corolla e la mette in cammino sui sentieri del sole. Allora: “convertitevi” cioè “giratevi verso la luce perché la luce è già qui”. Ogni mattino, ad ogni risveglio, posso anch’io “convertirmi”, muovere pensieri e sentimenti e scelte verso una stella polare del vivere, verso la buona notizia che Dio oggi è più vicino, è entrato di più nel cuore del mondo e nel mio, all’opera con mite e possente energia per cieli nuovi e terra nuova.
Anch’io posso costruire la mia giornata su questo lieta certezza, non tenere più gli occhi bassi sui miei mille problemi, ma alzare il capo verso la luce, verso il Signore che mi assicura: io sono con te, non ti lascio più, non sarai mai più abbandonato. Credete “nel” Vangelo. Non al, ma nel Vangelo. Non basta aderire ad una dottrina, occorre buttarsi dentro, immergervi la vita, derivarne le scelte.
Camminando lungo il lago, Gesù vide… Vede Simone e in lui intuisce Pietro, la Roccia. Vede Giovanni e in lui indovina il discepolo dalle più belle parole d’amore. Un giorno, guarderà l’adultera trascinata a forza davanti a lui, e in lei vedrà la donna capace di amare bene di nuovo. Il Maestro guarda anche me, nei miei inverni vede grano che germina, generosità che non sapevo di avere, capacità che non sospettavo, lo sguardo di Gesù rende il cuore spazioso. Dio ha verso di me la fiducia di chi contempla le stelle prima ancora che sorgano.
Seguitemi, venite dietro a me. Gesù non si dilunga in motivazioni, perché il motivo è lui, che ti mette il Regno appena nato fra le mani. E lo dice con una frase inedita: Vi farò pescatori di uomini. Come se dicesse: “vi farò cercatori di tesori”. Mio e vostro tesoro sono gli uomini. Li tirerete fuori dall’oscurità, come pesci da sotto la superficie delle acque, come neonati dalle acque materne, come tesoro dissepolto dal campo. Li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. Mostrerete che è possibile vivere meglio, per tutti, e che il Vangelo ne possiede la chiave.
(Ermes Ronchi)
Racconto di vocazione
Ognuno di noi, soprattutto se anziano ma non colpito da demenza senile, va sovente con i suoi ricordi al passato, in particolare a quello che è stato l’inizio, il cominciare di una vicenda, di un amore che lo ha segnato per tutta la vita. Anche il cristiano fa questa operazione di cercare nel passato, quasi per riviverla, l’ora della conversione; o meglio, per moltissimi l’ora della vocazione, quando si è diventati consapevoli con il cuore che forse ci era rivolto un monito, che forse il Signore voleva che fossimo coinvolti nella sua vita più di quanto lo eravamo stati fino ad allora. Noi la chiamiamo, appunto, ora della vocazione.
La pagina del vangelo di questa domenica vuole essere proprio un racconto di vocazione in cui può specchiarsi chi predispone tutto per ascoltare la chiamata di Gesù, oppure può essere l’occasione per ricordarla come un evento del passato, che può avere ancora o non avere più forza, addirittura significato. Gesù torna in Galilea, la terra della sua infanzia, per iniziare a proclamare un messaggio che sentiva dentro di sé come una missione da parte di Dio Padre.
Incomincia questa vita di predicazione e di itineranza dopo che Giovanni, il suo rabbi, il suo maestro, colui che lo ha educato nella vita conforme all’alleanza con Dio e lo ha anche immerso nelle acque del Giordano (cf. Mc 1,9), è stato messo in prigione da Erode. È la fine di chi è profeta, e Gesù subito se la trova davanti come necessitas umana: se egli continuerà sulla strada del suo maestro, prima o poi conoscerà la persecuzione e la morte violenta.
Gesù inizia a proclamare la buona notizia, il Vangelo di Dio, nella consapevolezza che il tempo della preparazione, per Israele tempo dell’attesa dei profeti, che il tempo della pazienza di Dio ha raggiunto il suo compimento, come il tempo di una donna gravida. Alla fine della gravidanza c’è il parto, e così Gesù annuncia: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”.
Ecco la sintesi della sua predicazione: c’è l’inizio di un tempo nuovo in cui è possibile far regnare Dio nella vita degli uomini; affinché questo avvenga occorre convertirsi, ritornare a Dio, e poi credere alla buona notizia che è la presenza e la parola di Gesù stesso. Sì, è solo un versetto che dice questa novità, eppure è l’inizio di un tempo che dura ancora oggi e qui: è possibile che Dio regni su di me, su di te, su di noi, e così avviene che il regno di Dio è venuto.
Di fronte a questa gioiosa notizia, ma anche a questa nuova possibilità offerta dalla presenza di Gesù, ci siamo noi uomini e donne, che ancora oggi ascoltiamo il Vangelo. Che cosa facciamo? Come reagiamo? Stiamo forse vivendo quotidianamente, intenti al nostro lavoro, alla nostra occupazione quotidiana per guadagnarci da vivere, poco importa quale sia; oppure siamo in un momento di pausa; oppure siamo con altri a discorrere… Non c’è un’ora prestabilita: di colpo nel nostro cuore, senza che gli altri si accorgano di nulla, si accende una fiammella.
“Chissà? Chissà se sento una voce? Riuscirò a rispondere ‘sì’? Sarà per me questa voce che mi chiama ad andare? Dove? A seguire chi? Gesù? E come faccio? Sarà possibile?”. Tante domande che si intersecano, che svaniscono e ritornano, ma se sono ascoltate con attenzione allora può darsi che in esse si ascolti una voce più profonda di noi stessi, una voce che vien da un aldilà di noi stessi, eppure attraverso noi stessi: la voce del Signore Gesù! È così che inizia un rapporto tra ciascuno di noi e lui, sì, lui, il Signore, presenza invisibile ma viva, presenza che non parla in modo sonoro ma attrae…
Qui nel vangelo secondo Marco questo processo di vocazione è sintetizzato e per così dire stilizzato dall’autore, che narra solo l’essenziale: Gesù passa, vede e chiama; qualcuno ascolta e prende sul serio la sua parola “Seguimi!” e si coinvolge nella sua vita. È ciò che è vero per tutti ed è inutile dire di più: sarebbe solo un inseguire processi psicologici… Ma l’essenziale è stato detto, una volta per tutte: accolta la vocazione, si abbandonano le reti, cioè il mestiere, si abbandonano il padre e la barca, cioè l’impresa famigliare, e così ci si spoglia e si segue Gesù.
Attenzione però: la vocazione è un’avventura piena di grandezza ma anche di miseria! Per comprenderlo, è sufficiente seguire nei vangeli la vicenda di questi primi quattro chiamati. Il primo, Pietro, sul quale Gesù aveva riposto molta fiducia, vivendo vicino a lui spesso non capisce nulla di lui (cf. Mc 8,32; Mt 16,22), al punto che Gesù è costretto a chiamarlo “Satana” (Mc 8,33; Mt 16,23); a volte è distante da Gesù fino a contraddirlo (cf. Gv 13,8); a volte lo abbandona per dormire (cf. Mc 14,37-41 e par.); e infine lo rinnega, dice di conoscere se stesso e di non avere mai conosciuto Gesù (cf. Mc 14,66-72 e par.; Gv 18,17.25-27).
Andrea, Giacomo e Giovanni in molte situazioni non capiscono Gesù, lo fraintendono e non conoscono il suo cuore; i due figli di Zebedeo, in particolare, sono rimproverati aspramente da Gesù quando invocano un fuoco dal cielo per punire chi non li ha accolti (cf. Lc 9,54-55); e sempre essi, al Getsemani, dormono insieme a Pietro. Ma c’è di più, e Marco lo sottolinea in modo implacabile: coloro che qui, “abbandonato tutto seguirono Gesù”, nell’ora della passione, “abbandonato Gesù, fuggirono tutti” (Mc 14,50)…
Povera sequela! Sì, la mia sequela, la tua sequela, caro lettore. Non abbiamo davvero molto di cui vantarci… Dobbiamo solo invocare da parte di Dio tanta misericordia e ringraziarlo perché, nonostante tutto, stiamo ancora dietro a Gesù e tentiamo ancora, giorno dopo giorno, di vivere con lui.
(Enzo Bianchi)
Signore, vieni a invitarci
(…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti,
non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire,
essere gioioso,
essere leggero,
e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni
sui passi che ti piace fare.
Bisogna essere come un prolungamento,
vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra
scandisce.
(…)
Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,
e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica;
dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,
che la tua Santa Volontà
è di una inconcepibile fantasia,
e che non c’è monotonia e noia
se non per le anime vecchie,
che fanno tappezzeria
nel ballo gioioso del tuo amore.
Signore, vieni a invitarci.
(…)
Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo
che sono tristi;
se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo
che sono logoranti.
E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere;
sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.
Signore, insegnaci il posto
che tiene, nel romanzo eterno
avviato fra te e noi,
il ballo singolare della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;
in essa quel che tu permetti
da suoni strani
nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno
la nostra condizione umana
come un vestito da ballo che ci farà amare da te,
tutti i suoi dettagli
come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita,
non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come un match dove tutto è difficile,
non come un teorema rompicapo,
ma come una festa senza fine
in cui l’incontro con te si rinnova,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica universale dell’amore.
Signore, vieni a invitarci.
(Madeleine DELBRÉL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89).
Conversione
«Convertitevi e credete all’Evangelo!» (Marco 1,15 ); «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicinissimo!» (Matteo 4,17). La richiesta di conversione è al cuore delle due differenti redazioni del grido con cui Gesù ha dato inizio al suo ministero di predicazione. Collocandosi in continuità con le richieste di ritorno al Signore di Osea, di Geremia e di tutti i profeti fino a Giovanni Battista (cfr. Matteo 3,2), anche Gesù chiede conversione, cioè ritorno (in ebraico teshuvah) al Dio unico e vero. Questa predicazione è anche quella della chiesa primitiva e degli apostoli (cfr. Atti 2,38; 3,19) e non può che essere la richiesta e l’impegno della chiesa di ogni tempo.
Il verbo shuv, che appunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere» e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilità della chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano. La conversione non è infatti un’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che si stanno percorrendo (cfr. 1 Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,21), essa è motivata e fondata escatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e al Regno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trova tutto il suo senso. Solo una chiesa sotto il primato della fede può dunque vivere la dimensione della conversione. E solo vivendo in prima persona la conversione la chiesa può anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, e dunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiate dall’Evangelo, che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla agli altri. Ma se non c’è conversione, non si annuncia la salvezza e si è totalmente incapaci di richiedere agli uomini un cambiamento. Di fatto, dei cristiani mondani possono soltanto incoraggiare gli uomini a restare quel che sono, impedendo loro di vedere l’efficacia della salvezza: così essi sono di ostacolo all’evangelizzazione e depotenziano la forza dell’Evangelo. Dice un bel testo omiletico di Giovanni Crisostomo: «Non puoi predicare? Non puoi dispensare la parola della dottrina? Ebbene, insegna con le tue azioni e con il tuo comportamento, o neobattezzato. Quando gli uomini che ti sapevano impudico o cattivo, corrotto o indifferente, ti vedranno cambiato, convertito, non diranno forse come i giudei dicevano dell’uomo cieco dalla nascita che era stato guarito: “È lui?”. “Sì, è lui!” “No, ma gli assomiglia”. “Non è forse lui?”». Possiamo insomma dire che la conversione non coincide semplicemente con il momento iniziale della fede in cui si perviene all’adesione a Dio a partire da una situazione «altra», ma è la forma della fede vissuta.
(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, 67-70).
Vieni, seguimi!
Secondo Girolamo, la parola di vocazione che Gesù pronuncia corrisponde a una nuova creazione. Chi si incontra con Gesù rimane affascinato dal suo volto, scopre la sua realtà e intraprende il cammino di ritorno al Padre.
E subito li chiamò: e quelli, lasciato il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni, lo seguirono. Qualcuno potrebbe dire: — Ma questa fede è troppo temeraria. Infatti, quali segni avevano visto, da quale maestà erano stati colpiti, da seguirlo subito dopo essere stati chiamati? Qui ci vien fatto capire che gli occhi di Gesù e il suo volto dovevano irradiare qualcosa di divino, tanto che con facilità si convertivano coloro che lo guardavano. Gesù non dice nient’altro che «seguitemi», e quelli lo seguono. È chiaro che se lo avessero seguito senza ragione, non si sarebbe trattato di fede ma di temerarietà. Infatti, se il primo che passa dice a me, che sto qui seduto, vieni, seguimi, e io lo seguo, agisco forse per fede?
Perché dico tutto questo? Perché la stessa parola del Signore aveva l’efficacia di un atto: qualunque cosa egli dicesse, la realizzava. Se infatti «egli disse e tutto fu fatto, egli comandò e tutto fu creato» [Sal 148,5], sicuramente, nello stesso modo, egli chiamò e subito essi lo seguirono.
«E subito li chiamò: e quelli subito, lasciato il loro padre Zebedeo…» ecc. «Ascolta, figlia, e guarda, e porgi il tuo orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre: il re desidera la tua bellezza» [Sal 44,11ss.]. Essi dunque lasciarono il loro padre nella barca. Ascolta, imita gli apostoli: ascolta la voce del Salvatore, e trascura la voce carnale del padre. Segui il vero Padre dell’anima e dello spirito, e abbandona il padre del corpo. Gli apostoli abbandonano il padre, abbandonano la barca, in un momento abbandonano ogni loro ricchezza: essi, cioè, abbandonano il mondo e le infinite ricchezze del mondo. Ripeto, abbandonarono tutto quanto avevano: Dio non tiene conto della grandezza delle ricchezze abbandonate, ma dell’animo di colui che le abbandona. Coloro che hanno abbandonato poco perché poco avevano, sono considerati come se avessero abbandonato moltissimo.
(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2 (Tr.: R. MINUTI-R. MARSIGLIO, Roma, 1965, 35-36).
Butto la rete
Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita. Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.
(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto. Pensieri e lettre spirituali 1977-2005, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 58).
Preghiera
Signore, tu hai aperto il mare e sei venuto fino a me;
tu hai spezzato la notte e hai inaugurato per la mia vita un giorno nuovo!
Tu mi hai rivolto la tua Parola e mi hai toccato il cuore;
mi hai fatto salire con te sulla barca e mi hai portato al largo.
Signore, Tu hai fatto cose grandi!
Ti lodo, ti benedico e ti ringrazio, nella tua Parola, nel tuo Figlio Gesù e nello Spirito Santo.
Portami sempre al largo, con te, dentro di te e tu in me,
per gettare reti e reti di amore,
di amicizia, di condivisione,
di ricerca insieme del tuo volto e del tuo regno già su questa terra.
Signore, sono peccatore, lo so, ma anche per questo ti ringrazio, perché tu non sei venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori e io ascolto la tua voce e ti seguo.
Ecco, Padre, lascio tutto e vengo con te…
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
o serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi, Chinellato.
PER L’APPROFONDIMENTO:
Intelligenza artificiale e pace
Messaggio per la 57a Giornata mondiale della pace
«La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso». Il tema di fondo del messaggio di papa Francesco per la 57a Giornata mondiale della pace (1.1.2024), che è stato pubblicato il 14 dicembre, è quello dell’intelligenza artificiale, che secondo il pontefice fa parte dei «prodotti straordinari» del «potenziale creativo» dell’intelligenza umana, a patto però di essere al servizio della dignità intrinseca dell’uomo e della promozione della giustizia e della fraternità.
Il messaggio è intitolato Intelligenza artificiale e pace, e indica la «necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica – in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie».
Stampa (14.12.2023) da sito web www.vatican.va.
All’inizio del nuovo anno, tempo di grazia che il Signore dona a ciascuno di noi, vorrei rivolgermi al popolo di Dio, alle nazioni, ai capi di stato e di governo, ai rappresentanti delle diverse religioni e della società civile, a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo per porgere i miei auguri di pace.
1. Il progresso della scienza e della tecnologia come via verso la pace
La sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Es 35,31). L’intelligenza è espressione della dignità donataci dal Creatore, che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26) e ci ha messo in grado di rispondere al suo amore attraverso la libertà e la conoscenza. La scienza e la tecnologia manifestano in modo particolare tale qualità fondamentalmente relazionale dell’intelligenza umana: sono prodotti straordinari del suo potenziale creativo.
Nella costituzione pastorale Gaudium et spes, il concilio Vaticano II ha ribadito questa verità, dichiarando che «col suo lavoro e col suo ingegno l’uomo ha cercato sempre di sviluppare la propria vita». Quando gli esseri umani, «con l’aiuto della tecnica», si sforzano affinché la terra «diventi una dimora degna di tutta la famiglia umana», agiscono secondo il disegno di Dio e cooperano con la sua volontà di portare a compimento la creazione e di diffondere la pace tra i popoli. Anche il progresso della scienza e della tecnica, nella misura in cui contribuisce a un migliore ordine della società umana, ad accrescere la libertà e la comunione fraterna, porta dunque al miglioramento dell’uomo e alla trasformazione del mondo.
Giustamente ci rallegriamo e siamo riconoscenti per le straordinarie conquiste della scienza e della tecnologia, grazie alle quali si è posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano la vita umana e causavano grandi sofferenze. Allo stesso tempo i progressi tecnico-scientifici, rendendo possibile l’esercizio di un controllo finora inedito sulla realtà, stanno mettendo nelle mani dell’uomo una vasta gamma di possibilità, alcune delle quali possono rappresentare un rischio per la sopravvivenza e un pericolo per la casa comune.
I notevoli progressi delle nuove tecnologie dell’informazione, specialmente nella sfera digitale, presentano dunque entusiasmanti opportunità e gravi rischi, con serie implicazioni per il perseguimento della giustizia e dell’armonia tra i popoli. È pertanto necessario porsi alcune domande urgenti. Quali saranno le conseguenze, a medio e a lungo termine, delle nuove tecnologie digitali? E quale impatto avranno sulla vita degli individui e della società, sulla stabilità internazionale e sulla pace?
2. Il futuro dell’intelligenza artificiale tra promesse e rischi
I progressi dell’informatica e lo sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi decenni hanno già iniziato a produrre profonde trasformazioni nella società globale e nelle sue dinamiche. I nuovi strumenti digitali stanno cambiando il volto delle comunicazioni, della pubblica amministrazione, dell’istruzione, dei consumi, delle interazioni personali e di innumerevoli altri aspetti della vita quotidiana.
Inoltre le tecnologie che impiegano una molteplicità di algoritmi possono estrarre, dalle tracce digitali lasciate su Internet, dati che consentono di controllare le abitudini mentali e relazionali delle persone a fini commerciali o politici, spesso a loro insaputa, limitandone il consapevole esercizio della libertà di scelta. Infatti in uno spazio come il web, caratterizzato da un sovraccarico di informazioni, possono strutturare il flusso di dati secondo criteri di selezione non sempre percepiti dall’utente.
Dobbiamo ricordare che la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche non sono disincarnate dalla realtà e «neutrali», ma soggette alle influenze culturali. In quanto attività pienamente umane, le direzioni che prendono riflettono scelte condizionate dai valori personali, sociali e culturali di ogni epoca. Dicasi lo stesso per i risultati che conseguono: essi, proprio in quanto frutto di approcci specificamente umani al mondo circostante, hanno sempre una dimensione etica, strettamente legata alle decisioni di chi progetta la sperimentazione e indirizza la produzione verso particolari obiettivi.
Questo vale anche per le forme di intelligenza artificiale. Di essa, a oggi, non esiste una definizione univoca nel mondo della scienza e della tecnologia. Il termine stesso, ormai entrato nel linguaggio comune, abbraccia una varietà di scienze, teorie e tecniche volte a far sì che le macchine riproducano o imitino, nel loro funzionamento, le capacità cognitive degli esseri umani. Parlare al plurale di «forme di intelligenza» può aiutare a sottolineare soprattutto il divario incolmabile che esiste tra questi sistemi, per quanto sorprendenti e potenti, e la persona umana: essi sono, in ultima analisi, «frammentari», nel senso che possono solo imitare o riprodurre alcune funzioni dell’intelligenza umana. L’uso del plurale evidenzia inoltre che questi dispositivi, molto diversi tra loro, vanno sempre considerati come «sistemi socio-tecnici». Infatti il loro impatto, al di là della tecnologia di base, dipende non solo dalla progettazione, ma anche dagli obiettivi e dagli interessi di chi li possiede e di chi li sviluppa, nonché dalle situazioni in cui vengono impiegati.
L’intelligenza artificiale, quindi, deve essere intesa come una galassia di realtà diverse e non possiamo presumere a priori che il suo sviluppo apporti un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli. Tale risultato positivo sarà possibile solo se ci dimostreremo capaci di agire in modo responsabile e di rispettare valori umani fondamentali come «l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità».
Non è sufficiente nemmeno presumere, da parte di chi progetta algoritmi e tecnologie digitali, un impegno ad agire in modo etico e responsabile. Occorre rafforzare o, se necessario, istituire organismi incaricati di esaminare le questioni eti-che emergenti e di tutelare i diritti di quanti utilizzano forme di intelligenza artificiale o ne sono influenzati.
L’immensa espansione della tecnologia deve quindi essere accompagnata da un’adeguata formazione alla responsabilità per il suo sviluppo. La libertà e la convivenza pacifica sono minacciate quando gli esseri umani cedono alla tentazione dell’egoismo, dell’interesse personale, della brama di profitto e della sete di potere. Abbiamo perciò il dovere di allargare lo sguardo e di orientare la ricerca tecnico-scientifica al perseguimento della pace e del bene comune, al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo e della comunità.
La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso.
L’intelligenza artificiale diventerà sempre più importante. Le sfide che pone sono tecniche, ma anche antropologiche, educative, sociali e politiche. Promette, ad esempio, un risparmio di fatiche, una produzione più efficiente, trasporti più agevoli e mercati più dinamici, oltre a una rivoluzione nei processi di raccolta, organizzazione e verifica dei dati. Occorre essere consapevoli delle rapide trasformazioni in atto e gestirle in modo da salvaguardare i diritti umani fondamentali, rispettando le istituzioni e le leggi che promuovono lo sviluppo umano integrale. L’intelligenza artificiale dovrebbe essere al servizio del migliore potenziale umano e delle nostre più alte aspirazioni, non in competizione con essi.
3. La tecnologia del futuro: macchine che imparano da sole
Nelle sue molteplici forme l’intelligenza artificiale, basata su tecniche di apprendimento automatico (machine learning), pur essendo ancora in fase pionieristica, sta già introducendo notevoli cambiamenti nel tessuto delle società, esercitando una profonda influenza sulle culture, sui comportamenti sociali e sulla costruzione della pace.
Sviluppi come il machine learning o come l’apprendimento profondo (deep learning) sollevano questioni che trascendono gli ambiti della tecnologia e dell’ingegneria e hanno a che fare con una comprensione strettamente connessa al significato della vita umana, ai processi basilari della conoscenza e alla capacità della mente di raggiungere la verità.
L’abilità di alcuni dispositivi nel produrre testi sintatticamente e semanticamente coerenti, ad esempio, non è garanzia di affidabilità. Si dice che possano «allucinare», cioè generare affermazioni che a prima vista sembrano plausibili, ma che in realtà sono infondate o tradiscono pregiudizi. Questo pone un serio problema quando l’intelligenza artificiale viene impiegata in campagne di disinformazione che diffondono notizie false e portano a una crescente sfiducia nei confronti dei mezzi di comunicazione. La riservatezza, il possesso dei dati e la proprietà intellettuale sono altri ambiti in cui le tecnologie in questione comportano gravi rischi, a cui si aggiungono ulteriori conseguenze negative legate a un loro uso improprio, come la discriminazione, l’interferenza nei processi elettorali, il prendere piede di una società che sorveglia e controlla le persone, l’esclusione digitale e l’inasprimento di un individualismo semri rischiano di alimentare i conflitti e di ostacolare la pace.
4. Il senso del limite nel paradigma tecnocratico
Il nostro mondo è troppo vasto, vario e complesso per essere completamente conosciuto e classificato. La mente umana non potrà mai esaurirne la ricchezza, nemmeno con l’aiuto degli algoritmi più avanzati. Questi, infatti, non offrono previsioni garantite del futuro, ma solo approssimazioni statistiche. Non tutto può essere pronosticato, non tutto può essere calcolato; alla fine «la realtà è superiore all’idea» e, per quanto prodigiosa possa essere la nostra capacità di calcolo, ci sarà sempre un residuo inaccessibile che sfugge a qualsiasi tentativo di misurazione.
Inoltre la grande quantità di dati analizzati dalle intelligenze artificiali non è di per sé garanzia di imparzialità. Quando gli algoritmi estrapolano informazioni, corrono sempre il rischio di distorcerle, replicando le ingiustizie e i pregiudizi degli ambienti in cui esse hanno origine. Più diventano veloci e complessi, più è difficile comprendere perché abbiano prodotto un determinato risultato.
Le macchine «intelligenti» possono svolgere i compiti loro assegnati con sempre maggiore efficienza, ma lo scopo e il significato delle loro operazioni continueranno a essere determinati o abilitati da esseri umani in possesso di un proprio universo di valori. Il rischio è che i criteri alla base di certe scelte diventino meno chiari, che la responsabilità decisionale venga nascosta e che i produttori possano sottrarsi all’obbligo di agire per il bene della comunità. In un certo senso ciò è favorito dal sistema tecnocratico, che allea l’economia con la tecnologia e privilegia il criterio dell’efficienza, tendendo a ignorare tutto ciò che non è legato ai suoi interessi immediati.
Questo deve farci riflettere su un aspetto tanto spesso trascurato nella mentalità attuale, tecnocratica ed efficientista, quanto decisivo per lo sviluppo personale e sociale: il «senso del limite». L’essere umano, infatti, mortale per definizione, pensando di travalicare ogni limite in virtù della tecnica, rischia, nell’ossessione di voler controllare tutto, di perdere il controllo su se stesso; nella ricerca di una libertà assoluta, di cadere nella spirale di una dittatura tecnologica. Riconoscere e accettare il proprio limite di creatura è per l’uomo condizione indispensabile per conseguire, o meglio, accogliere in dono la pienezza. Invece nel contesto ideologico di un paradigma tecnocratico, animato da una prometeica presunzione di autosufficienza, le disuguaglianze potrebbero crescere a dismisura, e la conoscenza e la ricchezza accumularsi nelle mani di pochi, con gravi rischi per le società democratiche e la coesistenza pacifica.
5. Temi scottanti per l’etica
In futuro l’affidabilità di chi richiede un mutuo, l’idoneità di un individuo a un lavoro, la possibilità di recidiva di un condannato o il diritto a ricevere asilo politico o assistenza sociale potrebbero essere determinati da sistemi di intelligenza artificiale. La mancanza di diversificati livelli di mediazione che questi sistemi introducono è particolarmente esposta a forme di pregiudizio e discriminazione: gli errori sistemici possono facilmente moltiplicarsi, producendo non solo ingiustizie in singoli casi ma anche, per effetto domino, vere e proprie forme di disuguaglianza sociale.
Talvolta, inoltre, le forme di intelligenza artificiale sembrano in grado di influenzare le decisioni degli individui attraverso opzioni predeterminate associate a stimoli e dissuasioni, oppure mediante sistemi di regolazione delle scelte personali basati sull’organizzazione delle informazioni. Queste forme di manipolazione o di controllo sociale richiedono un’attenzione e una supervisione accurate, e implicano una chiara responsabilità legale da parte dei produttori, di chi le impiega e delle autorità governative.
L’affidamento a processi automatici che categorizzano gli individui, ad esempio attraverso l’uso pervasivo della vigilanza o l’adozione di sistemi di credito sociale, potrebbe avere ripercussioni profonde anche sul tessuto civile, stabilendo improprie graduatorie tra i cittadini. E questi processi artificiali di classificazione potrebbero portare anche a conflitti di potere, non riguardando solo destinatari virtuali, ma persone in carne e ossa. Il rispetto fondamentale per la dignità umana postula di rifiutare che l’unicità della persona venga identificata con un insieme di dati. Non si deve permettere agli algoritmi di determinare il modo in cui intendiamo i diritti umani, di mettere da parte i valori essenziali della compassione, della misericordia e del perdono o di eliminare la possibilità che un individuo cambi e si lasci alle spalle il passato.
In questo contesto non possiamo fare a meno di considerare l’impatto delle nuove tecnologie in ambito lavorativo: mansioni che un tempo erano appannaggio esclusivo della manodopera umana vengono rapidamente assorbite dalle applicazioni industriali dell’intelligenza artificiale. Anche in questo caso c’è il rischio sostanziale di un vantaggio sproporzionato per pochi a scapito dell’impoverimento di molti. Il rispetto della dignità dei lavoratori e l’importanza dell’occupazione per il benessere economico delle persone, delle famiglie e delle società, la sicurezza degli impieghi e l’equità dei salari dovrebbero costituire un’alta priorità per la comunità internazionale, mentre queste forme di tecnologia penetrano sempre più profondamente nei luoghi di lavoro.
6. Trasformeremo le spade in vomeri?
In questi giorni, guardando il mondo che ci circonda, non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti. La possibilità di condurre operazioni militari attraverso sistemi di controllo remoto ha portato a una minore percezione della devastazione da essi causata e della responsabilità del loro utilizzo, contribuendo a un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra. La ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore dei cosiddetti «sistemi d’arma autonomi letali», incluso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale, è un grave motivo di preoccupazione etica. I sistemi d’arma autonomi non potranno mai essere soggetti moralmente responsabili: l’esclusiva capacità umana di giudizio morale e di decisione etica è più di un complesso insieme di algoritmi, e tale capacità non può essere ridotta alla programmazione di una macchina che, per quanto «intelligente», rimane pur sempre una macchina. Per questo motivo è imperativo garantire una supervisione umana adeguata, significativa e coerente dei sistemi d’arma.
Non possiamo nemmeno ignorare la possibilità che armi sofisticate finiscano nelle mani sbagliate, facilitando, ad esempio, attacchi terroristici o interventi volti a destabilizzare istituzioni di governo legittime. Il mondo, insomma, non ha proprio bisogno che le nuove tecnologie contribuiscano all’iniquo sviluppo del mercato e del commercio delle armi, promuovendo la follia della guerra. Così facendo non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo correrà il rischio di diventare sempre più «artificiale». Le più avanzate applicazioni tecniche non vanno impiegate per agevolare la risoluzione violenta dei conflitti, ma per pavimentare le vie della pace.
In un’ottica più positiva, se l’intelligenza artificiale fosse utilizzata per promuovere lo sviluppo umano integrale, potrebbe introdurre importanti innovazioni nell’agricoltura, nell’istruzione e nella cultura, un miglioramento del livello di vita di intere nazioni e popoli, la crescita della fraternità umana e dell’amicizia sociale. In definitiva, il modo in cui la utilizziamo per includere gli ultimi, cioè i fratelli e le sorelle più deboli e bisognosi, è la misura rivelatrice della nostra umanità.
Uno sguardo umano e il desiderio di un futuro migliore per il nostro mondo portano alla necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica –, in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie. Le questioni etiche dovrebbero essere tenute in considerazione fin dall’inizio della ricerca, così come nelle fasi di sperimentazione, progettazione, produzione, distribuzione e commercializzazione. Questo è l’approccio dell’etica della progettazione, in cui le istituzioni educative e i responsabili del processo decisionale hanno un ruolo essenziale da svolgere.
7. Sfide per l’educazione
Lo sviluppo di una tecnologia che rispetti e serva la dignità umana ha chiare implicazioni per le istituzioni educative e per il mondo della cultura. Moltiplicando le possibilità di comunicazione, le tecnologie digitali hanno permesso di incontrarsi in modi nuovi. Tuttavia rimane la necessità di una riflessione continua sul tipo di relazioni a cui ci stanno indirizzando. I giovani stanno crescendo in ambienti culturali pervasi dalla tecnologia e questo non può non mettere in discussione i metodi di insegnamento e formazione.
L’educazione all’uso di forme di intelligenza artificiale dovrebbe mirare soprattutto a promuovere il pensiero critico. È necessario che gli utenti di ogni età, ma soprattutto i giovani, sviluppino una capacità di discernimento nell’uso di dati e contenuti raccolti sul web o prodotti da sistemi di intelligenza artificiale. Le scuole, le università e le società scientifiche sono chiamate ad aiutare gli studenti e i professionisti a fare propri gli aspetti sociali ed etici dello sviluppo e dell’utilizzo della tecnologia.
La formazione all’uso dei nuovi strumenti di comunicazione dovrebbe tenere conto non solo della disinformazione, delle fake news, ma anche dell’inquietante recrudescenza di «paure ancestrali (…) che hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie». Purtroppo ancora una volta ci troviamo a dover combattere «la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri per impedire l’incontro con altre culture, con altra gente» e lo sviluppo di una coesistenza pacifica e fraterna.
8. Sfide per lo sviluppo del diritto internazionale
La portata globale dell’intelligenza artificiale rende evidente che, accanto alla responsabilità degli stati sovrani di disciplinarne l’uso al proprio interno, le organizzazioni internazionali possono svolgere un ruolo decisivo nel raggiungere accordi multilaterali e nel coordinarne l’applicazione e l’attuazione. A tale proposito esorto la comunità delle nazioni a lavorare unita al fine di adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale nelle sue molteplici forme. L’obiettivo della regolamentazione, naturalmente, non dovrebbe essere solo la prevenzione delle cattive pratiche, ma anche l’incoraggiamento delle buone pratiche, stimolando approcci nuovi e creativi e facilitando iniziative personali e collettive.
In definitiva, nella ricerca di modelli normativi che possano fornire una guida etica agli sviluppatori di tecnologie digitali, è indispensabile identificare i valori umani che dovrebbero essere alla base dell’impegno delle società per formulare, adottare e applicare necessari quadri legislativi. Il lavoro di redazione di linee guida etiche per la produzione di forme di intelligenza artificiale non può prescindere dalla considerazione di questioni più profonde riguardanti il significato dell’esistenza umana, la tutela dei diritti umani fondamentali, il perseguimento della giustizia e della pace.
Questo processo di discernimento etico e giuridico può rivelarsi un’occasione preziosa per una riflessione condivisa sul ruolo che la tecnologia dovrebbe avere nella nostra vita individuale e comunitaria e su come il suo utilizzo possa contribuire alla creazione di un mondo più equo e umano. Per questo motivo, nei dibattiti sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, si dovrebbe tenere conto della voce di tutte le parti interessate, compresi i poveri, gli emarginati e altri che spesso rimangono inascoltati nei processi decisionali globali.
Spero che questa riflessione incoraggi a far sì che i progressi nello sviluppo di forme di intelligenza artificiale servano, in ultima analisi, la causa della fraternità umana e della pace. Non è responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana. La pace, infatti, è il frutto di relazioni che riconoscono e accolgono l’altro nella sua inalienabile dignità, e di cooperazione e impegno nella ricerca dello sviluppo integrale di tutte le persone e di tutti i popoli.
La mia preghiera all’inizio del nuovo anno è che il rapido sviluppo di forme di intelligenza artificiale non accresca le troppe disuguaglianze e ingiustizie già presenti nel mondo, ma contribuisca a porre fine a guerre e conflitti, e ad alleviare molte forme di sofferenza che affliggono la famiglia umana. Possano i fedeli cristiani, i credenti di varie religioni e gli uomini e le donne di buona volontà collaborare in armonia per cogliere le opportunità e affrontare le sfide poste dalla rivoluzione digitale, e consegnare alle generazioni future un mondo più solidale, giusto e pacifico.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2023
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