III DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Neemia 8,2-4.5-6.8-10

 In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi ratristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».

           

 

v Il libro di Neemia può essere diviso in tre parti: la prima (cc. 1-7) narra la ricostruzione delle mura di Gerusalemme, la riforma sociale e l’organizzazione della città; la seconda (cc.

8-9) presenta la promulgazione della legge giudaica a cui fa seguito la festa dei tabernacoli, la preghiera penitenziale e l’impegno assunto dalla comunità nei confronti della legge; la terza parte (cc. 10-13) contiene alcuni dati statistici e informa sulle ultime azioni di Neemia. Il brano della nostra lettura si trova nella seconda parte, di cui è un momento culminante.

     Il tratto dà il quadro grandioso e solenne dell’avvenimento costitutivo della comunità giudaica, e cioè della promulgazione della legge. Esdra e i leviti leggono alcune parti della legge; è il giorno della nascita del giudaismo. L’assemblea del popolo ascolta in piedi la proclamazione della legge; il popolo viene direttamente interpellato e posto di fronte alle sue responsabilità e ai suoi doveri nei confronti di Dio quale comunità dell’alleanza. Avviene una liturgia vera e propria; Esdra benedice il Signore, i presenti rispondono: amen, compiendo il gesto rituale di alzare le mani; poi tutti si inginocchiano e adorano il Signore. Questi aspetti liturgici della descrizione sono molto simili alla celebrazione del culto giudaico nel periodo sinagogale.

     Nella liturgia della Chiesa questo testo biblico che, nell’annuncio e nell’accoglienza della legge di Dio, pone l’atto di nascita della comunità del popolo eletto dopo l’esilio, assume il significato di indicare che nella presente celebrazione l’ascolto della parola di Dio e l’adesione ad essa nella fede crea e mantiene la comunità dei credenti in Cristo; attorno alla parola di Dio la chiesa viene costituita in assemblea liturgica cultuale. Si ha così una visualizzazione dell’insegnamento del concilio ecumenico Vaticano secondo: «Il popolo di Dio viene adunato anzitutto per mezzo della parola del Dio vivente (…), in virtù della parola salvatrice la fede si accende e si alimenta nel cuore dei credenti, e con la fede ha inizio e cresce la comunità dei credenti» (Presbyterorum Ordinis n. 4). L’evento raccontato nella lettura è anticipazione della costituzione della Chiesa viva e la Chiesa viva è compimento e realizzazione della prefigurazione profetica descritta nella lettura.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 12,12-30

 

Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?

    

 

v Il brano della lettura, che fa seguito immediato a quello della domenica precedente, si trova nella seconda parte della lettera, nel punto in cui l’apostolo risolve i quesiti che gli sono stati posti. Qui continua a trattare il tema dei carismi, esponendo l’immagine dell’unico corpo di Cristo.

     In questo tratto l’autore insiste sulla necessità che tutti, dotati di doni diversi, collaborino alla missione dell’unica Chiesa. Si serve dell’esempio delle membra e del corpo, esempio allora classico. Tutte le membra hanno una funzione indispensabile per il bene di tutto.  In tale unità e solidarietà non c’è posto per i complessi di inferiorità o di superiorità, tutti portano un contributo tutti compiono una funzione. Ma la Chiesa unita e solidale a modo del corpo fisico forma realmente il corpo di Cristo, animato dalla vita dello Spirito Santo. È  una delle grandi idee sul mistero della Chiesa. Essa non è una società nata dalle varie iniziative degli uomini, diretta da loro; esprime invece e attua una unità mistica che è Cristo nell’atto di riunire i credenti. Con il battesimo tutti i cristiani sono incorporati in Cristo per opera dello Spinto Santo; tutti fummo abbeverati di uno stesso Spirito, cioè ricevemmo l’abbondanza del suo dono. Dal battesimo sorgono le diverse funzioni elencate per il bene della chiesa. Il termine «apostoli» non comprende soltanto il gruppo dei Dodici, ma tutti i predicatori del vangelo, favoriti di carismi divini; i dottori sono coloro che con il dono della scienza e della sapienza istruiscono i fedeli nelle verità della religione; il dono di assistere è quello di compiere opere di misericordia soccorrere i poveri, i malati bisognosi. Il brano della lettura si conclude con l’esortazione ad aspirare ai carismi migliori; segue ad esso infatti l’elogio della carità.

 

Vangelo: Luca 1,1-4;4,14-21

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

 

 

Esegesi

 

     Il vangelo di Luca dopo il prologo (1,1-4) si articola nel racconto dell’infanzia di Giovanni e di Gesù (1,5-2,52), nella descrizione del ministero di Gesù in Galilea (3,1-9,50), nella narrazione del grande viaggio verso Gerusalemme (9,51;19,28), nel ministero di Gesù a Gerusalemme (20-21) e nel mistero finale di morte e risurrezione (22-24). Il brano della lettura evangelica della terza domenica del tempo ordinario nel ciclo C congiunge due tratti evangelici staccati, e cioè l’inizio, il prologo (Lc 1,1-4) e la inaugurazione del ministero pubblico di Gesù in Galilea nella sinagoga di Nazaret (Lc 4).

     Aspetti di esegesi

     Prologo: Questo prologo di Luca al suo vangelo composto con arte e con armonia di parti, ha un’andatura classica e attesta il proposito dell’evangelista di comporre un’opera storica coscienziosa. Molti avevano già scritto intorno alla vita e agli insegnamenti di Gesù. Luca vuole servirsi di fonti scritte, interrogare le fonti orali più accreditate, cioè i testimoni oculari, specialmente gli apostoli. Dopo questa indagine accurata e universale l’evangelista scriverà tutto con ordine, disponendo i fatti in un vasto disegno e quadro storico e cronologico non trascurando la connessione logica. L’opera è dedicata a Teofilo, personaggio di famiglia elevata, appartenente alla nobiltà. Luca scrive infatti: «Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,1-4).

     Inaugurazione del ministero di Gesù a Nazaret. All’inizio dell’attività di Gesù la scena qui descritta costituisce un momento programmatico. In un solo tratto Luca mette in evidenza le grandi idee dell’opera di Gesù; Gesù agisce mosso e guidato dallo Spirito: «In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode» (Lc 4,14-15); lo Spirito, che era disceso su Gesù nel battesimo ora agisce in lui ispirandolo, conducendolo, e rendendo efficace il suo ministero; lo Spirito e Cristo sono inseparabili; Gesù incomincia ad insegnare ed è ammirato e lodato dalle folle; il seguito del racconto infatti informa che «Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); l’affermazione secondo cui la sua fama si diffuse in tutta la regione è come un ritornello nel vangelo di Luca, che lo ripete dopo l’insegnamento a Cafarnao (Lc 4,37), dopo la guarigione del lebbroso (Lc 5,15) e dopo la risurrezione del figlio della donna di Naim (Lc 7,17).

     In Gesù si compie la vocazione espressa nell’antico Testamento nel libro di Isaia nel testo profetico 61,1-2 che egli legge nella sinagoga di Nazaret ove inaugura il suo ministero: «Secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,16-19; Is 61,1-2).

     Il testo descrive la chiamata e la missione del profeta come annuncio e messaggio di consolazione; Gesù applica a sé il testo profetico: «Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20-21). Gesù è unto da Dio Padre con lo Spirito Santo per la missione; il compito di tale missione consiste nell’annunziare il lieto messaggio ai poveri, nel proclamare la liberazione ai prigionieri, nel dare la vista ai ciechi, nel rimettere in libertà gli oppressi, nel predicare l’anno di grazia. Si tratta di una funzione che ha carattere profetico e insieme messianico; a tale compito egli è abilitato dallo Spirito Santo a lui donato da Dio Padre come unzione per la consacrazione. Il brano evangelico risulta così una presentazione che Gesù fa di se stesso inaugurando il suo ministero.

             

Meditazione 

     Erano stati il battesimo ricevuto al Giordano (cfr. Lc 3,21-22) e lo scontro con Satana nel deserto (cfr. Lc 4,1-13) a dargli quell’energia incontenibile. Il dono dello Spirito Santo e la vittoriosa lotta contro lo spirito del male gli avevano dato una carica e una lucidità profetica uniche. Gesù ormai girava insegnando tra le genti e queste «gli rendevano lode» (Lc 4,15). Assistiamo incantati allo sbocciare della vocazione travolgente di Gesù. La tradizione monastica definisce questo momento del cammino ‘fervore novizio’, dove ogni ostacolo è vinto dalla passione di un’ardente adesione all’evangelo.

     Gesù torna al luogo delle sue origini, tra i suoi famigliari, a Nazaret. E anche qui, una volta ancora, pone al centro della sua vita e delle relazioni con i suoi conoscenti la parola di Dio, secondo una metodologia tanto antica – ce ne viene fatta una precisa descrizione nella prima lettura, tratta dal libro di Neemia – quanto attuale anche per noi, essendo quella che ancor oggi viene seguita nelle nostre liturgie: scelta una sezione dal Libro, questa viene proclamata con chiarezza e autorità, facendovi seguire un commento esplicativo e attualizzante, al fine di mostrare la pertinenza del testo con la vita di chi ascolta e provocare la meditazione, la conversione, la preghiera.

     Il brano scelto da Gesù è uno dei più luminosi di tutto il Primo Testamento. Narra di un personaggio che, rinnovato dall’unzione dello Spirito Santo, viene incaricato dal Signore di recare una esaltante comunicazione: «mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).

     Dopo la lettura, è certo che deve essere sceso un silenzio perfetto in quell’assemblea. Ancor oggi è forse il momento della celebrazione in cui l’attenzione è massima, perché ci si prepara ad ascoltare il commento che verrà tenuto (e a valutare il predicatore…). Se poi a svolgere questo incarico è un ragazzo del paese, di cui si sente dire un gran bene, è facile immaginare la scena: un’assemblea quasi in ‘apnea’, con gli occhi fissi su di un unico punto… (cfr. Lc 4,20).

     Personalmente, sono intrigato dal tentativo di ipotizzare cosa potesse passare in quel frangente per il cuore e per la mente di Gesù. Il seguito del racconto, non riportato dal brano liturgico, ci fa sapere che il suo stato d’animo non era affatto assalito da vergogna, timidezza o da una qualche forma di soggezione verso i suoi conterranei (cfr. Lc 4,23-27). Ho invece il sospetto che Gesù stesse rapidamente rendendosi conto che, a partire da quanto aveva vissuto precedentemente e da quanto aveva appena letto, il misterioso personaggio, datore dell’universale messaggio di liberazione, potesse essere… lui stesso. Come ogni altro essere umano, seppur secondo una specialissima esperienza, Gesù è andato ricercando quale potesse essere il miglior modo per rendere onore a Dio, è andato ricercando segni storici per contribuire ad attuare il sogno di Dio.

     Non sappiamo quanti secondi o minuti sia durato il silenzio in cui l’assemblea e Gesù erano immersi. Certo è che la prima parola risuonata dalla bocca del «figlio di Giuseppe» (Lc 4,22) ha proprio dell’incredibile: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). In modo ancor più suggestivo, il testo originale greco afferma: «che si è compiuta nei vostri orecchi». Ora, non era la prima volta che le parole del profeta Isaia risuonavano in una sinagoga. Ma in Gesù si realizzano in modo assolutamente unico, perché in lui vanno a coincidere. Lui è la Parola, che realizza tutte le attese e le profezie. Tutta la sua esistenza sarebbe stata lo ‘svolgimento’ del messaggio di liberazione annunciato e atteso. Detto in altre parole, Gesù sta dicendo di essere il Messia e che avrebbe portato una svolta decisiva al Regno di Dio.

     Non credo che noi potremo mai renderci conto di quello che devono aver provato gli ascoltatori presenti in quel luogo di culto. Forse tra costoro c’erano alcuni che sono poi diventati, secondo la testimonianza dell’evangelista Luca, «testimoni oculari» (Lc 1,2) della vicenda di Gesù. Comunque sia, non abbiamo da rimpiangere nulla: ogni volta che ascoltiamo e celebriamo la parola evangelica, possiamo entrare in relazione con il Signore Gesù in modo certamente più profondo ed esistenziale di quanto hanno potuto fare gli abitanti di Nazaret; anche perché siamo meglio a conoscenza del destino e della speranza che Gesù

ha inaugurato. Ascoltatori della Parola per vivere della Parola!

 

L’immagine della domenica

 


Alice: «Per quanto tempo è per sempre?».

Bianconiglio: «A volte, solo un secondo».

(L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie).


Preghiere e racconti

 

L’ascolto della parola di Dio

C’è un profondo bisogno di amore in ciascuno di noi, così spesso prigionieri delle nostre solitudini. È il bisogno di una parola di vita che vinca le nostre paure e ci faccia sentire amati. Il profeta Amos descrive con efficacia questa situazione: “Ecco, verranno giorni  oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore” (8,11). E sant’Agostino – che quella Parola ha incontrato, fino a farne la ragione di tutta la sua vita – così presenta la risposta del Dio vivente al nostro bisogno: “Da quella città il Padre nostro ci ha inviato delle lettere, ci ha fatto pervenire le Scritture, onde accendere in noi il desiderio di tornare a casa” (Commento ai Salmi, 64, 2-3).

 Se si arriva a comprendere – come è capitato a tanti credenti di ieri e di oggi – che la Bibbia è questa “lettera di Dio”, che parla proprio al nostro cuore, allora ci si avvicinerà a essa con la trepidazione e il desiderio con cui un innamorato legge le parole della persona amata. Allora, Dio, che è insieme paterno e materno nel suo amore, parlerà proprio a ciascuno di noi e l’ascolto fedele, intelligente e umile di quanto egli dice sazierà poco a poco il nostro bisogno di luce, la tua sete d’amore. Imparare ad ascoltare la voce di Dio che parla nella Sacra Scrittura è imparare ad amare: perciò, l’ascolto delle Scritture è ascolto che libera e salva.

(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 63-64).

 

Da Nazaret arriva l’annuncio della vera liberazione

Luca, il migliore scrittore del Nuovo Testamento, sa creare una tensione, una aspettativa con questo magistrale racconto che si dipana come al rallentatore: Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. E seguono le prime parole ufficiali di Gesù: oggi l’antica profezia si fa storia. Gesù si inserisce nel solco dei profeti, li prende e li incarna in sé. E i profeti illuminano la sua vocazione, ispirano le sue scelte: Lo Spirito del Signore mi ha mandato ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi.

Adamo è diventato così, per questo Dio diventa Adamo. Da subito Gesù sgombra tutti i dubbi su ciò che è venuto a fare: è qui per togliere via dall’uomo tutto ciò che ne impedisce la fioritura, perché sia chiaro a tutti che cosa è il regno di Dio: vita in pienezza, qualcosa che porta gioia, che libera e dà luce, che rende la storia un luogo senza più disperati. E si schiera, non è imparziale il nostro Dio: sta dalla parte degli ultimi, mai con gli oppressori; viene come fonte di libere vite e mai causa di asservimenti.

Gesù non è venuto per riportare i lontani a Dio, ma per portare Dio ai lontani, a uomini e donne senza speranza, per aprirli a tutte le loro immense potenzialità di vita, di lavoro, di creatività, di relazione, di intelligenza, di amore. Il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato della persona, il suo primo sguardo va sempre sulla povertà e sul bisogno dell’uomo. Per questo nel Vangelo ricorre più spesso la parola poveri, che non la parola peccatori. Non è moralista il Vangelo, ma creatore di uomini liberi, veggenti, gioiosi, non più oppressi.

Scriveva padre Giovanni Vannucci: «Il cristianesimo non è una morale ma una sconvolgente liberazione». La lieta notizia del Vangelo non è l’offerta di una nuova morale, fosse pure la migliore, la più nobile o la più benefica per la storia. La buona notizia di Gesù non è neppure il perdono dei peccati. La buona notizia è che Dio è per l’uomo, mette la creatura al centro, e dimentica se stesso per lui. E schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi “altra” da quello che è.

Un Dio sempre in favore dell’uomo e mai contro l’uomo. Infatti la parola chiave è “libertà-liberazione”. E senti dentro l’esplosione di potenzialità prima negate, energia che spinge in avanti, che sa di vento, di futuro e di spazi aperti. Nella sinagoga di Nazaret è allora l’umanità che si rialza e riprende il suo cammino verso il cuore della vita, il cui nome è gioia, libertà e pienezza (M. Marcolini). Nomi di Dio.

(Ermes Ronchi)

 

«Gli occhi di tutti erano fissi su di lui»

L’evangelo di oggi, che cuce insieme il prologo di Luca con l’esordio della predicazione di Gesù nella sinagoga di Nazaret, mostra fitte rispondenze con il brano della prima lettura, tratto dal profeta Neemia. In questo brano infatti ci viene rappresentata una vera e propria liturgia della parola ad opera del sacerdote Esdra (450 a. C.), che, ritto su una tribuna, declama le Scritture mentre “tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge”.

Secondo la consuetudine, ci racconta infatti Neemia, “i levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura”. Oltre 400 anni dopo, Gesù si colloca fermamente in questa tradizione rabbinica di primato della Parola e stavolta il popolo non tende solo l’orecchio, ma anche “gli occhi di tutti erano fissi su di lui”. Ancora da Neemia comprendiamo come la spiegazione del senso, l’interpretazione fornita dai sacerdoti, fa sì che la Parola da lettera morta diventi messaggio vivo ed efficace per il qui e ora di chi la ascolta, tanto da suscitare la commozione e il turbamento profondo del popolo (“Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge”).

Tuttavia, rispetto allo scriba Esdra, la singolarità della lettura di Gesù sta nel fatto che egli sceglie con cura la pagina di Isaia per riadattarla a se stesso, espungendo tra l’altro un versetto “duro” (“per annunciare un giorno di vendetta” diceva l’antico profeta) e modificandone le parole: lo Spirito del Signore mi ha “chiamato” diventa mi ha “unto”. La Parola proclamata diventa così interpretazione essa stessa della figura storica di Gesù di Nazaret, ne spiega i gesti, ne illumina l’agire, ne traccia il ritratto di Messia mite e vicino agli uomini nei loro bisogni, rivelando a sua volta il volto di misericordia e di libertà del Padre. Gli occhi di tutti erano fissi su di lui perché Lui è la Parola, e infatti, esordisce Luca, ci sono “testimoni oculari” che si sono fatti servitori e mediatori di questa unica vicenda umana di Parola fattasi carne e sangue.

Tra questi, a “trafficare” con la Parola, come con i talenti, c’è lo stesso Luca, che con la sua attitudine scientifica vuole mettere ordine alla congerie di racconti che circolavano su Gesù, per mostrare al Teofilo (“amico di Dio”) di ogni tempo, lo spessore della Parola su cui poggia la sua Fede. Interessante peraltro l’uso del verbo catecheo, da cui la nostra “catechesi”, che però nella nostra lingua ha svoltato verso un senso di insegnamento morale, mentre qui, come si vede, è ancorato alla Parola (logos).Ma se gli avvenimenti si sono allora compiuti (pleròo), e in Gesù “la Scrittura si è compiuta” (ancora lo stesso verbo), grazie allo Spirito che apre le orecchie e toglie il velo ai nostri occhi, essa si compie ancora, ogni giorno, nelle gambe e nelle braccia, nel cuore e nella mente di ogni uomo che da questa Parola si lascia interpellare, e alla luce di questa Parola legge la propria vita intrecciandola nella relazione salvifica con gli altri compagni di strada.

(Valentina Chinnici – Pastorale della Cultura e dell’Educazione di Palermo).

 

Viveva di fede come noi

«Quanto avrei voluto essere sacerdote per poter predicare sulla Madonna! Una sola volta sarebbe stata sufficiente per dire tutto quello che penso a questo proposito. Prima avrei fatto capire quanto poco conosciamo la sua vita. Non occorre dire cose inverosimili o che non sappiamo; per esempio che, da piccola, a tre anni, la Madonna ha offerto se stessa a Dio nel Tempio con sentimenti ardenti di amore e del tutto straordinari; mentre forse ci é andata semplicemente per obbedire ai suoi genitori… Perché una omelia sulla Madonna possa piacermi e farmi del bene, occorre che io veda la sua vita reale, non la sua vita supposta; e sono certa che la sua vita reale era molto semplice. Ce la mostrano inabbordabile, mentre bisognerebbe mostracela imitabile, fare vedere le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, dare delle prove di questo per mezzo del Vangelo in cui leggiamo: «Non compresero le sue parole» (Lc 2,50). E questa parola molto misteriosa: «I suoi genitori si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33). Questo stupirsi suppone un certo meravigliarsi, non è vero? Sappiamo bene che la Madonna è Regina del Cielo e della terra, eppure è più madre che regina, e non occorre dire a motivo delle sue prerogative, che lei eclissi la gloria di tutti i santi, come il sole al suo sorgere fa scomparire le stelle. Mio Dio! quanto questo mi appare strano! Una madre che fa scomparire la gloria dei suoi figli! Io penso tutto il contrario, ritengo che essa farà crescere molto lo splendore degli eletti. È bene parlare delle sue prerogative, ma non occorre dire soltanto questo… Forse qualche anima andrà fino al punto di sentire allora una certa lontananza con una tale creatura talmente superiore e dirà : «Se le cose stanno così, ci accontenteremo di andare a brillare in un angolino».Ciò che la Madonna aveva in più rispetto a noi, era il fatto che non poteva peccare, che era esente dalla macchia originale, ma d’altra parte, è stata meno fortunata di noi, poiché non ha avuto la Madonna da amare, e questa è una tale dolcezza per noi».

(Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa, in Ultimi colloqui, 21/08/1897).

 

…Dal cavallo al cammello.

«Chi non risponde alla Parola diventa sordo» (Martin Buber). L’accompagnamento non può che portare alla consapevolezza che, come ci ricorda NVNE, «tutta la vita è una risposta» (26/e) e, quindi, a saper scorgere le continue chiamate di Dio in ogni stagione della propria esistenza. È il faticoso passaggio dal cavallo al cammello.

Un cavallo va bene per la bellezza, la forza, la velocità e la razza, per godersi una cavalcata, gareggiare e vincere un premio. Tutto molto bello. Ma poi nella vita ci sono anche i deserti, e là il migliore dei cavalli è inutile e la velocità non serve. Il cavallo si spazientirà, diverrà irrequieto, gli zoccoli affonderanno nella sabbia. Il suo respiro brucerà nel calore e la bestia s’imbizzarrirà, cadrà e morirà nelle sabbie spietate. I cavalli non sono per il deserto.

I cammelli sì! Il cammello s’incamminerà e andrà avanti. Anche senza cibo, senz’acqua, senza redini, senza direzione, andrà avanti costantemente, fedelmente, sicuramente, manterrà la rotta, attraverserà il deserto, raggiungerà l’acqua e salverà se stesso e il suo cavaliere. La tenace perseveranza di mantenere fermamente la rotta nelle circostanze peggiori è una dote preziosa per sopravvivere in questo mondo. Noi tutti abbiamo bisogno di un cammello nelle nostre stalle.

(Antonio LADISA, La direzione spirituale oggi: perché?, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 30).

 

La tua parola

La tua parola, Signore, mi porta a meditare,

perché è una parola dal senso inesauribile,

che non ha mai finito di offrire i suoi segreti

a colui che li cerca.

Più che alla riflessione, la tua parola m’invita

alla contemplazione, perché sei tu che mi parli

e mi fai scoprire la tua personalità,

in tutto quello che dici.

Leggendo il Vangelo per accogliere

tutta la verità che ci hai insegnato,

vorrei unirmi con più chiarezza

a tutto quello che sei.

Trasforma la mia lettura in uno sguardo profondo

che cerchi la tua presenza e raggiunga,

attraverso la tua parola, un volto d’amico

dal sorriso divino.

Arricchendosi di un testo che è vita,

il mio spirito e il mio cuore possano trovare in te

un riposo che li apra ad una conoscenza

carica d’amore.

(JEAN GALOT, Contemplazione, Benedettine, S. Agata sui due Golfi, 1987).

 

La casa della Parola

Nella sua Parola è Dio stesso a raggiungere e trasformare il cuore di chi crede: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4,12). Affidiamoci, allora, alla Parola: essa è fedele in eterno, come il Dio che la dice e la abita. Perciò, chi accoglie con fede la Parola, non sarà mai solo: in vita, come in morte, entrerà attraverso di essa nel cuore di Dio: “Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” (San Gregorio Magno).

 Alla Parola del Signore corrisponde veramente chi accetta di entrare in quell’ascolto accogliente che è l’obbedienza della fede. Il Dio, che si comunica al nostro cuore, ci chiama ad offrirgli non qualcosa di nostro, ma noi stessi. Questo ascolto accogliente rende liberi: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,31-32).

 Per renderci capaci di accogliere fedelmente la Parola di Dio, il Signore Gesù ha voluto lasciarci – insieme con il dono dello Spirito – anche il dono della Chiesa, fondata sugli apostoli. Essi hanno accolto la parola di salvezza e l’hanno tramandata ai loro successori come un gioiello prezioso, custodito nello scrigno sicuro del popolo di Dio pellegrino nel tempo. La Chiesa è la casa della Parola, la comunità dell’interpretazione, garantita dalla guida dei pastori a cui Dio ha voluto affidare il suo gregge. La lettura fedele della Scrittura non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro.

(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 63-64).

 

Preghiera

O Gesù, ti sei presentato al tuo paese

per annunciare i tempi messianici,

per proclamare

ai poveri il lieto messaggio,

ai prigionieri la liberazione,

ai ciechi la vista,

agli oppressi la libertà,

per predicare un anno di grazia.

Grazie per tutti coloro che si adoperano per questo.

Grazie per quanti proclamano la tua Parola,

con la parola e con la vita,

con popolarità o nel silenzio.

 Mandaci sempre uomini pazzi di te,

pronti a testimoniare con la vita.

Fino a quando la tua Parola viene proclamata,

è ancora tempo di speranza e di salvezza.

Solo chi si pare alla verità

e alla conoscenza della tua legge,

esperimenta gioia e riconoscenza.

(A. Merico)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 


PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA TEMPO ORD (C)

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Isaia 62,1-5

 

Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.

 

 

v La prima lettura è stata scelta per gli evidenti richiami al vangelo, anche qui siamo in un contesto di nozze: è celebrata Gerusalemme come sposa del Signore. Verso la fine del suo libro profetico, ad una comunità scompaginata e delusa, Isaia rivolge un messaggio di sicura consolazione. La città si presenta sfavillante nel suo splendore, dono dello sposo, vincitore sui nemici. Nel poema si sovrappongono e si fondono l’immagine solare e quella del re vittorioso nel giorno delle sue nozze. Egli prende la città-sposa come sua corona e diadema regale, secondo l’espressione di Pr 12,4: «La donna perfetta è la corona del marito».

    II re vincitore ‘trasforma’ la sua sposa, la cui nuova situazione è iscritta nel «nome nuovo». Per i semiti il nome è l’essenza stessa dell’essere, quindi Gerusalemme che riceve un nome nuovo è posta nella condizione di assumere una nuova identità. Da «devastata» e «abbandonata» si trova ad essere «mia gioia» e «sposata». Il compiacimento dello sposo denota che ora si rispecchia pienamente nella sua sposa, che egli ha creato e modellato secondo il suo gusto. La città che ritorna ad essere ‘vergine’ è stata totalmente rifatta dal suo Creatore: la situazione attuale è frutto di un amore che riabilita e rinnova nel profondo. È la novità del bello e del buono, proprio come il vino assaggiato dal maestro di tavola.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 12,4-11

 

Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

 

v Nel quadro dell’odierna liturgia, la lettura paolina aiuta a ritrovare il valore della diversità dei ruoli nell’unità di intenti. Essa prima di tutto stigmatizza un modo di pensare che in un recente passato poneva in tensione dialettica e quasi in opposizione carismi e ministeri, come se il carisma fosse una particolare grazia, frutto dell’imprevedibile libertà dello Spirito e da giocare in libertà e il ministero invece qualcosa di permanente ed in connessione con gli aspetti istituzionali della Chiesa. Tale distinzione convogliava tutte le simpatie sui carismi ed ingenerava nei confronti dei ministeri un atteggiamento più o meno sottile di diffidenza. Il Concilio Vaticano II ha rimesso le cose a posto: anche nei ministeri si libera la presenza e l’azione feconda dello Spirito. Del resto Paolo, sotto la categoria dei ‘doni spirituali’ colloca un po’ tutte le grazie, sia quelle che potremmo chiamare — con termine non appropriato — estemporanee e provvisorie, sia quelle che si incarnano in un ruolo permanente.

    La riflessione sulla natura e sul ruolo dei carismi riceve una lunga e sistematica trattazione nei capp. 12-14 della prima lettera ai Corinti. Evinciamo, senza troppa difficoltà, che numerose idee distorte o confuse ottenebravano il pensiero teologico della comunità. Paolo cerca di far chiarezza e di correggere: privilegiando la dimensione appariscente dell’azione dello Spirito, vengono incrementati l’orgoglio e l’ansia di accaparramento; considerando i doni dello Spirito in chiave prevalentemente individualistica, viene lacerata la comunità; ritenendo che la pienezza della vita cristiana dipenda dal possesso di doni spettacolari, viene scardinata la scala assiologica.

    Precisato ciò, Paolo da preziose direttive:

    1. Lo fa usando tre termini — «carismi» (greco karismata), «ministeri» (greco diakoniai), «attività» (greco energeis) — per indicare non tre specie diverse dei doni dello Spirito, ma tre aspetti differenti della stessa azione: carisma indica la gratuità, ministero la destinazione comunitaria e attività la forza per costruire il regno di Dio. Si da una diversità che, nello Spirito e per lo Spirito, concorre all’unità (v. 4 e v. 11). 

    2. Tutti sono portatori di ‘carismi’ che, al v. 7, ricevono una specie di definizione. Perché vi sia carisma occorrono tre condizioni: che sia dono dello Spirito, dato all’individuo, per il bene comune. Già questo dovrebbe privare il carisma di ogni pretesa meritocratica e di ogni accaparramento egoistico.

    3. Viene proposta una lista di carismi, a puro titolo indicativo (vv. 8-10), per mostrare una varietà che alla fine va ricondotta alla libera e fantasiosa azione dello Spirito (cf. v. 11).

    Il discorso sui carismi deve essere completato anche se la lettura si interrompe a questo punto. Bisogna relativizzare il valore dei doni dello Spirito: al primo posto, in assoluto, sta l’amore. L’uomo è salvato dall’amore ed è chiamato all’amore. È questo il primo e più alto dono che Dio fa al credente che si vede trasformato in creatura nuova. È l’amore l’anima della vita cristiana e, in quanto tale, non avrà mai fine (cf. 13,1-13).

 

Vangelo: Giovanni 2,1-12

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

  

Esegesi

  Giovanni si rivela consumato narratore e raffinato teologo, capace di calibrare la presentazione di Gesù. Di lui offre una inequivocabile carta d’identità che lo situatra cielo e terra, divina Parola eterna e uomo in mezzo agli uomini (cf. 1,1-18). Poi fa echeggiare la vibrante testimonianza del Battista che lo indica Messia e, più ancora, «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (1,29). Conclusa la fase di presentazione, inizia quella di autopresentazione. Gesù invita alla sua sequela chiamando alcuni uomini con un «venite e vedrete» che li stabilizza al suo seguito in una comunione di vita. Poi vengono esibite le credenziali, fatte di lunghi discorsi e di 7 miracoli che l’evangelista chiama sistematicamente ‘segni’ perché devono indirizzare alla comprensione della persona di Gesù. Il brano evangelico riporta il primo di questi segni, quantitativamente ridotti rispetto ai vangeli sinottici, ma scelti con cura e racchiusi nella cifra che indica una pienezza. Troviamo dapprima il quadro di una festa di nozze, la presenza di Maria e Gesù accompagnato dai discepoli e quindi la situazione incresciosa della mancanza di vino (vv. l-3a). Ad un certo momento Maria se ne accorge e ne rende partecipe Gesù (vv. 3b-5); questi reagisce verbalmente quasi a schermirsi, quindi compie il suo intervento prodigioso (vv. 6-8), fino a rendere il vino di ottima qualità: viene così confermato l’avvenuto miracolo (vv. 9-10). La conclusione sancisce l’avvio dell’attività taumaturgica di Gesù, richiamando i temi della gloria e della fede (v. 11). Il v. 12 apparentemente insignificante, perché sembra una semplice informazione, conferisce una valenza ‘ecclesiale’ al miracolo e mostra la presenza di molteplici persone attorno a Gesù, richiamo alle diverse funzioni nella Chiesa. 

    1. Ora e gloria di Gesù. Risulta scontato dire che il brano profuma di cristologia. Una semplice osservazione statistica rivela che il nome Gesù ritorna 6 volte e per altre 7 un aggettivo o pronome si riferisce a lui. Al di là della quantità, appare la qualità. Giovanni ha voluto rivestire di sostanziosa teologia il primo miracolo: troviamo per la prima volta il tema dell’«ora» (cf. v. 4) che rimanda al momento culminante della morte e glorificazione; non per nulla quel concetto è correlato con quello della «gloria» che chiude il brano (cf. v. 11) ed è connesso con la fede dei discepoli che credono in lui, anticipo profetico di quella promessa: «Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). La vera «ora» sarà quella della morte che disvela appieno la sua gloria, la sua vicinanza con il Padre, la capacità di offrire la vita in un atto di amore infinito. In attesa di quella manifestazione piena e definitiva, ecco alcuni disvelamenti parziali che sono i miracoli, preziose indicazioni che interrogano sulla identità più profonda di Gesù, quella che sfugge allo sguardo frettoloso e distratto. Perciò Giovanni ama chiamare i miracoli ‘segni’ perché sono come preziosi cartelli indicatori che orientano verso la comprensione piena di Gesù.

    2. Dimensione mariologica. I discepoli, per credere, hanno bisogno di vedere la sua gloria riflessa nel miracolo. Maria no. In lei la fede nel Figlio è granitica fin dall’inizio. Il suo comando ai servi «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» non fa una grinza. Maria è il secondo personaggio della pericope perché citata 4 volte e sempre come «madre» (vv. 1.3.5.12). Non si sostiene una solida mariologia se non in intimo legame con la cristologia. Ogni discorso su Maria comprende e rimanda a Cristo. È la prima volta che Giovanni cita la madre; lo farà ancora e solo una volta, al momento della crocifissione: anche in quel caso ella sarà la «madre», madre di Gesù e madre del discepolo prediletto, figura di tutta la Chiesa (cf. 19,25-27). La madre appare nel IV Vangelo all’inizio e alla fine, sempre nel contesto dell’ora, perché ella prima e più di tutti partecipa alla passione/glorificazione del Figlio. Esiste tra i due una comunione che non è priva di ‘fatica’. Anche per Maria credere è una conquista progressiva, un allinearsi non certo istintivo alla suprema volontà divina. La risposta di Gesù: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» denota un distacco che non è separazione, ma autonomia e rispetto dei ruoli. La frase, certamente forte, esprime una divergenza tra interlocutori (cf. Gdc 11,12; 2Sam 16,10), non necessariamente opposizione. La madre intercede ma non interferisce; suggerisce ma non comanda, perché Gesù agisce per decisione propria e sovrana. La sua volontà deve essere conforme solo a quella del Padre, suo criterio ultimo e decisivo di azione (cf. 4,34: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»). Nessun altro deve guidare la sua mano (anche nel caso della malattia di Lazzaro: Gesù non si reca dall’amico alla notizia della sua grave malattia, ma quando lo decide lui, cf. Gv 11,7). Maria non è risentita per quel taglio netto che ella, anzi, bene accoglie e di cui è pienamente convinta. Per questo suggella le sue parole rivolgendosi ai servi chiedendo loro di sottomettersi, come lei, in tutto e per tutto a quello che Gesù vuole.

    3. Valore del matrimonio. Il primo miracolo di Gesù avviene nel contesto di uno sposalizio: non solo Gesù vi è invitato e vi partecipa, ma pure raddrizza una festa che stava ‘deragliando’ per la mancanza di vino. È un modo insolito, certamente originale, di apprezzare e valorizzare il matrimonio. Gesù che interviene a vantaggio dei due ignari sposini intende alludere ad un’altra festa che celebra le nozze tra Dio e l’uomo, tra cielo e terra, in una rinnovata alleanza, dopo che il peccato aveva distrutto il patto tra i due, rendendo l’uomo un ‘estraneo’ di Dio, sua sbiadita e irriconoscibile immagine. Il significato del vino è ripetutamente richiamato, sia nella quantità (una stima approssimativa lo quantifica in circa 500 litri: due o tre barili — in greco: metrete, del valore di circa 40 litri l’una — in ognuna delle sei anfore, cioè almeno litri 40x2x6=480), sia nella qualità (lo riconosce il maestro di tavola che doveva essere un intenditore). Il vino era parte integrante del banchetto e questo a sua volta alludeva ad una situazione di intimità e di comunione che i profeti individuavano come caratteristica dei tempi finali, quelli della armonia di Dio con tutti gli uomini: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6).

  

Meditazione

L’antica tradizione liturgica poneva l’accento sull’unità della manifestazione – ‘epifania’ – del Signore nei tre eventi dell’adorazione dei Magi, del Battesimo (o Teofania) presso il Giordano, del segno di Cana, dove l’acqua viene tramutata in vino. Canta ad esempio un’antifona della solennità dell’Epifania del Signore:

 

Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo:

oggi la stella ha guidato i magi al presepio,

oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze,

oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano

per la nostra salvezza, alleluia.

C’è un unico oggi in cui il Signore manifesta la sua salvezza. Ce ne vengono così narrati alcuni tratti essenziali: la salvezza è per tutte le genti (l’adorazione dei Magi); consiste nel renderci partecipi della figliolanza divina nel suo Figlio Unigenito, della cui Pasqua siamo resi partecipi in virtù del battesimo (la Teofania presso il Giordano); compie definitivamente l’alleanza che già la letteratura profetica aveva più volte annunciato con il simbolo delle nozze, come ricorda la prima lettura della liturgia odierna: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4).

    Questa antica e sapiente tradizione liturgica sopravvive nel ciclo C del lezionario domenicale, che propone il segno di Cana come vangelo della II Domenica del Tempo ordinario, in continuità con la solennità dell’Epifania e con la Domenica del Battesimo. Il Tempo ordinario si salda così in modo forte con il Tempo natalizio, per mostrare come la salvezza di Dio, che in Gesù di Nazaret si è incarnata nella nostra storia, si dilati e riempia di sé le pieghe ordinarie e quotidiane della nostra vita.

    Lo stesso evangelista Giovanni, nel raccontare l’episodio apparentemente molto familiare di Cana, insiste nell’affermare che si tratta dell’inizio dei segni compiuti da Gesù, attraverso il quale egli «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (v. 11). È l’inizio non semplicemente perché è il primo segno di una lunga serie; piuttosto è il segno archetipo (in greco ‘inizio’ è detto con arké), tale da costituire una sorta di stampo originario che imprime la sua forma su tutti gli altri segni che seguiranno, fino alla Pasqua. Non a caso è un segno che avviene proprio a Cana, piccolo villaggio della Galilea; il significato simbolico del suo nome non sfugge però all’evangelista, che sa bene che cana in ebraico significa ‘fondare’, ‘creare’. Ciò che Gesù opera a Cana è come una nuova fondazione, che porta a compimento la creazione di Dio, riscattandola dal male che il peccato ha introdotto nella storia, e fonda davvero la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. Ora le nozze si compiono, Dio sposa l’umanità!

    Il ricco simbolismo di questa pagina giovannea evoca infatti il tema dell’alleanza. Tutto accade non in un giorno qualsiasi, ma «il terzo giorno» (v. 1 ), espressione che ci orienta in avanti, facendoci immediatamente pensare al terzo giorno della Risurrezione. Nello stesso tempo l’evangelista ci invita a guardare indietro, al terzo giorno del Sinai, quando Dio dona a Mosè le Dieci Parole dell’Alleanza che stipula con Israele: «Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore» (Es 19,16: così viene introdotta la Teofania che culmina, al capitolo 20, con il Decalogo). E l’alleanza, lo abbiamo già ricordato, è spesso descritta con la metafora delle nozze tra Dio e il suo popolo. Il vino stesso, che certo non può mancare a un banchetto nuziale, raccoglie in sé e simboleggia tutti i beni elargiti da Dio alla sua Sposa, in particolare il dono della Torah e della Rivelazione.

    Qui a Cana, al terzo giorno, Gesù compie definitivamente l’alleanza. Ciò che era prefigurato nella Prima Alleanza diventa definitivo nella Nuova Alleanza. Le sei giare (sei è cifra simbolica di una imperfezione che però tende verso la pienezza del numero sette) colme di acqua fino all’orlo vengono trasformate in vino. Erano giare di pietra che contenevano l’acqua per la purificazione rituale dei Giudei (v. 6). Giare di pietra come spesso può essere di pietra il cuore dell’uomo, soprattutto quando lascia le parole di Dio scritte su tavole di pietra, anziché lasciarsele imprimere nel proprio cuore. Ma per quanto l’acqua riempia queste giare fino all’orlo, non basta a purificare il cuore di pietra e a trasformarlo in cuore di carne. È necessario un vino nuovo, un vino migliore, quello che solo Gesù può donare, trasfigurando la prima alleanza nella nuova e definitiva alleanza. Nel terzo giorno della Pasqua, nella sua Ora che già qui a Cana viene annunciata come imminente (cfr. v. 4), diventerà chiaro che questo vino nuovo e migliore Gesù lo dona nel suo stesso sangue versato per tutti.

    Solo lui lo può donare. «Colui che dirigeva il banchetto… non sapeva da dove venisse» (v. 9). Nessuno può saperlo, perché questo da dove allude al mistero di Gesù, e più ancora al mistero del Padre, il solo che può donare il proprio Figlio e nel Figlio il vino migliore dell’Alleanza nuova, il vino delle nozze definitive con il suo popolo. Da dove (pothen in greco) ricorre spesso nel vangelo di Giovanni e sempre con un forte significato cristologico. Gesù è colui che non sappiamo da dove viene e verso dove va (cfr. Gv 8,14). Comprendere che viene da Dio e a lui ritorna è la condizione che ci permette di conoscere davvero il suo mistero personale e di accogliere la sua rivelazione. Proprio perché allude a Gesù, il da dove ci parla anche dei doni che egli offre alla nostra esistenza per colmare il suo bisogno di vita, e di vita piena, di vita eterna. Qui a Cana il capo-tavola non sa da dove viene il vino. In Samaria la donna chiede ironicamente a Gesù: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?» (4,11). Al capitolo sesto sarà Gesù stesso a domandare a Filippo: «da dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (6,5). Il vino di Cana, l’acqua di Samaria, il pane della Galilea, vengono tutti da quel da dove che è il mistero di Dio e alludono a quel dono per eccellenza che è Gesù, lui che sa da dove viene e dove va. È lui il vero vino, la vera acqua, il vero pane di cui la nostra vita ha assolutamente bisogno per compiersi in pienezza. È lui lo Sposo, o meglio è in lui che si compiono in modo definitivo le nozze tra Dio e il suo popolo.

    A Cana è presente la madre di Gesù, definita qui, come ai piedi della croce, ‘donna’ (cfr. Gv 19,25-27). È simbolo della figlia di Sion, chiamata però anche ‘madre Sion’ nei testi profetici; in lei è rappresentato il resto di Israele che attende l’ora del Messia, il suo giorno, perché scopre in sé una mancanza che ha bisogno di essere colmata: «non hanno vino» (v. 3). Insieme alla donna/madre ci sono con Gesù i discepoli, come ai piedi della croce ci sarà il Discepolo amato. Là la donna sarà consegnata al discepolo e il discepolo alla donna. La nuova Alleanza si compie, direbbe san Paolo, abbattendo ogni separazione e facendo dei due uno solo (cfr. Ef 2,14-18). La figlia di Sion – Israele – e i discepoli di Gesù – la Chiesa – sono consegnati reciprocamente gli uni agli altri. A Cana, nasce, viene fondata e ricreata, un’umanità nuova, l’umanità dei figli di Dio, chiamati ad abbattere ogni separazione, a superare ogni divisione, a vincere ogni logica perversa di inimicizia.

    Ascoltando questo brano anche noi continuiamo a contemplare la gloria del Padre pienamente manifestatasi in Gesù: la gloria di un amore che continua a donarci in ogni Eucaristia il vino dell’Alleanza nuova, il vino migliore per la nostra gioia.

 

L’immagine della domenica

 

 

 È QUEL CHE È

È ridicolo, dice l’orgoglio;

è avventato, dice la prudenza;

è impossibile, dice l’esperienza.

È quel che è, dice l’amore.

(Erich Fried)

 

Preghiere e racconti

Il vino della festa

Sì, il vino: è lui, non l’uva, il vero “frutto” della vigna. E come la vigna è ricco di doni concreti e, al contempo, denso di rimandi simbolici. Da sempre, “dai tempi di Noè” appunto, accanto al pane del bisogno, al pane quotidiano necessario per vivere, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa: una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, la gioia condivisa, l’amicizia ritrovata… Il vino: bevanda che, bevuta in solitudine, ne stordisce l’amarezza solo per accentuarne la tristezza, ma anche bevanda che, gustata nell’intimità di un’amicizia, ne esalta il sapore e ne affina il piacere. Bevanda esigente, anche, perché richiede a chi la beve lo sforzo di liberarsi dalla schiavitù dell’efficienza esasperata per abbandonarsi alla gratuità senza la quale la vita è priva di sapore: bevanda che invita a cantare la vita, a immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire sì alla vita.

Forse è per tutti questi aspetti – oltre che per il discernimento che richiede nel conoscere se stessi, i propri limiti e quelli degli altri -, è per questa lettura dell’esistenza nel segno della gratuità e della gioia condivisa che il vino è divenuto nella Bibbia e in altre tradizioni spirituali il simbolo della sapienza. Sapienza perché dà “sapore” alla vita, ma anche perché il vino sa sciogliere il cuore e farne emergere ciò che davvero lo abita, sa trasformare la semplice assunzione di cibo in un banchetto, così come la fermentazione ha trasfigurato l’umile succo d’uva in bevanda inebriante. […] non a caso Gesù stesso porrà il suo primo “segno” alle nozze di Cana sotto il sigillo di una gioia condivisa grazie al vino migliore e lascerà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore attorno al “segno” di un pane spezzato e di una coppa di vino versato perché tutti abbiano la vita in pienezza.

(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 50-51).

 

E giunse la sua ora

Quale doveva essere, dunque, la sua ora? Forse aveva scelto di cominciare davanti a una piaga o al capezzale di un infermo; o magari in un attimo qualunque, all’aria aperta, a un segno delle rondini, a un impercettibile turbamento del sangue. Non questa, in ogni caso: un banchetto di nozze. La sua ora è un’altra. Quando? Egli la tiene nascosta come uno stratega che si riserva l’ora precisa in cui scenderà in campo; è segreto anche per sua madre. E il dialogo che con lei si accende qui alla tavola di Cana è una corta battaglia di volontà.

«Non hanno più vino. Io e te soli lo sappiamo, io e te soli possiamo provvedere. Senza vino una festa di nozze può diventare incredibilmente triste. Non lasciar cominciare con un’umiliazione i giorni di questa sposa. Per noi donne non ci sono cose piccole e trascurabili, ed è così facile sciupare le nostre gioie più attese. L’armonia di questa mensa nuziale vale un miracolo».

«Che importa a te e a me? Le loro ore di gioia e di pena sono già tutte contate. Troppe altre volte, nel domani che li aspetta, rimarranno senza vino e io non sarò fra loro. Lasciami, mamma, in quest’ultima pigrizia della vigilia: che io indugi ancora al di qua del confine, in questo mondo in cui il vino finisce e l’acqua resta acqua. Lasciami un altro po’ nella casa, non c’è niente di più dolce che questo: avere una madre, un angolo di silenzio e un letto dove posare la testa. Tu devi pur sapere che cosa comincia per me se mi riconoscono e dove mi porterà questa pietà della povera gente».

«Lo so. Ma essi non hanno più vino».

«Allora addio, se lo vuoi tu. Sai cosa devi ordinare ai servi, perché io ti accontenterò senza che nessuno se ne accorga. Ci separeremo qui, accanto a quest’anfora piena d’acqua. Fra poco sarà vino. Un giorno cambierò anche quel vino, e sarà il mio ultimo miracolo».

Maria ha vinto – mai aveva vinto e non vincerà più. È felice. Non sa che così tutto è anticipato. La macchina dei miracoli gira, è stata lei a scegliere l’ora.

(Luigi Santucci)

 

La fonte divina dell’amore

Di questa fonte inesauribile parla Giovanni nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-12). Il nostro vino, il nostro tentativo di amare, vede molto presto la fine. Non possiamo dare nessuna garanzia delle nostre emozioni. Prima o poi i nostri sentimenti di amore si volatilizzano e allora crediamo di non riuscire più ad amare l’altro. Questo capita a molti coniugi che assistano stupiti all’esaurirsi del loro amore. Questo capita anche alla coppia che celebra le nozze a Cana. Viene a mancare il vino, il loro amore viene a mancare, già il terzo giorno essi non hanno più né vino, né amore. Allora Gesù trasforma in vino sei otri d’acqua, in modo che il vino non abbia più a finire.

Sei è il numero dell’imperfezione e gli otri di pietra rimandano a quanto di duro e di impietrito vi è in noi. Nella loro incapacità di amare veramente, nelle loro durezze e nei loro blocchi, Gesù mostra agli sposi un’altra fonte d’amore, la fonte divina, che mai smette di sgorgare. Gesù pronuncia la sua parola d’amore in quanto in noi è divenuto sciapo e senza sentimento, in quanto in noi è imperfetto e indurito. Se noi ci fidiamo di questa parola, anche in noi tutto può mutarsi in amore.

D’improvviso noi possiamo amare con le nostre forze e le nostre debolezze, con le nostre imperfezioni e i nostri errori, con le nostre contrazioni e i nostri indurimenti. Tutto in noi può irradiare l’amore divino, così che intorno a noi possa svolgersi la festa della vita.

(A. GRÜN, Abitare nella casa dell’amore, Brescia, Queriniana, 2000, 67-68).

 

Riempi d’acqua il tuo otre vuoto

Adesso sono un otre vuoto!

Bisogna consumare tutto il proprio vino

per accorgersi che non era vino buono.

Bisogna consumare tutto il proprio vino

per desiderare, finalmente, il vino di Gesù.

Madre della compassione,

Madre che ti accorgi da sempre,

anche per me, dici a Gesù:

“non ha più gioia!”.

Non ho più gioia.

Otre vuoto io sono,

anche di speranza.

E tu, sicura come chi ha già ottenuto,

con gli occhi che tradiscono una gioia più grande di quella che sarà la mia, supplichi:

“fa tutto quello che Lui ti dirà!”.

E Lui: “riempi d’acqua il tuo otre!”.

Da dove attingere, Signore, per colmare fino all’orlo?

Dalla mia mente deserta?

Dal mio cuore inaridito?

Dalla mia innocenza consumata?

Fammi, Signore, il dono delle lacrime:

siano esse l’acqua che con abbondanza tu trasformi,

e mentre bevo a piene mani, sento che Le dici:

“Donna, ecco tuo figlio!”.

 

«Non hanno più vino»

Il vino è la gioia di vivere che non può essere comprata ne fabbricata ed è difficile starne senza. È Gesù, questo vino, di cui gli sposi hanno bisogno, ma che non potrebbero mai darsi, questo vino Gesù lo ‘crea’ dall’acqua, perché si tratta di un vino nuovo.

Giovanni vuole dirci che il vino nuovo e buono, mai gustato prima, è Gesù stesso. Il vino è significativo come dono di Gesù:  esso è alla fine; è buono; è abbondante. È segno del tempo della salvezza. Il vino è così il «sangue versato» da Cristo per noi, è il segno della carità, del dono di sé, così importante per poter vivere da cristiani. Il vino delle nozze di Cana, questo buon vino atteso, è il dono della carità di Cristo, il segno della gioia che la venuta del Messia realizza. Le feste degli uomini hanno la conclusione ben descritta dal maestro di tavola: la tristezza del lunedì. Gesù, invece, è «il sabato senza sera», come diceva sant’Agostino: quando si pensa che la festa finisca – «Non hanno più vino» -, salta fuori il vino buono, conservato fino allora, il vino nuovo mai gustato prima

(Cf. A.S. BESSONE, Prediche della domenica, Anno C, Biella, 1992, 185-190).

 

Maria, donna del vino nuovo

Nel vangelo c’è un episodio, quello delle nozze di Cana che gli ultimi approfondimenti biblici ci obbligano decisamente a rivedere, soprattutto per ciò che riguarda il ruolo di Maria.

Chi sa quante volte ci siamo commossi pure noi dinanzi alla sensibilità della Madre di Gesù che con finezza tutta femminile, ha intuito il disappunto degli sposi, a corto di vino, e ha forzato la mano del figlio, troncando sul nascere l’evidente imbarazzo che ormai serpeggiava dietro le quinte.

Pare certo, però, che l’intenzione dell’evangelista non fosse tanto quella di mettere in evidenza la sollecitudine di Maria a favore degli uomini, o la potenza della sua intercessione presso il figlio. Quanto, quella di presentarla come colei che percepisce a volo il dissolversi del piccolo mondo antico e, anticipando l’«ora» di Gesù, introduce sul banchetto della storia non solo i boccali della festa, ma anche i primi fermenti della novità.

Festa e novità, quindi, irrompono nella sala su espresso richiamo di lei.

A darcene conferma c’è nella pagina di Giovanni un particolare tutt’altro che accidentale, che anzi, a ben considerarlo, esplode con la prepotenza di un invadente protagonismo. È costituito dalle sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei.

Oscene nella loro immobilità. Ingombranti nella loro ampiezza prevaricatrice. Gelide come cadaveri, perché di pietra. Inutili, perché vuote, agli effetti di una purificazione che sono ormai incapaci di dare.

Sei, e non sette che è il numero perfetto. Simbolo malinconico, quindi, di ciò che non giungerà mai a completezza, che non toccherà più i confini della maturazione, che resterà sempre al di sotto di ogni legittima attesa e di ogni bisogno del cuore.

Ebbene, di fronte a questo scenario di paresi irreversibile rappresentato dalle giare (di pietra, come le tavole di Mosè), Maria non solo avverte che la vecchia alleanza è ormai logora e che l’antica economia di salvezza fondata sulle prescrizioni della Legge ha chiuso da tempo la sua contabilità, ma sollecita coraggiosamente la transizione.

Vede raggiunti i livelli di guardia da un mondo che boccheggia nella tristezza, e invoca da suo figlio non tanto uno strappo alla legge della natura, quanto uno strappo alla natura della legge. Questa non contiene ormai nulla, non è in grado di purificare nessuno, e non rallegra più il cuore dell’uomo.

Interviene, perciò, d’anticipo, e chiede a Gesù un acconto sul vino della nuova alleanza che, lei presente, sgorgherà inesauribile nell’ora della croce.

«Non hanno più vino». Non è il tratto di una provvidenziale gentilezza che sopraggiunge a evitare la mortificazione di due sposi. E un grido d’allarme che sopraggiunge per evitare la morte del mondo.

 Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali!

È il vino della festa che vien meno.

Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano. Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame. Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.

Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio. Le scorte di senso si sono esaurite.

Non abbiamo più vino. Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo. Le vecchie cantine non fermentano più. E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto.

Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose. Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’orlo di significati ultimi. E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.

Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.

Perché è proprio dei giovani percepire l’usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.

Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili. Dalle piccole conversioni sottocosto. Dai rattoppi di comodo. Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall’uso idolatrico della tradizione.

Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l’avvedutezza di sostituire i contenitori. Quando prevale in noi il fascino dello «status quo», rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti.

Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi. E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l’adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.

Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: «Fate tutto quello che egli vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.

E ci affidi il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte.

(Tonino BELLO, Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000,66-68).

 

La grande festa

Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati. Il signore chiese un favore agli abitanti del villaggio: “Metteremo al centro del cortile, dove si terrà il banchetto, un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti”. Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d’acqua, pensando: “Un po’ d’acqua nel barile passerà inosservata… nessuno se ne accorgerà!”. Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi si sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua. Tutti avevano pensato allo stesso modo, e avevano portato solo acqua.

 

Preghiera

Padre, che hai voluto fare del tuo Figlio l’Uomo nuovo, ricolmo del tuo Spirito, e per mezzo suo lo effondi nei cuori degli uomini rinnovandoli radicalmente, ti chiediamo con fiducia e insistenza, come egli stesso ci ha insegnato a farlo, di voler riempire i nostri cuori della sua presenza e della sua forza. Se tu ce lo doni, noi potremo uscire dalla condizione di uomini vecchi, mossi dall’egoismo che ci rinchiude in noi stessi, e potremo diventare davvero uomini nuovi. Saremo capaci di amare te come figli e gli altri uomini e donne come fratelli e sorelle.

E la gioia profonda della nostra nuova condizione riempirà ogni momento della nostra giornata.

Non lasciare che altri spiriti entrino nei nostri cuori: lo spirito dell’orgoglio, della vanità, dell’invidia, dell’avidità… Essi sono spiriti del mondo vecchio che portano alla morte e noi vogliamo vivere. Tu, che sei «amante della vita», strappa da noi tali spiriti perché possa occupare tutto il nostro spazio interiore lo Spirito vivificante che viene da te attraverso il tuo Figlio diletto.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO (C)

 

Papa . «Don Bosco portatore sano di gioia. I salesiani mi hanno formato al bello»

Pubblichiamo la prefazione del Papa al volume, curato da Antonio Carriero, “Evangelii gaudium con don Bosco”, testo in cui la Famiglia salesiana riprende in chiave educativo pastorale il messaggio dell’Esortazione apostolica di Francesco, vero e proprio documento programmatico del suo pontificato. Il titolo del contributo firmato dal Pontefice è “Cari salesiani”.

Voi salesiani siete fortunati perché il vostro fondatore, Don Bosco, non era un santo dalla faccia da “venerdì santo”, triste, musone… Ma piuttosto da “domenica di Pasqua”. Era sempre gioioso, accogliente, nonostante le mille fatiche e le difficoltà che lo assediavano quotidianamente. Come scrivono nelle Memorie biografiche, «il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli» ( Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco, volume XII, 41). Non a caso per lui la santità consisteva nello stare “molto allegri”. Possiamo definirlo quindi un “portatore sano” di quella “gioia del Vangelo” che ha proposto al suo primo grande allievo, San Domenico Savio, e a voi tutti salesiani, come stile autentico e sempre attuale della «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 31).

Il suo è stato un messaggio rivoluzionario in un tempo in cui i preti vivevano con distacco la vita del popolo. La «misura alta della vita cristiana» Don Bosco la mette in pratica entrando nella “periferia sociale ed esistenziale” che cresceva nella Torino dell’800, capitale d’Italia e città industriale, che attirava centinaia di ragazzi in cerca di lavoro. Infatti, il “prete dei giovani poveri e abbandonati”, seguendo il consiglio lungimirante del suo maestro san Giuseppe Cafasso, scendeva per le strade, entrava nei cantieri, nelle fabbriche e nelle carceri, e lì trovava ragazzi soli, abbandonati, in balia dei padroni del lavoro, privi di ogni scrupolo. Portava la gioia e la cura del vero educatore a tutti i ragazzi che strappava dalle strade, i quali ritrovavano a Valdocco un’oasi di serenità e il luogo in cui apprendevano ad essere «buoni cristiani e onesti cittadini». È lo stesso clima di gioia e di famiglia che ho avuto la fortuna di vivere e gustare anche io da ragazzo frequentando la sesta elementare al Colegio Wilfrid Barón de los Santos Ángeles, a Ramos Mejía. I salesiani mi hanno formato alla bellezza, al lavoro e a stare molto allegro e questo è un carisma vostro.

Mi hanno aiutato a crescere senza paura, senza ossessioni. Mi hanno aiutato ad andare avanti nella gioia e nella preghiera. Come ebbi occasione di ricordarvi nella visita alla Basilica di Maria Ausiliatrice, il 21 giugno 2015, torno a raccomandarvi i tre amori bianchi di Don Bosco: la Madonna, l’Eucaristia e il Papa. Oggi si parla poco della Madonna con lo stesso amore con cui ne parlava il vostro Santo. Si affidava a Dio pregando la Madonna e quella fiducia in Maria gli dava il coraggio di affrontare sfide e pericoli della vita e della sua missione. L’Eucaristia, come secondo amore di Don Bosco, deve ricordarvi di avviare i ragazzi alla pratica della liturgia, vissuta bene, per aiutarli ad entrare nel mistero eucaristico e non dimenticate anche l’Adorazione. Infine, l’amore al Papa: non è solo amore per la sua persona, ma per Pietro come capo della chiesa e come rappresentante di Cristo e sposo della Chiesa. Dietro quell’amore bianco per il Papa, c’è l’amore per la Chiesa. L’interrogativo che dovete porvi è: «Che salesiano di Don Bosco bisogna essere per i giovani di oggi?». Io direi: un uomo concreto, come il vostro fondatore, che da giovane prete ha preferito alla carriera di precettore nelle famiglie dei nobili il servizio tra i ragazzi poveri e abbandonati. Un salesiano che sa guardarsi attorno, vede le situazioni critiche e i problemi, li affronta, li analizza e prende decisioni coraggiose. È chiamato ad andare incontro a tutte le periferie del mondo e della storia, le periferie del lavoro e della famiglia, della cultura e dell’economia, che hanno bisogno di essere guarite.

E se accoglie, con lo spirito del Risorto, le periferie abitate dai ragazzi e dalle loro famiglie, allora il regno di Dio inizia ad essere presente e un’altra storia diventa possibile. Il salesiano è un educatore che abbraccia le fragilità dei ragazzi che vivono nell’emarginazione e senza futuro, si china sulle loro ferite e le cura come un buon samaritano. Il salesiano è anche ottimista per natura, sa guardare i ragazzi con realismo positivo. Come insegna ancora oggi Don Bosco, il salesiano riconosce in ognuno di loro, anche il più ribelle e fuori controllo, «quel punto di accesso al bene» su cui lavorare con pazienza e fiducia. Il salesiano è, infine, portatore della gioia, quella che nasce dalla notizia che Gesù Cristo è risorto ed è inclusiva di ogni condizione umana. Dio infatti non esclude nessuno. Per amarci non ci chiede di essere bravi. E né ci chiede il permesso di amarci. Ci ama e ci perdona. E se ci lasciamo sorprendere con quella semplicità di chi non ha nulla da perdere, sentiremo il nostro cuore inondato di gioia. Quando queste caratteristiche vengono a mancare, ecco quei musi lunghi, facce tristi.

No! Ai ragazzi si deve portare questa notizia bella, una notizia vera contro tutte le notizie che passano ogni giorno sui giornali e la rete. Cristo è veramente risorto, e a dimostrarlo sono stati Don Bosco e Madre Mazzarello, tutti i santi e i beati della Famiglia Salesiana, come anche tutti i membri che ogni giorno trasfigurano la vita di chi li incontra perché si sono lasciati loro per primi raggiungere dalla misericordia di Dio. Il salesiano diventa così testimone del Vangelo, la Buona Notizia che nella sua semplicità deve confrontarsi con la cultura complessa di ogni Paese. Mettere insieme semplicità e complessità, per un figlio di Don Bosco, è una missione quotidiana. L’ampio commento che segue, rilegge l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium in chiave salesiana. È affidato a grandi esperti delle diverse discipline che, con fine sensibilità e sotto la lente di Don Bosco, mettono in risalto il pensiero del Papa in collegamento con le diverse situazioni attuali, per educare e orientare al bene dei ragazzi e dei giovani. Sono convinto che la lettura di queste pagine potrà fare del bene a tutti i figli e alle figlie di Don Bosco sparsi nel mondo, e a quanti condividono il carisma educativo salesiano. Troveranno nelle pagine di questo testo molti spunti di interpretazione della realtà e di rinnovamento della prassi educativa al servizio dei ragazzi e dei giovani del nostro tempo.

 

“Ripensare l’educazione”

“Ripensare l’educazione” è il titolo del Convegno internazionale che si terrà venerdì 18 gennaio 2019 alle ore 9,30 presso l’Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia.

Il Convegno offrirà l’occasione per annunciare ufficialmente l’istituzione della UNESCO Chair in “Education for Human Development and Solidarity among Peoples” presso lo stesso Ateneo.

 

Di seguito, il programma della giornata.

Ore 9,30 – Saluti 

Franco Anelli, Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Pierantonio Tremolada, Vescovo di Brescia

Emilio Del Bono, Sindaco di Brescia

Luigi Pati, Preside della Facoltà di Scienze della formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore

Simonetta Polenghi, Direttrice del Dipartimento di Pedagogia, Università Cattolica del Sacro Cuore

Ore 10,00 – Prima sessione

Chair: Domenico Simeone, Chairholder UNESCO Chair on Education for Human Development and Solidarity among Peoples, Università Cattolica del Sacro Cuore

Il ruolo dell’Unesco per un’educazione di qualità, equa e inclusiva – Stefania Giannini, Assistant Director-General for Education, UNESCO

Il contributo di “Rethinking Education” per l’Agenda 2030 sull’Educazione – Sobhi Tawil, Chief, Section for Partnerships, Cooperation and Research, Division for Education 2030 Support and Coordination, UNESCO

L’educazione per lo sviluppo integrale della persona e per lo sviluppo solidale dei popoli – Domenico Simeone

Cambiare l’educazione per cambiare il mondo – Vincenzo Zani, Segretario della Congregazione per l’educazione cattolica

L’agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo dei popoli – Francesco Castelli, Chairholder UNESCO Chair on Training and Empowering Human Resources for Health Development in Resource-Limited Countries, Università degli Studi di Brescia

Dibattito

Ore 13,00 – Fine sessione e pausa pranzo

Ore 14:30 – Seconda sessione

Chair: Mario Taccolini, Prorettore, Università Cattolica del Sacro Cuore

Il Service learning: un modello pedagogico per il bene comune globale? – Italo Fiorin, Scuola di Alta Formazione “Educare all’incontro e alla solidarietà”, LUMSA

La pedagogia africana: una speranza per l’Africa – Martinien Bosokpale Dumana, Université Catholique du Congo

La formazione per un nuovo modello della cooperazione internazionale – Stefania Gandolfi, Chairholder UNESCO Chair on Human Rights and Ethics of International Cooperation, Università degli  Studi di Bergamo

Ripensare l’educazione per ripensare la società – Paolo Orefice, Chairholder UNESCO Transdisciplinary Chair Human Development and Culture of Peace, Università degli Studi di Firenze

Dibattito

 

ALLEGATI

 

ARTICOLI CORRELATI:

 

“Professori, amate la vostra vocazione”

Le iniziative dei prossimi mesi rivolte al mondo della scuola nella Diocesi di Brescia. Il 18 gennaio 2019 la Messa col vescovo Tremolada
9 gennaio 2019

“Professori e Figli carissimi! Amate la vostra professione. Vogliamo dire: vivete nella coscienza della sua eccellenza, della sua importanza, della sua interiore ricchezza. [ … ] La vostra scelta è una missione, più che un mestiere; trova nella sua spirituale dignità la sua migliore mercede; [ … ] la vostra professione può a sé rivendicare la nobiltà ed il merito d’un incomparabile e indispensabile servizio all’uomo, alla società, alla Chiesa”.

Con queste parole di Paolo VI agli insegnanti cattolici dell’Uciim, la diocesi di Brescia invita alla S. Messa con il mondo della scuola, presieduta dal Vescovo mons. Pierantonio Tremolada il prossimo 18 gennaio 2019. L’appuntamento è presso il santuario di S. Maria delle Grazie alle ore 18,00. L’invito è rivolto agli insegnanti di ogni ordine e grado, ai dirigenti, al personale delle scuole e alle associazioni. In allegato la locandina dell’iniziativa.

Nel mese di febbraio, sono due gli appuntamenti in agenda. Il 9 febbraio 2019 si terrà infatti la quinta edizione dell’incontro dei maturandi bresciani “Maturi al punto giusto”. Informazioni nel sito dedicato: http://www.maturialpuntogiusto.it/

Il 22 febbraio 2019 è quindi la volta dell’assemblea diocesana degli insegnanti di religione, dedicata a una rilettura delle “fragilità” dell’insegnante di religione cattolica nell’attuale contesto scolastico (prof.ssa Monica Amadini) e al ruolo dell’insegnante di Irc nell’esame di stato (prof.ssa Anna Braghini).

In calendario c’è anche la visita culturale a Grado e Aquileia, prevista per l’11-12 maggio 2019. Informazioni al link: http://www.comunitaescuola.it/itinerario-culturale-a-grado-e-aquileia-11-12-maggio-2019/

 

Educare nel cambiamento

Il Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica mette a disposizione di tutti uno strumento per il discernimento delle comunità educative

«Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca». Con queste parole, pronunciate al Convegno ecclesiale di Firenze il 10 novembre 2015, papa Francesco ha attirato l’attenzione di tutti sulle rapide e radicali trasformazioni del nostro mondo e della nostra società. Per il mondo della scuola e della formazione ciò significa che bisogna fare i conti con esigenze, generazioni e modelli educativi diversi da quelli cui si era abituati fino a un passato anche recente.

Lo ricorda mons. Mariano Crociata, presidente del Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica, introducendo il sussidio “Educare nel cambiamento”, frutto della riflessione e del lavoro comune dell’organismo che rappresenta l’ampia e composita realtà della scuola cattolica in Italia. Il Consiglio Nazionale ha infatti dedicato l’ultimo anno ad una riflessione sulle condizioni delle scuole e dei centri di formazione professionale (Cfp) definibili come cattolici o di ispirazione cristiana, pubblicandone i risultati in questo strumento di lavoro.

Il testo contiene:

  • il documento su “Autonomia, parità e libertà di scelta educativa”, pubblicato nel 2017 e dal carattere programmatico;
  • il sussidio “Uno strumento per il discernimento delle comunità educative”, che vede qui la luce per la prima volta e si propone di aiutare tutte le scuole e i Cfp a promuovere una ponderata riflessione di fronte alle difficoltà che possono derivare dalle trasformazioni che stiamo vivendo;
  • un’Appendice costituita da una serie di esperienze e buone pratiche di scuole e Cfp che hanno saputo misurarsi con il cambiamento in maniera creativa e coraggiosa, pur se non priva di ostacoli;
  • una seconda Appendice, che raccoglie i recapiti degli organismi che a vario titolo compongono il mondo della scuola cattolica e possono essere di riferimento proprio per affrontare eventuali difficoltà o anche solo per confrontarsi nella vita ordinaria delle diverse realtà educative.

La scuola cattolica, come insegna il Concilio Vaticano II (GE, 8), è essenzialmente «un ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà e carità». Con questo sussidio, quindi, il Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica vuole rivolgersi a tutte le componenti della comunità educativa – alunni, insegnanti, genitori, gestori, responsabili della direzione, comunità ecclesiale – per promuovere e sostenere un’azione che confermi e rafforzi il ruolo della scuola cattolica nella società italiana alla luce dei cambiamenti in atto.

In allegato il testo del sussidio “Educare nel cambiamento”, una presentazione a cura di mons. Mariano Crociata e l’articolo di Avvenire del 4 settembre 2018.

 

Leggi qui l’articolo del Sir dedicato al sussidio: 

https://www.agensir.it/chiesa/2018/09/03/scuola-cattolica-dal-consiglio-nazionale-un-sussidio-per-ripensare-leducazione-tra-crisi-opportunita-e-prospettive/

 

ALLEGATI

Una “scuola” per educatori nella città digitale

Si chiama Mooc e il nome è già tutto un programma. L’acronimo infatti sta per «Massive Online Open Course» e indica un corso in modalità e-learning, aperto a tutti, totalmente gratuito. Oltre a essere dunque accessibile a chiunque sia interessato, questo è anche il primo in «Educazione digitale» promosso dalla Conferenza episcopale italiana insieme all’Università Cattolica di Milano.

Si tratta di «una proposta concreta e aperta alla comunità tutta, per abitare lo spazio digitale con informazioni chiare e puntuali», spiega don Ivan Maffeis, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, sottolineando che «per essere una Chiesa viva e vitale dobbiamo saper stare accanto alla comunità ovunque, in spazi reali o virtuali». In questo orizzonte si colloca «il percorso formativo che mette a disposizione di operatori della comunicazione, insegnanti, animatori ma anche famiglie contributi video e testi per aiutare a comprendere meglio le regole della community, per un agire pastorale in rete attento e responsabile», rileva Maffeis.

Per iscriversi non servono requisiti particolari: basta registrarsi sulla piattaforma «Open Education» dell’Università Cattolica a questo link: https://openeducation.blackboard.com/mooc-catalog/courseDetails/view?course_id=_2535_1

Il corso, che inizierà lunedì 28 gennaio (dal 21 partirà una fase previa di conoscenza della piattaforma e di socializzazione) e si snoderà fino al 4 marzo con una settimana di recupero dall’11 marzo, «è frutto della sinergia tra l’Università Cattolica, con il Centro di ricerca sull’educazione ai media all’informazione e alla tecnologia (Cremit), e la Cei – precisa il sottosegretario Cei – attraverso una progettualità condivisa tra otto uffici della Segreteria generale».

Oltre all’Ufficio per le comunicazioni sociali, infatti, sono stati coinvolti quello Catechistico, per l’Insegna- mento della religione cattolica, per la Famiglia, per l’Educazione, la scuola e l’università, per la Pastorale delle vocazioni, il Servizio informatico e quello per la Pastorale giovanile.

Il Mooc, precisa Pier Cesare Rivoltella, docente alla Cattolica di Milano e direttore del Cremit, si soffermerà sulle questioni che hanno a che fare con il mondo dell’informazione e della comunicazione, come «la post-verità, le fake news, la costruzione della notizia, la falsificazione e l’inganno», sui temi legati «alla sensibilità della prevenzione, con focus sull’odio online e sul cyberbullismo», e su quelli dedicati alle tecnologie in chiave pastorale.

In allegato, una presentazione e la locandina del progetto.

 

BATTESIMO DEL SIGNORE

 Prima lettura: Isaia 40,1-5.9-11

 

«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. – Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato».  Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».

 

 

v I versetti 1-11 del capitolo 40 di Isaia fungono da prologo all’intera sezione della seconda parte di Isaia formata dai capitoli 40-55. Il brano è pervaso da una grande letizia, fondata sulla fede esaltante nel Dio guida del popolo, suo liberatore e salvatore. «Consolate, consolate il mio popolo»: Dio comanda di consolare Israele e l’imperativo ripetuto due volte suggerisce l’idea dell’urgenza e della sovrabbondanza della consolazione. Dio può infliggere il «doppio per tutti i suoi peccati», ma non si dimentica del suo popolo e della sua città e torna a rivolgergli parole di salvezza, che parlano al cuore.

     «Una voce grida»: la voce misteriosa del versetto 3 e le altre, che seguono, si possono considerare l’equivalente poetico della formula profetica il «Signore ha parlato». Con maggiore efficacia il secondo Isaia al comando diretto del Signore fa seguire in forma diretta le voci, che ne ripetono il messaggio.

     I sinottici per spiegare il compito profetico di Giovanni Battista adoperano le parole di Isaia 40,3 (cf. Mt 3,3; Mc 1,3; Lc 3,4). Egli è una voce, che ripete il comando del Signore. Il Signore, che aveva abbandonato insieme al popolo la sua dimora e lo aveva seguito in esilio, vi fa ora ritorno: per lui, e quindi anche per il popolo, si deve preparare una strada agevole, percorribile con facilità. Si tratta di una strada «nel deserto», come nel deserto era stata la strada dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa. «La gloria del Signore» (Is 40,5) si rivelerà di nuovo in tutta la sua potenza, come nell’esodo dall’Egitto, momento fondante tutta la storia di Israele.

     I versetti 6-7, che sono stati tolti dalla liturgia di oggi, incentrata sulla rivelazione di Dio, propongono un intermezzo meditativo sulla distanza fra la fragilità dell’essere umano, paragonato all’erba, e la potenza divina. Questa meditazione aiuta a capire che l’intervento di Dio nelle vicende umane e in particolare in quelle di Israele, dipende interamente dalla sua scelta misteriosa, dettata dall’amore.

     Il Signore avanza con potenza e domina col suo braccio, ma verso il suo popolo si rivela un pastore amoroso: «egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).

     «Il suo braccio» è l’immagine che esprime il suo intervento di castigo e dominio (cf. in Esodo l’intervento contro il faraone, ma anche il castigo dell’esilio per il popolo), ma anche di perdono e dono gratuito e sovrabbondante di salvezza. Dobbiamo sempre tenere insieme nel leggere i profeti per non fraintenderli, i messaggi di salvezza, che dipendono sempre dalla bontà misericordiosa di Dio, da quelli di castigo, che sono volti a riportare Israele sulla via del Signore e non vogliono affatto annientarlo: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29).

 

Seconda lettura: Tito 2,11-14;3,4-7

 Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta sal­vezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’em­pietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli ap­partenga, pieno di zelo per le opere buone. Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore no­stro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua mise­ricordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spi­rito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella spe­ranza, eredi della vita eterna.

 

 

v In un breve scritto di occasione, volto ad esortare un pastore e la sua comunità a superare i contrasti interni e a tenere una condotta moralmente irreprensibile, l’autore della lettera a Tito richiama l’insegnamento fondamentale dell’apostolo Paolo: la nostra salvezza dipende interamente da Dio, dalla sua bontà (chrestòtes, amore per gli uomini (philan-tropìa) e misericordia (eléos) (Tt 3,4.5).

     Noi non possiamo vantare nessuna pretesa nei confronti di Dio. Noi, infatti, eravamo «insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degno di odio e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3). Noi dobbiamo solo accogliere con gratitudine il dono di Dio e rispondere con una condotta che sia conforme alla chiamata di Dio e alla nuova vita che Dio ci ha donato gratuitamente.

     «È apparsa (epiphàne Tt 2,11; 3,4) la grazia di Dio» apportatrice di salvezza per tutti gli esseri umani. Il greco anthropos comprende uomini e donne senza differenze sessuali (a differenza da aner usato solo per uomo e arsen maschio). Si tratta di una vera e propria rivelazione, di un intervento fattivo di Dio, che, anche se apparentemente lascia tutto come prima, in realtà ha trasformato la situazione.

     L’incontro di Dio con gli uomini è un incontro potente e rinnovante. L’autore della lettera attribuisce la stessa potenza salvifica dell’«apparizione» di Dio a Gesù Cristo «nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Si rinnova in lui il miracolo più volte avvenuto nella storia dell’umanità primitiva e in particolare in quella del popolo di Israele dell’intervento salvifico di Dio.

     In questo caso, la salvezza, data in dono gratuito, è legata al battesimo «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo». I battezzati sono esseri nuovi, che vivono nello Spirito di Dio «effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo».

     La manifestazione della grazia di Dio, effusa per suo volere e senza meriti umani, è, però, strettamente legata all’educazione a fare opere buone. Questo è un insegnamento tradizionale dell’ebraismo. La Torà è la «rivelazione-dono» per eccellenza di Dio. Non possiamo staccare la fede alle opere ammonisce la lettera di Giacomo, che accomuna Abramo che ha creduto, con Raab, la meretrice, salvata per la sua ospitalità (cf. Ge 2,21-25). A proposito di Abramo, il modello della fede per eccellenza, fra le diverse parole a lui rivolte da Dio leggiamo: «Io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso» (Gen 18,19). È Dio che ha scelto Abramo, ma tale scelta comporta una risposta pronta e lo «zelo» per i comandi del Signore.

     Il giudizio finale, secondo il Vangelo di Matteo sarà sulle opere compiute, anche senza il riconoscimento del Signore (cf. Mt 25,31-37), mentre la conoscenza, senza le opere è motivo di condanna: «Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Dobbiamo tenere insieme i due poli del messaggio biblico: l’insistenza sull’iniziativa gratuita di Dio e il richiamo pressante a mettere in pratica i suoi precetti.

     Fra le tante osservazioni che si possono fare sul brano della lettera a Tito scelto per la liturgia di oggi, merita particolare attenzione l’espressione «nella speranza». Siamo stati giustificati dalla grazia di Gesù Cristo e siamo diventati eredi della vita eterna, ma secondo la speranza.

     La salvezza rivelata da Gesù non è ancora quella definitiva, che non si può più perdere e che si manifesta in gloria e potenza per tutte le creature. «I cieli nuovi e la terra nuova» sono ancora sperati. Il regno del nostro Dio ci è dato nel segno della speranza: la sua manifestazione definitiva è nascosta nel mistero della benevolenza di Dio; a noi spetta il grande compito di testimoniare che il dono del regno ci è stato dato, dobbiamo rendere visibile la nostra speranza. Dobbiamo comportarci da cittadini del regno secondo la condotta dettata dai comandamenti divini.

 

Vangelo: Luca 3,15-16.21-22

 

 

        In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

 

 

Esegesi

 

     Il vangelo di Luca nei versetti 14-16 ci presenta il popolo che è in attesa del messia (l’«unto», christòs in greco). Coloro che erano accorsi ad ascoltare la predicazione di Giovanni e a ricevere il suo battesimo di purificazione come segno dell’inizio della conversione (metanoia in greco, teshuvà in ebraico), si chiedevano se non fosse proprio lui il Messia.

     Si tratta di una piccola parte degli ebrei di allora, ma Luca parla del popolo in generale e dice «tutti» si ponevano la domanda sul messia e Giovanni risponde a «tutti». A lui interessa il popolo nella sua dimensione collegiale: al versetto 21 sottolinea: «mentre tutto il popolo veniva battezzato». È «tutto il popolo» che in analogia all’avvenimento del Sinai forma per così dire il luogo della rivelazione divina. Gesù, che in Luca è il destinatario della rivelazione: «Tu sei il Figlio mio, l’amato», appare pienamente inserito nel suo popolo Israele. Senza Israele non c’è la rivelazione del Padre di Gesù Cristo; se stacchiamo Gesù dal suo popolo, suggerisce l’evangelista, non comprendiamo nulla di Lui, perché il Dio, che al battesimo lo consacra «l’amato» con l’investitura dello Spirito Santo, è lo stesso Dio della rivelazione del Sinai a «tutto il popolo», col quale ha stipulato l’alleanza (cf. Es 24,3; 34,10).

     Giovanni si premura di togliere ogni dubbio sulla sua identità e per chiarire la distanza fra sé e il Messia usa il detto popolare, assai efficace, che egli non è degno neppure di «slegare i lacci dei sandali». Un’altra caratteristica rilevante del Vangelo di Luca, rispetto al rac-conto analogo degli altri due sinottici, è il legame fatto fra la rivelazione divina e la preghiera di Gesù.

     «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì…» (Lc 3,21-22). Il Vangelo di Luca mette spesso in rilievo la preghiera di Gesù: «Ma Gesù si ritirava in luoghi deserti e pregava» (Lc 5,16; cf. Mc 1,35; Lc 6,12; 9,18; 11,2); «in preda all’angoscia Gesù pregava più intensamente» (Lc 22,44); egli si affida al padre appena prima di esalare l’ultimo respiro (Lc 23,46).

     Prima della trasfigurazione, narrazione che si accosta a quella del battesimo, «Gesù salì sul monte a pregare. E mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto…» (Lc 9,29).

     La preghiera crea la situazione adatta alla rivelazione e nello stesso tempo ci presenta Gesù nella sua piena umanità, bisognoso di affidarsi al padre per comprendere quale sia la sua missione e per portarla a compimento con coraggio.

     Il battesimo è il momento della consacrazione di Gesù, attraverso la quale egli diviene Cristo, cioè unto, messia: «Dio unse (chriò) in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò benedicendo e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). Questa consacrazione si presenta come una nuova nascita, resa possibile dalla discesa dello Spirito e dalla manifestazione della paternità divina. Gesù stesso sperimenta una nuova nascita dall’alto per opera dell’acqua e dello Spirito, secondo le parole del vangelo di Giovanni (cf. Gv 3,3-6). Egli inizia al Giordano la strada che indicherà a tutti i discepoli, chiamati ad essere figli di Dio attraverso il dono dello Spirito Santo.

 

L’immagine della domenica

 

 

Noi delle strade

Noialtri, gente della strada,

crediamo con tutte le nostre forze

che questa strada,

che questo mondo dove Dio ci ha messi

è per noi il luogo della nostra santità.

Noi crediamo che niente di necessario ci manca.

Perché se questo necessario ci mancasse

Dio ce lo avrebbe già dato.

(Madeleine Delbrêl, Noi delle strade)

  

 

Meditazione

 

     Il racconto di Luca si apre oggi con l’immagine di un popolo ‘in attesa’ (cfr. Lc 3,15). Sembra essere stata questa la missione fondamentale del Battista: suscitare un’attesa e nello stesso tempo distoglierla dalla propria persona per orientarla verso il ‘più forte’ che deve venire (cfr. v. 16). È l’attesa che si compiano le promesse dei profeti, quelle che ci vengono ad esempio ricordate da Isaia nella prima lettura: che Dio consoli il suo popolo e che ogni uomo possa vedere il rivelarsi della sua gloria. Solo chi attende può giungere ad ascoltare la voce che annuncia: «Ecco il vostro Dio!» (cfr. Is 40,9).

     Nello stesso tempo questa attesa deve rimanere disponibile a lasciarsi purificare e convenire dalla parola del Signore. Dio infatti compie le sue promesse e colma le nostre attese in modo sempre sorprendente, a volte persino sconcertante. Giovanni aveva annunziato il venire di uno più forte di lui, che avrebbe battezzato non semplicemente con acqua, ma in Spirito Santo e fuoco. Eppure, la prima immagine che l’evangelista ci offre di Gesù, dopo il vangelo dell’infanzia, ce lo mostra nel momento in cui ha ricevuto, come tutti gli altri, il battesimo d’acqua da Giovanni. Il più forte è in mezzo al suo popolo, confuso tra i peccatori, insieme ai quali si è sottoposto al medesimo rito di penitenza e di purificazione. Chi può battezzare in Spirito Santo e fuoco non si sottrae al battesimo d’acqua di Giovanni. Ma è proprio mentre è in mezzo al suo popolo, disposto a scendere radicalmente nella fraternità dei peccatori, che Gesù vede il cielo aprirsi, accoglie lo Spirito che scende su di lui, ascolta la voce del Padre che lo conferma nella sua singolare identità: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v. 22).

     Tutto in questa scena è in discesa. Gesù discende dal nord della Galilea verso il sud, dove Giovanni battezza. Discende nella depressione del Giordano, che scorre circa 400 metri sotto il livello del mare, probabilmente il punto più basso della terra che un uomo possa raggiungere camminando sulle sue gambe. Una volta giunto al Giordano discende nelle sue acque e soprattutto si immerge nella fraternità dei peccatori. Ed è in questo cammino di umiltà e di discesa che può vedere il cielo aprirsi e ascoltare la voce del Padre. Nella scena seguente, che racconta la prova nel deserto, il diavolo farà compiere a Gesù il cammino opposto: dapprima lo condurrà «in alto» (cfr. Lc 4,5), poi a Gerusalemme lo porrà «sul punto più alto del tempio» (cfr. Lc 4,9), ma in questa altezza, anziché ascoltare la voce di Dio, si rischia di ascoltare soltanto le suggestioni di Satana. Per ascoltare la voce di Dio occorre invece percorrere un cammino di discesa, nell’umiltà e nell’obbedienza. Più volte Gesù ripeterà nei vangeli che chi si umilia sarà esaltato, e chi si innalza sarà umiliato. Sarebbe riduttivo intendere queste espressioni solamente a un livello morale, o peggio moralistico. Evocano piuttosto l’autenticità dell’esperienza di Dio, che è sempre un’esperienza pasquale. Quando raggiungi il punto più basso del tuo cammino esistenziale, quando sei gettato a terra o dal tuo stesso peccato, o dalla violenza che puoi subire da altri, allora incontri lì il Dio della Pasqua che ti rialza e ti dona una vita nuova. Sarà questa l’esperienza pasquale di Gesù: gettato nella polvere della terra e della morte, disceso nell’oscurità del sepolcro, accoglierà la potenza dell’amore del Padre che lo farà risorgere, innalzandolo nel più alto dei cieli. Nel suo battesimo Gesù anticipa quella che sarà la sua Pasqua. Immergendosi nella fraternità dei peccatori, scendendo con loro, lui l’unico giusto, nell’esperienza del peccato e dell’umiliazione in cui il peccato ci getta, ascolterà il Padre che gli dice: «Tu sei il mio Figlio, l’amato». In questo modo Gesù capovolge la logica perversa di Caino, il figlio primogenito che vuole rimanere solo, e per questo elimina Abele. Al contrario Gesù è il figlio Unigenito che non vuole rimanere solo, ma ci vuole in lui tutti fratelli e figli dello stesso Padre, e per questo dona la sua stessa vita fino alla Croce, nell’attesa di riceverla rigenerata dall’amore di Dio.

     Il cammino pasquale di Gesù è già tutto incluso nelle parole che ascolta presso il Giordano, molto essenziali ma incredibilmente ricche di contenuto. Almeno tre testi del Primo Testamento vi risuonano. «Tu sei mio figlio» evoca il Salmo 2: «Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio”» (v. 7). «L’amato» riprende, nel testo greco, lo stesso termine che nel Primo Testamento risuona solo in Genesi 22 a proposito di Isacco, che viene definito il figlio ‘amato’ di Abramo (cfr. Gen 22,2). «In te ho posto il mio compiacimento» cita le espressioni iniziali del primo canto del servo sofferente del Signore che leggiamo in Isaia 42: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui» (v. 1). Tutta l’identità di Gesù è qui delineata, l’intero suo cammino storico e pasquale già trat-teggiato. Gesù è il Figlio unigenito che dovrà vivere la sua identità filiale facendosi servo nella forma di Isacco. Lui è il vero Isacco di Dio, il figlio che non viene chiesto ad Abramo, ma che Dio stesso offre per la salvezza di tutti. È lui il vero capretto donato da Dio, l’Agnello di Dio offerto in sacrificio perché ogni uomo possa vedere la salvezza del Signore.

     «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», promette Giovanni. Ci farà condividere, cioè, la sua stessa esperienza pasquale, rendendoci partecipi della sua morte per condividere con noi la potenza della sua risurrezione e la novità della sua vita. «L’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo», come Paolo definisce il battesimo nella lettera a Tito (3,5), ci consente di ascoltare insieme a Gesù le parole del Padre come rivolte personalmente a ciascuno di noi. Anche a noi Dio dona il suo Spirito, che è lo Spirito del Figlio, e ci conferma il suo amore di predilezione e il suo compiacimento. La condizione per ascoltare questa parola di Dio rimane anche per noi la disponibilità a vivere, come Gesù, un cammino di discesa, di umiltà, di obbedienza. Solo così la nostra attesa sarà colmata, e potremo riconoscere, come sempre Paolo scrive a Tito, che «egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia» (3,5).

 

Preghiere e racconti

 

Battesimo di Cristo come metafora

«Un tentativo di rendermi conto dell’amore di Dio è stato per me la meditazione sul battesimo di Gesù (Lc 3,21s.). Gesù si cala nel Giordano, nell’acqua che è carica della colpa dei molti che si sono fatti battezzare nel fiume da Giovanni. Mentre entra in acqua, il cielo si apre sopra di lui. E Dio gli dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho sovrapposto consapevolmente la frase «Tu se il mio figlio prediletto» alla paura, all’oscurità, al fallimento, alla mediocrità, alla menzogna esistenziale in me. Ho tentato di calarmi nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre in cui ho rimosso tutto quanto fugge alla luce del sole, ciò che non mi va di guardare alla luce del giorno. Per me è una bella immagine del battesimo di Gesù il fatto che il cielo sopra di lui si sia aperto proprio quando egli si è calato nelle profondità del Giordano. Il cielo vuole aprirsi anche sugli abissi della mia anima. Ma devo avere il coraggio di calarmi in tali abissi, per percepire là in fondo, con un suono nuovo, le parole: «Tu sei il mio figlio prediletto»; «Tu sei la mia figlia prediletta». Solo quando ho sovrapposto alla mia esistenza concreta la frase secondo cui sono il figlio prediletto, essa mi ha toccato nell’intimo, donandomi la pace interiore. Ogni parlare che si fa dell’amore di Dio ci lascia indifferenti se non giunge alle esperienze della nostra vita quotidiana.

Gesù si cala nei flutti della colpa, nell’inconscio, nella pulsionalità, negli elementi della terra, come lo rappresentano sempre le icone. Calandosi in essi, prega tanto intensamente che il cielo si apre sopra di lui, che quanto è essenziale prorompe e la luce di Dio risplende sopra di lui. È un profondo desiderio anche mio quello di saper pregare in modo tale che il cielo si apra sopra di me, che l’amore di Dio rifulga nel profondo del mio inconscio, negli abissi della mia colpa. E anelo a saper pregare anche per gli altri, in modo tale che il cielo si apra sopra di loro. Pregare significa aprire il cielo sopra le persone, in modo che sia loro consentito di sentire il rapporto con Dio come la loro unica salvezza.

Gesù sente dal cielo aperto la voce di Dio che è rivolta a lui: «Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Questo è anche il mio anelito più profondo, l’essere il figlio prediletto di Dio, non essere rispettato, ammirato e amato solo dagli esseri umani, bensì da Dio, la causa prima di ogni esistenza, il creatore del mondo».

(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 20-23).

 

La parola è “Amato”

[…] Come cristiano, ho scoperto per la prima volta questa parola nella storia del battesimo di Gesù di Nazareth.

«Non appena Gesù uscì dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E sentì una voce dal cielo: “Tu sei mio Figlio, l’Amato, in te mi sono compiaciuto”». […] Sì, è quella voce, la voce che parla dall’alto e da dentro i nostri cuori, che sussurra dolcemente o dichiara con forza: “Tu sei il mio Amato, in te mi sono compiaciuto”. Non è certamente facile ascoltare quella voce in un mondo pieno di altre voci che gridano: “Tu non sei buono, sei brutto; sei indegno; sei da disprezzare, non sei nessuno – e non puoi dimostrare il contrario.”.

Queste voci negative sono così forti e così insistenti che è facile credere loro. Questa è la grande trappola. È la trappola del rifiuto di noi stessi.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 23-24).

 

La lotta spirituale come esigenza battesimale

La lotta spirituale è organica alla vita cristiana tout-court: essa riguarda tutti i cristiani, non certo solo i monaci o altre “categorie” di iniziati… La necessità di tale lotta discende dal battesimo, è inerente la vita cristiana in quanto tale, e questo secondo tutto il NT e la tradizione cristiana. Il NT definisce «bella» questa lotta (1 Timoteo 1,18; 6,12; 2 Timoteo 4,7), cioè positiva, di altro ordine rispetto alle guerre e contese mondane, ma altrettanto dura ed esigente. È la «lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), insita cioè nell’adesione a Cristo e nella sua sequela, e riguarda ogni cristiano: essa infatti è connessa al battesimo, che sigilla la conversione, la rottura con il paganesimo e immette in una nuova vita.

Per Paolo, il rivestirsi di Cristo nel battesimo comporta l’impegno di rivestirsi di un abito di vita rigenerata per entrare nella gloria di Dio, e poiché ciò non è realizzabile senza una continua tensione morale che si può paragonare ad una lotta o ad un combattimento, con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, ad indossare cioè quelle che Paolo chiama «armi della giustizia» (Romani 6,13-14) e «armi della luce» (Romani 13,12).

Si tratta delle armi della fede, della preghiera, dell’ascolto della Parola di Dio, della docilità all’azione dello Spirito, che consentono al credente di veder agire in sé la forza di Dio stesso. Come Gesù, appena battezzato, ha affrontato l’assalto di Satana e ha combattuto le tentazioni (cfr. Matteo 4,1-11; Luca 4,1-13; Marco 1,12-13), così il cristiano dovrà attendersi, dopo il suo battesimo, una dura lotta contro l’Avversario.

Chiamato a entrare per la porta stretta (Luca 13,24), posto di fronte all’impossibilità di servire due padroni (Luca 16,13), il battezzato, cosciente dell’urgenza dell’ora escatologica instaurata dal Signore Gesù, deve attuare una scelta di campo mettendosi a servizio di Dio e non del peccato (Romani 6,12-14). Il NT definisce il cristiano «soldato di Gesù Cristo» (2 Timoteo 2,3) e afferma che deve sforzarsi di «piacere a chi l’ha arruolato» (2 Timoteo 2,4). Questa lotta assicura l’incessante dinamismo della vita cristiana ed è diretta contro «il peccato che ci assedia» (Ebrei 12,1), contro «il Maligno» (Efesini 6,16), contro quelle potenze indicate con nomi differenti (Efesini 6,12), ma che designano cumulativamente quelle forze negative, presenti nell’uomo e fuori di lui, che tendono a far ricadere il cristiano nella situazione pre-battesimale. È dunque una lotta che si combatte con armi spirituali: vigilanza e perseveranza (Efesini 6,18; Ebrei 12,1), sobrietà (1 Tessalonicesi 5,6.8), temperanza (I Corinzi 9,25), rinuncia e dominio di sé (1 Corinzi 9,27), capacità di soffrire per il Signore (Filippesi 1,29-30; Ebrei 10,32-33), pazienza ed esercizio alla pietà (1 Timoteo 4,8), e soprattutto preghiera (Efesini 6,18-20; cfr. Sapienza 18,21). Il messaggio neotestamentario è dunque esplicito sul carattere battesimale di questa lotta: vi è un rigoroso aut-aut che accompagna il cristiano nella sua vita e che gli contesta qualsiasi compromesso con la mondanità e con il peccato. È la vita cristiana stessa che è una battaglia, una lotta: essa esige lotta contro le tentazioni, ascesi della mente e del corpo per acquisire il necessario dominio di sé, la vigilanza costante sulle relazioni con sé e con gli altri, la disciplina del tempo e degli impegni, la purificazione delle relazioni. Contro che cosa si combatte? Possiamo riprendere le parole di Ilario di Poitiers che, scritte nel corso di quel IV secolo che ha visto il progressivo passaggio del cristianesimo dalla condizione di religione dei martiri a religione ufficiale, di Stato, si adattano molto bene alla nostra attualità:

«Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci da la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro» (Ilario di Poitiers , Liber contra Constantium, 5).

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI /PIEMONTE-VALLE D’AOSTA, Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 139-140.

 

Il battesimo di Gesù

I nuovi tempi sono già iniziati,

i tempi nuovi che il mondo attendeva

fin dall’origine, gli ultimi tempi:

e fu la voce dal cielo a bandirli.

«Questi è il mio Figlio, l’amato da sempre,

nel quale ho posto la mia compiacenza»:

così è spuntata l’aurora del mondo

e fu l’inizio di nuova creazione.

Ma tu sei venuto a battezzarci

in Spirito santo e fuoco:

non vale l’acqua soltanto

ma l’acqua e il sangue

che sgorga dal tuo costato, Signore:

così sia il nostro battesimo

affinché i cieli si aprano anche su di noi.

Amen.

E cielo e fiume insieme si aprirono:

è il nuovo esodo e il patto per sempre!

Come colomba lo Spirito scese

e fu la quiete seguita al silenzio.

David Maria Turoldo       

 

Preghiera

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

 In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

 Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo) 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

BATTESIMO DEL SIGNORE ANNO C

IV DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: Michea 5,1-4a

 

Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me  colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace!».

 

 

v Il profeta Michea è un contemporaneo di Isaia (VIII secolo). In questo passo egli dedica la sua attenzione non a Gerusalemme, ma a Betlemme, la città che ha dato i natali a Davide. A distanza di anni i discendenti di Davide non hanno ancora assolto alla loro missione. Occorre che venga un discendente particolare che darà origine a un nuovo inizio. Da Betlemme infatti verrà il Salvatore, discendente di Davide.

     Il testo profetico non è esplicito, però lo diventa alla luce del NT e anche del vangelo odierno. Il sussultare di Giovanni nel seno di sua madre alla presenza di un altro feto, si capisce se pensiamo alla identità di Gesù. Egli viene profeticamente celebrato nella prima lettura.

     Il testo di Michea è un celeberrimo vaticinio messianico. Il messia è il centro ideale e soggetto logico, anche se non sempre grammaticale. Di Lui si esalta la patria, Betlemme/Efrata (dal nome di un clan di Efratei che si era stanziato a Betlemme): una modesta borgata assurge al ruolo di protagonista perché da essa «uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele» (v. 1).

     I tempi non sono ancora maturi e, in attesa del grande evento, Israele sarà ancora alla mercé dei suoi nemici (cf. v. 2). Tra la profezia di Michea e la sua realizzazione si colloca la speranza, autentico motore della storia di Israele.

     La figura del Messia è caratterizzata come il pastore che «pascerà con la forza del Signore»: affiora un tema a largo spettro biblico (cf. Ez 34; Gv 10). La espressione «con la maestà del nome del Signore, suo Dio» suona un po’ barocca, ma serve all’autore a far capire che Dio si impegna personalmente; per noi è facile leggere tra le righe la divinità del Messia (cf. v. 3).

     Il v. 4 conclude l’oracolo profetico e ne riassume il significato: la pax davidica fu effettivamente vissuta nei primi anni del regno di Salomone. Ora la storia freme verso il futuro e colui che nascerà porterà la vera pace, lui chiamato «principe della pace» (Is 9,8).

 

Seconda lettura: Ebrei 10,5-10

Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.

    

 

v La Bibbia ha sempre di mira una visione ‘olistica’ della realtà: la sola prospettiva biologica non basta a garantire la grandezza della vita. Che a colui che doveva nascere fossero riconosciuti indiscussi segni di grandezza morale, lo avevano detto bene le due precedenti letture: sia la muta testimonianza di Giovanni o quella esplicita di Elisabetta, sia il messag-gio della profezia di Michea. La presente lettura ha il merito di interpretare la piena consapevolezza del Messia e il suo totale ingaggio a favore dell’umanità.

     La lettera agli Ebrei parla della morte di Gesù servendosi del linguaggio cultuale dell’AT. Gli ordinamenti cultuali antichi avevano funzione preparatoria e quindi transitoria. Non era ancora giunto quanto Dio desiderava. Poi arriva Cristo con l’offerta della sua vita. L’Autore trova un prezioso parallelo nel Sal 40 che egli cita nel testo greco dei LXX.

     La pienezza della vita viene raggiunta con il dono della medesima, perché solo allora si tocca il vertice dell’amore di Dio («Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà») e dell’amore del prossimo («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» Gv 15,13).

 

Vangelo: Luca 1,39-45

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

 

 

Esegesi

 

     Troviamo ora insieme due donne, Elisabetta e Maria, che in precedenza Luca aveva presentato separatamente. Se un filo di soprannaturale comunione le legava già prima, in quanto parte attiva del progetto amoroso di Dio, ora hanno l’opportunità di incontrarsi e di comunicare.

     Il brano si compone di due parti, introdotte da un quadro di riferimento cronologico-geografico: dopo l’evento dell’annunciazione, Maria si trasferisce dal nord (Nazaret) al sud (città di Giuda) (cf. v. 39). In tale contesto si colloca dapprima l’incontro delle due madri (vv. 40-45), quindi la preghiera di Maria, il Magnificat, nata in quell’occasione e per quell’occasione (vv. 45-48; in realtà continua fino al v. 55, ma il testo liturgico si interrompe prima). Dal confronto delle due parti, vediamo che la prima è dominata dalla parola di Elisabetta, mentre la seconda dalla parola di Maria. Due madri che, ciascuna a proprio modo, cantano un inno alla vita.

     Dopo la stupenda esperienza di Nazaret che la promuoveva a ruolo di ‘Madre di Dio’, Maria non appare una creatura beata in se stessa, isolata nella sua intimità divina, bensì un essere corporeo, fatto di concretezza, di sensibilità e di disponibilità. Ella lascia la mistica tranquillità della sua casa e si mette in strada. Non viene detto espressamente il motivo del viaggio; tutto lascia pensare che la causa sia da ricercare nell’annuncio angelico: Maria era stata informata che la parente Elisabetta era al sesto mese di gravidanza (cf. v. 37). Il fatto che ella si fermerà tre mesi, giusto il tempo perché il bambino possa nascere, permette di concludere che effettivamente Maria intenda recare aiuto alla futura mamma. Ella si muove e va là dove la chiama l’urgenza di un bisogno. «In fretta» esprime la sollecitudine di recare il giovanile aiuto all’anziana parente. L’amore al prossimo, anche in questo caso, testimonia l’autenticità dell’amore a Dio.

     Non sono fornite indicazioni geografiche, se non un generico «verso la regione montuosa, in una città di Giuda». Una tradizione del VI secolo identifica il luogo con Ein Karem, la cui scelta è forse dovuta alla bucolica serenità del luogo e al fatto di essere equidistante da Gerusalemme e da Betlemme. A noi interessa rilevare lo spostamento da Nazaret, al nord, verso la Giudea, al sud, con un percorso di circa 150 Km che richiedeva circa tre giorni di cammino. Da questo cammino, non privo di fatica e di disagi, verrà la possibilità di un incontro e quindi della lode. Cammino, incontro e lode sono quindi i tre segmenti che costruiscono l’armonia di questo racconto.

     Maria si mette in cammino. Grazie a lei anche Gesù, prima ancora di nascere, è in movimento verso gli altri, profetico anticipo della sua missione itinerante che intende portare a tutti la parola che aiuta e che salva. Luca utilizza l’episodio per mettere alla luce quanto si era compiuto nell’intimità di Nazaret, che solo con il dialogo con un’interlocutrice poteva lasciare la sua segretezza e la sua dimensione individuale.

     La prima scena è dominata da Elisabetta e dalle sue parole; non va dimenticato che queste si sprigionano dal suo animo quando sono sollecitate da Maria. Due eventi causano e spiegano tali parole. Il primo, apparentemente ordinario, è l’ingresso di Maria nella casa di Zaccaria con il conseguente saluto rivolto a Elisabetta. È una felice ‘provocazione’. Il saluto origina il secondo evento, il sussulto del bambino di Elisabetta che sembra riconoscere la voce di Maria e, più ancora, sembra relazionarsi a colui che ella porta in grembo.

     L’incontro delle due madri è l’occasione per l’incontro dei due figli che portano in grembo, Giovanni e Gesù. Su di loro riposa lo spessore teologico del brano. Si instaura ancora a livello di feto quella dipendenza gerarchica, un misto di servizio incondizionato e di gioia piena, che caratterizzerà la vita di Giovanni. Egli testimonierà: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo: Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,29-30). Al presente c’è una percezione che si riverbera in un sussulto di gioia. Le due madri sono ‘arche sante’, ‘ostensori sacri’ di due esseri destinati l’uno a tratteggiare la via, l’altro ad essere lui stesso via. La scena, pur dominata dalle due madri, ha il suo fulcro nella percezione che Giovanni ha di Gesù e nell’implicito riconoscimento della sua grandezza.

     Effettivamente le parole di Elisabetta documentano che lo spessore teologico attraversa i ‘concepiti’ più che le madri: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (vv. 42-43). Con una espressione semitica che equivale a un superlativo («fra le donne»), Maria viene celebrata per la sua funzione o carisma (essere «Madre del mio Signore») e per la sua adesione incondizionata a tale vocazione. A lei vengono riservate una benedizione («benedetta tu») e una beatitudine («beata»).

     La benedizione è una formula tipica dell’AT, dove il verbo ebraico barak e il sostantivo derivato berakah si trovano ben 398 volte. Secondo diversi studiosi, la radice ebraica brkh è collegata a berekh (= ginocchio) creando il nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi, tipico atto di adorazione e di omaggio alla divinità. Nella Bibbia le benedizioni si dividono in ‘ascendenti’ quando celebrano Dio per qualche intervento (cf. Sal 41,14) e ‘discendenti’ quando si invoca la potenza di Dio su qualcuno o su qualcosa (cf. Nm 6,24-27) o quando è lo stesso Dio a benedire (cf. Gn 1,28). La benedizione è un dono che ha rapporto con la vita; possiamo affermare che la ricchezza fondamentale della benedizione è quella della vita e della fecondità: questo vale tanto per la terra, quanto per le persone (cf. Dt 28,1-14). Lo vediamo bene nel nostro passo, quando alla benedizione per Maria viene affiancata quella per il figlio: «e benedetto il frutto del tuo grembo!». Maria viene celebrata proprio per la sua maternità. Così la benedizione viene da Dio e a Lui ritorna ora sotto forma di invocazione e di preghiera; è un riconoscere quello che Lui ha fatto.

     La beatitudine del v. 45 la prima del vangelo di Luca, certifica l’adesione di Maria alla volontà divina. Ella quindi non è solo destinataria privilegiata di un arcano disegno che la rende benedetta, ma pure persona responsabile che accetta e aderisce. Maria non è una creatura che sa, ma una creatura che crede, perché si è aggrappata ad una parola nuda che ella ha rivestito di amore. Ora Elisabetta le riconosce questo amore, espresso con «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto», e la celebra come la prima di tutte le donne. Maria va da Elisabetta per un servizio domestico, Elisabetta le restituisce il servizio liturgico della lode, riconoscendola benedetta come madre e beata come credente.

     Il ‘cantico di Elisabetta’ (cf. vv. 42-45), dono dello Spirito, pubblicizza per il lettore e per il credente il mistero che Maria pensava affidato alla segretezza della sua intimità. Non esiste rapporto autentico con Dio che non abbia la possibilità di diventare ‘pubblico’: questo è il concetto fondamentale di carisma e Maria ha in primis il carisma di essere la «madre del mio Signore», come le riconosce la parente. L’incontro di due madri in attesa, diventa l’incontro del frutto che hanno in grembo; Giovanni percepisce la presenza del suo Signore ed esulta, esprimendo con il suo sussultare la gioia a contatto con la salvezza, che Maria potrà formalizzare nel canto che segue.

 

 

Meditazione

Con la quarta domenica di Avvento la liturgia, dopo essere ‘partita dalla fine’, dal compimento della storia e dalla venuta del Figlio dell’uomo, dopo aver ascoltato la ‘parola’ che è Giovanni il Battezzatore, l’uomo del deserto e dell’Avvento, ora nell’ultima tappa dà inizio alla lettura dei testi che nei Vangeli narrano la venuta storica del Messia. In particolare sono i ‘poveri’ di YHWH a fare la loro comparsa nella liturgia di questa domenica: saranno i ‘protagonisti umani’ di tutto il tempo di Natale: coloro che sanno accogliere! Gli umili e i poveri sono coloro che hanno occhi per vedere e riconoscere la visita di Dio. Fino alla solennità dell’Epifania saranno il modello per il credente di oggi, chiamato a vedere che Dio continua a visitare il suo popolo e a incarnarsi nella storia perché tutto in Lui sia ‘re-intestato (Ef 1,10).

E tu Betlemme, la piccola

Nel testo di Michea si parla di piccolezza e di grandezza nel medesimo tempo. Betlemme è un piccolo borgo della Giudea, chiamato ad essere il luogo della nascita di colui che «pascerà il suo popolo con la gloria del Signore».

Come da Betlemme uscì il grande Re Davide (1Sam 16,4; 17,12), il più piccolo della casa di suo padre Jesse (1Sam 16,7), colui che fece la grandezza del regno di Israele, riunendo in un’unica realtà politica tutte le tribù, così anche il Messia, figlio di Davide, colui che doveva compiere le profezie fatte al Re di stabilire per sempre la sua discendenza sul trono di Israele, viene dalla più ‘piccola’ tra le città di Giuda.

Come nella scelta di Davide, anche nella vicende che accompagnano la nascita di Gesù si scopre il volto di un Dio che segue parametri totalmente differenti da quelli che l’uomo sarebbe portato a seguire. Come ai tempi di Davide, anche ora la scelta di Dio cade sui più piccoli, perché Dio non guarda ciò che guarda l’uomo: «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16,7).

La gioia dell’incontro

Nel brano evangelico, il farsi strada della salvezza nella storia assume il linguaggio di un incontro. Le relazioni umane di due donne appartenenti al popolo di Israele sono il linguaggio che il vangelo di Luca utilizza per descrivere l’arrivo dei tempi del Messia. L’incontro di due donne incinte, entrambe custodi della vita che attende di sbocciare, diviene immagine della storia ‘gravida’ che sta per partorire un tempo nuovo e definitivo. Una donna sterile e anziana, come ai tempi di Abramo, il primo padre; una donna vergine, sposa pronta per l’incontro con il suo sposo, come il popolo che nel suo esilio si sente promettere da Dio di essere ‘rifatto vergine’ per grazia: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). Una donna sterile e una donna ‘vergine’ sono immagini dell’umanità che diviene capace di generare la vita. Lì, proprio lì, dove sembra che sia impossibile ogni segno di vita, ogni speranza di futuro, l’intervento di Dio fa fiorire la gioia, la danza, l’esultanza e il canto.

Ma nel vangelo di Luca si parla anche dell’incontro di due bambini non ancora nati. Un incontro che fa danzare Giovanni il Battista, che già nel grembo materno è profeta e precursore.

Questo testo di Luca è ricco di riferimenti al corpo: due donne incinte, due bambini non ancora nati, Giovanni che sussulta di gioia nel seno della madre… tutte immagini che coinvolgono il corpo in un modo molto forte e anche un po’ provocatorio. Con esse Luca ci dice che la salvezza ci raggiunge proprio nel corpo, quella dimensione — ‘dimensione’ e non ‘parte’, come spesso noi siamo portati a immaginare con un linguaggio un po’ dualistico — che nel linguaggio dell’antropologia biblica indica il luogo della relazione. Noi entriamo in relazione con il mondo e con gli altri grazie al nostro corpo. Anche questo è un annuncio provocante: la salvezza ci raggiunge nel corpo. Noi pensiamo che ci possa raggiungere nell’anima e che il corpo sia quasi un peso e un ostacolo. Invece il vangelo di Luca ci annuncia che non c’è salvezza che non passi per il corpo, perché la salvezza si gioca nell’incontro e nella relazione. Dio ha voluto descrivere sempre il suo rapporto con l’uomo e con il suo popolo come relazione, anzi come le relazioni più profonde e vere: la relazione uomo/donna, padre/figlio…

La danza di Davide

C’è un testo dell’Antico Testamento che ci può aiutare nella compren­sione del Vangelo di questa quarta domenica di Avvento: 2Sam 6. In questo testo si narra di re Davide che, ormai insediatosi a Gerusalemme e dopo aver unificato tutto il regno, decide di riportare l’Arca dell’alle­anza a Gerusalemme. Nell’ultima parte di questo racconto così bello e vivace viene descritto l’ingresso dell’Arca a Gerusalemme tra la festa del popolo e la danza di Davide. Anche qui il corpo è protagonista. Il gran­de re Davide, un peccatore dal cuore grande, ha la freschezza di un bambino nell’accogliere la visita di Dio… e sa danzare quasi nudo, senza vergogna, davanti all’Arca santa che fa il suo ingresso nella città regale: «Allora Davide andò e trasportò l’arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. Quando quelli che portavano l’arca del Signore ebbero fatto sei passi, egli immolò un bue e un ariete grasso. Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Ora Davide era cinto di un efod di lino. Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportava­no l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba» (2Sam 6,12-15).

Ma questo comportamento turba la figlia di Saul divenuta moglie di Davide, Mikal. Essa si scandalizza perché Davide si rende ridicolo agli occhi del popolo: «Bell’onore si è fatto oggi il re di Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!» (2Sam 6,20). Davanti al suo sdegno, la risposta di Davide è questa: «L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!» (2Sam 6,21-22).

Elisabetta e Maria sono quelle ‘serve’, quelle donne appartenenti al popolo dei poveri e degli umili, che diventeranno l’onore di Davide e che sapranno cantare, gioire e danzare per la venuta del Signore in Gerusalemme. Anche Giovanni danza davanti a Maria che porta in sé il Signore, come Davide danzò davanti all’Arca. La vergine e la sterile che sanno gioire per un incontro diventano madri, e fanno fiorire la vita; Mikal che non danza e si scandalizza della danza diviene sterile (2Sam 6,23): immagine dell’umanità che si chiude alla vita, nel momento in cui è incapace di gioire per un incontro e di accorgersi quando è visitata.

Un corpo mi hai preparato

Nella seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, non troviamo un
tono parenetico, bensì un annuncio. Sono le parole che l’autore mette in bocca a Cristo per annunciare, attraverso il linguaggio sacrificale-sacerdotale di questo scritto del Nuovo Testamento, il senso dell’esi­stenza e della missione di Cristo. È significativo che tutto si riassuma nell’espressione «mi hai preparato un corpo», facendo dell’umanità nella sua dimensione di fragilità e creaturalità, con tutto ciò che essa comporta, il luogo dell’obbedienza alla volontà del Padre. Anche se questo testo non è direttamente parenetico, tuttavia non è privo di conseguenze per la vita cristiana. L. Manicardi scrive: «Per il cristiano si tratta di vivere il corpo e di giungere a fare della propria vita un dono, un’offerta, sulla scia dell’offerta fatta da Cristo stesso. Per i cri­stiani ormai il corpo è il luogo dell’adempimento della volontà di Dio».

 

L’immagine della domenica

 

  

Che cosa è il Natale?

È tenerezza per il passato,

coraggio per il presente,

speranza per il futuro.

È il fervido auspicio

che ogni strada

possa portare alla pace.

(Agnes M. Pahro)


Preghiere e racconti

Andiamo fino a Betlem

Andiamo fino a Betlem, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.

Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

(don Tonino Bello)

 

IV Domenica di Avvento

In questa IV domenica di Avvento, che precede di poco il Natale del Signore, il Vangelo narra la visita di Maria alla parente Elisabetta. Questo episodio non rappresenta un semplice gesto di cortesia, ma raffigura con grande semplicità l’incontro dell’Antico con il Nuovo Testamento. Le due donne, entrambe incinte, incarnano infatti l’attesa e l’Atteso. L’anziana Elisabetta simboleggia Israele che attende il Messia, mentre la giovane Maria porta in sé l’adempimento di tale attesa, a vantaggio di tutta l’umanità. Nelle due donne si incontrano e riconoscono prima di tutto i frutti dei loro grembi, Giovanni e Cristo. Commenta il poeta cristiano Prudenzio: «Il bambino contenuto nel grembo senile saluta, attraverso la bocca di sua madre, il Signore figlio della Vergine» (Apotheosis, 590: PL 59, 970). L’esultanza di Giovanni nel grembo di Elisabetta è il segno del compimento dell’attesa: Dio sta per visitare il suo popolo. Nell’Annunciazione l’arcangelo Gabriele aveva parlato a Maria della gravidanza di Elisabetta (cfr Lc 1,36) come prova della potenza di Dio: la sterilità, nonostante l’età avanzata, si era trasformata in fertilità.

Elisabetta, accogliendo Maria, riconosce che si sta realizzando la promessa di Dio all’umanità ed esclama: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,42-43). L’espressione «benedetta tu fra le donne» è riferita nell’Antico Testamento a Giaele (Gdc 5,24) e a Giuditta (Gdt 13,1), due donne guerriere che si adoperano per salvare Israele. Ora invece è rivolta a Maria, giovinetta pacifica che sta per generare il Salvatore del mondo. Così anche il sussulto di gioia di Giovanni (cfr Lc 1,44) richiama la danza che il re Davide fece quando accompagnò l’ingresso dell’Arca dell’Alleanza in Gerusalemme (cfr 1 Cr 15,29). L’Arca, che conteneva le tavole della Legge, la manna e lo scettro di Aronne (cfr Eb 9,4), era il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il nascituro Giovanni esulta di gioia davanti a Maria, Arca della nuova Alleanza, che porta in grembo Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo.

La scena della Visitazione esprime anche la bellezza dell’accoglienza: dove c’è accoglienza reciproca, ascolto, il fare spazio all’altro, lì c’è Dio e la gioia che viene da Lui. Imitiamo Maria nel tempo di Natale, facendo visita a quanti vivono un disagio, in particolare gli ammalati, i carcerati, gli anziani e i bambini. E imitiamo anche Elisabetta che accoglie l’ospite come Dio stesso: senza desiderarlo non conosceremo mai il Signore, senza attenderlo non lo incontreremo, senza cercarlo non lo troveremo. Con la stessa gioia di Maria che va in fretta da Elisabetta (cfr Lc 1,39), anche noi andiamo incontro al Signore che viene. Preghiamo perché tutti gli uomini cerchino Dio, scoprendo che è Dio stesso per primo a venire a visitarci. A Maria, Arca della Nuova ed Eterna Alleanza, affidiamo il nostro cuore, perché lo renda degno di accogliere la visita di Dio nel mistero del suo Natale.

(Benedetto XVI, Angelus, 23.12.2012).

 

C’era una volta un lupo

C’era una volta un lupo che viveva nei dintorni di Betlemme. I pastori lo temevano e vegliavano l’intera notte per salvare le loro greggi. C’era sempre qualcuno di sentinella, così il lupo era ogni volta più affamato, scaltro e arrabbiato.

Una strana notte, piena di suoni e luci, mise in subbuglio i campi dei pastori. L’eco di un meraviglioso canto di angeli era appena svanito nell’aria.

Era nato un bambino, un piccino, un batuffolo rosa, roba da niente.

Il lupo si meravigliò che quei rozzi pastori fossero corsi tutti a vedere un bambino.

“Quante smancerie per un cucciolo d’uomo” pensò il lupo. Ma incuriosito e soprattutto affamato com’era, li seguì nell’ombra a passi felpati.

Quando li vide entrare in una stalla si fermò nell’ombra e attese.

I pastori portarono dei doni, salutarono l’uomo e la donna, si inchinarono deferenti verso il bambino e poi se ne andarono.

L’uomo e la donna stanchi per le fatiche e le incredibili sorprese della giornata si addormentarono.

Furtivo come sempre, il lupo scivolò nella stalla. Nessuno avvertì la sua presenza.

Solo il bambino.

Spalancò gli occhioni e guardò l’affilato muso che, passo dopo passo, guardingo, ma inesorabile si avvicinava sempre più. Il lupo aveva le fauci socchiuse e la lingua fiammeggiante. Gli occhi erano due fessure crudeli. Il bambino però non sembrava spaventato.

“Un vero bocconcino” pensò il lupo. Il suo fiato caldo sfiorò il bambino.

Contrasse i muscoli e si preparò ad azzannare la tenera preda.

In quel momento una mano del bambino, come un piccolo fiore delicato, sfiorò il suo muso in una affettuosa carezza. Per la prima volta nella vita qualcuno accarezzò il suo ispido e arruffato pelo, e con una voce, che il lupo non aveva mai udito, il bambino disse: “Ti voglio bene, lupo”.

Allora accadde qualcosa di incredibile, nella buia stalla di Betlemme. La pelle del lupo si lacerò e cadde a terra come un vestito vecchio.

Sotto, apparve un uomo. Un uomo vero, in carne e ossa.

L’uomo cadde in ginocchio e baciò le mani del bambino e silenziosamente lo pregò.

Poi l’uomo che era stato un lupo uscì dalla stalla a testa alta, e andò per il mondo ad annunciare a tutti: “È nato un bambino divino che può donarvi la vera libertà!

Il Messia è arrivato! Egli vi cambierà!”.

 

La venuta del Signore

Noi aspettiamo il giorno anniversario della nascita di Cristo: il nostro spirito dovrebbe come slanciarsi, pazzo di gioia, incontro al Cristo che viene, tutto teso in avanti con un ardore impaziente, quasi incapace di contenersi e di sopportare ritardo… Chiedo per voi, fratelli, che il Signore, prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi nel vostro intimo. Questa venuta del Signore, sebbene nascosta, è magnifica, e getta l’anima che contempla nello stupore dolcissimo dell’adorazione. Lo sanno bene coloro che ne hanno fatto l’esperienza; e piaccia a Dio che quelli che non l’hanno fatta ne provino il desiderio!

(GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, II, 2-4).

 

Quando Dio spera…

…non è per lo spazio d’una notte

che Dio spera contro speranza.

Mendicante sconosciuto, instancabilmente percorri

i lidi delle notti umane,

ombra tra le ombre innumerevoli

dei senza speranza.

Nella tua bocca muta si spengono i singhiozzi,

ma tu vorresti gridare, anche tu,

perché questo grido se ne vada,

come un’eco diversa,                      

come un richiamo nuovo,

a confondersi con il lamento crescente,

con le grida degli assetati di luce

con il terribile silenzio dei pianti soffocati,

e non resta che aprirsi

al vuoto dei marosi grigi,

all’alba che si accende non veduta.

Sul lido delle notti umane, sei il Dio senza voce.

Poiché la tua Parola fu detta in un giorno del tempo.

L’ hai pronunciata tutta,                            

l’hai gridata sino alla fine,

sino all’ultimo respiro del tuo Figlio.

Ma quando fu compiuta la tua Parola nella sua pienezza,

per te, Dio, venne il tempo della speranza nuda,

della speranza muta,

della speranza contro ogni speranza.

 

Preghiera della quarta domenica di Avvento

Dio eterno,

Dio sempre nuovo,

inafferrabile,

Dio di alleanza,

Dio di libertà,

dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti?

dove si annuncia la tua venuta?

La tua Parola ci rassicuri,

o Padre degli uomini,

Dio della promessa,

ora e sempre.

Presenza imprevedibile,

Dio di lunga pazienza,

Signore dell’impossibile,

noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo

della tua venuta.

Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato

per scoprire, per svelare, per generare,

non cessiamo di pregarti:

il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno,

all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo,

nostro fratello e nostro Signore, per sempre.

(Nicole Berthet).

 

 * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA DI AVVENTO ANNO C

Buon Natale e Felice Anno Nuovo

 «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?

Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito?

Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?

[…] In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». 

Mt 25,37-40 

 

Buone feste dai membri dell’Istituto di Catechetica