
La Revista de Educación Religiosa è una pubblicazione accademica digitale e stampata, pubblicata ogni sei mesi (maggio e ottobre), dalla School of Faith Institute dell’Università Finis Terrae.
Presentazione:
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La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
La Revista de Educación Religiosa è una pubblicazione accademica digitale e stampata, pubblicata ogni sei mesi (maggio e ottobre), dalla School of Faith Institute dell’Università Finis Terrae.
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Si può parlare di bellezza pastorale? O meglio esiste un’estetica dell’agire della
Chiesa?
L’interrogativo sul senso estetico della religione riemerge in modo prepotente, nei giorni dell’emergenza coronavirus, in conseguenza dell’esplosione di un fenomeno parareligioso: il proliferare della presenza di sacerdoti in rete.
Per provare a capire se si tratti di una sorta di nuova “via pulchritudinis” in salsa digitale oppure di una moda passeggera (in molti casi sgraziata), è necessaria una premessa che arricchisca la riflessione estetica con l’analisi sociale e con il pensiero religioso.
La destrutturazione dei tempi e degli spazi religiosi
La presenza online di pratiche religiose è una delle conseguenze dei vari decreti governativi che hanno imposto alla popolazione italiana (e non solo) di trascorrere l’intera giornata in casa. La criticità sanitaria non solo destabilizza certezze acquisite da generazioni, ma riprogramma inevitabilmente i formati dell’esistenza. A partire da due macro-categorie sociali come lo spazio e il tempo: si assiste a una dissoluzione inevitabile dell’agenda sociotemporale che crea un “tempo unico sospeso”, una sorta di calderone nel quale si mischiano e si indeboliscono sia i tempi sociali tradizionali (tempo del lavoro, tempo libero, tempo della formazione) che i cosiddetti interstizi temporali (l’attesa, fretta, la mobilità, la pianificazione del domani, la preghiera).
Stiamo vivendo, pertanto, uno scenario sociale inedito dove il primario e il
marginale non esistono più e nel quale avviene a una vera e propria disgregazione. Isolamenti e quarantene obbligano, quindi, l’individuo a riposizionare il proprio vissuto e (ri)generare pratiche usuali come, ad esempio, quelle ecclesiali. Pastori a ogni ora del giorno (e della notte) “trasferiscono” chiese, altari e tabernacoli in rete offendo celebrazioni, catechesi e momenti di preghiera. Questa trasposizione avviene attraverso dirette social (Facebook, Instagram), messaggi istantanei (WhatsApp, Telegram) o utilizzando una delle tante piattaforme di videoconferenza a disposizione. A queste esperienze pastorali vissute e strutturate online, si aggiunge la condivisione (sempre tramite web) di celebrazioni improvvisate sui terrazzi delle canoniche o di preghiere recitate in una macchina dal volenteroso prete che gira col megafono per le strade cittadine.
Al di là delle ragioni che muovono scelte di questo tipo (la principale è certamente la necessità di farsi presenti spiritualmente), una delle questioni che merita un approfondimento non riguarda la nobile intenzione ma la qualità (estetica e pastorale) della messa in scena di queste prassi.
La “messa” in scena
Un approfondimento di questo tipo non può prescindere da una piccola analisi dello scenario relativo al sacro nei media. Il riferimento principale è rappresentato dalla messa trasmessa in televisione che può essere considerata un vero e proprio format nato con l’inizio delle trasmissioni del piccolo schermo. Non a caso la prima volta andò in onda il 10 gennaio 1954 dalla basilica milanese di San Simpliciano, appena sette giorni dopo l’inizio ufficiale delle trasmissioni della Rai. Da quel momento, ogni domenica e in occasione delle festività religiose più importanti, il telespettatore ha potuto beneficiare di un prodotto costruito appositamente per la programmazione televisiva. Non si tratta infatti di semplici messe in tv ma di “video messe”, ovvero di riti mandati in onda secondo le logiche estetiche, spaziali e temporali del piccolo schermo.
La mediatizzazione del religioso ha,inoltre, una lunga tradizione. Basti citare due esempi abbastanza recenti. Il primo è la celebre ripresa dell’elicottero bianco con cui il dimissionario Papa Benedetto XVI lasciava il Vaticano il 29 febbraio 2013. La scena evocava l’inizio del capolavoro di Fellini La dolce vita, con il Cristo Redentore trasportato in elicottero nel cielo di Roma. Altro caso è rappresentato dalla suggestiva benedizione Urbi et Orbi di Papa Francesco del 27 marzo scorso in una piazza San Pietro per la prima volta vuota, sotto una pioggia battente e un cielo dai colori intensi. In entrambe le situazioni, lo spettatore ha potuto vivere due esperienze reali e autentiche che, grazie alla diretta televisiva, sono risultate dotate di un peculiare fascino narrativo. I due momenti, infatti, si sarebbero svolti comunque, ma la possibilità di trasmetterli in televisione li ha resi delle vere e proprie cerimonie mediali.
Sono diventati – secondo la definizione dei sociologi Dayan e Katz – dei “media events”, ossia delle trasmissioni contraddistinte dalla capacità di stimolare gli spettatori a interrompere la routine quotidiana per un appuntamento irripetibile. Chi li ha guardati ha potuto percepirne i dettagli da diverse prospettive, coglierne i significati profondi, esprimere un giudizio estetico e, infine, farne memoria.
La pastorale grassroots Oggi il concetto di “grande evento mediale” ha perso rilevanza a causa dell’aumento esponenziale degli spazi di partecipazione e dell’enorme disponibilità di strumenti tecnologici iperconnessi.
Ogni individuo, infatti, ha la possibilità di creare eventi personali, diffonderli a un proprio pubblico da cui potrà ricevere feedback immediati in termini di apprezzamento o disapprovazione.
È quello che sta succedendo con le innumerevoli esperienze online che, nelle ultime settimane, caratterizzano la quotidianità pastorale di molti ecclesiastici o religiosi. In molti casi, le narrazioni proposte risultano improvvisate e riflettono la radice amatoriale delle loro pratiche ovvero rientrano in quella che il sociologo francese Patrice Flichy chiama la “sacralizzazione dell’amatore” determinata dalla diffusione, dalla disponibilità e dal facile utilizzo delle tecnologie digitali. Flichy spiega come i media online hanno permesso a un gran numero di individui di vivere più intensamente le loro “passioni ordinarie” contribuendo notevolmente all’ascesa dei dilettanti sulle scene culturali, politiche e scientifiche. Nel nostro caso la dimensione dilettantistica non è riferita al ruolo intrinseco del prete che non è certamente né un professionista né un hobbista della religione, ma si configura come Alter Christus, come un “chiamato da Dio” per diffondere il suo Verbo.
Con il fenomeno “preti online”, emerso dalla necessità di continuare le
funzioni religiose ordinarie, si sta delineando una “pastorale dal basso”, le cui conseguenze in termini di resa estetica sono evidentemente discutibili. Esempi di tali storture sono le inquadrature traballanti, le riprese fuori campo, i primi piani esagerati.
Emblematico è il caso del sacerdote che attiva lo streaming della messa innescando inconsapevolmente i filtri dello smartphone e ritrovandosi, suo malgrado, in testa un casco da robot e il cappello e gli occhiali neri dei Blues Brothers. Lo scenario descritto rimanda, inoltre, a un concetto archetipico della cultura digitale, quello di “grassroots”, ovvero di una produzione mediale dal carattere spontaneo, autoprodotta da non professionisti ma in grado di creare larga partecipazione. La pastorale grassroots è indice di creatività perché permette al proprio specifico di diffondersi rapidamente e di essere accessibile a un gran numero di persone nello stesso momento e in uno stesso luogo (in questo periodo dalla propria abitazione attraverso un dispositivo connesso). Ma al di là degli evidenti benefici spirituali cela delle insidie. Tra queste: il rischio di dimenticare che “l’Eucaristia essendo un grande dono, il più prezioso, necessita di cure e attenzioni”. Sono parole contenute nel documento Celebrare la messa in Tv o in streaming proposto dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana. Si tratta di vademecum rivolto a tutti quei sacerdoti, religiosi e religiose e diaconi che hanno deciso (o decideranno) di cimentarsi (spesso con risultati disastrosi) nelle celebrazioni online a seguito della sospensione di quelle in presenza a causa del pericolo di contagio.
Concludendo: per una pastorale digitale
La nota della CEI è strutturata in tre parti. La prima, definita “indicazioni pratiche”, spiega in sette punti come rimodulare e adattare la liturgia durante la trasmissione online. Sono interessanti alcune espressioni scelte dalla Chiesa italiana; tra queste: “lentezza e meditazione” (nel proclamare la Parola di Dio), “dignità e preparazione” (degli spazi liturgici e delle vesti), “formazione” (a una presenza mediata), “diretta e non registrazione” (della celebrazione). La seconda parte include “alcune attenzioni di regia” e suggerisce la metodologia migliore per comporre un’inquadratura con lo smartphone, curare l’audio, le luci e garantire il decoro della celebrazione liturgica. L’ultima parte è una piccola proposta di azione pastorale negli spazi digitali attraverso la presentazione di quattro dimensioni costitutive della comunicazione in rete: la condivisione, l’engagement, l’hashtag e il target.
I suggerimenti della Conferenza Episcopale Italiana sono un utile prontuario
per gestire tecnicamente questo “tsunami spirituale” che ha travolto gli
account social di tanti fedeli orfani delle celebrazioni in presenza. Ma come tutte le guide pratiche rischia di essere recepita dai destinatari più come un tutorial che come un incentivo a conoscere, interpretare e interiorizzare i codici identitari della cultura digitale.
Questo vale sia per coloro che hanno battuto per la prima volta (e sovente con conseguenze tragicomiche) i territori del web sia per coloro che ne sono esperti e realizzano prodotti mediali apparentemente perfetti. È il caso del prete lombardo Alberto Ravagnani che ha scelto di aprire “W la fede”, un canale YouTube proprio il 14 marzo scorso per offrire riflessioni intorno al tema del Covid-19. E lo ha fatto nel migliore dei modi realizzando video pregevoli da un punto di vista tecnico: il suo eloquio è fluido e caratterizzato da tempi precisi, la libreria alle sue spalle ha il giusto livello di sfuocatura, il suo look è impeccabile.
Ma l’eccellenza formale se da un lato determina una fruizione soddisfacente, dall’altro non è sempre garanzia di qualità pastorale. Rischia, cioè, di ridurre l’esperienza religiosa – per citare Balthasar – a una mera “comunicazione di un sapere”, oscurando “la rivelazione dell’azione divina in continuità con la rappresentazione biblica del rapporto Dio-umanità”.
Ecco perché una prassi religiosa realizzata in rete, oltre a fare attenzione ai
particolari tecnico-formali, deve riflettere – usando ancora le parole del teologo svizzero – la “bellezza di Dio”; deve, cioè, superare la logica di un’asettica pastorale della tecnica comunicativa per proiettarsi in una prospettiva che metta al centro la bellezza del dato di fede e riesca a incarnarla nel contesto contemporaneo, caratterizzato dalla presenza e dallo sviluppo dei media digitali, dai fattori della convergenza e dell’interattività. Questo cambio di prospettiva può offrire una prima risposta alle domande poste all’inizio di questo scritto: bellezza pastorale può esistere soltanto se chi la fa è illuminato da un’autentica (e bella) pastoralità, ovvero – scriveva il teologo Sergio Lanza – “da quell’agire rispetto al contesto sociale che si configura come incarnazione dell’esperienza di fede evangelica”. È questo, infine, il presupposto di un’estetica del religioso nel macrocosmo della rete. Perché la bellezza più bella – spiegava in modo illuminante Carlo Maria Martini “non si dice (né si ostenta) ma si si percepisce a partire dalla pace dell’anima sotto lo splendore della luce divina. Per questo Gesù era straordinariamente bello e la sua bellezza si rifletteva sul volto di coloro che erano pronti a seguirlo”.
Massimiliano Padula
Massimiliano Padula è docente di Scienze della Comunicazione sociale alla Pontificia Università
Lateranense.
[1] Ho trovato molto stimolanti le riflessioni di alcuni e-book (iniziativa lodevole) di due case editrici che hanno con prontezza offerto chiavi di lettura: José Tolentino Mendonça, Il potere della speranza. Mani che sostengono l’anima del mondo, Vita e Pensiero. Tomáš Halík, Il segno delle chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e Pensiero; Centro Fede e Cultura “Alberto Hurtado”, Vedo la notte che accende le stelle. Sentieri in tempo di pandemia, EDB.
CITTÀ DEL VATICANO , 05 aprile, 2020 / 11:56 AM (ACI Stampa).-
“Dio ci ha salvato servendoci. In genere pensiamo di essere noi a servire Dio. No, è Lui che ci ha serviti gratuitamente, perché ci ha amati per primo. È difficile amare senza essere amati. Ed è ancora più difficile servire se non ci lasciamo servire da Dio”.
Papa Francesco lo ha detto nella riflessione proposta nella celebrazione della Domenica delle Palme.
Una celebrazione surreale nella basilica vaticana vuota e all’altare della Cattedra. La emergenza sanitaria ha indotto a questa scelta anche il Papa. Nel presbiterio sono stati collocati il Crocifisso di San Marcello e la Salus Populi Romani.
Il rito della Commemorazione dell’ingresso del Signore in Gerusalemme si è svolto ai piedi dell’Altare della Confessione, verso la Cattedra, dove è stato allestito un addobbo di palme e ulivi.
Francesco prosegue la sua riflessione: “Dio ci ha salvati lasciando che il nostro male si accanisse su di Lui. Senza reagire, solo con l’umiltà, la pazienza e l’obbedienza del servo, esclusivamente con la forza dell’amore”.
E le prove più dolorose sono quelle del tradimento e dell’abbandono, dice Papa Francesco. Un tradimento che sperimentiamo anche noi e “nasce in fondo al cuore una
delusione tale, per cui la vita sembra non avere più senso. Questo succede perché siamo nati per essere amati e per amare, e la cosa più dolorosa è venire traditi da chi ha promesso di esserci leale e vicino”.
Ma noi per primi dice il Papa, siamo traditori: “Se siamo sinceri con noi stessi, vedremo le nostre infedeltà. Quante falsità, ipocrisie e doppiezze! Quante buone intenzioni tradite! Quante promesse non mantenute! Quanti propositi lasciati svanire!”.
Ma il Signore ci conosce, e “ci ha guariti prendendo su di sé le nostre infedeltà, togliendoci i nostri tradimenti. Così che noi, anziché scoraggiarci per la paura di non farcela, possiamo alzare lo sguardo verso il Crocifisso, ricevere il suo abbraccio”.
E poi c’è l’abbandono: “Gesù aveva sofferto l’abbandono dei suoi, che erano fuggiti. Ma gli rimaneva il Padre”. E tutto questo dice il Papa lo ha fatto per noi “perché quando ci sentiamo con le
spalle al muro, quando ci troviamo in un vicolo cieco, senza luce e via di uscita, quando sembra che perfino Dio non risponda, ci ricordiamo di non essere soli”.
E allora anche oggi “nel dramma della pandemia, di fronte a tante certezze che si sgretolano, di fronte a tante aspettative tradite, nel senso di abbandono che ci stringe il cuore, Gesù dice a ciascuno: “Coraggio: apri il cuore al mio amore. Sentirai la consolazione di Dio, che ti sostiene”.
Allora quale deve essere la risposta dell’uomo ? “Possiamo non tradire quello per cui siamo stati creati, non abbandonare ciò che conta. Siamo al mondo per amare Lui e gli altri. Il resto passa, questo rimane. Il dramma che stiamo attraversando ci spinge a prendere sul serio quel che è serio, a non perderci in cose di poco conto; a riscoprire che la vita non serve se non si serve. Perché la vita si misura sull’amore. Allora, in questi giorni santi, a casa, stiamo davanti al Crocifisso, misura dell’amore di Dio per noi. Davanti a Dio che ci serve fino a dare la vita, chiediamo la grazia di vivere per servire. Cerchiamo di contattare chi soffre, chi è solo e bisognoso. Non pensiamo solo a quello che ci manca, ma al bene che possiamo fare”.
E il Papa conclude con un pensiero per i giovani, visto che oggi si celebra la XXXV Giornata Mondiale della Gioventù, quest’anno a livello diocesano, sul tema: “Giovane, dico a te, alzati!”.
“Certo, amare, pregare, perdonare, prendersi cura degli altri, in famiglia come nella società, può costare. Può sembrare una via crucis. Ma la via del servizio è la via vincente, che ci ha salvati e che ci salva la vita. Vorrei dirlo specialmente ai giovani, in questa Giornata che da 35 anni è dedicata a loro. Cari amici, guardate ai veri eroi, che in questi giorni vengono alla luce: non sono quelli che hanno fama, soldi e successo, ma quelli che danno sé stessi per servire gli altri.
Sentitevi chiamati a mettere in gioco la vita. Non abbiate paura di spenderla per Dio e per gli altri, ci guadagnerete! Perché la vita è un dono che si riceve donandosi. E perché la gioia più grande è dire sì all’amore, senza se e senza ma. Come Gesù per noi”.
Uscire a seminare: nei campi della coscienza e dell’intelligenza delle cose, per condividere il desiderio di scendere in profondità nei giorni che viviamo, guardandoli alla luce del Vangelo come esperienza, certo dolorosa ma autentica, dell’umano.
Uscire a seminare: una lettera, un sussidio per il Triduo pasquale, un instant-book, materiali che sono semplici suggerimenti per allargare e arricchire una riflessione sull’oggi che non può essere solitaria ma deve farsi costruzione del sentire del Popolo di Dio che si scopre parte dell’umanità e del pianeta di cui abbiamo la responsabilità.
Novità editoriale della Libreria Editrice Vaticana per quanti vogliono pregare e meditare con le parole del Papa. Si tratta di un e-book dal titolo Forti nella tribolazione che la casa editrice del Vaticano mette a disposizione di tutti, dato che è scaricabile gratuitamente a questo link:
L’e-book contiene le preghiere per vivere questo momento e le parole del Papa (omelie delle messe a Santa Marta e altri interventi di questi giorni). Il libro sarà costantemente aggiornato e dunque sarà possibile scaricarlo più volte per avere la versione con le ultime omelie.–
«L’Italia vede decimata la generazione anziana, punto di riferimento per i giovani e per gli affetti». Le parole dette ieri dal presidente della Repubblica italiana, in maniera solenne e commovente, sembrano così voler far scudo contro quell’aberrante e diffusa convinzione, espressa in maniera più o meno sotterranea, che le morti così numerose non siano state poi così importanti perché riguardavano i vecchi, per di più già malati.
Mattarella al contrario ci ricorda quale patrimonio siano i vecchi, come siano indispensabili per i bambini, proprio in quanto “rimbambiti”, ovvero anche loro bambini, disposti a giocare, a divagare, a trasgredire.
E come siano importanti per i giovani, per la possibilità che hanno di trasmettere loro antichi saperi, valori vissuti, comunitarie tradizioni, forme diverse di presa dello spazio e di percezione dei tempi.
E come, in definitiva, siano importanti per ognuno di noi, perché nel tempo dell’effimero e dell’oblio, di fronte agli spettacoli e ai consumi, mostrano il valore degli affetti teneri, dei ricordi, della memoria e del compianto.
Le parole del presidente sono dunque dense di significato educativo ed esistenziale ma hanno anche un impatto politico radicale perché, per la prima volta, interrompono la filosofia eugenetica che è la pratica e lo spirito di questi insani tempi.
Dal documento degli anestesisti spagnoli alla teorizzazione dell’immunità di gregge degli inglesi, fino alla sottrazione forzata dell’assistenza sanitaria accaduta in certi ospedali italiani, si teorizza la necessità, per la “medicina delle catastrofi”, di scegliere fra i vecchi e i giovani, come fra i deboli e i forti.
Una scelta dovuta allo stato di eccezione e alla situazione estrema, tesa a sottrarre responsabilità alla coscienza personale, che porta però con sé la traccia indelebile di un giudizio di qualità dato alla vita, come se una vita – la più forte, la più abile – fosse solo per questo degna di essere mantenuta, mentre un’altra con più facilità dovrebbe essere rottamata.
In tale scelta gerarchica – che, perdurando lo stato di eccezione, potrebbe essere estesa anche a tutti i disabili e a tutti i fragili – si conserva il segreto del potere totalitario e della società “tanatologica”, la società di massa del ‘900 che si fonda su un continuo commercio con la morte.
Lo dice Elias Canetti in un libro magnifico e terribile scritto in anni bui e insani quasi come questi (Masse e Potere). In questa società tanatologica, potente diviene sia il capo, che acquisisce potere di morte, sia chi si distingue dalla morte sopravvivendo. La sopravvivenza è di per se stessa acquisizione di potere.
Chi è morto giace, sta per terra; chi sopravvive sta in piedi. Già solo questa collocazione spaziale rende “l’istante del sopravvivere, l’istante della potenza”, anche perché inconsciamente insorge la convinzione di una vera e propria “elezione”, una emozione comparativa che non risparmia nessun rapporto, nemmeno quello più affettivo, nemmeno quello con i figli o i genitori o i fratelli. Su questo senso di elezione si fonda dunque il totalitarismo, secondo Canetti. Ma, potremmo aggiungere, anche il capitalismo in quanto tale trasforma in Pil la sopravvivenza, poiché miglior produttori sono i vivi, cioè gli abili, i giovani, i forti.
C’è nel potere contemporaneo quindi, il persistere di una barbarie di fondo, una inciviltà.
La civiltà si fonda invece al contrario e nasce quando Enea in fuga dall’incendio, porta con se il vecchio padre sulle spalle e, per mano, il giovane figlio.
La pietà, che è la sua qualità esistenziale e la sua qualità sociale, lo spinge nell’aiutare, includere tutti, curare tutti, anche a scapito della propria sopravvivenza, del proprio potere.
Quella pietà è anche l’intelligenza della specie, in quanto la specie sopravvive, sottolineano i biologi della complessità, non nella lotta ma perché la madre continua ad allattare il figlio e perché gli uomini, anche quando vivono rintanati, non sono topi che si distruggono ma anzi si prestano soccorso.
Noi, nell’agenda delle cose che dobbiamo mettere in campo quando finirà la guerra e vorremmo fare il mondo nuovo, dovremmo mettere in campo la pietà.
Fin da ora, in quanto già ora abbiamo due problemi. Il primo è quello di non morire, ma il secondo è quello di vivere civili.
E’ appena uscito online un fascicolo speciale della Rivista EAS – Essere a Scuola, interamente dedicato ad insegnanti e allievi in questo periodo di “scuola a casa”.
Il mese di marzo regala così ben due numeri della rivista: la casa editrice Morcelliana Scholé ha infatti deciso di aderire all’iniziativa di solidarietà digitale, rendendo scaricabile gratuitamente (fino al 5 aprile) e per intero il fascicolo n° 7/2020 dedicato alla Comunicazione didattica, consultabile al seguente link. Inoltre, sul sito dell’editrice è disponibile anche il numero speciale La scuola a casa, scaricabile gratuitamente e per intero al seguente link.
In particolare, il numero speciale può rivelarsi di grande utilità in questo periodo difficile per la scuola, per contrastare l’ipertrofia informativa e non rischiare di perdere di vista la realtà.
Qui, di seguito, riportiamo Sommario ed Editoriale.
Prima di augurarvi buona lettura, vogliamo soffermarci su un passaggio dell’editoriale di Pier Cesare Rivoltella:
[…] La verità è l’altra grande istanza che il contagio porta in gioco. Si esprime in una gamma di vissuti che punteggiano la quotidianità: la condizione di esilio, l’esperienza della separazione, la solitudine, le relazioni di cui si ha nostalgia. Il tratto comune a tutti è che, per chi li sappia valorizzare, essi funzionano da esperienze fondamentali. Sono tali quelle esperienze che distillano l’essenziale lasciando venire a tema quel che conta nella vita.
[…] Hartmut Rosa (2016) parlerebbe di risonanza. E risonanza sono anche le parole scritte sui container arrivati dalla Cina con mascherine e ventilatori polmonari al seguito della delegazione di medici specializzati nella lotta al virus: «Siamo onde dello stesso mare, rami dello stesso albero, fiori dello stesso giardino». Qui c’è un secondo grappolo di temi per gli insegnanti con le loro classi: il superamento dello stereotipo, sulla distanza che allontana, come sui cinesi; il pensiero posizionale, e cioè il sapersi mettere nei panni degli altri e guardare le cose dal loro punto di vista (Nussbaum, 2010); la cittadinanza come ascolto e relazione; il legame che la tecnologia può aiutare a costruire, o a ricostruire (Rivoltella, 2017).