Dalla pastorale del “campanile” a quella del “campanello”

“Lettera aperta alla parrocchia” di monsignor Gualtiero Sigismondi*– Parrocchia carissima, traendo spunto da don Primo Mazzolari, che nella prima metà del Novecento ha avuto la felice intuizione di scrivere una “Lettera” su di te, ti invio queste righe, che giro per conoscenza a quanti, opportune et importune, parlano della tua missione pastorale.
– C’è chi ne parla con profonda gratitudine, convinto della tua dimensione popolare di vicinanza alle case della gente, di porta d’accesso alla fede cristiana e all’esperienza ecclesiale, ma non del tutto consapevole della tua vocazione missionaria.
– C’è, pure, chi ne parla senza uscire dalla sacrestia o senza allontanarsi dall’ombra del campanile, ignorando la tua dipendenza strutturale dalla Chiesa particolare, a cui è intimamente legata
la tua appartenenza vitale alla Chiesa universale.
– C’è, persino, chi ne parla per conferirti la medaglia d’oro al “valore pastorale”, nella consapevolezza che hai “combattuto la buona battaglia” della salus animarum e hai portato a termine la tua lunga “corsa”, conservando la fede della Chiesa.
– C’è, addirittura, chi ne parla con diffidenza, ritenendoti, se non proprio un “rottame pastorale”, un “pezzo d’antiquariato” o, comunque, un “oggetto da museo”, indicato da questa laconica didascalia: “fontana del villaggio ormai sigillata”.
– C’è, anche, chi ne parla con troppa sicurezza, smaniando di versare “vino nuovo in otri vecchi”, anziché “vino nuovo in otri nuovi” (cf Lc 5,37-39), magari con il lodevole proposito di rinnovarti, ma con il risultato di incrinarti e di spaccarti.
– C’è, infine, chi ne parla con entusiasmo sincero, volendo seguire l’esempio dello scriba di evangelica memoria il quale, divenuto “discepolo del Regno”, «è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
Come vedi, carissima parrocchia, sono in molti a tenere fisso lo sguardo su di te, forse con la nostalgia della simpatia, ma non sempre con la lungimiranza della profezia, che unisce alla pazienza dell’attesa l’intelligenza dei “segni dei tempi”.
Non temere né l’intraprendenza di chi ti ritiene inadeguata, né la reticenza di chi ti considera sorpassata e neppure la sufficienza di chi stenta a riconoscere la tua esperienza di lungo corso.
Non sostare nel vicolo cieco della “febbre degli eventi” o del “male della pietra” e non accontentarti di moltiplicare “iniziative prive di iniziativa”, che potrebbero dare l’impressione che tu sia un’azienda pastorale.
Non limitarti a presidiare i confini del tuo territorio, ma abbi l’audacia di presiederlo, riscoprendo la “grammatica di base” del “primo annuncio”. Ricordati che non è il territorio ad appartenere alla parrocchia, ma il contrario, nel duplice senso di farne parte e di prenderne le parti. Renditi conto che l’attenzione alla vita sociale non è separabile dall’impegno ecclesiale. Mi raccomando, prenditi cura dei poveri, “amici abituali della canonica”, e di coloro che si sono allontanati da te per “delusione d’innamorati”.
Parrocchia carissima, non dimenticare che la Parola convoca la comunità cristiana e l’eucaristia la fa essere un solo corpo. Tieni bene a mente che “la fede nasce dall’ascolto e si rafforza nell’annuncio”.
Esplora la “frontiera” della missione coltivando e dilatando gli strumenti e gli spazi della comunione, poiché “la concordia è il presupposto della Pentecoste”.
Valorizza gli organismi di partecipazione, ispirandoti non alla logica parlamentare della maggioranza bensì al criterio sinodale della convergenza. Riconosci la necessità e l’importanza delle unità o comunità pastorali, che non sono sovrastrutture amministrative, ma infrastrutture che contribuiscono a tradurre l’ecclesiologia di comunione del Vaticano II.
Non guardare con alterigia alla pietà popolare, autentico “sistema immunitario del corpo ecclesiale”, ma purificala da eventuali eccessi e rinnovala nei contenuti e nelle forme.
Affida all’oratorio il compito di rivelare il volto e la passione educativa della Chiesa per le nuove generazioni, coinvolgendo animatori, catechisti e genitori. Investi le migliori energie sulla famiglia, vera “miniatura” della Chiesa, altrimenti il tuo impegno pastorale sarà sempre una rincorsa affannosa.
Scommetti sull’Azione cattolica, riconoscendo il suo “carisma popolare” e la sua “passione formativa”, senza trascurare di accogliere il “genio missionario” delle nuove aggregazioni ecclesiali e degli istituti di vita consacrata, antichi e recenti, che assicurano un prezioso supporto di energie evangelizzatrici: guardati dalla tentazione di “spegnere lo Spirito”! (cf 1Ts 5,19).
Non rinunciare al suono delle campane, ma abbi il coraggio di passare dalla pastorale del “campanile” a quella del “campanello” – anche il tuo nome evoca l’idea di “vicinanza” (parà) riferita alla “casa” (oikìa) –, dalla pastorale “a pioggia” di mantenimento a quella “a goccia” di accompagnamento.
Parrocchia carissima, sei tanto venerabile quanto veneranda, e tuttavia tieni presente che “la bellezza di ogni creatura è nella sua capacità di rinnovarsi”.

*Vescovo di Orvieto-Todi e Assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica Italiana – articolo pubblicato sul mensile Vita pastorale (maggio/2020)

LA “MESSA” IN SCENA DIGITALE

Si può parlare di bellezza pastorale? O meglio esiste un’estetica dell’agire della
Chiesa?

L’interrogativo sul senso estetico della religione riemerge in modo prepotente, nei giorni dell’emergenza coronavirus, in conseguenza dell’esplosione di un fenomeno parareligioso: il proliferare della presenza di sacerdoti in rete.
Per provare a capire se si tratti di una sorta di nuova “via pulchritudinis” in salsa digitale oppure di una moda passeggera (in molti casi sgraziata), è necessaria una premessa che arricchisca la riflessione estetica con l’analisi sociale e con il pensiero religioso.

La destrutturazione dei tempi e degli spazi religiosi
La presenza online di pratiche religiose è una delle conseguenze dei vari decreti governativi che hanno imposto alla popolazione italiana (e non solo) di trascorrere l’intera giornata in casa. La criticità sanitaria non solo destabilizza certezze acquisite da generazioni, ma riprogramma inevitabilmente i formati dell’esistenza. A partire da due macro-categorie sociali come lo spazio e il tempo: si assiste a una dissoluzione inevitabile dell’agenda sociotemporale che crea un “tempo unico sospeso”, una sorta di calderone nel quale si mischiano e si indeboliscono sia i tempi sociali tradizionali (tempo del lavoro, tempo libero, tempo della formazione) che i cosiddetti interstizi temporali (l’attesa, fretta, la mobilità, la pianificazione del domani, la preghiera).

Stiamo vivendo, pertanto, uno scenario sociale inedito dove il primario e il
marginale non esistono più e nel quale avviene a una vera e propria disgregazione. Isolamenti e quarantene obbligano, quindi, l’individuo a riposizionare il proprio vissuto e (ri)generare pratiche usuali come, ad esempio, quelle ecclesiali. Pastori a ogni ora del giorno (e della notte) “trasferiscono” chiese, altari e tabernacoli in rete offendo celebrazioni, catechesi e momenti di preghiera. Questa trasposizione avviene attraverso dirette social (Facebook, Instagram), messaggi istantanei (WhatsApp, Telegram) o utilizzando una delle tante piattaforme di videoconferenza a disposizione. A queste esperienze pastorali vissute e strutturate online, si aggiunge la condivisione (sempre tramite web) di celebrazioni improvvisate sui terrazzi delle canoniche o di preghiere recitate in una macchina dal volenteroso prete che gira col megafono per le strade cittadine.
Al di là delle ragioni che muovono scelte di questo tipo (la principale è certamente la necessità di farsi presenti spiritualmente), una delle questioni che merita un approfondimento non riguarda la nobile intenzione ma la qualità (estetica e pastorale) della messa in scena di queste prassi.

La “messa” in scena
Un approfondimento di questo tipo non può prescindere da una piccola analisi dello scenario relativo al sacro nei media. Il riferimento principale è rappresentato dalla messa trasmessa in televisione che può essere considerata un vero e proprio format nato con l’inizio delle trasmissioni del piccolo schermo. Non a caso la prima volta andò in onda il 10 gennaio 1954 dalla basilica milanese di San Simpliciano, appena sette giorni dopo l’inizio ufficiale delle trasmissioni della Rai. Da quel momento, ogni domenica e in occasione delle festività religiose più importanti, il telespettatore ha potuto beneficiare di un prodotto costruito appositamente per la programmazione televisiva. Non si tratta infatti di semplici messe in tv ma di “video messe”, ovvero di riti mandati in onda secondo le logiche estetiche, spaziali e temporali del piccolo schermo.

La mediatizzazione del religioso ha,inoltre, una lunga tradizione. Basti citare due esempi abbastanza recenti. Il primo è la celebre ripresa dell’elicottero bianco con cui il dimissionario Papa Benedetto XVI lasciava il Vaticano il 29 febbraio 2013. La scena evocava l’inizio del capolavoro di Fellini La dolce vita, con il Cristo Redentore trasportato in elicottero nel cielo di Roma. Altro caso è rappresentato dalla suggestiva benedizione Urbi et Orbi di Papa Francesco del 27 marzo scorso in una piazza San Pietro per la prima volta vuota, sotto una pioggia battente e un cielo dai colori intensi. In entrambe le situazioni, lo spettatore ha potuto vivere due esperienze reali e autentiche che, grazie alla diretta televisiva, sono risultate dotate di un peculiare fascino narrativo. I due momenti, infatti, si sarebbero svolti comunque, ma la possibilità di trasmetterli in televisione li ha resi delle vere e proprie cerimonie mediali.
Sono diventati – secondo la definizione dei sociologi Dayan e Katz – dei “media events”, ossia delle trasmissioni contraddistinte dalla capacità di stimolare gli spettatori a interrompere la routine quotidiana per un appuntamento irripetibile. Chi li ha guardati ha potuto percepirne i dettagli da diverse prospettive, coglierne i significati profondi, esprimere un giudizio estetico e, infine, farne memoria.
La pastorale grassroots Oggi il concetto di “grande evento mediale” ha perso rilevanza a causa dell’aumento esponenziale degli spazi di partecipazione e dell’enorme disponibilità di strumenti tecnologici iperconnessi.

Ogni individuo, infatti, ha la possibilità di creare eventi personali, diffonderli a un proprio pubblico da cui potrà ricevere feedback immediati in termini di apprezzamento o disapprovazione.

È quello che sta succedendo con le innumerevoli esperienze online che, nelle ultime settimane, caratterizzano la quotidianità pastorale di molti ecclesiastici o religiosi. In molti casi, le narrazioni proposte risultano improvvisate e riflettono la radice amatoriale delle loro pratiche ovvero rientrano in quella che il sociologo francese Patrice Flichy chiama la “sacralizzazione dell’amatore” determinata dalla diffusione, dalla disponibilità e dal facile utilizzo delle tecnologie digitali. Flichy spiega come i media online hanno permesso a un gran numero di individui di vivere più intensamente le loro “passioni ordinarie” contribuendo notevolmente all’ascesa dei dilettanti sulle scene culturali, politiche e scientifiche. Nel nostro caso la dimensione dilettantistica non è riferita al ruolo intrinseco del prete che non è certamente né un professionista né un hobbista della religione, ma si configura come Alter Christus, come un “chiamato da Dio” per diffondere il suo Verbo.

Con il fenomeno “preti online”, emerso dalla necessità di continuare le
funzioni religiose ordinarie, si sta delineando una “pastorale dal basso”, le cui conseguenze in termini di resa estetica sono evidentemente discutibili. Esempi di tali storture sono le inquadrature traballanti, le riprese fuori campo, i primi piani esagerati.
Emblematico è il caso del sacerdote che attiva lo streaming della messa innescando inconsapevolmente i filtri dello smartphone e ritrovandosi, suo malgrado, in testa un casco da robot e il cappello e gli occhiali neri dei Blues Brothers. Lo scenario descritto rimanda, inoltre, a un concetto archetipico della cultura digitale, quello di “grassroots”, ovvero di una produzione mediale dal carattere spontaneo, autoprodotta da non professionisti ma in grado di creare larga partecipazione. La pastorale grassroots è indice di creatività perché permette al proprio specifico di diffondersi rapidamente e di essere accessibile a un gran numero di persone nello stesso momento e in uno stesso luogo (in questo periodo dalla propria abitazione attraverso un dispositivo connesso). Ma al di là degli evidenti benefici spirituali cela delle insidie. Tra queste: il rischio di dimenticare che “l’Eucaristia essendo un grande dono, il più prezioso, necessita di cure e attenzioni”. Sono parole contenute nel documento Celebrare la messa in Tv o in streaming proposto dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana. Si tratta di vademecum rivolto a tutti quei sacerdoti, religiosi e religiose e diaconi che hanno deciso (o decideranno) di cimentarsi (spesso con risultati disastrosi) nelle celebrazioni online a seguito della sospensione di quelle in presenza a causa del pericolo di contagio.

Concludendo: per una pastorale digitale

La nota della CEI è strutturata in tre parti. La prima, definita “indicazioni pratiche”, spiega in sette punti come rimodulare e adattare la liturgia durante la trasmissione online. Sono interessanti alcune espressioni scelte dalla Chiesa italiana; tra queste: “lentezza e meditazione” (nel proclamare la Parola di Dio), “dignità e preparazione” (degli spazi  liturgici e delle vesti), “formazione” (a una presenza mediata), “diretta e non registrazione” (della celebrazione). La seconda parte include “alcune attenzioni di regia” e suggerisce la metodologia migliore per comporre un’inquadratura con lo smartphone, curare l’audio, le luci e garantire il decoro della celebrazione liturgica. L’ultima parte è una piccola proposta di azione pastorale negli spazi digitali attraverso la presentazione di quattro dimensioni costitutive della comunicazione in rete: la condivisione, l’engagement, l’hashtag e il target.
I suggerimenti della Conferenza Episcopale Italiana sono un utile prontuario
per gestire tecnicamente questo “tsunami spirituale” che ha travolto gli
account social di tanti fedeli orfani delle celebrazioni in presenza. Ma come tutte le guide pratiche rischia di essere recepita dai destinatari più come un tutorial che come un incentivo a conoscere, interpretare e interiorizzare i codici identitari della cultura digitale.
Questo vale sia per coloro che hanno battuto per la prima volta (e sovente con conseguenze tragicomiche) i territori del web sia per coloro che ne sono esperti e realizzano prodotti mediali apparentemente perfetti. È il caso del prete lombardo Alberto Ravagnani che ha scelto di aprire “W la fede”, un canale YouTube proprio il 14 marzo scorso per offrire riflessioni intorno al tema del Covid-19. E lo ha fatto nel migliore dei modi realizzando video pregevoli da un punto di vista tecnico: il suo eloquio è fluido e caratterizzato da tempi precisi, la libreria alle sue spalle ha il giusto livello di sfuocatura, il suo look è impeccabile.
Ma l’eccellenza formale se da un lato determina una fruizione soddisfacente, dall’altro non è sempre garanzia di qualità pastorale. Rischia, cioè, di ridurre l’esperienza religiosa – per citare Balthasar – a una mera “comunicazione di un sapere”, oscurando “la rivelazione dell’azione divina in continuità con la rappresentazione biblica del rapporto Dio-umanità”.

Ecco perché una prassi religiosa realizzata in rete, oltre a fare attenzione ai
particolari tecnico-formali, deve riflettere – usando ancora le parole del teologo svizzero – la “bellezza di Dio”; deve, cioè, superare la logica di un’asettica pastorale della tecnica comunicativa per proiettarsi in una prospettiva che metta al centro la bellezza del dato di fede e riesca a incarnarla nel contesto contemporaneo, caratterizzato dalla presenza e dallo sviluppo dei media digitali, dai fattori della convergenza e dell’interattività. Questo cambio di prospettiva può offrire una prima risposta alle domande poste all’inizio di questo scritto: bellezza pastorale può esistere soltanto se chi la fa è illuminato da un’autentica (e bella) pastoralità, ovvero – scriveva il teologo Sergio Lanza – “da quell’agire rispetto al contesto sociale che si configura come incarnazione dell’esperienza di fede evangelica”. È questo, infine, il presupposto di un’estetica del religioso nel macrocosmo della rete. Perché la bellezza più bella – spiegava in modo illuminante Carlo Maria Martini “non si dice (né si ostenta) ma si si percepisce a partire dalla pace dell’anima sotto lo splendore della luce divina. Per questo Gesù era straordinariamente bello e la sua bellezza si rifletteva sul volto di coloro che erano pronti a seguirlo”.

 

Massimiliano Padula
Massimiliano Padula è docente di Scienze della Comunicazione sociale alla Pontificia Università
Lateranense.

Perché tutto non sia come prima

Da più parti si comincia a pensare al “dopo”. È presto, ma è anche il modo di non rassegnarsi al presente, di guardare avanti, senza correre, “restando a casa” ma non semplicemente da prigionieri. Questo esercizio di immaginazione, per non essere una fuga, chiede di cominciare a pensare al dopo elaborando il presente, quello che ci sta succedendo.

Da parte mia, non sono certo in grado di prefigurare scenari per il mondo o per la Chiesa.[1] Provo a farlo dal punto di vista di una parrocchia, e delle sue pratiche pastorali che, in questa “sospensione”, sono state messe in discussione, chiedono e possono essere ripensate.

Dopo, che cosa succederà? Torneremo semplicemente a fare le cose di sempre, le liturgie di sempre, il catechismo ecc.? Già prima avevamo la percezione che si dovessero ripensare le pratiche pastorali in nome di un cambiamento d’epoca che stiamo vivendo e nella direzione di una Chiesa “in uscita” come piace dire a Francesco. Ma temo che l’inerzia sarà forte se non sorretta da un pensiero che non faccia passare inutilmente il tempo che stiamo vivendo.

Ho provato allora a fare un semplice esercizio: penso a che cosa è successo al mio ministero di prete in questo tempo sospeso, a come ho dovuto ripensare tutto e rinnovare il modo di accompagnare il cammino di fede della mia comunità. Lo faccio seguendo un ordine quasi cronologico, nel senso che sono le prime cose che mi sembrava mi chiamassero ad agire e a pensare.

L’evidenza della liturgia

La prima evidenza è stata la mancanza dell’eucaristia, in particolare delle celebrazioni domenicali. Come poteva resistere una parrocchia senza l’eucaristia? Che cosa potevo fare io come prete? E già questa è una indicazione preziosa: ci siamo accorti – lo sapevamo, ma forse non così fortemente – che «è l’eucarestia che fa la Chiesa» (secondo l’adagio di un mio saggio professore di teologia), che quel gesto di lasciarci radunare dal Signore è costitutivo, che la fede si vive e si trasmette celebrandola. Abbiamo percepito meglio l’evidenza che l’eucaristia non è una devozione individuale ma un atto comunitario.

Che cosa fare allora? Molti preti si sono buttati a pesce nella strada della trasmissione via streaming delle messe che continuavano a celebrare anche “in assenza di popolo”. Il mio istinto è stato diverso: se il popolo digiuna, digiuno anch’io. Imparo a vivere in attesa, perché senza l’assemblea presente con i corpi e i volti, la celebrazione è monca. Non che sia sbagliato celebrare senza popolo, e infatti, dopo un po’ di settimane, abbiamo deciso di celebrare una volta alla settimana per il popolo – intercedendo per tutti e a suffragio dei defunti – anche per non trasformare questa posizione in un assunto ideologico.

D’altra parte, ho fortemente evitato la trasmissione della messa in streaming. Cosa lecita, certo, e i preti che lo hanno fatto hanno le loro buone ragioni. Ma due cose mi hanno trattenuto: la prima è che mi sembrava sbagliato incrementare la pratica che alla messa si possa “assistere” (termine caro al rito tridentino) come ad uno spettacolo. Dove per altro il prete sembra cercare ancora un ruolo di protagonista che alimenta un certo clericalismo. Alla messa non si assiste, si celebra, si partecipa attivamente.

E poi: esiste solo la messa? Per questo – è la seconda ragione – ho pensato di investire le mie energie nell’aiutare i credenti a “celebrare” nelle case, preparando sussidi, fornendo anche qualche audio che facesse presente la voce della comunità in ogni casa, suggerendo magari di celebrare insieme con le piattaforme che oggi permettono di connettersi con più famiglie. È stato un vero e proprio lavoro, che ha chiesto a me una cura per la celebrazione – e non solo per l’omelia – che normalmente non mettevo in opera; e che ha chiesto ai credenti di attivarsi per celebrare: preparando il luogo, i segni, i tempi… Chi lo ha fatto credo sia cresciuto nel suo vissuto di fede.

Aggiungo un’osservazione circa la predicazione. Pensarla per chi celebra nelle case (con uno scritto e con un audio) mi ha aiutato a contestualizzare molto il commento alla Parola. Accorgendomi come questo tempo di prova è anche un tempo particolarmente intenso, e di come il vissuto della mia gente i loro racconti, le loro vicissitudini, fornissero quel materiale umano condiviso che permetteva di ascoltare in modo nuovo la Parola. Un solo esempio: difficile dire qualcosa su una pagina come la morte di Lazzaro, l’iniziale distanza di Gesù, senza pensare a tutti coloro che stavano vivendo la morte di persone care “a distanza”.

La vita, se la si ascolta e se ci si lascia ferire da essa, amplifica la Parola, dona carne viva alla sua presenza. Sono stato in questi giorni molto debitore alle parole che i racconti mi hanno affidato nelle prove della vita. Non dovrebbe essere sempre così? Non dovremmo preparare insieme la celebrazione di ogni domenica, celebrare insieme il mistero di Cristo dentro le nostre vite?

L’urgenza della carità

Subito si è contemporaneamente imposta una urgenza: che fare per i poveri? All’inizio, quando la sospensione sembrava temporanea, si è fermata la rete di aiuti per le famiglie in difficoltà. Ma non è stato possibile farlo a lungo. I poveri non aspettano, bussano, e sono spesso le persone che per prime pagano il prezzo di una crisi. Così, grazie all’iniziativa di un prete della parrocchia, la rete si è riattivata con nuove modalità: la disponibilità a fare la spesa per chi non poteva uscire di casa; un numero sempre attivo per il Centro di ascolto; l’arrivo di nuovi volontari; l’utilizzo dei social media per contattare e tenere in rete i bisogni; il legame con gli altri Centri di ascolto coordinandosi meglio…

Abbiamo scoperto nuovi modi di stare vicino alle persone in difficoltà e nuove risorse e disponibilità inaspettate di tante persone di buona volontà. La parrocchia si è nuovamente scoperta come un presidio sul territorio molto attento, anche più vicino delle istituzioni civili, al punto che queste, nel tempo di emergenza, fanno riferimento alla parrocchia per avere il polso della situazione reale. Un patrimonio che servirà tantissimo per il futuro. Tutto non sarà come prima.

La catechesi sospesa?

Un capitolo a parte riguarda la catechesi e tutti gli appuntamenti di formazione. Come giustamente qualcuno ha fatto osservare, l’impressione è che la catechesi sia stata semplicemente sospesa: «All’inizio la catechesi è stata quasi senza parole, la liturgia si è mossa prima (…) Per la catechesi, invece, la chiusura delle scuole ha significato la sua chiusura (…) Messaggi del tipo: “la catechesi è sospesa fino a quando la scuola è sospesa”».

È stato proprio così? Certo, le forme normale di catechesi sono state sospese, perché chiedevano il radunarsi di più persone in luoghi chiusi. Ma forse è nato inconsapevolmente un modo nuovo di formare un pensiero a partire dalla fede.

In questi giorni è nata l’esigenza di interpretare il tempo che stiamo vivendo. Una sete, un desiderio di riflessioni, pensieri, interpretazioni che, alla luce della fede, aiutassero a dare un senso, a trovare una saggezza, a tenere viva una speranza, a vivere da credenti il tempo perché diventasse un’occasione, un tempo di grazia.

Questo desiderio ha trovato nuove vie di comunicazione: sono circolate riflessioni, articoli, testimonianze, che poi le persone facevano circolare per mezzo dei social media. Ancora una volta la tecnologia insieme aiuta e rende tutto più difficile.

Nella rete circola anche molta spazzatura, anche molta spazzatura religiosa, forme di “devozionalismo selvaggio”. Abbiamo allora creato dei gruppi whatsApp – alcuni nati spontaneamente tra parrocchiani – che avessero cura di selezionare testi e riflessioni di qualità. Da qui sono nati pensieri e articoli che poi abbiamo raccolto nel giornale parrocchiale in due edizioni speciali nel tempo del Coronavirus. Anche in questo caso – come nella liturgia – la formazione non è stata più a senso unico (il prete parla e gli altri ascoltano) ma si è ingenerato un circolo dove i parrocchiani erano soggetti attivi.

Io stesso ho imparato a misurare i miei interventi (non troppo per non intasare e occupare tutto lo spazio) e mi sono preoccupato di fare una cernita mettendo in circolo il meglio di quello che leggevo (una sorta di ascesi del pensiero). A partire da questi spunti nasce anche il desiderio di confrontarsi, di incontrarsi – per ora via internet – per scambiare le impressioni e le riflessioni, insieme o a piccoli gruppi. Non è forse questa una forma di catechesi? Non potrebbe ispirare nuove modalità di formare un pensiero alla luce della fede? Tutto non potrà essere come prima.

Le relazioni come rete

La terza dimensione è quella comunitaria. Come tenere insieme una parrocchia nel tempo della dispersione? In realtà questo tempo rivela una verità già presente prima: il carattere fragile dell’appartenenza comunitaria. Eravamo già una comunità dispersa, ora lo sentiamo e lo comprendiamo meglio. Quindi, la prima risposta è quella di reggere la mancanza.

«Non possiamo pensare di sconfiggere l’assenza ignorandola, deridendola, scherzandoci, trasgredendola, surrogandola virtualmente. Possiamo solo riconoscerla e darle un significato: tu mi manchi davvero, ma io ti aspetto. Non potrebbe essere questa la consolazione che ci è regalata in questi giorni? La cosa più brutta che ci potrebbe succedere è quando una persona si sente in solitudine e sa che nessuno l’aspetta. La carità di questo periodo potrebbe esprimersi nello scambiarsi piccoli riti che ci ricordano che siamo soli, ma attesi».

Da questa mancanza è nato anche il desiderio di farsi vicini pur nella distanza. Non sono mai stato così tanto al telefono, e con conversazioni così intense, lontane dalla banalità, piene di vita. Sono stati giorni nei quali cercarsi: tra preti, con amici lontani e vicini, con i parrocchiani, sia con i collaboratori più stretti che con le persone anziane più bisognose di una parola, che con le persone che vivevano circostanze difficili (il contagio, la perdita di persone care). E questo è diventato uno stile condiviso.

Perché tutto non sia come prima

Ho chiesto che tutti facessero di questo un compito: farsi vicini, creare una rete di fraternità, far sentire a più persone che ci mancano e che le attendiamo. Anche in questo caso la fraternità non è più una preoccupazione dei soli preti, ma diventa una responsabilità di molti nella comunità. Diventa evidente ciò che è sempre vero: il senso di appartenenza, il legame fraterno in una parrocchia passa non solo dai preti, ma dalla qualità delle relazioni che ogni credente impara a costruire come responsabilità verso tutta la comunità.

Non so come riprenderemo il cammino al termine di questa pandemia. So che il dopo comincia adesso, che quello che stiamo imparando segna una traccia che ci insegnerà quali percorsi reinventare, che cosa potremo cambiare, che cosa non sarà necessario rifare, e che cosa dovremo riscrivere in modo nuovo. Il domani comincia oggi.


[1] Ho trovato molto stimolanti le riflessioni di alcuni e-book (iniziativa lodevole) di due case editrici che hanno con prontezza offerto chiavi di lettura: José Tolentino Mendonça, Il potere della speranza. Mani che sostengono l’anima del mondo, Vita e Pensiero. Tomáš Halík, Il segno delle chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e Pensiero; Centro Fede e Cultura “Alberto Hurtado”, Vedo la notte che accende le stelle. Sentieri in tempo di pandemia, EDB.

 

di Antonio Torresin

XXXV Giornata Mondiale della Gioventù: “Giovane, dico a te, alzati!”.

“Dio ci ha salvato servendoci. In genere pensiamo di essere noi a servire Dio. No, è Lui che ci ha serviti gratuitamente, perché ci ha amati per primo. È difficile amare senza essere amati. Ed è ancora più difficile servire se non ci lasciamo servire da Dio”.

Papa Francesco lo ha detto nella riflessione proposta nella celebrazione della Domenica delle Palme.

Una celebrazione surreale nella basilica vaticana vuota e all’altare della Cattedra. La emergenza sanitaria ha indotto a questa scelta anche il Papa.  Nel presbiterio sono stati collocati il Crocifisso di San Marcello e la Salus Populi Romani.

Il rito della Commemorazione dell’ingresso del Signore in Gerusalemme si è svolto ai piedi dell’Altare della Confessione, verso la Cattedra, dove è stato allestito un addobbo di palme e ulivi.

Francesco prosegue la sua riflessione: “Dio ci ha salvati lasciando che il nostro male si accanisse su di Lui. Senza reagire, solo con l’umiltà, la pazienza e l’obbedienza del servo, esclusivamente con la forza dell’amore”.

E le prove più dolorose sono quelle del tradimento e dell’abbandono, dice Papa Francesco. Un tradimento che sperimentiamo anche noi e “nasce in fondo al cuore una

delusione tale, per cui la vita sembra non avere più senso. Questo succede perché siamo nati per essere amati e per amare, e la cosa più dolorosa è venire traditi da chi ha promesso di esserci leale e vicino”.

Ma noi per primi dice il Papa, siamo traditori: “Se siamo sinceri con noi stessi, vedremo le nostre infedeltà. Quante falsità, ipocrisie e doppiezze! Quante buone intenzioni tradite! Quante promesse non mantenute! Quanti propositi lasciati svanire!”.

Ma il Signore ci conosce, e “ci ha guariti prendendo su di sé le nostre infedeltà, togliendoci i nostri tradimenti. Così che noi, anziché scoraggiarci per la paura di non farcela, possiamo alzare lo sguardo verso il Crocifisso, ricevere il suo abbraccio”.

E poi c’è l’abbandono: “Gesù aveva sofferto l’abbandono dei suoi, che erano fuggiti. Ma gli rimaneva il Padre”. E tutto questo dice il Papa lo ha fatto per noi “perché quando ci sentiamo con le

spalle al muro, quando ci troviamo in un vicolo cieco, senza luce e via di uscita, quando sembra che perfino Dio non risponda, ci ricordiamo di non essere soli”.

E allora anche oggi “nel dramma della pandemia, di fronte a tante certezze che si sgretolano, di fronte a tante aspettative tradite, nel senso di abbandono che ci stringe il cuore, Gesù dice a ciascuno: “Coraggio: apri il cuore al mio amore. Sentirai la consolazione di Dio, che ti sostiene”.

Allora quale deve essere la risposta dell’uomo ? “Possiamo non tradire quello per cui siamo stati creati, non abbandonare ciò che conta. Siamo al mondo per amare Lui e gli altri. Il resto passa, questo rimane. Il dramma che stiamo attraversando ci spinge a prendere sul serio quel che è serio, a non perderci in cose di poco conto; a riscoprire che la vita non serve se non si serve. Perché la vita si misura sull’amore. Allora, in questi giorni santi, a casa, stiamo davanti al Crocifisso, misura dell’amore di Dio per noi. Davanti a Dio che ci serve fino a dare la vita, chiediamo la grazia di vivere per servire. Cerchiamo di contattare chi soffre, chi è solo e bisognoso. Non pensiamo solo a quello che ci manca, ma al bene che possiamo fare”.

E il Papa conclude con un pensiero per i giovani, visto che oggi si celebra la XXXV Giornata Mondiale della Gioventù, quest’anno a livello diocesano, sul tema: “Giovane, dico a te, alzati!”.

“Certo, amare, pregare, perdonare, prendersi cura degli altri, in famiglia come nella società, può costare. Può sembrare una via crucis. Ma la via del servizio è la via vincente, che ci ha salvati e che ci salva la vita. Vorrei dirlo specialmente ai giovani, in questa Giornata che da 35 anni è dedicata a loro. Cari amici, guardate ai veri eroi, che in questi giorni vengono alla luce: non sono quelli che hanno fama, soldi e successo, ma quelli che danno sé stessi per servire gli altri.

Sentitevi chiamati a mettere in gioco la vita. Non abbiate paura di spenderla per Dio e per gli altri, ci guadagnerete! Perché la vita è un dono che si riceve donandosi. E perché la gioia più grande è dire sì all’amore, senza se e senza ma. Come Gesù per noi”.

Insieme sulla stessa barca

Uscire a seminare: questa l’idea di un gruppo di amici che in questo passaggio storico così difficile vuole offrire le sensibilità, le idee, le riflessioni di uno sguardo credente a chi voglia lasciarsi interrogare dallo stravolgimento determinato dalla pandemia del Covid-19.

Uscire a seminare: nei campi della coscienza e dell’intelligenza delle cose, per condividere il desiderio di scendere in profondità nei giorni che viviamo, guardandoli alla luce del Vangelo come esperienza, certo dolorosa ma autentica, dell’umano.

Uscire a seminare: una lettera, un sussidio per il Triduo pasquale, un instant-book, materiali che sono semplici suggerimenti per allargare e arricchire una riflessione sull’oggi che non può essere solitaria ma deve farsi costruzione del sentire del Popolo di Dio che si scopre parte dell’umanità e del pianeta di cui abbiamo la responsabilità.

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“Forti nella tribolazione” e-book del Papa

Novità editoriale della Libreria Editrice Vaticana per quanti vogliono pregare e meditare con le parole del Papa. Si tratta di un e-book dal titolo Forti nella tribolazione che la casa editrice del Vaticano mette a disposizione di tutti, dato che è scaricabile gratuitamente a questo link:

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L’e-book contiene le preghiere per vivere questo momento e le parole del Papa (omelie delle messe a Santa Marta e altri interventi di questi giorni). Il libro sarà costantemente aggiornato e dunque sarà possibile scaricarlo più volte per avere la versione con le ultime omelie.–

La civiltà è Enea che porta Anchise sulle spalle

«L’Italia vede decimata la generazione anziana, punto di riferimento per i giovani e per gli affetti». Le parole dette ieri dal presidente della Repubblica italiana, in maniera solenne e commovente, sembrano così voler far scudo contro quell’aberrante e diffusa convinzione, espressa in maniera più o meno sotterranea, che le morti così numerose non siano state poi così importanti perché riguardavano i vecchi, per di più già malati.

Mattarella al contrario ci ricorda quale patrimonio siano i vecchi, come siano indispensabili per i bambini, proprio in quanto “rimbambiti”, ovvero anche loro bambini, disposti a giocare, a divagare, a trasgredire.

E come siano importanti per i giovani, per la possibilità che hanno di trasmettere loro antichi saperi, valori vissuti, comunitarie tradizioni, forme diverse di presa dello spazio e di percezione dei tempi.

E come, in definitiva, siano importanti per ognuno di noi, perché nel tempo dell’effimero e dell’oblio, di fronte agli spettacoli e ai consumi, mostrano il valore degli affetti teneri, dei ricordi, della memoria e del compianto.

Le parole del presidente sono dunque dense di significato educativo ed esistenziale ma hanno anche un impatto politico radicale perché, per la prima volta, interrompono la filosofia eugenetica che è la pratica e lo spirito di questi insani tempi.

Dal documento degli anestesisti spagnoli alla teorizzazione dell’immunità di gregge degli inglesi, fino alla sottrazione forzata dell’assistenza sanitaria accaduta in certi ospedali italiani, si teorizza la necessità, per la “medicina delle catastrofi”, di scegliere fra i vecchi e i giovani, come fra i deboli e i forti.

Una scelta dovuta allo stato di eccezione e alla situazione estrema, tesa a sottrarre responsabilità alla coscienza personale, che porta però con sé la traccia indelebile di un giudizio di qualità dato alla vita, come se una vita – la più forte, la più abile – fosse solo per questo degna di essere mantenuta, mentre un’altra con più facilità dovrebbe essere rottamata.

In tale scelta gerarchica – che, perdurando lo stato di eccezione, potrebbe essere estesa anche a tutti i disabili e a tutti i fragili – si conserva il segreto del potere totalitario e della società “tanatologica”, la società di massa del ‘900 che si fonda su un continuo commercio con la morte.

Lo dice Elias Canetti in un libro magnifico e terribile scritto in anni bui e insani quasi come questi (Masse e Potere). In questa società tanatologica, potente diviene sia il capo, che acquisisce potere di morte, sia chi si distingue dalla morte sopravvivendo. La sopravvivenza è di per se stessa acquisizione di potere.

Chi è morto giace, sta per terra; chi sopravvive sta in piedi. Già solo questa collocazione spaziale rende “l’istante del sopravvivere, l’istante della potenza”, anche perché inconsciamente insorge la convinzione di una vera e propria “elezione”, una emozione comparativa che non risparmia nessun rapporto, nemmeno quello più affettivo, nemmeno quello con i figli o i genitori o i fratelli. Su questo senso di elezione si fonda dunque il totalitarismo, secondo Canetti. Ma, potremmo aggiungere, anche il capitalismo in quanto tale trasforma in Pil la sopravvivenza, poiché miglior produttori sono i vivi, cioè gli abili, i giovani, i forti.

C’è nel potere contemporaneo quindi, il persistere di una barbarie di fondo, una inciviltà.

La civiltà si fonda invece al contrario e nasce quando Enea in fuga dall’incendio, porta con se il vecchio padre sulle spalle e, per mano, il giovane figlio.

La pietà, che è la sua qualità esistenziale e la sua qualità sociale, lo spinge nell’aiutare, includere tutti, curare tutti, anche a scapito della propria sopravvivenza, del proprio potere.

Quella pietà è anche l’intelligenza della specie, in quanto la specie sopravvive, sottolineano i biologi della complessità, non nella lotta ma perché la madre continua ad allattare il figlio e perché gli uomini, anche quando vivono rintanati, non sono topi che si distruggono ma anzi si prestano soccorso.

Noi, nell’agenda delle cose che dobbiamo mettere in campo quando finirà la guerra e vorremmo fare il mondo nuovo, dovremmo mettere in campo la pietà.

Fin da ora, in quanto già ora abbiamo due problemi. Il primo è quello di non morire, ma il secondo è quello di vivere civili.

Il Manifesto

COVID-19 e La scuola a casa: il numero speciale di Essere a Scuola

E’ appena uscito online un fascicolo speciale della Rivista EAS – Essere a Scuola, interamente dedicato ad insegnanti e allievi in questo periodo di “scuola a casa”.

Il mese di marzo regala così ben due numeri della rivista: la casa editrice Morcelliana Scholé ha infatti deciso di aderire all’iniziativa di solidarietà digitale, rendendo scaricabile gratuitamente (fino al 5 aprile) e per intero il fascicolo n° 7/2020 dedicato alla Comunicazione didattica, consultabile al seguente link. Inoltre, sul sito dell’editrice è disponibile anche il numero speciale La scuola a casa, scaricabile gratuitamente e per intero al seguente link.

In particolare, il numero speciale può rivelarsi di grande utilità in questo periodo difficile per la scuola, per contrastare l’ipertrofia informativa e non rischiare di perdere di vista la realtà.

Qui, di seguito, riportiamo Sommario ed Editoriale.

Prima di augurarvi buona lettura, vogliamo soffermarci su un passaggio dell’editoriale di Pier Cesare Rivoltella:

[…] La verità è l’altra grande istanza che il contagio porta in gioco. Si esprime in una gamma di vissuti che punteggiano la quotidianità: la condizione di esilio, l’esperienza della separazione, la solitudine, le relazioni di cui si ha nostalgia. Il tratto comune a tutti è che, per chi li sappia valorizzare, essi funzionano da esperienze fondamentali. Sono tali quelle esperienze che distillano l’essenziale lasciando venire a tema quel che conta nella vita.

[…] Hartmut Rosa (2016) parlerebbe di risonanza. E risonanza sono anche le parole scritte sui container arrivati dalla Cina con mascherine e ventilatori polmonari al seguito della delegazione di medici specializzati nella lotta al virus: «Siamo onde dello stesso mare, rami dello stesso albero, fiori dello stesso giardino». Qui c’è un secondo grappolo di temi per gli insegnanti con le loro classi: il superamento dello stereotipo, sulla distanza che allontana, come sui cinesi; il pensiero posizionale, e cioè il sapersi mettere nei panni degli altri e guardare le cose dal loro punto di vista (Nussbaum, 2010); la cittadinanza come ascolto e relazione; il legame che la tecnologia può aiutare a costruire, o a ricostruire (Rivoltella, 2017).

Scuola. Tecnologia più condivisione: così si può fare buon e-learning

Riportiamo l’articolo di Pier Cesare Rivoltella, uscito martedì 17 marzo su Avvenire.it

Una riflessione, quanto mai attuale e necessaria alla luce delle sfide di queste settimane, sul valore aggiunto della tecnologia accompagnata da un’intenzionalità metodologica sempre più forte e condivisa.

Tecnologia più condivisione: così si può fare buon e-learning

L’emergenza costringe a ripensare le pratiche didattiche. E rivalutare il digitale. Il bisogno, l’emergenza, le situazioni estreme sono il momento in cui ci si accorge del valore delle cose. È vero per tante esperienze della vita: in questi giorni lo si sta sperimentando anche per la scuola, l’università, la possibilità della formazione. Lo capiscono i docenti, privati dei loro studenti; lo capiscono gli studenti, cui sono sottratte le relazioni con maestri e amici. Occorre partire da qui per provare a comprendere il significato di quello che da più parti, anche se impropriamente, viene definito home schooling. Si fa lezione, si impara, si studia a casa, ma non perché si sia scelta questa situazione come alternativa alla scuola (è quel che capita nell’educazione parentale, l’home schooling vero), bensì perché lo stato del contagio ci ha costretti a questo. Sarebbe più opportuno parlare di smart learning, o di smart teaching, dove lo smart allude alle possibilità che la tecnologia ci garantisce di surrogare l’impossibilità della presenza. Gli ambienti di videocomunicazione, le piattaforme eLearning, le applicazioni per l’apprendimento a distanza come un modo per non rimanere deprivati di tutto ciò che la scuola, dall’infanzia all’Università, rappresenta.

L’esperienza non è nuova nel nostro Paese, anche se forse ce ne siamo dimenticati. La formazione per corrispondenza nel secondo Dopoguerra aveva risposto al bisogno di manodopera specializzata. La Scuola Radioelettra di Torino rappresenta in questa prospettiva un momento importante della nostra storia. Come Telescuola, il protocollo di intesa tra la Rai e il ministero dell’Istruzione che aveva pensato alla televisione come strumento di massa per la lotta all’analfabetismo e l’innalzamento dei livelli culturali della popolazione: il volto del maestro Manzi e le trasmissioni di Non è mai troppo tardi ne sono una pagina indimenticabile. E poi la stagione della FAD, la formazione a distanza, la nascita dei primi centri universitari alla fine degli anni 90 – il CARID all’Università di Ferrara, il CEPaD all’Università Cattolica di Milano – l’esperienza del consorzio Nettuno fino al decreto Moratti/Stanca che sancisce la nascita delle università telematiche. Nel frattempo la scuola, con il Piano Nazionale per l’Informatica e il primo Piano di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche, tra anni 70 e 80 aveva cominciato a ridurre il gap con gli altri Paesi europei. Da lì erano seguite le stagioni del multimedia in classe, delle Lim, delle classi 2.0, con l’Indire a svolgere una funzione importante nell’affermare, anche nella formazione degli insegnanti, la cultura dell’eLearning e dell’uso della tecnologia. Occorre ricordare questi passaggi per capire che quel che di positivo sta succedendo oggi tra classi di scuola e aule universitarie non è frutto del caso ma di un lungo percorso di preparazione. Anche se poi, nell’opinione diffusa, alla formazione a distanza si è finito per associare l’idea di qualcosa che ha meno valore rispetto alla formazione fatta in aula, in presenza.

Ma cosa sta succedendo oggi? Stante lo stop alle attività didattiche in presenza, il ricorso alla tecnologia sta garantendo che la scuola e l’università non si fermino. Certo, la situazione è a macchia di leopardo, c’è chi lavora più e meno bene, ci sono esperienze di eccellenza e altre che andrebbero riviste. Ma è importante che tutti ci stiano provando e, soprattutto, che ci si accorga che non è solo un problema di tecnologia. Non basta mettere gli studenti davanti allo schermo di un computer o assegnare loro compiti attraverso il registro elettronico. Occorre che tutto questo si inserisca all’interno di una progettazione didattica, si avvalga di una regia metodologica. L’apprendimento on line richiede un’attenzione particolare allo studente, ne vanno gestite la motivazione e l’attenzione. Non basta ‘mandare in onda’ la lezione e continuare a parlare come si sarebbe fatto in aula. Va studiata una sceneggiatura: materiali da mettere a disposizione prima, indicazioni di lavoro precise, ricorso alla comunicazione sincrona (chat e videocomunicazione) per chiarire i dubbi, discutere i problemi. E poi si tratta di favorire la cooperazione tra gli studenti: il vero valore aggiunto della tecnologia è la possibilità della condivisione, di lavorare in gruppo. Si tratta di una modalità di lavoro che già dovrebbe appartenere alla normale didattica degli insegnanti e che ora le condizioni eccezionali in cui siamo costretti a muoverci stanno rendendo necessaria. Qui troviamo un primo aspetto di grande rilievo. È probabile che il virus stia riuscendo laddove anni di politiche educative hanno fallito: costringerci tutti a riflettere sulle nostre pratiche didattiche, studiare nuove forme per renderle efficaci, fare tutto questo in vista dello studente.

Si scopre così che il digitale si può rappresentare diversamente. Non è solo ciò che erode spazio alle nostre relazioni, indebolisce i legami sociali, genera una vera e propria dipendenza. Al contrario il digitale può riallestire il tessuto sociale, creare le condizioni perché le persone si riavvicinino, generare nuove reti di rapporti e di significati. Le tecnologie diventano allora tecnologie di comunità. Significa porsi il problema del divario ed eliminarlo: accorgersi che molti non hanno connessione, non hanno strumenti, non posseggono gli alfabeti, e creare le condizioni perché questi impedimenti siano superati. Significa chiedersi come fare inclusione nei confronti di chi fa fatica, soffre una disabilità, sconta la differenza della lingua e della cultura: sono di comunità le tecnologie se sanno trasformare tutto questo in una diversità che arricchisce e non in un ostacolo che aggiunge separazione. Significa attivare i territori. Le ‘aule digitali’ sono aperte: aperte ai genitori, alla comunità locale con le sue risorse, alle altre agenzie educative. Da questa crisi possiamo uscire più forti, più coesi, più uniti. È in questi momenti che il capitale sociale può essere ripristinato e questo nel caso della comunità cristiana aggiunge valore al valore.

C’è un rischio. Che finita l’emergenza si torni alla normalità: la vecchia didattica trasmissiva, il ‘bla bla bla’ per dirla con Paulo Freire. Occorre lavorare a che non succeda. E per farlo serve pensare che la qualità della relazione non è una questione di formati o di strumenti e che il digitale non è un’alternativa alla presenza ma una sua dimensione. La relazione è il risultato dell’intenzionalità educativa, è la consapevolezza che l’altro è al centro della mia attenzione. E il digitale può essere uno dei modi per mantenercelo. Lo è se diviene carezza nei momenti di sconforto, supporto nei momenti di difficoltà, legame nelle situazioni di solitudine, presenza quando si sperimenta l’assenza. Capitava già prima del virus: nelle scuole in ospedale, nei progetti di istruzione domiciliare, nelle scuole dei piccoli plessi, in tutte quelle situazioni in cui tanti docenti anonimi, senza protagonismi, hanno sempre dato testimonianza di cosa significhi insegnare.

Pier Cesare Rivoltella, Avvenire.it, 17 marzo 2020

Qui un’altra intervista a Pier Cesare Rivoltella, pubblicata sul Corriere della Sera di Brescia: Scuola a distanza, «La situazione ci porterà a essere in linea col futuro»

Qui anche l’intervista di Diregiovani a Paolo Raviolo, professore associato di pedagogia sperimentale presso l’Università eCampus e membro di Cremit: Coronavirus. Didattica, esperto eCampus: “Sì valutazione competenze e accessibilità”

Il “Global Compact on Education”

Comunicato della Congregazione per l’Educazione Cattolica

Il Global Compact on Education, incontro promosso da Papa Francesco per ravvivare l’impegno per e con le giovani generazioni, avrà luogo tra l’11 e il 18 ottobre 2020. L’adesione al Patto sarà siglata il 15 ottobre.

L’evento, affidato alla Congregazione per l’Educazione Cattolica, avrebbe dovuto aver luogo il prossimo 14 maggio, con una serie di appuntamenti complementari tra il 10 e il 17 maggio, come il “Villaggio dell’Educazione”, con le migliori esperienze educative internazionali, illustrate da giovani studenti e studentesse provenienti da tutto il mondo. L’incertezza legata alla diffusione del Coronavirus, così come le decisioni assunte dalle Autorità pubbliche su scala mondiale, hanno portato alla decisione di rinviare l’atteso incontro, proprio per permettere la più ampia e serena partecipazione possibile.

Il Patto globale non si limita alle Istituzioni scolastiche e accademiche ma, nella convinzione che l’impegno educativo debba essere condiviso da tutti, coinvolge i Rappresentanti delle religioni, degli organismi internazionali e delle diverse istituzioni umanitarie, del mondo accademico, economico, politico e culturale. In quest’ottica, si comprende come la più estesa e variegata partecipazione voluta da Papa Francesco non sia una dimensione accessoria al Global Compact on Education ma costituisca la premessa ed il fine di una siffatta alleanza. La Congregazione per l’Educazione Cattolica continua a lavorare per questo fondamentale incontro, secondo le intenzioni manifestate dal Santo Padre: “Cerchiamo insieme di trovare soluzioni, avviare processi di trasformazione senza paura e guardare al futuro con speranza. Invito ciascuno ad essere protagonista di questa alleanza, facendosi carico di un impegno personale e comunitario per coltivare insieme il sogno di un umanesimo solidale, rispondente alle attese dell’uomo e al disegno di Dio”

(Messaggio per il lancio del Patto Educativo).