Primo biennio – Marzo

VII unità di apprendimento: “La storia degli Ebrei continua”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze  Abilità  * Gesù, il Messia, compimento delle promesse di Dio.
* Ricostruire le principali tappe della storia della salvezza, anche attraverso figure significative.
OBIETTIVI FORMATIVI • Conoscere i momenti principali della vita di Mosè e il suo ruolo nella storia della salvezza.
• Scoprire che Dio si schiera dalla parte degli oppressi e dei perseguitati.
 Suggerimenti operativi   • Riprendere la storia del popolo ebreo con i personaggi già conosciuti e inserire nella continuità la vicenda di Mosè.
Collegarsi con lo studio affrontato in storia sulle principali civiltà dell’epoca.
• In ogni lezione raccontare a tappe la vita di Mosè e il suo ruolo nella storia ebraica.
Utilizzare una Bibbia illustrata o a fumetti, con un adattamento del testo.
• Dividere i bambini a coppie o a gruppetti e dare a ognuno la consegna di rappresentare una scena della vita di Mosè.
A turno, ogni gruppo, scriverà al computer una frase di commento da accompagnare al proprio disegno.
Riunire il lavoro in un libro o in un cartellone.
• Sottolineare come Dio sia venuto in soccorso del popolo ebreo che era schiavo e sofferente; ricordare che ancora oggi ci sono popoli perseguitati.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine, storia, informatica Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
6: Ogni bambino ha diritto di vivere.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.

Secondo biennio – Marzo

VII unità di apprendimento: “Le religioni del mondo”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze  Abilità  * Il cristianesimo e le grandi religioni: origine e sviluppo.
* Leggere e interpretare i principali segni religiosi espressi dai diversi popoli.
OBIETTIVI FORMATIVI • Prendere coscienza che nel mondo esistono religioni differenti • Conoscere alcuni aspetti delle principali religioni del mondo • Riconoscere l’importanza del dialogo interreligioso  Suggerimenti operativi   • Procurare un planisfero da appendere in classe e ragionare sulla presenza di molte religioni diverse nei vari continenti.
Far emergere le conoscenze pregresse sulle principali religioni del mondo.
• Dividere la classe in gruppi di ricerca e assegnare a ognuno il compito di approfondire una religione: cristianesimo, islam, ebraismo, induismo, buddhismo.
Fornire libri, immagini, testi scolastici di religione a ogni gruppo.
Le informazioni da puntualizzare sono: fondatore, periodo di nascita, luogo-giorno-ministro di culto, simbolo, libro sacro, feste principali.
• Collaborare con l’insegnante di educazione all’immagine per realizzare dei disegni e con l’insegnante di informatica per scrivere le informazioni essenziali.  • Ogni gruppo dovrà relazionare ai compagni la propria ricerca; potrà utilizzare varie tecniche: esposizione orale, drammatizzazione, letture, fotografie, disegni…
• Riprendere l’approfondimento sul tema della pace svolto nel mese di gennaio e riascoltare il canto imparato.
Sottolineare l’importanza degli incontri di Assisi per l’impegno del dialogo interreligioso; alla fine realizzare un cartellone con la scritta pace e intorno i nomi e i simboli delle religioni studiate.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine, informatica Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.

VI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 43,18-19.21-22.24-25 Così dice il Signore: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.
Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi.
Invece tu non mi hai invocato, o Giacobbe; anzi ti sei stancato di me, o Israele.
Tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità.
Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati».
Questa lettura è tratta dalla seconda parte del libro di Isaia, dalla sezione che annunzia la liberazione dalla schiavitù in Babilonia e il ritorno nella terra dei padri (cc.
40-44).
— I vv.
18-19 contengono una esortazione a dimenticare il passato e ad aprirsi alla speran-za, volgendo lo sguardo verso il futuro.
La dimenticanza del passato qui intesa non è cer-tamente quella che riguarda le imprese salvifiche di Dio, poiché quella memoria deve in-vece nutrire la fede nel futuro.
Bisogna invece dimenticare quel modo di ricordare che al-letta l’immaginazione e imprigiona la volontà, distogliendola dalle decisioni che riguarda-no il presente.
Il profeta esorta a volgere lo sguardo verso il futuro, perché Dio è sul punto di fare una cosa nuova.
Con immagine poetica, il momento attuale è paragonato alla prima-vera, quando sugli alberi germogliano le gemme e si preparano a sbocciare.
Con altre im-magini poetiche di grande effetto, è detto che si apriranno strade nel deserto e sgorgheranno sorgenti di acqua nella steppa, intendendo dire che sarà reso possibile il ritorno degli esiliati attraverso il deserto e la steppa.
— Il v.
21 dice quale sarà l’effetto più bello del ritorno dall’esilio: il popolo eletto tornerà a cantare le lodi di Dio nella sua terra.
— I vv.
22 e 24-25 assicurano che Dio stesso farà quello che ha raccomandato di fare al suo popolo: cancellerà dalla sua memoria i misfatti di Israele, non ricorderà più i suoi peccati.
Ciò vuol dire che il popolo rientrato dall’esilio inizierà a vivere in piena armonia con il suo Di-o.
Come si vede, le grandi novità e la remissione dei peccati di questa profezia hanno avu-to pieno adempimento nella persona di Gesù, secondo la nostra lettura evangelica.
Seconda lettura: 2Corinzi 1,18-22 Fratelli, Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no».
Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì».
Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì».
Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria.
È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.
La nostra seconda lettura appartiene alla seconda lettera di S.
Paolo ai Corinzi, che ec-celle tra le opere dell’antica letteratura greca.
Il nostro brano si distingue in essa per la sua commossa eloquenza.
Paolo è venuto a sapere che, nella comunità di Corinto, dei mestatori si agitano per scalzare ogni suo credito e il suo prestigio di apostolo.
Sfruttano per questo ogni pretesto, tra cui il fatto che egli non ha mantenuto la promessa di ritornare a Corinto, dopo che se ne era allontanato per il suo dovere apostolico.
Mettono in ridicolo quel suo promettere e non mantenere, quasi che, per lui, il «sì» equivalga al «no».
Paolo replica dichiarando che quest’accusa, per lui e per i suoi collaboratori Silvano e Timoteo, rasenta l’assurdità: essi non possono mescolare il «sì» e il «no», perché contraddirebbero il vangelo di Gesù Cristo (cf.
Mt 5,37) e contraddirebbero soprattutto l’esempio personale del Signore Gesù, che in tutta la sua vita ha sempre obbedito prontamente al Padre, al punto che egli può essere de-finito un unico continuo «sì» (vv.
18-20).
In tal modo, il contenuto di un’accusa che, in se stessa, poteva essere considerata un tra-scurabile pettegolezzo, fornisce a Paolo l’occasione per riflettere sul comportamento di Ge-sù Cristo nei confronti del Padre.
E su questa riflessione si innesta l’esortazione ai Corinzi di saper dire sempre il loro «Amen» (cioè il loro «sì») a tutto ciò che Dio può a loro chiede-re.
Questa deve essere per tutti noi una norma continua, perché tutti, seguaci di Cristo ab-biamo ricevuto l’unzione, che ci ha assimilati a lui per mezzo dello Spirito (vv.
21-22).
Anche questi pensieri si armonizzano con il messaggio della lettura evangelica, che par-la della novità portata tra gli uomini da Gesù e dal suo vangelo.
Vangelo: Marco 2,1-12 Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni.
Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola.
Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone.
Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico.
Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati».
Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?».
E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua».
Quello si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».
Esegesi Il racconto della guarigione di un paralitico introduce, nel vangelo di Marco, la sezione delle così dette dispute galilaiche, che vanno da 2,1 a 3,6.
La sezione, che segue quella in cui è descritta l’accoglienza trionfale di Gesù da parte delle folle della Galilea (1,14-15), ci fa conoscere il crescente contrasto che si stabilisce tra Gesù e le guide religiose del popolo e-braico.
Motivo fondamentale del contrasto è il potere che Gesù si attribuisce, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), di voler riportare al senso originario le disposizioni della legge mosaica, di saperne dare una interpretazione nuova, di portare a compimento la ri-velazione fatta ai padri e di realizzare l’attesa messianica.
— I vv.
1-2 ci danno la cornice dell’avvenimento: Gesù è rientrato a Cafarnao ed è proba-bilmente ospite nella casa dei discepoli Simone e Andrea.
Gran numero di gente è accorsa per ascoltarlo ed egli «annunziava loro la parola»; proclamava, cioè il suo vangelo.
— I vv.
3-4 descrivono, con vivace semplicità, l’azione di quattro uomini che, impediti di giungere a Gesù a causa della folla, dal tetto scoperchiato gli calano davanti un paralitico.
Il gesto era così eloquente per se stesso, che non aveva bisogno di parole esplicative: ciò che si chiedeva era la guarigione dello sventurato.
Né i padroni di casa né Gesù accenna-no a una protesta per i danni inferti all’edificio e per l’interruzione imposta al discorso.
Sembra di capire che i primitivi narratori dell’episodio abbiano visto che c’era continuità essenziale tra l’annunzio della parola e la guarigione dei malati.
La stretta unione di queste due cose è chiaramente espressa in questa frase di Luca, che parla della missione affidata da Gesù ai Dodici: «E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2).
— Il v.
5 è teologicamente molto ricco, perché, ci presenta Gesù nella pienezza dei suoi po-teri speciali: egli vede la fede del malato e dei suoi portatori; garantisce al paralitico la remis-sione dei peccati.
La fede è vista da Gesù nel gesto del paralitico e dei suoi portatori che si affidano totalmente a lui, superando ogni ostacolo e senza neppure il bisogno di parlare.
Per rispondere a quella fede, Gesù attinge al massimo del suo potere concessogli dal Padre: accoglie il paralitico con l’appellativo tenero di figliolo e gli da l’annunzio che gli sono ri-messi i peccati.
Con queste parole, Gesù non stabilisce uno stretto rapporto tra peccati per-sonali e malattia in quel sofferente, ma richiama certamente alla memoria il principio a tut-ti noto che la radice prima di tutti mali dell’uomo consiste nel peccato.
Contemporanea-mente annunzia che egli per questo è venuto: per sconfiggere il peccato e iniziare una nuova fase della storia umana.
A questo punto, i vv.
6-7 interrompono il racconto del miracolo e introducono la pre-senza degli scribi (che rappresentano l’intera categoria delle guide spirituali del popolo) questi sono ben lontani dall’accettare l’insegnamento di Gesù e, in cuor loro, non esitano ad accusarlo di bestemmia.
Il loro atteggiamento è dunque in netto contrasto con la dispo-nibilità a credere della folla.
Nei vv.
8-9, opponendosi all’incredulità degli scribi, Gesù svela i suoi poteri sovrumani: legge nei loro pensieri (ciò che è possibile solo a Dio) e presenta il suo intervento sulla ma-lattia come prova del suo potere di rimettere i peccati.
Nei vv.
10-11, alle parole seguono i fatti: Gesù comanda al paralitico di prendere lui stesso il suo giaciglio e di andarsene a casa.
Dice anche che questo miracolo dimostrerà con evidenza che egli, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), ha davvero il potere di rimettere i pecca-ti.
Viene così enunciato il principio che i miracoli di Gesù sono segni visibili di avvenimen-ti e realtà che trascendono ciò che si tocca e si vede: l’evangelista Giovanni chiamerà infatti segni tutti i miracoli di Gesù.
Nel v.
12, che conclude il nostro racconto, la folla esprime il suo stupore dichiarando la sua apertura alla fede: dicendo che non hanno mai visto nulla di simile, insinuano che in Ge-sù si sta realizzando qualcosa di assolutamente nuovo, vale a dire l’attesa messianico-escatologica.
Nulla è detto degli scribi, suggerendo così che essi sono rimasti murati nella loro incredulità.
Meditazione Solo Dio, con la potenza della sua misericordia che si manifesta mediante il perdono, può ricreare la vita dell’uomo; le ferite del peccato vengono rimarginate e la bellezza di co-lui che è stato creato per essere immagine di Dio viene ridonata.
L’uomo è chiamato a guardare in avanti, verso una novità di vita che è solo dono di Dio.
Questa nuova creazio-ne si realizza in modo definitivo nella parola potente di Gesù, parola che può salvare l’uomo dalla paralisi del peccato, parola pronunciata mediante quella autorità che il Figlio ha ricevuto dal Padre: «…perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra» (Mc 1,10).
Può essere questo il tema centrale della liturgia della Parola in questa domenica del tempo ordinario: una vita rinnovata dal perdono.
E il racconto della guarigione del paralitico, riportato dall’evangelista Marco, è una icona stupenda di ciò che Dio può fare per l’uomo.
Marco apre la narrazione del miracolo con tre elementi descrittivi che hanno come pun-to focale Gesù e i suoi discepoli, simbolo della comunità dei credenti, la Chiesa, in cui l’uomo trova, nell’annuncio dell’evangelo e nella remissione dei peccati, lo spazio per in-contrare Gesù e la potenza stessa di Dio.
Infatti c’è un luogo, una casa in cui Gesù è presen-te con i suoi discepoli e nella quale egli «annuncia la Parola» (v.
2) e guarisce.
Davanti alla porta di questa casa ci sono tante persone che si accalcano in cerca di una parola di conso-lazione, di un segno di salvezza, di una guarigione, di una liberazione.
È in quella casa che tutti desiderano entrare per incontrare Gesù, a costo di trovare altre vie di accesso se sono impediti (ciò che avverrà per il paralitico).
E infine ciò che risuona in questa casa è anzitut-to una parola, piena di autorevolezza, potente, capace di cambiare la situazione dell’uomo, forte come l’atto creatore di Dio.
È la parola dell’ euangelion, una parola di gioia, di libertà e di pace.
In questa cornice, così carica di forza rinnovatrice, di salvezza, viene simbolicamente ‘calato’ l’uomo che soffre, ferito nella sua dignità, incapace di camminare verso la vita, sfi-gurato dal male.
È questa la realtà che possiamo cogliere nella figura del paralitico.
Ab-biamo detto: viene calato.
Nel gesto compiuto dai quattro uomini che scoperchiano il tetto nel punto in cui si trova Gesù e di lì calano «la barella su cui era adagiato il paralitico» (v.
4), non solo si rivela il mistero di una fede che si fa solidale, ma soprattutto l’impossibilità dell’uomo di salvarsi da solo.
L’uomo immobilizzato, incapace di muoversi, di reagire, di camminare verso la vita, non solo ha bisogno di essere salvato, ma di lasciare che altri lo conducano alla salvezza.
È la fede di una comunità che sa farsi carico delle sofferenze del fratello, con la preghiera e con gesti concreti (capace addirittura di aprire varchi impensati quando si incontrano ostacoli), a condurre l’uomo immobilizzato di fronte a Gesù.
E Gesù ammira proprio questa fede a cui il paralitico si è affidato.
In che cosa consiste la salvezza, la novità di vita che viene donata all’uomo? Al paraliti-co Gesù dice dapprima: «Figlio, ti sono perdonati i peccati» (v.
5).
E poi, di fronte agli scribi scandalizzati, dirà: «alzati, prendi la tua barella e va a casa tua» (v.
11).
Lo sguardo di Gesù, pieno di compassione, sa penetrare nel profondo della esistenza di quell’uomo immobiliz-zato.
Va oltre il male fisico che impedisce a quell’uomo di muoversi e rivela come il pecca-to sia il vero fallimento dell’uomo, di ogni uomo, anche di colui che crede di esser sano (come quegli scribi).
Dalla parola potente di Gesù (di fatto non compie nessun gesto), l’uomo viene toccato nel suo essere profondo e invisibile, lì dove si manifesta la reale rot-tura con Dio, lì dove l’uomo si nasconde a colui del quale è immagine, lì dove sperimenta paura, disorientamento e alienazione.
Vicino a Gesù, attraverso la sua parola che è perdo-no, l’uomo riscopre il suo volto interiore come comunione con Dio; e questo si riflette su tutta l’esistenza , ridando all’uomo la possibilità di agire e di camminare.
Veramente la vita dell’uomo è ri-creata.
Ma resta un dubbio: guarigione dalla sofferenza fisica e guarigione dal peccato sono la stessa cosa? Perché Gesù sembra percorrere due vie di salvezza, unendole così tra di loro? Allora peccato e malattia sono legati? C’è la tentazione di vedere strettamente unite questa due realtà di male che sfigurano mortalmente il volto umano.
Una certa visione di Dio, presente anche nella Scrittura, può condurre quasi a una identificazione tra peccato e sof-ferenza: è questo il tormento di Giobbe.
Ma questo è un volto di Dio che non può essere accettato; Gesù stesso, rivelando il suo amore per tutti coloro che sono afflitti da varie ma-lattie, non solo rifiuta questa visione della sofferenza, ma manifesta un Dio pieno di com-passione.
E allora perché questa relazione peccato-malattia? Spesso, capita anche a noi, quando viviamo o incontriamo la sofferenza, di dire frasi come questa: «Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Perché il Signore mi ha castigato?».
Dobbiamo riconoscere che proprio il peccato, come lontananza da Dio, ci fa sentire la sofferenza come silenzio, ostilità, assenza di Dio.
Guarire l’uomo alla radice di questa profonda rottura vuol dire li-berarlo dalla paura di Dio, quella paura che paralizza, e annunciargli la prossimità di Dio, un Dio che si china, si avvicina proprio a chi è ferito e sofferente.
Davvero Gesù salva e li-bera l’uomo integralmente.
Il profeta Isaia aveva preannunciato: «Non ricordate più le cose passate…
Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19).
Al paralitico Gesù dice: «Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua» (v.
11 ).
Colui che è stato guarito e perdonato dalla misericordia di Dio può ri-prendere un cammino autentico, prima impossibile, ‘verso casa’: è un ritorno alla vita, ma rinnovato, nel quale anche i segni della sofferenza sono accolti e portati su di sé in modo diverso.
Infatti sulle spalle l’uomo guarito porta proprio quel lettuccio che lo teneva para-lizzato; ma da questo momento quel luogo di sofferenza sarà memoria della salvezza e della misericordia di Dio.
Il perdono ci da occhi nuovi con i quali possiamo guardare con coraggio le nostre sofferenze e il nostro peccato.
Le cicatrici possono rimanere, e a volte possono fare ancora male; ma da segno della nostra debolezza e del nostro peccato, si tra-sformano in memoria della compassione di Dio.
Solo Dio può trasfigurare così la nostra vi-ta: le tenebre possono diventare luce.
«Ecco, io faccio una cosa nuova».
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
L’ascolto del deserto “L’Arabo, quando giunge in mezzo al deserto, ferma il cammello, scende e mette l’orecchie sulla sabbia.
– Che fai? – Ascolto il deserto.
– Sì, ascolto il deserto che piange.
E piange, perché vorrebbe essere una immensa, sconfinata prateria”.
E vennero conducendo a lui un paralitico che era portato da quattro persone (Mc 2,3) La guarigione di questo paralitico raffigura la salvezza dell’anima la quale, sospirando verso Cristo dopo la lunga inerzia dell’ozio carnale, ha dapprima bisogno dell’aiuto di tutti per essere sollevata e portata a Cristo, cioè dell’aiuto dei buoni medici che le ispirano la speranza della guarigione e intercedono per lei.
A buon diritto viene riferito che il paraliti-co era condotto da quattro persone; sia perché sono i quattro libri del Santo Vangelo che convalidano la parola e l’autorità di chi diffonde il Vangelo; sia perché sono quattro le vir-tù che infondono sicurezza allo spirito e lo portano alla salvezza.
Di tali virtù si parla quando si loda l’eterna sapienza: «Temperanza e prudenza ella insegna, e giustizia e for-tezza delle quali niente c’è di più necessario per gli uomini nella vita» (Sap 8,7).
Alcuni, penetrando il senso di questi nomi, chiamano tali virtù prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.
E non riuscendo a portarlo davanti a lui per la folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli stava (Mc 2,4).
Desiderano presentare a Cristo il paralitico, ma ne sono impediti dalla folla che li pre-me da ogni parte.
Accade ugualmente sovente all’anima, dopo l’inerzia del torpore carna-le, che, volgendosi a Dio e desiderando essere rinnovata dalla medicina della grazia cele-ste, sia ritardata dagli ostacoli delle antiche abitudini.
Spesso, quando l’anima è immersa nella dolcezza della preghiera interiore e intrattiene quasi un soave colloquio con il Signo-re, sopraggiunge la folla dei pensieri terreni e impedisce che lo sguardo dello spirito veda Cristo.
Che cosa dobbiamo fare in tali frangenti? Non dobbiamo certamente restar fuori e in basso dove tumultano le folle; dobbiamo salire sul tetto della casa nella quale Cristo in-segna, cioè dobbiamo tentare di raggiungere le altezze della sacra Scrittura e meditare, di giorno e di notte, con il salmista, la legge del Signore.
«Come» infatti «potrà un giovane serbare puro il proprio cammino? Nel custodire — dice il salmista — le tue parole» (Sal 118,9).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang.
Marc., I, Mc 2,3-4.
In BEDA, Commento al Vangelo di Marco, Vol.
1, Roma, Città Nuova Editrice, 1970, p.
71-72).
Confermarsi l’un l’altro nella fede «Decisi di porre fine alla mia vita, che era stata estremamente egoista e immorale.
Ero talmente infelice che volevo farla finita con tutto.
Volevo morire per affogamento.
Imma-ginavo l’oceano come un’ampia madre d’acqua che mi avrebbe cullato sulle onde e ripulito nelle sue acque.
Giunsi sulla riva dell’oceano, dove dovevo morire.
Camminai tutta sola lungo la spiag-gia deserta.
Quel giorno, però, l’oceano non era una distesa d’acqua calda e materna.
Il tempo era brutto, e la distesa d’acqua era una bestia ringhiosa.
Dentro di me sapevo di do-ver morire, di farla finita con tutto, e se dovevo darmi a una bestia ringhiosa, anziché get-tarmi nelle braccia di una grande madre, che così fosse.
Camminavo sulla spiaggia sabbiosa e stavo per girarmi per entrare in acqua, quando udii una voce molto chiara, che sembrava venire da dentro di me.
Era molto distinta e chiara.
La voce mi chiedeva di fermarmi, di girarmi e guardare in basso.
C’era qualcosa di irresistibile in quell’ordine, perciò feci quanto mi veniva richiesto.
Vedevo solo le onde del-l’oceano che, giungendo a riva, cancellavano le mie impronte sulla sabbia.
La voce tornò a farsi sentire: “Così come le acque cancellano le tue impronte, allo stesso modo il mio amo-re e la mia misericordia hanno cancellato ogni traccia dei tuoi peccati.
Ti rivoglio nel mio amore, ti chiamo alla vita e all’amore, non alla morte”.
Fu come un raggio di luce accecante nell’oscurità che a quell’epoca costituiva la mia vi-ta.
Mi allontanai dall’acqua e da qualsiasi pensiero di morte.
Con il continuo amore e aiuto di Gesù, ho trovato una vita bella e piena di soddisfazione.
Ora vivo e amo.
Ma non avevo mai raccontato a nessuno, proprio a nessuno, ciò che mi accadde quel giorno sulla spiaggia.
Tutta la mia vita è stata cambiata per sempre da questa esperienza.
Ciononostante temevo che, se l’avessi condivisa, qualcuno avrebbe potuto dirmi che era tutto un sogno, un inganno.
Qualcuno potrebbe dirmi che non volevo realmente morire, perciò mi sono inventata una voce che mi dicesse ciò che davvero volevo sentirmi dire.
Da allora, una parte così grande della mia vita, della vita buona e bella che ho trovato, è talmente fondata su quel momento, che non potrei metterne a rischio la sacralità affidan-dola a mani che potrebbero essere dure e insensibili.
Non tollererei di permettere che qual-cuno prenda il mio segreto più sacro e lo metta in ridicolo.
Dopo avere letto il tuo libro, ho pensato che avresti capito, perciò ho voluto condi-videre tutto questo con te.
Alla fine del tuo libro hai scritto che raccontare la tua storia è stato il tuo dono d’amore per noi.
Ti prego, dunque, di accettare il racconto di questa mia storia come il mio dono d’amore per te».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 174-175).
Le mie mani Le mie mani, coperte di cenere, segnate dal mio peccato e da fallimenti, davanti a te, Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di costruire e perché tu ne cancelli la sporcizia.
Le mie mani, avvinghiate ai mie possessi e alle mie idee già assodate, davanti a te, o Signore, io le apro, perché lascino andare i miei tesori…
Le mie mani, pronte a lacerare e a ferire, davanti a te, o Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di accarezzare.
Le mie mani, chiuse come pugni di odio e di violenza, davanti a te, o Signore, io le apro, deponi in loro la tua tenerezza.
Le mie mani, si separano da loro peccato, davanti a te, o Signore, io le apro: attendo il tuo perdono.
(Charles Singer).
Sofferenza materia prima della redenzione Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.
Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.
Tu dici del tuo amico: lo porto nel mio cuore, mi vergogno per lui del suo peccato, la sua sofferenza mi fa male.
È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.
Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito.
Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.
Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, « cancellali », le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia mor-te.
Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzio-ne.
(M.
QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).
II ramo da riattaccare Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal.
«Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha.
«Taglia un ramo di quell’albero».
Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?».
«Rimettilo a posto» ordinò Buddha.
Il bandito rise.
«Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere».
«Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere.
Quella è roba da bambini.
La vera forza sta nel creare e risanare».
(Racconto buddista) Ebbene, Atanasio dice di Antonio, una volta che questi divenne padre spirituale rinomato per la santità: «Antonio fu come un medico donato da Dio all’Egitto.
Chi venne da lui triste e non se ne andò gioioso? Chi si presentò a lui in lacrime per i propri morti e non abbandonò presto il lutto? Chi arrivò in collera e non cambiò la sua ira in amicizia? Quale povero, schiacciato dallo sfinimento non arrivò a capire, attraverso le sue parole e avendolo visto, il disprezzo delle ricchezze e la consolazione della povertà? Quale monaco scoraggiato non fu reso più forte dopo aver parlato con lui? Chi venne a lui nelle tentazioni del demonio e non trovò riposo? Chi venne tormentato da pensieri malvagi e non si sentì pacificato nell’animo?» (Vita di Antonio, 87).
(Luciano MANICARDI, La paternità spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 301-308).
Il Perdono O Signore, per vivere Te in mezzo agli uomini, uno dei più grandi rischi da prendere è quello di perdonare, di dimenticare il passato dell’altro.
Perdonare e ancora perdonare, ecco ciò che libera il passato e immerge nell’istante presente.
Amare è presto detto.
Vivere l’amore che perdona, è un’altra cosa.
Non si perdona per interesse, non si perdona mai perché l’altro sia cambiato dal nostro perdono.
Si perdona unicamente per seguire Te.
In vista del perdono oserei pregarti, o Gesù, con la tua ultima preghiera: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.
E questa preghiera ne farà nascere un’altra: Padre, perdona me, perché così spesso anch’io non so ciò che faccio.
Fa’ che sappia ricominciare sempre di nuovo a convertire il mio cuore: per essere testimone di un avvenire.
(Regola di Taizé)

Ciclo di incontri in occasione del centenario della SEI

Presentazione del catalogo della mostra I grandi libri illustrati per l’infanzia della SEI (1908-2008) Intervengono: Piergiorgio Dragone Ulisse Jacomuzzi Maria Mimita Lamberti sarà presente il curatore della mostra e del catalogo Pompeo Vagliani giovedì 26 febbraio 2009, alle ore 17,00 Museo della scuola e del libro per l’infanzia Palazzo Barolo Via Corte d’Appello 20 – Torino Da Pipino a Benjamin Button: le fiabe della vita a ritroso Intervengono: Giulio Graglia Vincenzo Jacomuzzi Pompeo Vagliani giovedì 12 marzo 2009, alle ore 17,30 Museo della scuola e del libro per l’infanzia Palazzo Barolo Via Corte d’Appello 20 – Torino Presentazione del libro Serenant et illuminant: i cento anni della SEI  di Fabio Targhetta Con l’autore intervengono: Giorgio Chiosso Ulisse Jacomuzzi venerdì 20 marzo 2009, alle ore 17,30 Museo della scuola e del libro per l’infanzia Palazzo Barolo Via Corte d’Appello 20 – Torino Franti 2000: L’emergenza educativa Partecipano: don Domenico Ricca (cappellano del Ferrante Aporti) Sergio Blanzina (preside del liceo Giolitti) Moderatore: don Sergio Giordani giovedì 23 aprile 2009, alle ore 17,00 Museo della scuola e del libro per l’infanzia Palazzo Barolo Via Corte d’Appello 20 – Torino

The Reader, il lettore

La terza opera cinematografica di Stephen Daldry – “un film sulla verità e la riconciliazione” come il regista afferma, che concorre agli Oscar anche come miglior film, migliore regia, migliore fotografia e migliore sceneggiatura non originale – segue gli assai applauditi Billy Elliot e The Hours, inserendosi perfettamente e coerentemente in questa sua speciale “trilogia umana”: il bambino che realizza, contro tutto e tutti, un sogno; donne allo specchio che affrontano la vita, ma all’ombra della morte; una coppia che ama e soffre sullo sfondo di una nazione traumatizzata.
All’origine di una brillante, volutamente scarna e gelidamente concentrata sceneggiatura del drammaturgo David Hare, che non segue una logica temporale, ma più curiosamente emotiva, si trova il romanzo A voce alta di Bernhard Schlink, pubblicato per la prima volta nel 1995.
Caso letterario non solo tedesco, storia di un remoto capitolo della Shoah che penetra le pagine ed ora scorre sullo schermo, nel susseguirsi di una serie di passioni, di scoperte, di disillusioni, di ferite.
Al centro, questa volta, non è la vittima, non l’innocenza.
Anche il senso di colpa del singolo e il suo cammino di redenzione sono al margine.
Al centro ribollono la frenesia del dubbio, la voglia di amare, il dovere di condividere, la sofferenza del conoscere, il rigore del giudicare, il desiderio di cancellare, di girare pagina.
“Il romanzo – sempre a detta di Daldry – affronta il problema di come continuare, dopo quello che è avvenuto”.
Hanna, geneticamente anaffettiva, trascorsa questa breve e travolgente estate si eclissa inaspettatamente dalla vita di Michael che in prima persona ricorda e racconta.
Gli riappare dopo molti anni – siamo tra il 1963 e il 1965 – col suo vero volto; lui studente di legge, lei aguzzina ad Auschwitz-Birkenau, col suo pesantissimo fardello di responsabilità, dinanzi al tribunale di Francoforte che la sta giudicando, con altre turpi e impassibili signore, per crimini contro l’umanità.
Ma ora, per estremo, più comprensibile pudore, decide di celare a tutti un secondo segreto che segnerà la sua condanna definitiva e poi diventerà l’unico tramite col mondo, tentativo per rimanere viva e recuperare una dignità irrimediabilmente perduta.
Si chiude così il secondo capitolo della loro esistenza.
Quello che innesca pietà e rabbia.
In un acceso confronto con il suo insegnante – è Bruno Ganz, di gran classe – e alcuni colleghi d’università, Michael sarà sottoposto ad una serie di riflessioni scottanti e dolorose: quanto amorale sia stato il comportamento di una intera nazione; quanto il processo successivo avrebbe dovuto investire tutti i suoi abitanti e non soltanto un’esigua parte; se e quanto la colpa sia trasmissibile, se il perdono possa avere più senso o rivestire più utilità della giustizia.
Quanti se, quanti tentativi di soluzione – “Non è importante quello che sentiamo, ma quello che facciamo” confessa il professore – quanti silenzi, quanto smarrimento.
Il terzo capitolo, quello finale, vede Michael ormai adulto e infelicemente sposato – l’attore Ralph Fiennes – ritessere suo malgrado le fila del suo rapporto con Hanna che sta scontando l’ergastolo, lui condividendone di nuovo, fino in fondo, il tragico destino in forza di un amore mai sopito.
Questa volta il potere delle parole, della narrazione, dell’ascolto, supera tutte le barriere, tutte le inferriate, quelle dell’anima e della prigione.
Ma il tempo avuto a disposizione per riflettere sul passato non sembra aver inciso sul carattere della donna ormai settantenne: “Non importa cosa penso, non importa cosa provo: i morti sono morti”.
Ci sarà anche un’appendice.
Entra in scena una vittima figlia di una vittima, il volto è quello impassibile, incorruttibile e drammatico dell’attrice Lena Olin.
Siamo a New York.
Un nuovo, affilato duello verbale con il neo-avvocato mette in chiaro: perdono no, pietà sì.
Le cose, per chi ha vissuto l’orrore fino in fondo, non possono andare altrimenti.
Michael riflette: “Il dolore che ho vissuto a causa del mio amore per Hanna era, in un certo senso, il destino della mia generazione, un destino tedesco”.
Visitando la tomba di Hanna mano nella mano con la figlia, il suo racconto può, deve ricominciare.
di Luca Pellegrini (©L’Osservatore Romano – 20 febbraio 2009) ”Musa, quell’uom di multiforme ingegno / Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra / Gittate d’Ilïon le sacre torri”: Michael Berg, disteso sul letto, le legge l’incipit dell’Odissea prima di gettarsi tra le sue braccia.
Per lui, quindicenne, è l’esperienza della prima, trasgressiva passione che si trasformerà in un amore intenso e irreversibile; per lei, la pallida e brusca trentenne Hanna Schmitz – l’interpretazione, sconvolgente, è quella di Kate Winslet giustamente candidata all’Oscar – è soltanto un’illusoria fuga dalla memoria di quell’Europa dissacrata, bruciata, insanguinata sulla quale molte “sacre torri”, grazie anche alla sua fanatica, cieca devozione, al suo senso di perverso dovere, erano state gettate qualche anno prima.
Per entrambi queste letture dei classici, queste ore insieme così nascoste, così innaturali, sono un illusorio viaggio verso un futuro irrimediabilmente incerto.
Lui è The Reader, il lettore appunto: nato nella Germania postnazista in lenta ricostruzione, anche umana; lei del nazismo è stata, invece, una pedina, un’attiva carnefice, ora vende biglietti sui tram di una città disfatta (Heidelberg).
Due generazioni s’incontrano, si fronteggiano e si separeranno.
Incarnano l’anima della Germania del dopo guerra in cui i rigurgiti dell’orrore si fanno sentire.
Tanto sono vicine cronologicamente, queste generazioni lacerate, quanto lontane spiritualmente; tanto l’unione fisica del ragazzo e della donna, e soltanto quella, inizialmente le avvicina, simulacro di felicità, quanto i loro passati, le educazioni e culture agli antipodi, inesorabilmente le dividono.

VI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Lectio – anno b Prima lettura: Levitico 13,1-2.45-46 Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacer-doti, suoi figli.
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.
Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
I capitoli 11-15 del libro del Levitico, di cui fa parte questo brano sono chiamati dagli esegeti «codice di purità» (in parallelismo con i capitoli 17-26, chiamati «codice di santi-tà»).
Il nome è giustificato dal fatto che, in questa sezione, vengono elencate le realtà che avvicinavano a Dio (tutte racchiuse nel nome generico di «puro») e quelle che a Dio si op-pongono o da Dio allontanano (come le malattie e la morte, ma anche fenomeni come il parto o fenomeni legati al ciclo della femminilità ecc.: queste vengono racchiuse nel nome generico di «impuro»).
Anche la lebbra rientra in queste realtà negative, anzi vi entra in modo esemplare perché il termine ebraico che la definisce — negàh, «colpire» — è diventa-to sinonimo della «piaga» per eccellenza che allontana da Dio e mediante la quale Dio pu-nisce.
Bisogna, tuttavia, notare che presso l’antico Israele il concetto di lebbra era molto più ampio del nostro.
Infatti, ogni malattia della pelle («arrossamento, pustola, macchia bian-ca») — e le stesse muffe dei muri delle case — venivano considerate come lebbra.
Inoltre questa malattia conduceva a una totale esclusione dalla comunità.
Questo spiega il partico-lare modo di vestire («vesti strappate, capo scoperto, coprirsi la barba») e l’obbligo di abi-tare fuori dall’accampamento o dall’abitato e di segnalare la propria presenza, per evitare di contagiare gli altri (il lebbroso deve gridare: «Impuro! Impuro!»).
Seconda lettura: 1Corinzi 10,31-11,1 Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio.
Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
Il breve brano proposto contiene la conclusione della trattazione di alcuni problemi che assillavano la comunità cristiana di Corinto.
Vivendo in ambiente pagano e idolatra, più in particolare i problemi riguardavano la partecipazione ai sacrifici pagani e all’eucaristia e il mangiare le carni offerte in sacrificio agli idoli (chiamate con termine greco «idolotìti» dal verbo thyo, «sacrificare»).
Queste carni venivano distribuite e offerte come cibo nel ban-chetto che seguiva al sacrificio, ma venivano anche vendute nei mercati.
Paolo dà questo consiglio: se il cristiano viene invitato a un banchetto e non e al corren-te della provenienza delle carni che gli vengono offerte in cibo, ne può mangiare (al ri-guardo Paolo cita, come giustificazione il Salmo 24,1: «Del Signore è la terra e tutto ciò che contiene»).
Se invece il cristiano sa che le carni provengono dai sacrifici offerti dai pagani agli idoli, se ne deve astenere.
Ciò viene motivato dal fatto che si potrebbe dare occasione di scandalo a chi è ancora «debole» nella fede («Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio»).
L’astensione dall’assumere queste carni è motivo per il cristiano di testimoniare aperta-mente la fede nell’unico vero Dio e di esprimere la sua opposizione al culto degli idoli, as-sai fiorente nella città di Corinto.
Su tutto, però, deve prevalere il principio della ricerca di Dio e della sua gloria e non il proprio tornaconto: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio».
La vita, l’opera e il comporta-mento di Paolo stesso sono il modello di questa ricerca di Dio su tutto: «Così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Vangelo: Marco 1,40-45 In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!».
E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Esegesi Lo sfondo del brano evangelico è quello della prima lettura, dedicata alla descrizione del significato negativo della lebbra all’interno della comunità israelitica e alle precauzioni da assumere nei suoi confronti.
Ma lo sfondo è anche quello «teologico» del vangelo di Marco, nel quale i miracoli di Gesù vengono presentati con lo scopo di condurre i suoi contemporanei a riconoscere in lui il Figlio di Dio.
Quanto allo sfondo biblico, è interessan-te notare come ancora ai tempi di Gesù fossero in vigore le norme del libro del Levitico, che per i lebbrosi contemplavano l’emarginazione, l’esclusione dalla comunità, un vestito e un comportamento particolari (vedi la prima lettura), cioè la morte civile e religiosa.
Il leb-broso del vangelo infrange queste norme «andando» da Gesù, quindi rompendo l’isola-mento.
E Gesù stesso infrange queste norme, quando «tocca» il lebbroso.
Toccare chi era colpito dalla lebbra, significava infatti essere dichiarato immondo, con conseguenze gravi per la vita religiosa.
«Se vuoi, puoi purificarmi!»: il lebbroso ha la percezione che solo Gesù, con i poteri e l’au-torità che sta dimostrando attraverso i miracoli, ha la capacità di guarirlo dalla lebbra.
Nessun altro può restituirlo alla vita civile e quotidiana, perché la legge è rigorosissima.
Questa percezione diventa fede quando, nel suo significato più profondo, la lebbra è vista come immagine del peccato, che emargina l’uomo da Dio e dalla comunità di fede.
Solo Gesù ha la capacità di salvare.
I verbi di miracolo («guarire, sanare») nei vangeli diventano perciò i verbi della fede («salvare, convertire a Dio»).
«Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò»: con questi verbi appare in pienezza l’umanità di Gesù, che si ribella allo stato di emarginazione in cui venivano relegati i lebbrosi.
È, questo, un progresso nel riconoscimento della dignità dell’uomo che versa nella malattia, un progresso che solo il vangelo può favorire e ancora oggi propone di fronte alle più sva-riate emarginazioni a cui viene condannato l’uomo debole, indifeso, ammalato.
«Ammonendolo severamente»: Gesù ha la consapevolezza di aver trasgredito la legislazio-ne del Levitico e per questo si dimostra severo con il destinatario del miracolo di guarigio-ne.
Ma ha pure la consapevolezza di aver ridato vita, gioia, felicità, comunità, casa, fami-glia, affetti, a chi ingiustamente veniva emarginato.
Gli esegeti — in riferimento anche a quanto è detto nel v.
14 («Guarda di non dire niente a nessuno») — vedono qui un’allusio-ne al cosiddetto «segreto messianico».
Gesù cioè non vuole essere riconosciuto Messia at-traverso i gesti miracolosi che compie, ma soprattutto nell’umiliazione della croce.
«Va’, invece, a mostrarti al sacerdote»: secondo le norme del Levitico (capitoli 13-14) erano i sacerdoti a stabilire la presenza della lebbra, a ratificare le norme da applicare nei con-fronti del lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione.
Forse Gesù vuole anche far capire ai sacerdoti che la legislazione del Levitico ha ormai esaurito la propria funzione ed è tempo di chinarsi con più amore e compassione su chi soffre ed è emarginato.
Meditazione   Il vangelo di questa domenica ci presenta un altro racconto di guarigione.
Dopo l’inde-moniato nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,21-28) e la suocera di Simone (Mc 1,29-31), è ora la volta di un lebbroso.
Questo personaggio, con tutto il suo carico di sofferenza e di soli-tudine, compare all’improvviso sulla scena («Venne da Gesù un lebbroso»: così inizia il nostro brano, senza alcuna indicazione di luogo e di tempo, e senza nemmeno esplicitare il nome di Gesù) andando direttamente incontro a Gesù, nella fiduciosa speranza di venire risanato.
Conosciamo la condizione particolarmente pesante in cui era costretto a vivere colui che era stato colpito dalla lebbra.
Per rendersene maggiormente conto basterebbe ri-leggere i capitoli 13-14 del libro del Levitico (di cui la prima lettura ci offre qualche passo) che contengono una serie di norme molto precise volte a salvaguardare la comunità dal ri-schio del contagio e, di conseguenza, a emarginare e bandire da ogni consorzio umano il lebbroso.
La lebbra, oltre a essere considerata effetto di un castigo divino, rende «impuri» e quindi impossibilitati ad accedere al culto e a ogni pratica rituale.
«Impuro! Impuro!» (Lv 13,45) deve gridare il lebbroso, quasi a rafforzare con la sua stessa voce la condizione umi-liante e infamante che è costretto ad assumere.
Ebbene quest’uomo, escluso totalmente dalla società civile e religiosa e gettato nell’iso-lamento e nel disprezzo più grande, ha l’audacia di avvicinarsi a Gesù e di lanciargli u-n’umilissima e fiduciosa preghiera: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
Egli fa appello alla volontà di Gesù («se vuoi») e alla sua potenza («puoi»), sapendo che la sua guarigione dipende esclu-sivamente da un semplice atto di volontà del suo interlocutore.
È una preghiera bellissima! Quel «se» dice, infatti, tutta la discrezione di chi chiede qualcosa lasciando però all’altro la libertà di soddisfare o meno la richiesta fatta, e, nello stesso tempo, è una parola che in qualche modo obbliga l’altro a svelarsi, a dare una risposta, a rendere palese il suo deside-rio.
È come se quel lebbroso dicesse a Gesù: qual è il tuo desiderio, la tua volontà su di me? Vuoi la mia sofferenza o la mia guarigione? Di fronte a una simile richiesta non si può rimanere indifferenti.
E il testo ci fa subito conoscere la reazione di Gesù, che è descritta dapprima come un impeto di commozione («ne ebbe compassione») e poi come un gesto che, nella sua plasticità, rivela la volontà di vincere ogni distanza e separazione («tese la mano, lo toccò»).
Ciò che Gesù prova è un sentimento che lo tocca fin nel profondo delle viscere, è qualcosa che fa vibrare tutto il suo essere, che lo scuote sensibilmente.
È, pos-siamo dire, il «fremito» di chi sente il dolore dell’altro e vuole, nella misura del possibile, far-sene carico.
È altamente significativo il modo con cui Gesù opera la guarigione.
Non si limita a pro-ferire una parola risanatrice – come aveva fatto in altri casi -, ma compie un gesto che lo fa entrare in contatto anche fisico con il lebbroso: Gesù lo «tocca», tocca colui che tutti evita-no, senza il timore di contaminarsi.
Questo tocco, che vince le separazioni e le barriere in-nalzate dagli uomini – anche in nome di una legge santa -, pone fine alla segregazione del lebbroso e lo reintegra nella comunità degli uomini, ripristinando gli interdetti canali della comunicazione e della relazione (forse si può scorgere qui una punta polemica contro i sa-cerdoti, che si limitavano a stilare certificati di malattia o di purificazione, senza però ado-perarsi concretamente in favore della guarigione).
Risanare un lebbroso per la tradizione ebraica era come risuscitare un morto e i vangeli lo indicano come uno dei segni dell’av-vento del Regno.
Dove il Regno si fa vicino tutto rifiorisce e riprende vita; dove irrompe la novità di Dio tutto rinasce e si rinnova.
La volontà di Dio sull’uomo è unicamente volta al bene e alla vita: «Lo voglio, sii purificato!» (v.
41).
La conclusione del racconto non è priva di qualche sorpresa.
Anzitutto, il lebbroso risa-nato non obbedisce assolutamente all’ordine di Gesù, che lo ammoniva a mantenere il si-lenzio e a presentarsi al sacerdote per la conferma dell’avvenuta guarigione (v.
44), ma, al-lontanatosi, «si mise a proclamare e a divulgare il fatto» (v.
45a).
È tale il fervore con cui diffonde e divulga la notizia, da attirare una folla considerevole a Gesù: «E venivano a lui da ogni parte» (v.
45b).
Marco fa dunque di questo risanato «il primo missionario» (R.
Pesch), colui che, senza volerlo e quasi contro la volontà di Gesù, diventa il primo testi-mone e annunciatore (è usato qui il termine kērýssein, che è quello tecnico dell’«annuncio») di quella Parola che comincia a compiere la sua corsa tra i villaggi della Galilea.
Colpisce, inoltre, l’inversione di ruoli tra il lebbroso e Gesù: il lebbroso risanato può tornare a vivere entro la comunità degli uomini, mentre Gesù è costretto «a rimanere fuori, in luoghi deser-ti».
Anche questo fa parte del modo con cui Gesù si fa carico della sofferenza altrui…
Da ultimo, possiamo ricordare che la tradizione cristiana ha sempre letto nella guari-gione dalla lebbra il segno di una guarigione più radicale: quella dal peccato (lo testimonia anche la scelta del salmo 31 come salmo responsoriale).
Il peccato, come la lebbra, separa, divide, rende estranei a Dio e ai fratelli.
Solo manifestandolo apertamente a Dio e appel-landoci alla sua potenza possiamo sperare di esserne purificati e ritrovare così la comu-nione con Lui e con i fratelli.
La sofferenza come maestra Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore.
Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita.
Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono.
Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo.
Perciò sia ringraziato Id-dio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.
Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti.
Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto.
E ciò significa che dobbiamo essere di-sposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi incli-nazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla.
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).
«Se vuoi, puoi purificarmi!» Chi supplica la volontà, non dubita del potere.
E stendendo la mano Gesù lo toccò e disse: «Lo voglio: sii mondato».
E sull’istante fu mondato dalla sua lebbra (Mt 8,3).
Appena il Signore stende la mano, subito la lebbra scompare.
Ma osserva anche quanto sia umile e immune da vanità la sua risposta.
Il lebbroso aveva det-to: «Se tu vuoi», e il Signore risponde: «Lo voglio».
Il lebbroso aveva detto: «Puoi mon-darmi», e il Signore replica dicendo: «Sii mondato».
Non dobbiamo congiungere le due parti della risposta, come credono molti latini, che leggono: «Ti voglio mondare»; dobbia-mo tenerle separate, sicché egli prima dice: «Lo voglio», e poi, dando un ordine: «Sii mon-dato».
E Gesù disse: «Guardati dal dirlo ad alcuno» (Mt 8,4).
E, in verità, che necessità aveva il lebbroso di fare tanti discorsi sulla sua guarigione, quando il suo corpo guarito parlava per lui? «Ma va’, mostrati ai sacerdoti e presenta l’offerta che Mosè ha prescritto, affinché serva a loro di testimonianza» (Mt 8,4).
Per varie ragioni lo manda ai sacerdoti.
In primo luogo, per un atto di umiltà, affinché cioè il lebbroso risanato rendesse onore ai sacerdoti: era infatti prescrit-to dalla legge che coloro che venivano mondati dalla lebbra presentassero un’offerta ai sa-cerdoti.
Poi perché i sacerdoti, vedendo che il lebbroso era stato mondato, potessero crede-re al Salvatore, oppure si rifiutassero di farlo: se avessero creduto sarebbero stati salvi; se si fossero rifiutati di farlo, la loro colpa sarebbe stata senza attenuanti.
E infine perché si rendessero conto che egli non infrangeva la legge, cosa di cui tanto spesso lo accusavano.
(SAN GIROLAMO (+ 419/420), Commento al Vangelo di Matteo I, 8,2-4, in GIROLAMO, Commento al Vangelo di Matteo, Roma, Città Nuova Editrice, 1969, 63-64).
Dalla Leggenda Maggiore Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso.
Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.
San Francesco, la fede e la vista dei lebbrosi Nel “Testamento” redatto (o meglio dettato) da Francesco, si trova una frase che pare essere la chiave di comprensione della vita di questo giovane: «Quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e con essi usai misericordia»(Cf.
Fonti Francescane, Padova 2004, n.
110).
«E ciò che mi sembrava amaro continua il testo mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo».
Ciò che fece scattare la conversione di Francesco fu dunque la vista dei lebbrosi.
Egli si lasciò condurre dal Signore, e ciò che prima gli appariva ripugnante gli si cambiò in dolcezza.
Da questa storia emerge un’altra immagine di Dio che è un’altra immagine dell’uomo.
Quando è in crisi l’immagine di Dio è in crisi l’uomo, e viceversa.
Dobbiamo dunque alimentare la nostra fede sposando la causa degli ultimi, come fece otto secoli fa Francesco, e non per semplice carità cristiana e nemmeno soltanto per un senso di giusti-zia.
La nostra unica giustizia non è altro che Cristo, che ci sprona e ci possiede.
Il nostro senso di giustizia, infatti, è sempre storicamente determinato e, quando l’avessimo realiz-zato, ci troveremmo magari a essere oppressori degli ultimi (ieri lebbrosi soltanto, oggi lebbrosi ammalati di AIDS).
La nostra immagine di giustizia è una nostra via, ma le vie della giustizia di Dio non sono le nostre vie.
La nostra via, e qui è sempre Paolo a ricordar-lo, è il Cristo «crocifisso per la sua debolezza» (2Cor 13,4), perciò io devo compiacermi «nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce soffer-te per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).
Restituire a Dio la sua santità, abolendo le immagini letterarie o scientifiche che presumono di tradurlo, non vuol dire cadere in un fideismo cieco.
Chi parla di Dio con sicurezza da professore è po-tenzialmente un uomo iniquo.
Solo se c’è adorazione, tremore, incapacità a volte di dire chi è Dio se non vedendolo nell’aspetto repellente del lebbroso, allora c’è anche rispetto per l’uomo.
Francesco trovò la fede, e quindi la verità, sotto la santità e la durezza della croce, nel volto sfigurato dei malati.
Ritrovare la fede, dunque, significa, sul piano storico, farsi garanti della libertà e della vita della persona; abolire tutte le barriere, tutte le discri-minazioni consumate sulla stessa vita umana nello sterile e misero dibattito su ciò che è vi-ta e ciò che vita non è; riconoscere che vita è sinonimo di giovinezza perenne dello spirito, indipendentemente dagli anni o dalla condizione fisica o sociale, respingendo le cataloga-zioni che rendono ancora così disumana la nostra società postmoderna.
Da persone come Paolo e Francesco inizia un discorso che va lasciato al silenzio di o-gnuno, ma che non può risolversi se non in un rinnovato impegno ad adoperarsi perché cambi questa società e sia non un luogo di divisioni e di conflitti, ma di unione nel Cristo, segno di unità tra tutti gli uomini.
Non di competizione e conflittualità parlano Paolo e Francesco, ma di animazione cristiana interna al cammino storico fino alle prospettive che superano miti e dualismi e si identificano con l’eterna comunione con quel Dio che sarà un giorno Tutto in tutti.
(Franco CAREGLIO, San Paolo e San Francesco, giovani per i secoli, in «Paulus» (2009) 2).
Coraggio, fratello che soffri Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta.
Il parroco, in atte-sa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.
Collocazione provvisoria.
Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce.
La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo.
Coraggio.
La tua croce, anche se durasse tut-ta la vita, è sempre «collocazione provvisoria».
Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce.
C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra».
Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane.
Ecco le sara-cinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra.
Ecco le barriere en-tro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio.
Solo allora è consentita la sosta sul Golgota.
Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio.
Dopo tre ore, ci sarà la rimozio-ne forzata di tutte le croci.
Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.
Coraggio, fratello che soffri.
C’è anche per te una deposizione dalla croce.
C’è anche per te una pietà sovrumana.
Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua.
Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte feb-bricitante.
Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza.
Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.
Coraggio.
Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio.
Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.
(Don Tonino Bello) Che significato ha una malattia nel corso della vita? Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini.
Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radi-ci, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.
Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabil-mente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soc-combe? Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distru-zione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.
Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può cresce-re anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.
Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre? (Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130) Insegnaci a non amare solo noi stessi Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano.
Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.
Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.
Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.
(Raoul Follereau)

Architettura sacra a Torino

Ferdinando Bonsignore – La chiesa della Gran Madre di Dio   Esempio dello stile neoclassico in auge ai primi dell’Ottocento è la chiesa della Gran Madre di Dio, opera di Ferdinando Bonsignore, eretta tra il 1818 e il 1831 per festeggiare il ritorno di Vittorio Emanuele I di Savoia il 20 maggio 1814 dopo la sconfitta di Napoleone: sul timpano della chiesa si legge infatti l’epigrafe Ordo Populusque Taurinus Ob Adventum Regis (La città e i cittadini di Torino per il ritorno del re).
Lo schema dell’edificio si rifà, con spirito deliberatamente archeologico, a una diffusissima tipologia che trova il suo prototipo nel Pantheon, monumento romano del periodo adrianeo; una pianta rotonda sormontata da una cupola, e preceduta da un peristilio a frontone triangolare, il tutto poggiante su un alto zoccolo.
 Guarino Guarini – La Cappella della Santa Sindone   Il monaco teatino Guarino Guarini (1624-1683), modenese, può senz’altro considerarsi l’architetto più originale del XVII secolo, dopo Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini.
Guarini viaggiò molto in Italia e all’estero e lasciò a Torino, dove fu chiamato da Carlo Emanuele II, le più alte affermazioni della sua genialità creativa, tra le quali la Cappella della Santa Sindone, incastonata tra quello che nel 1713 diventerà il Palazzo Reale dei Savoia e il Duomo di San Giovanni, edificato tra il 1491 e il 1498.
L’opera, iniziata nel 1668 e compiuta solo dopo undici anni dalla morte del maestro, trova la sua più suggestiva espressione nella cupola.
Su una base formata da sei grandi finestre, collegate esternamente da una cornice ondulata, parte una raggiera di contrafforti che si intrecciano a cornici sghembe fino a sostenere le cornici concentriche del tamburo della lanterna, quest’ultima illuminata da finestre ovali.
Da questo capolavoro di ingegneria piove all’interno un guizzante e segmentato gioco di luci.
Guarino Guarini – La Chiesa di San Lorenzo   Come nella Cappella della Sindone, anche nella chiesa di San Lorenzo Guarino Guarini sviluppa il motivo dell’organismo centrale, di ridotte dimensioni e articolato verso l’alto, già caro al Borromini.
Compiuta nel 1687, la chiesa ha una pianta quadrata con pareti convesse in luogo dei quattro angoli.
La cupola, ornata di costoloni intrecciati, si ispira probabilmente alla Catedral de la Seo di Saragozza, cattedrale gotica costruita nel XIV secolo.
La sensibilità del Guarini per l’arte gotica, specie straniera, era già evidente nella cupola della Sindone, simile a una guglia.
All’adesione, peraltro puramente fantastica, all’architettura gotica, il Guarini aggiunge una straordinaria padronanza tecnica di assoluta modernità.
Nelle sue originali concezioni strutturali si può cogliere, tra l’altro, l’aspetto tipicamente barocco della «meraviglia» come fine dell’arte.
Filippo Juvarra – La Basilica di Superga   La basilica, che con la Mole antonelliana può considerarsi uno dei simboli di Torino, fu fatta erigere da Vittorio Amedeo II di Savoia tra il 1715 e il 1731, in adempimento di un voto fatto nel 1706, prima della battaglia per liberare Torino dall’assedio dei francesi.
È forse l’opera più celebre di Filippo Juvarra, architetto messinese che lavorò a Torino per circa un ventennio, lasciandovi numerose testimonianze della sua genialità non solo di costruttore, ma anche di scenografo e urbanista.
In quest’opera i temi rinascimentali e l’amore per le forme michelangiolesche vengono interpretati in chiave scenografica, perfettamente intonata al paesaggio circostante, sull’alto di un colle panoramico.
Come già nel Pantheon, massimo tempio dell’età imperiale romana, il pronao s’innesta a un corpo centrale.
Nei campanili laterali sono evidenti reminiscenze della fantasia borrominiana (già elaborata a Torino, come abbiamo visto, nelle opere del Guarini).
Nei sotterranei della basilica sono raccolte le tombe dei re di Sardegna, da Vittorio Amedeo II a Carlo Alberto, e dei principi sabaudi dal 1700 in poi.

In cerca del padre

L’evoluzione della nozione di paternità in Occidente nell’arco temporale che va dalla Rivoluzione francese ad oggi è l’oggetto di questo studio.
Una vicenda dai molti protagonisti e dalle numerose sfaccettature, risultato di piani complessi che variamente s’intersecano, a volte in anticipo altre in ritardo, alternando momenti di sintonia a stridenti contrapposizioni, l’ultima delle quali è forse solo agli inizi.
La vicenda prende le mosse dall’impostazione romanistica che sino al Novecento, in assenza di indicazioni biologiche, ha cercato di risolvere l’incertezza della paternità affidandone l’individuazione all’ordinamento giuridico, che poggiava sulla volontà implicita o esplicita dell’uomo di essere padre, in uno schema sostanzialmente proprietario.
Solo nel corso del xx secolo le analisi ematologiche prima e quelle sul Dna poi, sono state in grado di fornire elementi precisi, rendendo possibile superare l’antica presunzione giuridica.
Si è trattato tuttavia di un punto d’arrivo ben presto superato, poiché le nuove tecniche di fecondazione assistita, attraverso l’inseminazione eterologa, hanno costretto a ridefinire la nozione di paternità a prescindere dal mero dato biologico.
Ciò ha determinato un paradossale ritorno all’antico, riattribuendo al diritto – pur su basi nuove – il compito di individuare il padre.
Già questa sintesi mostra le difficoltà di ricostruire un percorso in cui ambivalenze e contraddizioni sono in costante agguato, poiché ogni nuovo tassello risolve un problema ma ne crea di nuovi.
E ciò, se è vero in generale, risulta amplificato nella vicenda della paternità che investe il momento più intimo e fondante delle relazioni umane.
Fortemente radicata sul piano affettivo e domestico, la paternità è un termometro significativo dei mutamenti sociali, in cui si intersecano vissuti personali, disposizioni legali ed evoluzione scientifica in una dialettica elicoidale, fonte di drammi e di progresso.
È una storia di esistenze concrete, di uomini che hanno avuto figli, negandoli o amandoli, dimenticandoli o rincorrendoli.
Ma è anche la storia di quei bambini, e degli adulti che diventeranno; delle donne che li hanno partoriti e delle relazioni – spesso drammatiche – che hanno avuto con quei padri.
(…) Nella vicenda il piano giuridico è stato sempre presente in tutte le sue sfaccettature.
Il ruolo che il diritto ha esercitato si è però trasformato nel tempo, passando dalla funzione di attribuire o di negare la paternità, a quella più modesta di registrarla.
E quale debba essere il suo ruolo oggi è questione aperta.
Il passaggio non è stato facile.
Il diritto non ha rinunciato di buon grado al suo compito.
Né molti padri, reali e concreti, sono riusciti ad accettare e interiorizzare la rivoluzione copernicana di una paternità completamente sfuggita al loro controllo, e, quindi, alla loro volontà.
Quanto alle conoscenze scientifiche, il dato di partenza, millenni prima dell’età contemporanea, era davvero scoraggiante: come ha scritto Marco Cavina, “la preistoria non conosceva i padri, anzi si potrebbe forse dire che la storia dell’uomo prenda inizio con la scoperta del padre” (estraneità non facilmente accettata, tanto che l’uomo tentò di rimediare ricorrendo, ad esempio, alla pratica della couvade).
Una volta riconosciuto il ruolo maschile, sorse il problema di “quale maschio” avesse concorso a “quale nascita”, un problema che ha caratterizzato la storia di tutte le civiltà patriarcali.
Se nel Novecento i progressi scientifici hanno impostato su basi completamente nuove la ricerca del padre, oggi tutto questo sembra essere messo irreparabilmente in crisi dalla fecondazione eterologa.
Nella misura in cui scienza e Dna risultano prescindibili, diventa preminente la questione del ruolo, il fatto cioè che l’uomo si comporti come un padre.
Peraltro, nemmeno quest’enfasi sul ruolo parrebbe una novità, trattandosi – ancora una volta – di un ritorno all’antico.
(…) Va da sé che, nella misura in cui si supera il dato biologico e genetico, il discorso sulla paternità indicata dalla natura e rivelata dalla scienza – a prescindere dalla volontà dell’uomo – salta completamente.
Se si ricorre al seme altrui per diventare padre, per rendere il proprio compagno padre o per dare un padre al figlio, è evidente che la volontà diventa il deus ex machina dell’intero processo: è dall’incontro tra la scienza medica e la volontà dei soggetti coinvolti che nasce un bambino.
(…) Siamo davvero davanti ad uno snodo molto delicato: orientarsi tra una paternità biologica e una paternità di decisione e di affetti non è più una questione astratta.
E se è vero che viviamo in società in cui la scelta e la volontà acquistano un peso sempre più notevole in termini di vita e di morte, di nascita e di salute, occorre vedere se saremo in grado di assumerne, in termini innanzitutto sociali, le conseguenze.
(…) Le pagine che seguono mettono in luce l’evoluzione sottesa all’implicito interrogativo del titolo: In cerca del padre intende evocare una duplicità di piani, richiamando un nodo esplicito ed immediato – chi sia il padre del nato – e uno più nascosto e vitale – cosa faccia di un uomo un padre.
Già da queste prime considerazioni emerge tutta la complessità della figura in età contemporanea.
Ad esemplificare il quadro, ci può aiutare un passaggio del romanzo di Philip Roth, Patrimonio.
L’autore ascolta una telefonata tra il suo anziano genitore Hermann (“non era un padre qualunque, era il padre, con tutto ciò che c’è da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare”) e l’amica Lil.
“Sentii che le diceva: “Philip è come una madre, per me”.
Rimasi sorpreso.
Credevo che avrebbe detto “come un padre”, ma la sua descrizione era, in realtà, più sottile delle mie banali aspettative, e al tempo stesso molto più flagrante, impassibile e invidiabilmente, spavaldamente schietta”.
Questo passaggio coglie il nocciolo del nostro tema.
di Giulia Galeotti (©L’Osservatore Romano – 8 febbraio 2009  GALEOTTI GIULIA , In cerca del padre.
Storia dell’identità paterna in età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009, ISBN: 8842086584, pagine 277, euro 20.
L’atto di definire il vincolo che lega un uomo alla sua discendenza è stato per secoli materia di diritto.
Fino al Novecento, infatti, l’impossibilità di stabilire con certezza chi fosse il padre biologico di un nascituro ha reso determinante l’azione giuridica del riconoscimento.
Solo nel corso del XX secolo i progressi della scienza medica sono intervenuti a sovvertire una prassi: le analisi ematologiche, prima, e poi, in maniera definitiva, gli studi sul DNA hanno reso possibile accertare senza ombra di dubbio l’identità paterna.
La scienza ha soppiantato così il diritto in una funzione delicata e gravida di conseguenze, anche simboliche, sull’impianto stesso della società.
Oggi assistiamo a un’ennesima transizione, al punto che si potrebbe parlare di “terza fase” della paternità; il forte sviluppo delle tecniche di fecondazione assistita, sempre più sofisticate ed efficaci, sta rendendo obsoleto un concetto di paternità basato sul dato naturale e biologico.
Con un paradossale ritorno all’antico, si riattribuisce al diritto, sia pure su basi nuove, il compito di individuare il padre.
Tra scienza, prassi sociale e vicende giuridiche, Giulia Galeotti indaga l’evoluzione di un concetto delicato e multiforme, gravido di conseguenze (anche simboliche) sull’impianto stesso della società.

V Domenica del tempo ordinario anno A

Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7 Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».
Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è desti-nato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).
Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al ver-setto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope.
Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili.
Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fonda-mentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dal-l’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui.
Il «vedere» di Giobbe e di Dio.
Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente al-ternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio.
«L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1).
Il paragone della vita è il servizio militare (cf.
Gb 14,14) duro, sen-za possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato.
A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf.
Gb 14,6) e lo schiavo.
La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf.
Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dal-lo schiavo (Gb 7,2).
Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).
Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti.
Egli insiste sull’insonnia.
La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica.
Le ore della notte sembrano intermina-bili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo con-forto.
La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf.
3,6, 9,25).
Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf.
19,20; Ab 3,16).
La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo.
Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio, come il responsabile ultimo della vita.
A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita u-mana.
Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, per-ché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale.
Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10).
L’immagine del vedere è molto insi-stente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).
Il Salmo 146 (147), di cui è riportata la prima parte, ci presenta Dio Signore della storia e del cosmo; è un inno di lode e di ringraziamento.
È interessante l’accostamento del grido di Giobbe che si chiede che valore abbia la vita provata dal dolore e un inno che esalta la potenza, la fedeltà, la giustizia e la misericordia di Dio.
Secondo la dinamica biblica dob-biamo tenere insieme dialetticamente questi elementi apparentemente inconciliabili.
Dio è padrone del cosmo tanto che chiama le stelle per nome (Sal 147, 4); è fedele alle sue pro-messe e «ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi di Israele» (Sal 147, 2); è giusto, ma al tempo stesso è misericordioso e pieno di tenerezza verso le creature tanto che «sostiene gli umili, ma abbassa fino a terra gli empi» (Sal 147, 6).
Spesso, però, l’esperienza sembra contraddire in pieno questa presentazione dell’opera divina, i conti non tornano: gli empi prosperano e i giusti sono pieni di guai.
Allora ai momenti di lode si alternano quelli della domanda insistente a Dio, perché non taccia, ma risponda ai nostri angosciati interrogati-vi, come fa Giobbe e lo stesso Gesù che rivolge a Dio sulla croce la domanda del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), Seconda lettura: 1 Corinzi 9,16-19.22-23 Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato.
Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero.
Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno.
Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense ma-teriali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa.
Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire.
Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».
Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi.
E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce.
Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf.
1Ts 2.9).
Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predi-care.
Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, sen-za nessuna imposizione.
Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno.
Paolo dunque proclama di essersi mes-so in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto del-le loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22).
Il Van-gelo non va predicato e basta.
Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo ac-cettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).
Vangelo: Marco 1,29-39 In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni.
La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei.
Egli si avvicinò e la fece al-zare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati.
Tutta la città era riunita davanti alla porta.
Guarì molti che erano af-fetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non per-metteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, usci-to, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava.
Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce.
Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!».
Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E an-dò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Esegesi La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guari-gione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf.
Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf.
Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf.
Mt 4,23).
Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni.
La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo fami-liare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.
Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf.
1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.
Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione.
I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suo-cera, che del resto rimane nell’anonimato.
Il verbo puresso avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.
Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano».
In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda al-la febbre di lasciarla.
La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre.
Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.
Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».
Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neu-tro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».
«Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.
Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due ter-mini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».
Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34).
È ricorren-te in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità.
Vengono tacitati i de-moni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37).
Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9).
Soltanto con la ri-surrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente.
Tale teoria risale a W.
Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formu-lata da questo autore.
Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo.
Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare.
Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35).
Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la pre-ghiera di Gesù.
Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21).
Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12).
Mentre è un’al-tra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf.
Lc 9, 28-29).
A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).
Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che se-guiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio.
Possiamo pensa-re, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’o-pera finora compiuta secondo il volere del Padre.
Tale opera è predicare.
I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf.
Mc 1,15).
Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).
«E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf.
1,34; 7,29; 16,9).
È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predica-zione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno del-la vicinanza del regno di Dio (cf.
Mt 12,28).
Meditazione Di fronte a ogni sofferenza che sfigura il volto dell’uomo, di fronte alla solitudine e alla impotenza generate dal dolore, non sappiamo cosa pensare.
Rifiutiamo ogni sorta di giu-stificazione e finiamo per dibatterci in un groviglio di interrogativi che, alla fine, giungono a chiamare in questione Dio stesso e a domandargli ragione del dolore, dell’ingiustizia, della assurdità del male che viviamo o vediamo attorno a noi.
Rimbalziamo così a Dio quella domanda che Lui stesso aveva fatto all’uomo, quando si era nascosto al suo sguar-do, dopo il peccato: Adamo, dove sei?…
Dio dove sei?.
È questo in fondo il dramma di Giobbe, di cui la liturgia della Parola di questa domenica ci offre un piccolo squarcio.
«Notti di af-fanno mi sono state assegnate…
i miei giorni svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,3.6): così Giobbe percepisce l’inutilità della sua vita.
Ma ha il coraggio di rivolgersi a Dio facendogli memoria della sua responsabilità di fronte all’uomo e alla sua sofferenza.
Dio stesso ha creato l’uomo così debole e allora? «Ricordati che un soffio è la mia vita…» (Gb 7,7).
Sulle labbra di Giobbe la preghiera si trasforma spesso in grido di ribellione, in accusa nei riguardi di un Dio che sembra contraddire il suo progetto, sembra disinteressarsi del-l’uomo.
Giobbe è l’uomo credente che ha il coraggio di porre a Dio le domande più bru-cianti e, in certo qual modo, scandalose; che ha il coraggio di chiedere conto a Dio della re-altà dell’uomo.
La via che Giobbe percorre è una via non solo difficile, ma pericolosa; può aprirsi alla speranza, ma può precipitare nella disperazione.
Infatti non è un cammino che matura attraverso risposte, ma una via che, da interrogativo a interrogativo, ha la possibi-lità di giungere, per pura grazia, a una luce: è cioè la scoperta che proprio una situazione di dolore, di debolezza, di male può essere occasione suprema, evento unico dell’incontro della libertà di Dio con la libertà dell’uomo.
Quel ricordati che Giobbe rivolge a Dio, lascia proprio intravedere questa possibilità di incontro: è la nostalgia di un volto che si desidera contemplare, un volto che guardi le sofferenze dell’uomo e se ne prenda cura.
Attraverso il testo del vangelo, un momento della lunga giornata di Gesù a Cafarnao, è come se Dio venisse incontro al desiderio di Giobbe.
Quel volto di Dio che l’uomo desidera incontrare nel suo dolore, è vicino nel volto umano di Gesù.
E proprio all’inizio del suo racconto Marco insiste su questo volto di Gesù: attraverso la sua potente parola, che è con-solazione e salvezza, Gesù sfida il male e la sofferenza in tutte le sue forme, fino a rag-giungere quel male che tiene schiavo l’uomo distruggendone la relazione con Dio, il pecca-to.
E l’uomo desidera e cerca questo volto e questa parola di salvezza.
Infatti Marco ci pre-senta tutta una folla di uomini e donne che si accalcano alla porta della casa di Simone, in cui Gesù si trova con i suoi discepoli.
E Gesù «guarì molti che erano affetti da varie malat-tie e scaccio molti demoni» (Mc 1,34).
Nell’accalcarsi della folla, nel premere di questa u-manità sofferente attorno a Gesù, davanti alla porta della casa di Simone, Marco ci offre così una immagine viva di questo incontro tra il volto di Dio e l’uomo che soffre.
Tutti i malati, tutta la città, tutti vogliono incontrare Gesù.
Cosi l’evangelista esprime l’entusia-smo, ma anche il bisogno universale di salvezza: tutti in qualche modo si trovano in una situazione di povertà, di indigenza, di smarrimento, di sofferenza.
Tutti sentono che Gesù può dire loro qualcosa, può fare qualcosa per loro.
Notiamo infine, che tutta questa folla di sofferenti si trova di fronte a quella ‘porta’ che immette nel luogo dove Gesù si trova as-sieme ai suoi discepoli.
L’immagine della casa di Simone può essere colta come simbolo della Chiesa: essa diventa il luogo della accoglienza, la mediazione dell’incontro con Gesù di ogni uomo che ha bisogno di essere guarito e liberato.
Ma l’immagine della porta, come spazio di passaggio e di comunicazione, richiama sempre la possibilità di una chiusura: essa può diventare un ostacolo a questa incontro con il volto di Cristo.
Marco, nei versetti 30-31, riporta anche un particolare intervento di Gesù in favore del-l’uomo sofferente: la guarigione della suocera di Simone.
Due versetti soltanto, ma capaci di comunicare la dinamica dell’incontro dell’uomo schiavo del male con il volto di Dio.
Il ge-sto che Gesù compie, scandito in tre verbi, è rivelativo di ciò che realmente si opera in una guarigione.
Gesù si avvicina a quella donna sofferente, la accoglie nella sua povertà e debolezza.
E il chinarsi stesso di Dio su tutte le miserie dell’umanità, è l’espressione plastica di quelle vi-scere di misericordia che con forza esprimono la reazione di Gesù di fronte all’umanità sofferente e sfinita.
Là dove spesso l’uomo si allontana dal fratello, Dio invece si avvicina e si china su di esso (cfr.
Lc 10,34: «gli si fece vicino»).
Gesù prende per mano quella donna.
Il toccare di Gesù esprime certamente un contatto liberatorio.
Ma sottolinea anche la necessità di un incontro personale, quasi fisico, tra l’uomo schiavo del male e la persona di Gesù.
È dunque un incontro personale, irrepetibi-le, una comunione che apre a nuova vita.
Gesù fa alzare quella donna.
È il movimento che sottolinea il passaggio da una situazio-ne di impotenza e di immobilità, di morte, alla ripresa di una nuova vita, alla possibilità di riprendere un cammino.
E Marco descrive questo gesto con un termine che evoca la resur-rezione.
Ciò che Gesù ha fatto è un segno: è anticipazione della vittoria sulla morte.
Il mi-racolo non è spettacolo, ma è rivelazione: provoca l’uomo a uscire da una lettura troppo materiale della propria vita, da una superficialità, e lo apre a una visione più profonda, a un orizzonte vasto rivelandogli il volto di Gesù.
Ciò che compie la donna guarita è profondamente significativo in quanto fa emergere l’autentico modo con cui una persona può rispondere a una liberazione donata: si mise a servirli.
Essere liberati per servire: in questo si rivela la forma concreta della sequela di Cri-sto.
Questa donna, come i discepoli, come il cieco di Gerico, è stata liberata e questa libera-zione è una chiamata a seguire Gesù.
Li serviva: è dunque uno stile che si acquista, una si-tuazione di vita che ha inizio: Gesù ci fa risorgere per incamminarci sulla strada del servi-zio.
Quando, nel dolore, abbiamo la grazia di incontrare il volto di compassione di Cristo (ed è questa la vera liberazione), allora non rimaniamo più ripiegati su noi stessi, immobi-lizzati nella nostra sofferenza.
Ci alziamo e ci mettiamo a servire l’uomo sofferente, diven-tando noi stessi icona del volto misericordioso di Dio.
Amare le domande, vivere le risposte Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato.
A questo proposito, rileggo spesso il con-siglio del poeta Rainer Maria Rilke: “..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle.
Il punto è vivere ogni cosa.
Vivere le domande ora.
Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.
(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).
Diventare l’amato – Spezzato La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a di-stanza, ignorarla, aggirarla o negarla.
La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non do-vrebbe esserci.
È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.
Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se fa-vorirla può sembrare a prima vista masochismo.
Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore.
Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “es-sere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa.
Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.
(Henri J.M.
NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).
Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.
Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.
La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.
“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in u-n’intervista telefonica.
“Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.
Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.
Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.
Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura.
“Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per con-tribuire alla società”.
Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.
La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006.
Il porpo-rato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.
“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’.
Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato.
“Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.
“Ora penso ‘Perché non io?’.
Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.
Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.
Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.
Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina.
Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946.
E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955.
E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991.
Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006.
La prospettiva della sofferenza e della morte Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speran-za di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione.
È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.
Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà.
È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare.
Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi.
Gesù è il «Dio che soffre con noi».
Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologica-mente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario.
Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non e-sporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri.
È per que-sto che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica me-glio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.
L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare que-ste sofferenze in un mezzo di liberazione.
Probabilmente conosci bene le obiezioni solleva-te da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio.
Come può Dio amare davve-ro il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inuti-le? I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivi-de le loro sofferenze.
In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà.
E loro compagno nella sofferen-za.
Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino.
Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta.
È solidale con lo-ro.
Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).
«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano» Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39).
Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto.
E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amore-volmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).
Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).
È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento.
Anzi, non solo torna la salu-te, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata.
Per dirla con linguaggio figurato, le membra che ave-vano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf.
Rm 6,19).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang.
Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commen-to al Vangelo di Marco.
Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol.
1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p.
61-63).
Dammi coraggio Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.
Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.
Non darmi alleati nella lotta della vita…
eccetto la forza che mi proviene da te.
Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.
Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo; ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.
Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone; quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita, bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.
Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.
Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta: i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.
(Rabindranath Tagore) Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’in-giustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dub-bio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritro-va, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Le parole e i giorni

GIANFRANCO RAVASI,  Le parole e i giorni.
Nuovo breviario laico,  Mondadori, Milano, 2008, pp.
416, euro 19 Gianfranco Ravasi trae spunto dal vasto serbatoio culturale della cultura mondiale per il suo nuovo lavoro ‘Le parole e i giorni.
Nuovo breviario laico’.
L’autore commenta, infatti, le tante testimonianze che intellettuali, scrittori e filosofi di tutti i tempi hanno lasciato ai posteri.
Sulla falsariga del precedente ‘Breviario laico’, interpreta le parole di William Shakespeare, Lev Tolstoj, Catullo, Simone Weil, Confucio e Albert Einstein.
Brani che si presentano innervati nel Cristianesimo delle Sacre Scritture, il ‘grande codice’ della civilta’ occidentale.
L’autore presenta ‘una piccola guida per aiutare a ritagliare un perimetro quotidiano di contemplazione e di meditazione, libero dalle ortiche della banalita’ e della superficialità’.Un perimetro quotidiano che contribuisce a ritagliare, ‘un’oasi di silenzio’ con cui disinnescare le fatiche di sempre.
”Per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione.
La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino.
Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione li ha privati”.
Non è un autore spirituale o un filosofo, non è un predicatore e neppure un credente a aver scritto queste righe.
È stato, invece, uno scrittore agnostico e “indifferente” come Alberto Moravia a offrire questa considerazione nella raccolta di saggi L’uomo come fine, apparsa nel 1964.
Suggestiva è l’immagine della diga: in un mondo come il nostro così obbediente all’idolo della produttività e dell’azione, è necessario far risalire il livello dell’acqua purificatrice, fecondatrice e dissetante nel bacino della coscienza.
Nell’era tecnologica, ove impera il fare e il dire, sembra quasi provocatorio proporre una sosta di riflessione, un’oasi di silenzio, una dieta del parlare.
È significativo che Moravia rimandi a un'”energia” da riconquistare: l’anemia morale di molti uomini e donne del nostro tempo nasce proprio da una carenza di vitalità interiore.
“Per compiere grandi passi” annotava un altro scrittore, l’ottocentesco Anatole France “non dobbiamo solo agire ma anche pensare e sognare, non solo pianificare ma anche credere”.
Ebbene, questo libro intende essere come una piccola guida che aiuti a ritagliare in ognuno dei 366 giorni di un anno (compreso, quindi, il bisestile) un perimetro quotidiano di meditazione e di contemplazione, libero dalle ortiche della banalità e della superficialità.
Idealmente vogliamo con queste pagine ripetere l’esperienza fatta nel 2006 quando abbiamo proposto un primo Breviario laico che aveva allora registrato un sorprendente successo editoriale.
La parola “breviario” evoca un orizzonte religioso e fin sacrale, secondo un’antica tradizione liturgica cristiana.
Certamente le riflessioni che seguiranno recano l’impronta di quel “grande codice” di riferimento della civiltà occidentale che è il cristianesimo con le sue Scritture sacre.
Tra l’altro, a comporre e a proporre tali spunti di moralità e di interiorità è pur sempre un ecclesiastico, anzi, un vescovo.
Eppure l’aggettivo che qualifica questo “breviario” di pensieri quotidiani è, a prima vista, antitetico: “laico”, nell’accezione comune odierna (non in quella tradizionale e storica), è sinonimo di areligioso, agnostico, persino di ateo.
Vorremmo, allora, che le pagine de Le parole e i giorni fossero aperte anche a chi non varcherà mai la soglia di una chiesa, ma ha dentro di sé il fiorire delle domande, la vivacità della ricerca, il desiderio dell’introspezione (ha ragione, infatti, Puccini quando fa cantare al Principe ignoto della Turandot: “Ma il mio mistero è chiuso in me…”).
Forse il programma di questo volume potrebbe essere codificato in una delle Massime e riflessioni del grande Goethe: “La felicità suprema del pensatore è sondare il sondabile e venerare in pace l’insondabile”.
E il metodo potrebbe essere formalizzato con uno dei Pensieri di un altro grande, Pascal: “L’uomo è visibilmente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo compito; e tutto il suo dovere è pensare come sì deve”.
La “laicità” delle riflessioni proposte – nel senso più vasto dei termine – è assicurata anche dalla molteplicità delle voci che ogni giorno interverranno: esse appartengono a culture differenti, a epoche storiche distanti, a religioni diverse o anche a nessuna religione.
Ognuna ha, però, un messaggio, un’intuizione, un pensiero da comunicare, attorno al quale è possibile far fiorire una meditazione breve, un’illuminazione intima, un fremito della coscienza.
Il caleidoscopio delle citazioni si compone, dunque, in un mosaico dai mille colori e forme, al cui interno, però, si intravede un profilo: è quello dell’uomo che pensa e che ama e che quindi vive in modo vero e autentico.
Un po’ come suggerisce la tradizione indù: “Se hai due pezzi di pane, danne uno ai poveri.
Vendi l’altro e compera dei giacinti per nutrire con la loro bellezza la tua anima”.
(©L’Osservatore Romano – 5 febbraio 2009)