IV Domenica di Quaresima (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Cronache 36,14-16.19-23 In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro in-fedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora.
Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e die-dero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, es-sa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pro-nunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Per-sia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra.
Egli mi ha incari-cato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda.
Chiunque di voi appar-tiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
È Il brano che conclude la storia d’Israele scritta dal Cronista.
È una specie di grido di trionfo per la restaurazione della casa del Signore, il suo tempio.
Egli ricorda innanzi tutto la situazione degli ultimi anni di vita della città di Gerusalemme prima del 587 a.C.
al tempo del re Sedecia (vv.
14-16).
È un tempo di vera apostasia dalla religione dei padri, dal culto del vero Dio.
Si disprezza la parola di Dio annunciata dai profeti; il luogo santo, dove si adora l’unico Dio, viene profanato.
Nonostante la premura di Dio e il suo costante amore per il popolo, questi non volle convertirsi.
La situazione si fece talmente tragica che il Signore dovette intervenire.
Egli li abbandonò in mano ai babilonesi che incendiarono la città massacrarono la popo-lazione e il resto lo deportarono in esilio, lontano dalla patria.
Ma anche nelle tenebre più fitte, appare la misericordia del Signore che dona ancora una parola per mezzo del profeta Geremia, il quale annuncia il termine dell’esilio (vv.
19-21).
Nella terza parte del brano si riporta l’editto di Ciro, re di Persia, che proclamava nel 538 a.C.
la liberazione degli ebrei e l’ordine di ricostruire il tempio.
La storia del popolo, eletto da Dio, continua, perché la misericordia di Dio rimane stabile nonostante l’enormità del peccato del popolo e dei suoi capi.
Un segno di questa risurrezione del popolo è il nuovo tempio ricostruito, in cui saranno riportati i vasi sacri custoditi in Babilonia (cf.
v.
18), rendendo possibile nuovamente il culto a Dio (vv.
22-23).
Seconda lettura: Efesini 2,4-10 Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mo-strare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarse-ne.
Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.
Paolo pone la bontà di Dio all’origine della sua azione salvifica: «Dio, ricco di misericor-dia, per il grande amore con il quale ci ha amato» (v.
4).
Il luogo dove si può sperimentare ora questa misericordia è la Chiesa.
La salvezza è descritta come un passaggio dalla morte alla vita.
Questa ci viene donata «per grazia», gratuitamente, per pura bontà di Dio (vv.
5-6).
Noi siamo solidali con Cristo.
Mediante il battesimo, partecipiamo già alla sua vittoria sulla morte e abbiamo una vita nuova, ma la forza della sua risurrezione si estenderà an-che ai nostri corpi (v.
6).
Quest’opera salvifica in Gesù Cristo ha come scopo la maggior gloria di Dio.
Nell’eternità sarà manifesto ciò che già ora è realizzato (v.
7).
Dando uno sguardo al passato, Paolo annuncia il suo vangelo: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede» (v.
8).
L’uomo con le sue forze non riesce ad uscire dalle sabbie mo-bili del peccato.
Solo la mano di Dio può risollevarlo.
L’agire di Dio è del tutto gratuito (v.
9).
Le opere non sono il principio, ma il fine dell’esistenza cristiana: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (v.
10).
Anche le nostre «opere buone», che faremo, procedono dalla grazia e sono state «pre-parate» da Dio per facilitarne l’adempimento.
Dio ha voluto la nuova condizione perché l’uomo potesse realizzarle.
Vangelo: Giovanni 3,14-21 In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel de-serto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già sta-to condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giu-dizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.
Chiunque infatti fa il male, odia la lu-ce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.
Invece chi fa la ve-rità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Esegesi Con questo brano inizia la rivelazione del piano salvifico del Padre: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (vv.
14-15).
Si notino due verbi: «bisogna» e «sia innalzato».
Il primo verbo «bisogna» esprime la volontà salvifica di Dio di donarci la vita in Cristo: la croce non è un incidente di percorso.
Il secondo verbo «sia innalzato» indica appendere ad una croce, ma anche innalzare su un trono, la pienezza della regalità.
L’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,8-9) è presentato da Giovanni come segno tipico dell’innalzamento del Figlio dell’uomo e della vita eterna donata a chi guarda, vale a dire a chi crede in lui.
Segue una meditazione pasquale dell’evangelista sulla parola di Gesù, avendo anche sullo sfondo la figura di Isacco.
Contemplando Gesù innalzato sulla croce, si scopre l’amo-re sorprendente di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v.
16).
È un amore che si con-cretizza nel dare e nel mandare (v.
17).
Dio ama il mondo come si trova ora, lontano da lui e in pericolo di perire.
Quello che può privare gli uomini della vita, il loro grande peccato, è il rifiuto di crede-re in Gesù.
Di fronte alla sua missione si opera la discriminazione tra gli uomini, che cre-dono e si salvano, o non credono e si condannano.
Ma il kerygma di Giovanni ha proprio lo scopo di portare alla fede chi non crede.
Il giudizio è in rapporto alla rivelazione personale di Cristo.
È lui la luce: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (v.
19).
Le tenebre sono la situazione di rifiuto di Dio e la chiusura dell’uomo schiavo del suo egoismo.
Gli uomini scelgono.
Chi si pone dalla parte della luce, sperimenta un giudizio di salvezza.
Chi invece si colloca dalla parte delle tenebre, speri-menta un giudizio di condanna: un’esistenza destinata alla perdizione, perché le sue opere sono malvagio.
La luce è una forza giudicante e a nessuno piace sentirsi rinfacciare le pro-prie opere cattive.
Ma c’è anche «chi fa la verità» (v.
21).
Questi è colui che rinnega la sua situazione di peccato, accoglie la parola di Gesù e crede in lui.
Queste sono le opere che l’uomo può compiere solo con l’aiuto di Dio (v.
21).
Meditazione Nel cammino di purificazione e di conversione che caratterizza il tempo quaresimale, la Chiesa, attraverso la liturgia, ci guida con sapiente pedagogia, non solo orientandoci verso la Pasqua di Cristo, ma anche facendoci prendere coscienza di come la logica della morte e della vita in Cristo debba entrare concretamente nella nostra esistenza quotidiana.
Tuttavia, pur non togliendo nulla alle esigenze e alla serietà della sequela, siamo sempre richiamati dalla parola di Dio a guardare oltre le fatiche e le sofferenze di un cammino che è comunque segnato da una morte, da un esodo dal luogo della schiavitù, del peccato.
Il nostro sguardo è sempre proiettato oltre, verso il luogo della vita, il luogo della luce pa-squale, il luogo di una gioiosa comunione con quel Dio che ci è stato rivelato in Gesù.
E così le tre letture di questa quarta domenica concentrano la nostra attenzione su due realtà che formano il tessuto profondo e la dinamica non solo della storia della salvezza di un popolo, Israele, ma della storia sacra di ogni credente: l’esperienza del peccato e la fedeltà di Dio alla sua alleanza.
In 2Cr 36,14-23 scopriamo come la distruzione del tempio di Ge-rusalemme e la deportazione del popolo a Babilonia non sono l’ultima parola di Dio sulla infedeltà e sulla idolatria di Israele.
Attraverso la rilettura di questi eventi drammatici, il Cronista orienta lo sguardo verso un avvenire ricco di promesse; un re pagano sarà uno strumento nelle mani di Dio per ricostruire il tempio e il popolo potrà ritornare nella terra data ai loro padri.
È la fine dell’esilio babilonese: «chiunque di voi appartiene al suo popo-lo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!» (2Cr 36,23).
Attraverso questo sguardo di spe-ranza, che ha come fondamento la fedeltà di Dio e la sua misericordia, siamo orientati a contemplare il compimento: il dono di Dio a ogni uomo nel Figlio «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
L’uomo non può dimenticare che questo amore senza misura (Dio ha tanto amato il mondo…) è puro dono.
Paolo, a più ri-prese, insiste in Ef 2,4-10: «per grazia siete stati salvati».
Ma l’essere salvati per grazia da un Dio ricco di misericordia è molto di più di un semplice condono di peccati: la salvezza rag-giunge la sua pienezza nel nostro inserimento in Cristo mediante il battesimo, nella nostra partecipazione al mistero pasquale, che va dalla passione alla ascensione di Cristo.
Nella liturgia della Parola di questa domenica, il testo che maggiormente focalizza questa dinamica tra peccato dell’uomo e fedeltà di Dio è la pericope giovannea.
Sono alcu-ni versetti del lungo dialogo tra Gesù e Nicodemo.
È il primo dei vari incontri narrati da Giovanni, colloqui sapientemente condotti attraverso i quali viene tracciato un itinerario di progressiva scoperta del volto di Gesù e di una fede matura nella sua parola.
Per quanto riguarda la nostra pericope, si possono sottolineare tre momenti di rivelazione del volto di Cristo a cui corrisponde sempre una richiesta, una scelta da parte dell’uomo, un salto di fede.
Anzitutto è richiesto un movimento dello sguardo verso l’alto e la qualità di questo sguardo è la contemplazione: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,14-15).
L’esperienza di Israele nel deserto diventa paradigma interpretativo del mistero pa-squale di Gesù.
Come nel segno innalzato da Mosè nel deserto si manifestava il Dio salva-tore che interviene per guarire il suo popolo dalla ferita dell’incredulità, così nel Figlio del-l’uomo innalzato, il trafitto verso il quale si volgeranno tutte le nazioni (Gv 19,37), si rivela il dono di Dio per la salvezza del mondo.
Gesù ricorderà: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
Per Giovanni, l’Innalzato e il Trafitto che dona sangue e acqua, che guarisce con le sue ferite, esprime il mistero di Gesù nella sua massima trasparenza.
È uno spettacolo drammatico, sconvolgente, davanti al quale l’uomo preferirebbe abbassare gli occhi, distoglierli, perché in questa visione si scopre tutto il male di cui l’uomo è capace, tutta la violenza e l’odio che possono abitare nel cuore dell’uomo.
Eppure sembra quasi necessario (bisogna) guardare senza paura questo spettacolo, lo spettacolo della Croce.
Per-ché? Perché in esso è racchiuso il segreto nella vita, della nostra vita, il segreto della sal-vezza.
E in questo spettacolo che si rivela tutta l’umanità del Figlio di Dio (chiamato qui Figlio dell’uomo), la sua totale obbedienza al Padre (bisogna), il suo amore giunto al limite estremo (cfr.
3,16 ss.).
Questa visione apre alla seconda rivelazione, espressa in Gv 3,16: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna».
La prova radicale di questo amore di Dio che guarisce le ferite morta-li dell’uomo è il dono (che passa attraverso la morte, l’essere innalzato) del Figlio (colui che è espressione trasparente dell’amore di Dio, espressione esclusiva, l’Unigenito); e il dono non è per il giudizio, ma per la salvezza.
Così l’evento della Croce (3,14) ci fa penetrare più a fondo nel mistero di Dio stesso in quanto amore (ha tanto amato).
Dunque il segreto dello spettacolo della Croce, del trafitto innalzato, che altrimenti sarebbe incomprensibile e assur-do, sta in questa parola di Gesù, in questa seconda rivelazione.
In fondo a tutto, e non solo all’evento dell’Innalzato e Trafitto, ma anche al cuore della storia, c’è questa verità che il-lumina e che apre un orizzonte senza fine: la misericordia illimitata (tanto) di Dio per il mondo, per l’uomo, per ogni creatura che aspetta la redenzione e la liberazione dal pecca-to.
E infine, ed è la terza tappa in questa progressiva scoperta del volto di Gesù, Giovanni esprime questo dono del Figlio per il mondo con una realtà simbolica che caratterizza il suo linguaggio a partire dal prologo (cfr.
Gv 1,4-5) e che, d’altra parte, rivela anche il dramma della incredulità e del rifiuto da parte dell’uomo: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagio» (3,19).
Gesù è la luce che illumina e che evidenzia le tenebre; provoca una radicale chiarez-za sulla situazione dell’uomo, spesso falsa e mascherata dietro ad ambiguità e schemi (te-nebre).
Ma Gesù è la luce nel mondo (cfr.
anche Gv 8,12; 9, 5; 12,46) perché rivela in modo esclusivo e definitivo la realtà dell’uomo e di Dio; non c’è altro modo di vedere il volto di Dio e, alla sua luce, il volto dell’uomo.
Cosa è chiesto all’uomo? Credere (3,15.16), venire alla luce (3,20), fare la verità (3,21).
Solo attraverso questo credere noi possiamo raggiungere il segreto custodito nello spettacolo dell’Innalzato e Trafitto e comprendere il tanto amore di Dio per il mondo.
Veramente, pos-siamo allora dire, credere non è questione di adeguare l’agire di Dio alla nostra ragione ma guardare come Dio agisce nella nostra vita, nella storia, verso l’umanità.
Credere è conse-gnarsi, attraverso questo sguardo pieno di fiducia e di speranza, all’agire di Dio, a ciò che lui può fare per noi.
E proprio in Gesù ci è rivelato pienamente, senza ombra alcuna, ciò che Dio sente e vuole per noi.
Il miracolo sempre rinnovato Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più in una divinità personale, ma sare-mo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del mi-racolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione.
(D.
Hammarskjold) Un ragazzo miope Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui.
Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, que-sti ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quin-di, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui.
Così, il ragazzo era cresciuto nell’unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia.
Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leg-gere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le le-zioni.
E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampio-ni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.
Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista.
Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive.
Trovate quelle più adatte, invitò il giova-ne a guardare fuori dalla finestra.
«Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; ve-deva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali.
Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita».
Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui i-niziai a credere in Gesù.
Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stes-so come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre.
Questa fu una gran-de svolta, l’esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita.
Fu come l’inizio di una vita nuova.
So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 48-49).
Ciò che fa la differenza Mi chiedo unicamente se il Cristo buono ed evangelico ai cristiani basta.
E se gli basta c’è ancora bisogno di fede o non v’è più nulla da credere? Se vi è qualcosa da credere ri-tengo, però, non sia di molto diverso da quanto i cristiani hanno da sempre annunciato e quindi che il risorto vive, siede alla destra del Padre, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine.
Questo chi non crede, ma conosce il cristianesi-mo, lo sa molto bene poiché proprio in questo non crede ed è questo che fa la differenza.
Sul resto bene o male ci si accorda.
(Salvatore Natoli, Il cristianesimo di un non credente).
Credo Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero che non mi seduce con un miracolo e che non mi opprime con la sua autorità.
Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male, che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi lo segue.
Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette a posto le cose dall’alto, che non esercita la giustizia degli uomini.
Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio no risponde con un bacio silenzioso, credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e fa quello che voglio io, un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.
Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole indifeso perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.
Credo in un Dio che gioca a nascondino perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo, credo in un Dio che mi si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.
Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.
(Ester Battista).
Mi chiamate Redentore Mi chiamate Redentore e non vi fate redimere.
Mi chiamate Luce e non mi vedete.
Mi chiamate Via e non mi seguite.
Mi chiamate Vita e non mi desiderate.
Mi chiamate Maestro e non mi credete.
Mi chiamate Sapienza e non m’interrogate.
Mi chiamate Signore e non mi servite.
Mi chiamate Onnipotente e non vi fidate di me.
Se un giorno non vi riconosco non vi meravigliate.
(Iscrizione nel duomo di Lubecca).
II dubbio, la verità e Cristo Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiano e lo sono fino al midollo.
Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni con-trarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace.
In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo.
Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci.
Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.
(F.
Dostoevskij).
Il lungo cammino verso casa «Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio.
C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completa-mente nuovo.
Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie te-nebre sono troppo grandi per essere dissolte.
Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone.
Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere total-mente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profonda-mente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emerge-re una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento.
Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone.
Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribel-larmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga.
Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».
(H.J.M.
NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ric-chezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indiffe-renza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello).

III Domenica di Quaresima (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 20,1-17 In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla ter-ra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla ter-ra, né di quanto è nelle acque sotto la terra.
Non ti pro-strerai davanti a loro e non li servirai.
Perché io, il Si-gnore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta genera-zione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia im-punito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo.
Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è ri-posato il settimo giorno.
Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai a-dulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo.
Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asi-no, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
Il testo del Decalogo nel libro dell’Esodo è preceduto, al cap.
19, dalla grandiosa teofa-nia in cui il Signore rivela la sua presenza sul Sinai, la «montagna sacra» (19,23).
Soltanto Mosè, in rappresentanza del popolo raccoglie le «Dieci parole» che racchiudono la volontà del Signore e le riferirà agli Israeliti, che prometteranno di osservarle accettando l’alleanza (24.3).
All’inizio del cap.
20 il Decalogo è introdotto bruscamente, senza collegamento di-retto quanto precede.
Improvvisamente, Dio parla: risalta cosi l’assoluta libertà dell’inizia-tiva divina.
Il Decalogo Non deve stupire la difficoltà a individuare con sicurezza nel testo i dieci comandamen-ti come sono formulati nei catechismi.
Già nella seconda stesura (nel Deuteronomio) il De-calogo presenta qualche differenza: è poi citato con notevole libertà nei Profeti, nei Salmi, in altri scritti dell’Antico Testamento, nei Vangeli.
Basta questo a farci comprendere che la legge del Signore, benché scolpita sulle «tavole di pietra», non deriva da questo la sua so-lidità, e che non è il rispetto esteriore e formale della «lettera» che conta, ma l’accordo inte-riore del «cuore» alla parola di Dio.
Otto comandamenti su dieci hanno una forma negativa, e questa lista di divieti può ur-tare qualcuno.
Ma tutto cambia se riflettiamo che dire «cosa non bisogna fare» ci lascia molto più liberi.
Dio pone dei divieti certo; ma è vietato solo ciò che priva noi e gli altri della li-bertà; la violenza, l’assassinio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza.
Per il resto, Dio non obbliga; cosa bisogna fare, è lasciato alla nostra libertà.
Dio non comanda nemmeno di essere adorato, non chiede sacrifici (cf.
Is 1,12-13; Ger 7 22): lo stesso comandamento del sabato, più che imporre una pratica religiosa, comanda di non fare qualcosa, di astenersi dal lavoro.
Note esegetiche vv.
2-3: In positivo, la prima parola del Decalogo — il 1° comandamento nella tradizio-ne dell’Ebraismo – non è precisamente un comandamento, e impegna Dio piuttosto che l’uomo.
Dio si presenta, offre le sue credenziali: non chiede di essere obbedito senza essere conosciuto.
Per questo può dire «non avrai altri dèi»: non basta confessare che Dio è uno, la Bibbia non predica un monoteismo filosofico, astratto, «numerico».
La Bibbia dice chi è Dio, raccontando quello che ha fatto per noi.
È il Dio che libera anzi il Dio che ha liberato te, oggi: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto».
Tutto il Decalo-go discende da questa affermazione iniziale, come un torrente dalla montagna.
vv.
4-6: La formulazione del divieto dell’idolatria è in stretto collegamento con il raccon-to della creazione in Gn 1.
Dio ha fatto cielo terra e mare e ciò che contengono; ha fatto l’uomo a sua immagine; ha dato all’uomo il compito di sottomettere la terra.
Nell’idolatria, l’ordine è stravolto: l’uomo adora le creature (astri, animali…) invece di dominarle, sosti-tuisce all’immagine creata da Dio immagini di idoli fatte con le sue mani.
Invece di adorare Colui che lo ha fatto, l’uomo adora la cosa che ha fatto.
Questo rovesciamento della verità – questa menzogna – è proibito, perché Dio è geloso: la gelosia dell’amore che ha scelto l’uomo e stabilito l’alleanza, amore sovrabbondante di grazia, mille volte più del castigo (v.
5b-6).
Tutti i peccati previsti nel Decalogo hanno radice nell’idolatria.
v.
7: Invano (lašawe) indica il vuoto, la falsità, anche la magia.
«Pronunciare invano il Nome» significa trattare Dio come un idolo: qualcosa di manipolabile, di cui l’uomo possa impadronirsi per strumentalizzarlo ai suoi fini.
La stessa parola è usata nell’8° comanda-mento: la falsa testimonianza contro il fratello, immagine di Dio, è grave come il falso culto a Dio.
Una pietà esteriormente corretta e ossequiente alle regole, cui non corrisponda la giustizia nei rapporti con gli altri, riduce a menzogna il Nome del Signore.
v.
8-11 : Il comandamento del sabato è la chiave di volta del Decalogo.
Come il quarto, è formulato in positivo («ricordati»); come gli altri, è anche negativo («non farai alcun lavo-ro…»); come il primo, è motivato con la creazione (nel Deuteronomio invece, con il ricordo della schiavitù in Egitto).
Non si interrompe il lavoro, banalmente, perché è bene riposarsi; ma piuttosto per imitare, quale immagine di Dio, il riposo del settimo giorno della crea-zione.
Si tratta quindi della più alta realizzazione dell’essere uomo: il sabato è un coman-damento che riguarda Dio (la «prima tavola»), ma è anche quello che con maggiore insi-stenza parla della comunità umana («né tu, né tuo figlio….»), e l’unico in cui esplicitamente sia citato lo straniero.
Il sabato è la legge più specifica che caratterizza l’identità ebraica, e insieme la più universale, perché l’ebreo è chiamato a condividere la santità del sabato con tutta la creazione, senza distinzioni di sesso, di condizione sociale (lo schiavo), di apparte-nenza etnica o religiosa (lo straniero) e perfino umana (il bestiame).
Anche qui c’è l’accen-no all’idolatria: il potere di «fare», di costruire opere (idoli) con le proprie mani, rischia di precipitare l’uomo in un delirio di onnipotenza, se non interviene la pausa del sabato a ri-condurre tutto al Creatore.
v.
12: Il quarto comandamento, come la «prima parola», rivolge l’uomo verso l’origine.
Il «padre e la madre» sono l’anello di congiunzione fra l’uomo di oggi e ciò che lo ha pre-ceduto, fino all’origine prima; attraverso padre e madre, nella tradizione ebraica e non so-lo, si trasmette la memoria dell’azione di Dio in favore del popolo, a partire dall’Esodo, e in favore dell’umanità, a partire dalla creazione.
Perciò questo comandamento è l’unico che parli di un «premio», una conseguenza positiva per l’uomo: la vita, dono di Dio dalla creazione in poi, cui l’uomo e la donna partecipano nel generare il figlio.
Adamo generò un figlio a sua immagine (Gn 5,3): il potere di generare, purificato dalla pretesa di onnipo-tenza possessiva e iscritto nell’onore (kavôd: la gloria, riservata a Dio) reso all’origine, si oppone al fare del lavoro, che deve essere interrotto nel giorno di sabato per non diventare costruzione di idoli.
vv.
13-16: Da qui, i comandamenti della «seconda tavola» che riguardano i rapporti umani.
Non uccidere, esteso a ogni forma di violenza; non commettere adulterio, perché l’amore sponsale è figura del rapporto unico fra Dio e il popolo.
Non dire falsa testimo-nianza, in parallelo con il v.
7.
v.
17: Il nono e il decimo comandamento sono nella tradizione ebraica uno solo: il Deca-logo si conclude penetrando nel segreto del cuore, dove si nasconde il desiderio.
Non è il desiderio in sé che è peccato, ma il desiderio contro giustizia: volere tutto, senza riconosce-re alcun ostacolo, nemmeno nella sfera di ciò che attiene all’altro.
Al fondo, è ancora la pre-tesa di sostituirsi a Dio, in una volontà di potenza accaparratrice che non lascia spazio al-l’amore, che non lascia vivere, che trascina inesorabilmente alla distruzione.
Seconda lettura: 1Corinzi 1,22-25 Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cerca-no sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scan-dalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
La prima lettera ai Corinzi si apre con la polemica fra l’Apostolo e gli avversari che hanno introdotto divisioni e contrasti all’interno della comunità.
Paolo difende con passio-ne sia l’unità del Vangelo di Cristo, sia la corrispondenza della sua predicazione con que-sto Vangelo.
A propria difesa, Paolo non invoca la «sapienza del discorso», ma la fedeltà alla croce di Cristo, che non deve essere «resa vana» (v.
17).
L’argomentare di Paolo proce-de con l’audace contrapposizione fra la «sapienza degli uomini» e la «stoltezza» della parola della croce (vv.
18-21).
A questa antitesi fra la parola di Dio e la parola del mondo si colle-ga il proclama di «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v.
23).
Note esegetiche v.
22: «Giudei» e «Greci» (o «Gentili»: v.
23) rappresentavano al tempo di Paolo le due parti dell’umanità, contrapposte non tanto dal punto di vista religioso, quanto per il modo di porsi di fronte alla realtà.
I Giudei, per credere, chiedono «segni» (semeia; miracoli, pro-digi), prove storiche su cui poggiare la loro fede; i Greci cercano «sapienza» (sofia), per esse-re razionalmente convinti.
v.
23: Un’avversativa, «noi invece…», sottolinea l’assoluta novità della predicazione di Paolo: «Cristo crocifisso», e introduce il secondo binomio: scandalo/stoltezza.
Alla «prova» chiesta dai Giudei si contrappone la «pietra d’inciampo» (skàndalon), alla razionalità dei Greci la «stoltezza della croce» (morì an).
v.
24: Il contrasto fra le due coppie di termini opposti è risolto nel cuore dell’annuncio, accolto dai «chiamati», sia Giudei che Greci: per loro la debolezza della croce mostra la po-tenza di Dio, e la stoltezza ne rivela la sapienza.
La comprensione della fede consente di leggere la realtà con occhi nuovi e di riconoscere l’azione di Dio nella dedizione incondi-zionata di Colui che «amò i suoi fino alla fine» (Gv 13,1).
Il Crocifisso è «il luogo dell’agire divino potentemente e sapientemente salvifico e tale appare agli occhi dei credenti» (G.
BARBAGLIO, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB 1996, p.
143).
v.
25: All’opposizione stoltezza/sapienza viene accostata qui quella debolezza/forza.
Non si tratta di anteporre la sapienza di Dio a quella umana dichiarandone la superiorità, ma di una alternativa assoluta fra due contrari.
Non si tratta nemmeno di paragonare semplicemente due punti di vista opposti, che provocano visioni fra loro incompatibili.
La morte sulla croce rimane follia e il Cristo consegnato ai carnefici mostra la sua debolezza, liberamente scelta; ma sono la debolezza e la follia di chi soccombe alla violenza piuttosto che farsene complice, di chi vince l’odio con la sovrabbondanza dell’amore, di chi viene a guarire dall’interno il cuore malato dell’uomo.
In questo, la debolezza si mostra più forte della forza, e la stoltezza più sapiente della sapienza.
Vangelo: Giovanni 2,13-25 Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusa-lemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una fru-sta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Rispose loro Gesù: «Distrug-gete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorge-re?».
Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusa-lemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i se-gni che egli compiva, credettero nel suo nome.
Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo.
Egli infatti co-nosceva quello che c’è nell’uomo.
Esegesi La «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano poco prima della Passione, è narrata da Giovanni all’inizio del ministero pubblico.
L’evangelista vuole così sottolineare subito sia la grande novità del messaggio di Gesù, sia la continuità ideale con la predica-zione dei profeti d’Israele.
L’episodio si inserisce chiaramente in un contesto pasquale, nel-la prima delle tre Pasque di Gesù a Gerusalemme ricordate da Giovanni.
Si distinguono due brevi scene, ciascuna seguita da un versetto di commento; a conclu-sione, un sommario storico aggiunge una riflessione sulla fede autentica.
vv.
13-16: La prima scena è la cacciata dei mercanti dal Tempio.
La notazione temporale e geografica è precisa: la Pasqua «dei Giudei», così differenziata dalla Pasqua cristiana, segnala una situazione di distacco tra la comunità cristiana e la si-nagoga, già definitiva al tempo della stesura del Vangelo.
Gesù è tuttavia un ebreo osser-vante, e da Cafarnao — posta sul lago sotto il livello del mare — «sale» a Gerusalemme, a 800 m.
di altezza.
I pellegrini che provenivano da ogni parte, non solo dalla Giudea, dovevano procurarsi in loco gli animali da offrire in sacrificio e pagare la tassa di mezzo siclo al Tempio.
Spesso però essi disponevano solo di denaro romano o di altri paesi, monete non ammesse al Tempio perché coniate con effigi pagane.
Era quindi necessaria, per lo svolgimento delle pratiche religiose, la presenza nelle vicinanze del Tempio di cambiavalute e mercanti di bestiame.
La parola qui usata (hieròn) indica il recinto sacro, esterno al Tempio vero e pro-prio e comprendente il cosiddetto «cortile dei pagani», dove era consentito l’ingresso an-che ai non israeliti.
Sembra quindi eccessiva la severità di Gesù, oltre che inconsueta ri-spetto al comportamento mite che la tradizione gli attribuisce.
Tuttavia nulla è casuale o fuori luogo nel Vangelo di Giovanni.
Il gesto di Gesù è chia-ramente simbolico, che non vuol dire romanzato o fantasioso, ma al contrario, l’atto spet-tacolare rinvia a significati profondi e ricchi di conseguenze per la vita della comunità.
Ge-sù si inserisce nella tradizione profetica e ne riprende linguaggio e atteggiamenti; il suo scopo non è scardinare il culto israelitico, ma riportarlo alla purezza originaria, impedire che l’osservanza esteriore di pratiche abituali scada nella superstizione e nel formalismo.
Le sue parole sono una citazione quasi letterale di passi dell’Antico Testamento (cf.
Zac 14,21; Sal 69,10; Ger 7,11).
Alcuni commentatori notano una sottile intenzione sociale, nella linea del profeta Amos: mentre rovescia i banchi dei cambiavalute e caccia il bestiame grosso, Gesù si mostra più paziente verso i venditori di colombe, animali offerti in sacrifi-cio dai poveri.
Notare il possessivo: «la casa del Padre mio», indizio di un rapporto unico di figliolanza tra Gesù e il Padre.
v.
17: Il versetto è il commento posteriore dell’evangelista, il ricordo interpretante che a posteriori, alla luce della Pasqua e sulla falsariga della rilettura dell’Antico Testamento, spiega il senso dell’evento.
Sono commenti tipici di Giovanni (cf.
v.
22): anche nei Sinottici è sottolineata la comprensione post-pasquale dei gesti e delle parole di Gesù, che solo alla luce della risurrezione rivelano il loro pieno significato; qui c’è in più la riflessione coscien-te, la consapevolezza che la distanza temporale dall’evento ha peso per l’ermeneutica e consente una comprensione progressiva della rivelazione.
Nella citazione del Sal 69,10 il verbo è cambiato dal presente «divora» al futuro «di-vorerà», per esplicitarne il valore di annuncio profetico della Passione.
vv.
18-21: I giudei rispondono, non tanto alle parole quanto ai gesti di Gesù.
Presen-tati da Giovanni come gli avversari di Gesù, essi tuttavia hanno ben capito che il suo com-portamento ricalca quello dei profeti, perciò gli chiedono un «segno» che ne attesti l’autori-tà.
Gesù, come spesso avviene in Giovanni, risponde in forma enigmatica.
Non rifiuta di dare il segno, ma invece di ricorrere a un prodigio come si aspettavano i giudei, propone loro una sfida che può essere letta su due livelli di senso, e che lascia quindi gli avversari davanti alla scelta tra la fede e l’incredulità.
L’imperativo «distruggete» sta per un condi-zionale, come in molti oracoli profetici; Gesù gioca sul doppio senso tra il Tempio di pietre e il Tempio del suo corpo, e lascia intendere sia il nuovo Tempio dell’era messianica, sia la sua risurrezione.
La parola usata nel v.
19 non è la stessa dei vv.
14-15; naòs è la costruzio-ne al centro del Tempio, con il Santo dei Santi, il luogo in cui abita Dio.
I giudei si fermano al primo livello, quello immediato: manca loro la fede necessaria a operare il salto di senso, per giungere al secondo livello, la spiegazione dell’evangelista nel v.
21.
v.
22: Anche i discepoli però non capiscono tutto subito: Giovanni sottolinea che solo dopo hanno capito il compimento della Scrittura.
vv.
23-25: II sommario storico distingue i diversi livelli della fede.
Molti credettero ve-dendo i segni: è già un primo passo rispetto all’incredulità dei giudei, ma non è ancora la fede autentica.
Per questo Gesù non si fida pienamente: sa che non tutti reggeranno alla prova della Passione e della morte e che non tutti sapranno leggere le Scritture.
La sua ve-nuta è anche per il giudizio, nel senso inteso qui: per svelare ciò che sta nel cuore degli uomini e porli davanti alla scelta fondamentale e sincera.
Meditazione Attraverso le dieci parole dell’alleanza, pronunciate da Dio sul Sinai (Es 20,1-17), al popo-lo di Israele era stato donato un cammino di libertà per raggiungere una pienezza di vita nell’umile servizio all’unico Signore.
La Legge diventava così un luogo privilegiato di in-contro e di comunione con Dio.
Ma per Israele in cammino verso la terra della promessa vi era un altro luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: la tenda, segno di un Dio che scende incontro all’uomo, cammina con lui, lo accompagna, lo guida.
La pretesa di Davide di costruire una dimora stabile per il Signore, aveva trovato resistenze in Dio stes-so che, per mezzo del profeta Natan, aveva risposto al re: «Il Signore ti annuncia che farà a te una casa» (2Sam 7,11).
Dio non abita in un luogo fatto con pietre ma in una casa di carne viva, di cui egli stesso è garante della sua perennità.
Nonostante questo, Dio accettò un tempio costruito dalle mani d’uomo, luogo di unità e di identità per Israele, ma allargando nello stesso tempo i suoi confini: secondo l’annuncio dei profeti, esso doveva diventare re-altà simbolica dell’incontro tra Dio e ogni uomo, «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7, citato in Lc 19,49, Mc 1,17 e Mt 21,13).
La promessa fatta a Davide trova il suo com-pimento in Gesù: in lui, il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr.
Gv 1,14).
In questa prospettiva deve essere compreso il gesto di Gesù al tempio di Gerusa-lemme: esso è un segno che rivela tutta la novità che si compie nella persona di Gesù, so-prattutto in relazione a uno degli aspetti costitutivi dell’esperienza religiosa di Israele, ap-punto il tempio.
In Gesù, tempio non costruito da mani d’uomo, ognuno può incontrare il vero volto di Dio e può invocarlo come Padre.
E possiamo aggiungere che, per il quarto vangelo, l’amore di Dio che ha preso ‘carne’ in Gesù si rivelerà in tutta la sua trasparenza nel momento in cui il Figlio dell’uomo sarà innalzato; lì, volgendo lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr.
Gv 19,37, paradossalmente a quel tempio distrutto a cui fa allusione Gesù in Gv 2,19), ogni uomo potrà incontrare il volto di compassione di Dio, quel roveto ardente che brucia senza consumarsi.
L’annuncio di Cristo crocifisso – ci ricorda Paolo – diventa «per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci…
potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24).
Soffermandoci ora sul testo di Giovanni che riporta la cacciata dei venditori dal tempio (collocato dai sinottici al termine del ministero pubblico di Gesù, dopo l’ingresso in Geru-salemme), possiamo evidenziare alcuni aspetti presenti in questo singolare gesto di Gesù e nelle parole che lo commentano.
E l’attenzione deve essere posta non tanto sull’effetto del-l’azione di Gesù quanto piuttosto sul significato che esso racchiude e che apre alla com-prensione della persona stessa di Gesù.
Certamente, cacciando quei venditori che trasfor-mano la casa di Dio in un mercato (cfr.
2,16), Gesù compie un gesto tipicamente profetico che rimanda a un culto autentico, libero da ogni ipocrisia, un culto che parte dal cuore e si armonizza con la vita: il luogo dove l’uomo incontra Dio non può esser luogo di ingiusti-zia, di abuso, di idolatria.
Tuttavia lo sguardo del profeta va oltre, è puntato al futuro.
Leggendo il gesto di Gesù alla luce di Mal 3,1-4 e di Zc 14,21, non si afferma solo la santità della casa di Dio, ma anche l’autorità di Gesù su quel luogo: è la casa del Padre mio, il luogo di una relazione famigliare e intima.
Gesù è il Figlio che non può permettere che venga violata l’intimità profonda di questo luogo; in Gesù si manifesta lo zelo di cui parla il Sal 69,10 (testo che serve ai discepoli da interpretazione del gesto), lo zelo proprio di un figlio che si sente personalmente coinvolto a difendere il ‘luogo’ del Padre da coloro che ne at-tentato l’integrità, stravolgendone il senso.
Ma il significato di questo gesto subisce un ulteriore approfondimento alla luce delle pa-role che Gesù pronuncia in risposta alla richiesta di un segno da parte dei Giudei (la cui re-azione lascia già intravedere il dramma della passione).
L’icona del tempio assume una nuova luce ed essa emerge dal confronto tra Gesù stesso e il tempio (viene qui usato il termine naos che indica il santuario, la parte più sacra dell’edificio, il luogo simbolico in cui risiede la presenza di Dio).
Possiamo notare che in questo confronto il segno del tempio, come spazio della presenza di Dio e incontro con Lui, rimane; ma vengono sostituite le modalità e il luogo stesso.
Il richiamo alla distruzione e alla ricostruzione di questo tempio orientano a un futuro di novità, a un tempio ‘nuovo’.
Sulle labbra di Gesù questa realtà to-talmente rinnovata diventa una allusione al suo mistero di morte e risurrezione; il tempio distrutto e ricostruito è il corpo stesso di Gesù (cfr.
2,21).
È Gesù vivente il nuovo tempio, il luogo in cui si comunica con il Padre; in Gesù risuscitato dai morti, Dio è definitivamen-te presente agli uomini e gli uomini definitivamente presenti a Dio.
Come nota Léon-Dufour: «il corpo di Gesù, la sua carne, è la dimora della gloria di Dio…
In questo santua-rio, dove il Padre fa abitare il suo nome, si raduneranno tutti gli adoratori e saranno con-sumati nell’unità: tutti parteciperanno alla santità del Tempio, “perché noi verremo a loro e faremo in loro la nostra dimora”».
In questa scena notiamo infine la presenza attiva dei discepoli (presenza che manca nei sinottici), soprattutto attraverso il ricordo, dopo l’evento pasquale, delle parole e dei gesti di Gesù per comprenderne più a fondo il mistero.
In questa ‘memoria ecclesiale’ ci viene rivelata l’icona stupenda della Chiesa come luogo, tempio, in cui si rende presente e si in-contra il Padre rivelato a noi in Cristo.
Non vi è tempio, non vi è chiesa senza la presenza dei credenti.
Il racconto si apre così sul tempo della Chiesa che fa memoria del Cristo cro-cefisso e risorto nella eucaristia, luogo autentico dell’incontro tra Dio e l’uomo, in Gesù.
In questo spazio di comunione, ogni credente viene plasmato a diventare lui stesso tempio di Dio, luogo in cui dimorano, mediante lo Spirito, il Padre e il Figlio.
Come dice sant’Ago-stino: «Vuoi pregare nel tempio? Prega dentro di te; ma cerca prima di essere tempio di Dio, affinché egli possa esaudire chi prega nel suo tempio».
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Breve apologo insegnato dal Vedanta Una vecchia leggenda indù racconta che vi fu un tempo in cui tutti gli uomini erano dèi.
Ma essi abusarono talmente della loro divinità che Brahma, il signore degli dèi, decise di togliere loro il potere divino e di nasconderlo in un posto dove sarebbe stato loro im-possibile ritrovarlo.
Il grande problema fu dunque di trovargli un nascondiglio.
Quando gli dèi minori furono convocati in Consiglio per risolvere il problema, gli pro-posero così: «Seppelliamo la divinità dell’uomo nella terra!» Ma Brahma rispose: «No, non sarà sufficiente, perché l’uomo la scaverà e la troverà…».
Allora gli dèi replicarono: «In questo caso, gettiamo la divinità nel più profondo degli oceani!» Ma Brahma rispose di nuovo: «No! Perché presto o tardi l’uomo esplorerà le pro-fondità di tutti gli oceani, ed è certo che un giorno la troverà e la riporterà in superficie…!».
E gli dèi minori conclusero: «Non sappiamo più dove nasconderla, perché non sembra esistere, sulla terra o nel mare, un posto in cui un giorno l’uomo non possa arrivare…».
Allora Brahma disse: «Ecco quello che faremmo della divinità dell’uomo: la nasconde-remo nel più profondo di se stesso, perché è il solo posto in cui non penserà mai di cerca-re…».
Da allora, l’uomo ha fatto il giro della terra, ha esplorato, scalato, si è immerso e scava-to…
alla ricerca di qualcosa che si trova in lui…
Il segreto del nostro cuore Siamo così tornati al mistero del nostro cuore, che è il centro della nostra vita e identità umana.
È nel cuore che le nostre idee, intuizioni, emozioni e decisioni più profonde hanno la loro sorgente.
Ma è anche nel cuore che spesso ci alieniamo di più da noi stessi.
Sappia-mo poco o nulla del nostro cuore.
Giriamo alla larga, come se ne avessimo paura.
Ciò che è più intimo ci spaventa di più.
Proprio dove siamo più veramente noi stessi, siamo spesso estranei a noi stessi.
È questo il lato doloroso del nostro ‘essere uomini’.
Non riusciamo a conoscere i nostri centri nascosti, e ci capita perfino di vivere e morire senza sapere chi siamo in realtà.
Se ci chiediamo perché pensiamo, sentiamo e agiamo in una data maniera, spesso non sappiamo rispondere, e dimostriamo così che siamo forestieri perfino in casa nostra.
Il mistero della vita spirituale è che Gesù vuole incontrarci nel segreto del nostro cuore, per farci conoscere il suo amore, liberarci dalle nostre paure e farci conoscere la nostra per-sonalità più profonda.
Nel segreto del nostro cuore, perciò, possiamo imparare non solo a conoscere Gesù ma anche, attraverso Gesù, a conoscere noi stessi.
Se ci rifletti su un istan-te, vedrai un’interazione tra l’amore di Dio che ti si rivela e una crescita costante nella co-noscenza che hai di te stesso.
Ogni volta che lasci penetrare l’amore di Dio più profonda-mente nel tuo cuore, perdi un po’ della tua ansietà, e ogni volta impari a conoscerti meglio e brami di essere più conosciuto dal tuo Dio che ti ama.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 75).
Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore.
Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace.
Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio.
Es-so è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non e concesso ai malvagi.
Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto.
Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.
Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce di-scorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella.
Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te.
Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23).
Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.
Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato.
Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te.
Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.
(Imitazione di Cristo).
40 giorni nel deserto Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.
Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire.
Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo.
Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua.
Tu devi tornare nella solitudine”.
L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un conven-to?” “No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.
Angeli smemorati Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato.
Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie.
Le stelle nel firmamento brillavano dando si-gnificato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli i-stintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente.
Po-veri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stel-le ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera! “Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose: “No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso.
Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro.
Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono.
Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e pas-sano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima tro-va l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi era-no … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un signi-ficato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”! Il luogo della lotta: il cuore La vita spirituale procede da un centro intimo, un organo centrale, una radice dell’esse-re umano che la Bibbia chiama “cuore”.
Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della vi-ta psicologica e morale, dunque della vita interiore.
Luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, come di molti altri sentimenti, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: esso designa ciò che per noi è la “persona”, soprattutto la “coscienza” per-sonale.
Luogo intimo nell’uomo ma scrutato e discreto da Dio, esso è il luogo del sorgere della fede, dell’accoglienza della Parola di Dio e dei doni divini: lo Spirito santo (Galati 4,6), l’amore di Dio (Romani 5,5), la pace di Cristo la pace di Cristo (Colossesi 3,15).
Il Cri-sto stesso abita per la fede nel cuore dell’uomo (Efesini 3,17) e dal cuore sale a Dio la rispo-sta umana in forma di amore, preghiera, invocazione (Galati 4,6; Efesini 5,19; Colossesi 3,16; Marco 12,30).
Luogo dell’incontro fra Dio e uomo, il cuore è anche, secondo la Bibbia, la sede di cupidigie e di passioni: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le in-tenzioni cattive» (Marco 7,21-23): così il cuore diviene il luogo della lotta spirituale, del combattimento interiore dove si scontrano le tendenze di peccato e l’azione della grazia di Dio.
Il cuore può indurirsi nel rifiuto di ascoltare e accogliere la Parola di Dio (Matteo 13,15; Atti 28,27), può chiudersi alla compassione (Marco 3,5), può essere incapace di com-prendere e di discernere (Marco 6,52; 8,17-21), può essere doppio, cioè insincero, menzo-gnero (Atti 8,21; Giacomo 1,8; 4,8), nutrire odio e rancore (Levitico 19,17), gelosia e invidia (Giacomo 3,14).
Prima di essere consumato esteriormente, nei gesti e nelle azioni, il pecca-to viene consumato nel cuore (cfr.
Matteo 5,28).
Si tratta allora, di far spazio allo Spirito santo perché Dio possa unificare (Salmo 86,11; Geremia 32,39), purificare (Salmo 51,12), circoncidere (Deuteronomio 10,16; 30,6), rinnovare (Ezechiele 36,26-27), ricreare (Salmo 51,12) il cuore dell’uomo.
Ecco dunque il cuore come luogo della lotta invisibile, luogo do-ve può avvenire la decisione del ritorno a Dio e l’accoglienza della grazia che rende possi-bile tale ritorno, e dove avviene anche la scelta a favore della vita e la rottura con il pecca-to.
(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 142-143).
Un cuore chiuso Ti aspettavo, Signore, ma non sei venuto.
L’attesa è stata lunga, e solo tardi ho capito che non eri entrato perché il cuore non ti aspettava.
Avevi bussato alla porta: «Alzati, amica mia, mia bella e vieni! Perché l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei campi, la stagione del canto è tornata e si sente cantare la tortora.
Aprimi!».
Ma il cuore era chiuso, appiattito su orizzonti terreni.
Ma quando sei finalmente entrato, vincendo la mia sordità, ho capito, Signore, che il cuore si popola di idoli quando tu scompari, e che tu abiti, soltanto, dove ti si lascia entrare.
Se preghi per te soltanto, preghi per il tuo interesse.
S.
Ambrogio (Vittorio PERI, Pregare è dire sì, Elledici-Velar, 2005).

II Domenica di Quaresima (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La Trasfigurazione del Signore Chiesa dei Santi Giacomo e Giovanni, Milano Nella tradizione cristiana, la Trasfigurazione è sempre stata letta nella chiave del mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo e come mistero centrale anche per la vita dell’uomo, in quanto anticipo di ciò che le energie della risurrezione compiranno nella nostra carne mortale: la nostra divinizzazione.
L’umanità di Gesù è realmente il luogo vivo in cui l’uomo diventa Dio, perché, da quando il Verbo ha preso un corpo, Egli è in relazione umana con il Padre e con tutti gli uomini.
“In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).
E Paolo aggiunge, nel versetto successivo: “Voi avete in lui parte alla sua pienezza”.
Ormai è abolita la distanza tra la materia e la divinità.
Nel corpo di Cristo, la nostra carne è in comunione con il Signore della vita, senza confusione, ne separazione.
Di ciò che il Verbo ha inaugurato con la sua incarnazione e manifestato a partire dal battesimo con i suoi miracoli, la trasfigurazione fa intravedere la pienezza: il corpo del Signore Gesù è il sacramento che dona la vita di Dio agli uomini.
Nella misura in cui la nostra umanità acconsente ad unirsi all’umanità di Gesù, partecipa della natura divina (cf 2Pt 1,4).
Cristo nelle vesti bianche rigonfie, mosse dallo Spirito, si trova inserito nella tradizionale mandorla blu scura che indica due cose: anzitutto, che Cristo si rivela come Dio dunque è inaccessibile alla nostra mente, il mistero non si può scrutare; secondariamente, che Cristo nella luce del monte Tabor è la vera luce, il vero sole, tanto da oscurare i raggi del sole cosmico.
Le tenebre del mondo, anche quelle che sommergeranno Cristo nella passione, non resistono davanti all’assolutezza della sua luce.
La trasfigurazione, in realtà, è quella degli apostoli, che per un istante hanno ricevuto la grazia di vedere l’umanità del Cristo come un corpo di luce, grazia di contemplare la gloria del Signore nascosta sotto la sua kenosis.
Dopo questa breve irruzione dell’Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la vita quotidiana.
«Per mostrare la trasformazione dei mortali assunti nella tua gloria, o Salvatore, al momento del tuo secondo e tremendo avvento, sul monte Tabor ti sei trasfigurato.
Elia e Mosè parlavano con te; tu chiamasti tre dei tuoi discepoli, ed essi vedendo, o Sovrano, la tua gloria, per il tuo fulgore restarono sbigottiti.
O tu che un tempo su costoro hai fatto brillare la tua luce, illumina le anime nostre».
(Orthros della trasfigurazione nel rito bizantino).
Il Tabor e il Getsemani Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità.
Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore.
Laggiù amore e dolore si fondono.
Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta.
La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2).
La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani.
Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M.
NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).
L’immagine tra luce e ombra La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione.
Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili.
Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata.
La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce.
Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte.
Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata.
L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti.
Tutto il resto deve essere svelato e illuminato.
Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre.
[…] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa.
La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile.
I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.
I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori.
Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato.
Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini.
Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore.
L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati.
È piuttosto essa a illuminare.
La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori.
L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie.
Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.
L’immagine è tra la luce e l’ombra.
E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra.
In ogni caso la rivelazione non è il riflettore.
La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo.
I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce.
È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.
La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.
(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E.
AFFINATI et al., Saper sperare.
Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).
Una sola tenda Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole.
Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno.
Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso.
Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.
Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21).
Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto.
Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva.
[…] Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui.
San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano.
Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia.
Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto.
Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui.
Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui.
Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia.
Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione.
Credeva fosse bene ciò che diceva.
Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola».
Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo.
All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi.
Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.
(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp.
576-578) Riconoscere Cristo Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte.
C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle.
Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità.
Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge.
Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.
La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura.
Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro.
Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.
(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).
Ancora e sempre sul monte di luce Cristo ci guidi perché comprendiamo il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.
M.
Turoldo) Lectio – Anno B Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18 In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi.
Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.
Aspetti di esegesi Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito.
Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2).
Abramo esegue il volere divino.
«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).
La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8).
L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.
Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio.
All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza.
È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà.
Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.
«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).
Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento.
I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).
«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20).
La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21).
L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.
Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19).
In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio.
La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).
Seconda lettura: Romani 8,31-34 Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13).
Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.
Aspetti di esegesi «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).
L’insieme è un inno di fiducia.
Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente.
Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto.
L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande.
Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi.
Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso.
La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote.
Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi.
La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.
Vangelo: Marco 9,2-10 In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Esegesi Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20).
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro.
È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.
Aspetti di esegesi Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù.
Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio.
Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.
Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23).
Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione.
La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione.
Gesù rimane identico mostrandosi glorioso.
Lo splendore di Gesù è celeste.
La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina.
I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.
«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4).
Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie.
Essi discorrono con Gesù.
Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).
«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati».
Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6).
È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.
«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7).
La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre.
La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.
Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo.
«E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).
Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione.
L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato.
I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”.
Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).
Meditazione Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita.
In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito.
Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio.
E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana.
Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato.
Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino.
Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio.
È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.
Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli.
È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù.
Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33).
La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino.
È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29).
Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.
Notiamo solo alcuni elementi del racconto.
Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’.
Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio.
Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù.
In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).
Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte.
E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte.
Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.
Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3).
Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo.
Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza.
Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore.
È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).
Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena.
E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto.
Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4).
C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola.
E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge.
Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio.
Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola.
E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).
Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze.
La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5).
L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo.
E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia.
Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro.
Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32).
Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.
Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare.
Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme.
Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8).
Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua.
Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino.
Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31).
Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta.
Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.

la mostra “Nigra sum sed formosa”

Per gli storici dell’arte la regina di Saba è la donna bellissima che, accompagnata dalle sue ancelle e dai suoi scudieri, si inginocchia come in trance, presa da premonizione, di fronte al legno del ponte sul fiume Siloe, legno destinato a diventare un giorno la croce di Cristo.
Ed è la regale ospite desiderata e a lungo attesa accolta da re Salomone in una reggia che assomiglia al tempio dell’Alberti a Rimini o al palazzo di Luciano Laurana e di Francesco di Giorgio a Urbino.
Sto parlando, naturalmente, del ciclo affrescato da Piero della Francesca ad Arezzo.
Per Jacopo da Varagine che inventò la storia affascinante e piena di colpi di scena della scomparsa e agnizione della Croce di Cristo (vero e proprio thriller archeologico alla Indiana Jones), per i francescani che quella storia moltiplicarono negli affreschi delle loro chiese a stupore ed edificazione dei credenti, la regina di Saba era importante.
Ed era importante anche per l’iconografo (forse l’umanista Ambrogio Traversari) che suggerì a Lorenzo Ghiberti il celebre pannello della Porta d’Oro nel Battistero fiorentino di San Giovanni, dove si vede l’incontro di Salomone con la regina africana.
Correva l’anno 1439, il Concilio aveva riunito a Firenze i dignitari della Chiesa di Roma e delle Chiese d’Oriente e quella iconografia era una promessa di pacificazione fra i cristiani.
La regina di Saba era ed è ancora importante, in maniera del tutto speciale, per la gente d’Etiopia.
La storia era conosciuta in Occidente e soprattutto a Venezia fino dal Medioevo.
Lassù, fra le montagne e gli altopiani dell’Africa più remota e inaccessibile, circondato dall’Islam, c’era un popolo cristiano che praticava la fede degli apostoli.
Non solo, c’era un re che aveva per emblema il leone di Giuda e che diceva di discendere dal seme di Salomone.
Il cristianesimo etiope è un sontuoso ieratico relitto che si è conservato immune da influssi culturali esterni e da ogni contaminazione.
Il sovrano d’Etiopia, il negus neghesti (re dei re) è stato fino a ieri, fino all’ultimo imperatore Hailé Selassié, l’autocrate dei credenti e il custode di una leggendaria ortodossia giudaico cristiana.
Tutta la civiltà religiosa letteraria e artistica dell’Etiopia ha nella regina di Saba la sua pietra angolare.
Il poema epico nazionale, il Kebra Negast (la gloria dei re) databile all’inizio del xiv secolo, racconta che re Salomone e la regina di Saba si amarono, che dalla loro unione nacque una regale discendenza, che la sapienza giudaica e l’Arca dell’Alleanza, al sicuro dagli infedeli musulmani e dagli eretici cristiani, riposano sugli altopiani d’Etiopia, protette dalla spada e dalla lancia del Negus.
Molto antica e molto nobile è la civiltà letteraria e artistica dell’Etiopia cristiana, affascinante nella produzione artigianale a destinazione religiosa – argenti, icone, codici miniati – nei monasteri ancestrali, nelle città sante che replicano i luoghi di Gerusalemme, come la mirabile Lâlibalâ che porta il nome del sovrano che la edificò fra xii e xiii secolo.
Ancora sorprende e imbarazza che gli italiani, negli anni Trenta del secolo scorso, abbiano potuto umiliare e devastare tutto questo con una feroce e stolida guerra coloniale di cui oggi non possiamo che vergognarci.
Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano.
Conviene quindi chiuderlo subito.
Consola invece sapere che alla regina di Saba e alla civiltà etiopica gli italiani di oggi dedicano una mostra.
Curatori sono Giuseppe Barbieri dell’ateneo Veneziano, Gianfranco Fiaccadori della Statale di Milano, l’architetto Mario Di Salvo.
Con loro ha lavorato un folto e prestigiosissimo comitato scientifico internazionale all’interno del quale spicca il nome di Stanislaw Chojncki patriarca dei moderni studi sull’arte etiopica.
Perché un’impresa scientifica ed espositiva così impegnativa e così inusuale è stata concepita a Venezia? Perché Venezia, fra tutte le nazioni dell’antica Europa, è stata quella che ha mantenuto i maggiori e più fruttuosi rapporti con il regno d’Etiopia e che più di ogni altra ha influito nella sua storia artistica.
Si chiamava Nicolò Brancaleon il pittore veneziano che giunse in Etiopia circa l’anno 1481.
Si firmava in latino in icone arrivate fino a noi, fondò una scuola pittorica che ebbe seguito e fortuna fino al XVIii secolo.
Gli ambasciatori portoghesi che lo incontrarono nel 1520 parlano di lui come di un uomo che abitava in Etiopia da circa quarant’anni, che parlava perfettamente la lingua della nuova patria dove amava farsi chiamare Mercurio, e che era diventato ricco, potente, onorato.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Mercoledì 4 è stata presentata in Vaticano la mostra “Nigra sum sed formosa” che sarà aperta dal 13 marzo al 10 maggio all’università Ca’ Foscari di Venezia.
Pubblichiamo l’intervento del direttore dei Musei Vaticani.
“Nigra sum sed formosa”, il versetto celebre del Cantico dei Cantici, è il titolo di questa mostra coltissima e raffinata che subito chiarisce nel sottotitolo il suo obiettivo: “Sacro e Bellezza nell’Etiopia Cristiana”.
Che la sposa del Cantico dei Cantici sia figura della Chiesa o mistico emblema della Vergine Maria – come hanno pensato e scritto gli antichi esegeti cristiani – o che, più realisticamente, sia la bellissima regina africana che va incontro all’amato re Salomone, protagonista della mostra è lei, Saba; la regina che è venuta dalle profondità dell’Africa, che ha incontrato la Legge, ha profetizzato l’Incarnazione, ha dato gloria e splendore alla nazione etiopica.

Ponyo sulla scogliera

Il nuovo film di Hayao Miyazaki! Titolo originale: Gake no ue no Ponyo Titolo ad ideogramma: Titolo internazionale: Ponyo On The Cliff By The Sea Anno: 19 Luglio 2008 in Giappone Regia: Hayao Miyazaki Soggetto: Hayao Miyazaki Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Scenografie: Noboru Yoshida Capo Animatore: Katsuya Kondo Capo Colorista: Michiyo Yasuda Musiche: Joe Hisaishi canzone tema cantata da Fujioka Fujimaki e Ohashi Nozomi Durata: 100 min.
Produttore: Toshio Suzuki Distributore: Toho Data di uscita in Italia: 20 Marzo 2009 Distribuito da: Lucky Red Dvd in italiano: 2009 Il nuovo film di Hayao Miyazaki! Titolo originale: Gake no ue no Ponyo Titolo ad ideogramma: Titolo internazionale: Ponyo On The Cliff By The Sea Anno: 19 Luglio 2008 in Giappone Regia: Hayao Miyazaki Soggetto: Hayao Miyazaki Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Scenografie: Noboru Yoshida Capo Animatore: Katsuya Kondo Capo Colorista: Michiyo Yasuda Musiche: Joe Hisaishi canzone tema cantata da Fujioka Fujimaki e Ohashi Nozomi Durata: 100 min.
Produttore: Toshio Suzuki Distributore: Toho Data di uscita in Italia: 20 Marzo 2009 Distribuito da: Lucky Red Dvd in italiano: 2009 PONYO, una deliziosa pesciolina sulla scogliera Durante un Festival capita spesso che le giornate siano noiose e difficili da sopportare per le tante pellicole costretti a visionare, per fare un buon lavoro di critica, soprattutto per consigliare al meglio i nostri lettori.
Ebbene Hayao Miyazaki, l’esperto maestro di cartoni animati giapponese, da qualche anno partecipa con le sue storie animate alla competizione della Mostra di Venezia.
Nel 2008 ha deliziato tutti i cinefili con Ponyo, la tenera storia di una intraprendente pesciolina che ne combina di tutti i colori e fa vivere momenti di armonia con la natura e i sentimenti.
In questi giorni il film viene proiettato sugli schermi italiani.
Correte a vederlo con i vostri bambini.
Ecco la storia Un villaggio in riva al mare.
Sosuke, un bimbo di cinque anni, vive in cima a una scogliera affacciata su Inland Sea.
Una mattina, giocando sulla spiaggia rocciosa sotto casa, trova Ponyo, una pesciolina rossa con la testa incastrata in un barattolo di marmellata.
Sosuke la salva e la mette in un secchio di plastica verde.
Ponyo è affascinata da Sosuke e il bimbo prova lo stesso verso la pesciolina.
Le dice: “Non preoccuparti, ti proteggerò e mi prenderò cura di te”.
Ma il padre di Ponyo, Fujimoto – una volta umano e ora stregone che abita i fondali marini – la obbliga a tornare con lui nelle profondità dell’oceano.
“Voglio essere umana!” esclama Ponyo e, determinata a diventare una bimba per tornare da Sosuke, tenta la fuga.
Ma prima di farlo, versa nell’oceano l’Acqua della Vita, la preziosa riserva dell’elisir magico di Fujimoto.
L’acqua del mare si alza.
Le sorelle di Ponyo sono trasformate in enormi onde dalla forma di pesce che si arrampicano alte fino alla scogliera dove si trova la casa di Sosuke.
Il caos sprigionato dall’oceano avvolge il villaggio di Sosuke che affonda sotto i flutti marini.

I Domenica di Quaresima (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Genesi 9,8-15 Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra.
Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sa-rà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni esse-re vivente che è con voi, per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».
L’Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell’alleanza sinaitica, fino ai primordi della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico.
Di fatti Noè, tramite suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in A-bramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).
In realtà Dio aveva benedetto l’uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn 1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia ricomincia da capo.
Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf.
Gn 9,1), depone la sua ira anche se non l’ha mai avuta e torna amico dell’uomo e di tutti gli esseri del creato.
Non fa-rà più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.
Il Dio dell’antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c’è raccolta tutta la nuova umanità.
Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l’uomo è l’arcobaleno.
C’era anche prima della comparsa di Noè, ma d’ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire.
Ogni volta che apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza.
Seconda lettura: 1Pietro 3,18-22 Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i pec-cati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.
E nello spi-rito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigionie-re, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo.
Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovra-nità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo Testamento.
Soprattutto il brano della liturgia odierna.
I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecu-zioni che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si tro-vavano anche loro, i destinatari dello scritto petrino.
Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf.
Mt 26,41).
Morendo non ha fatto altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo «spirito» perciò spirituale.
È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di entrare «salire» nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di so-pra degli stessi Principati e delle Potenze.
Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.
Il potere di Gesù giudice, secondo l’autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua salvezza.
A tal proposito l’autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol, nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.
I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell’antico Testamento, ma i contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale ri-fiuto furono puniti.
Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a deter-minarsi.
Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio» che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico.
Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e Catechismo, Paideia, 1999, p.
163).
Vangelo: Marco 1,12-15 In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana.
Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vi-cino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Esegesi Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa se-guito un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con un pronunciamento programmatico.
Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima di mettersi all’opera ha bisogno di fare un po’ di chiarezza nel suo animo, di comprendere più a fondo il senso della chiamata che l’ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera più opportuna di darle esecuzione.
Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l’ascolto della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.
Un profeta sembra che abbia una veste d’obbligo da indossare, un atteggiamento incon-fondibile da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell’asprezza, come Giovanni dava a vedere.
A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano ri-spondere all’agire divino più di quello della mitezza, dell’umiltà, del nascondimento, ma nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze.
Un’immagine che a Gesù era stata fatta balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare.
L’alternativa pertanto era tra il discendente davidico e il «servo di JHWH».
Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente.
Dall’esperienza sinaitica il «deser-to» era diventato il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio.
Qui Mosè aveva parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a rinnovare l’intesa con l’Altissimo (cfr.
Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23).
Non per nulla Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito.
Quindi si tratta di una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso.
È un esame che egli dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull’attuazione che intende dargli.
I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia.
In tutti i modi segnala la durata e ricor-da il combattimento spirituale che Gesù ebbe a sostenere con Satana.
Il numero «quaranta» è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una certa esperienza.
Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant’anni nel deserto per verifica-re la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Num 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40 giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni im-piegano 40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco sinistro 40 giorni per scontare l’empietà d’Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).
Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per ve-rificare la scelta compiuta.
Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo «peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentaba-tur», si può dire iterativo, come a indicare che non fu un cimento sporadico, ma persistente per tutto il tempo trascorso nel deserto.
Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.
La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono al-l’Avversario del bene, a Satana.
Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio no-to ai suoi lettori.
Per l’uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio.
Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della sua opera, soprattutto la felicità dell’uomo.
Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento, ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova e-segesi.
La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall’intimo di ciascun uomo e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene co-mune.
Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta del padre.
Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode, onerose, umilianti.
Deve capirlo e soprattutto accettarlo.
Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menzio-na accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli».
Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l’uomo era in pace con le fiere e godeva dell’amicizia di Dio (cfr.
Is 11,6-9).
Il «paradiso» si poteva considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf.
Gv 1,51).
Il Cristo si scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine conseguirà.
Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l’apertura dell’attività messianica di Gesù.
Essa coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Bat-tista.
La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola con quella di alcun altro.
Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono.
Con lui si «compiono i tempi» dell’attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione della salvezza.
E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio.
Molti profeti l’hanno pre-ceduto ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono di Dio.
Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, a-scoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).
Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea.
Un ri-chiamo non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni.
I fatti non si po-tevano smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l’avallo delle Scritture.
Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitra-riamente, a un detto di Isaia (8,23-9.1).
I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale condizione per accogliere l’uno e l’altro.
Il «vangelo di Dio» è un’espressione propria di Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l’avve-nuta realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni che si erano verificate nel tempo tra l’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro.
Il tutto equi-valeva all’instaurazione del regno di Dio.
Non è che il Signore avviava un suo particolare dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo.
Essi saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.
Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, rico-noscere cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall’alto e conformare ad essa la propria condotta.
La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.
Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi della divinità nei confronti dei propri simili.
Il regno di Dio si realizza quando gli uomini tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio.
Il regno porta la deno-minazione di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.
Meditazione Sull’ideale portale d’ingresso della Quaresima iscriviamo l’appello di Cristo: «Converti-tevi e credete al Vangelo».
Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono co-me un colpo d’artiglio che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitu-dini consolidate dell’esistenza umana.
Noi, però, vorremmo oggi fissare la nostra attenzio-ne sulla scena della tentazione di Gesù, che Marco, anziché costruire sui celebri tre gradi di Matteo e di Luca (le pietre del deserto, il monte, il pinnacolo del tempio), semplifica in quattro frasette: lo Spirito che spinge Gesù nel deserto, la tentazione dei quaranta giorni, la vita con le fiere, il servizio angelico.
Certo, nelle solitudini dei monti di Giuda si aggiravano probabilmente i lupi, si udiva il grido lacerante dello sciacallo, strisciavano serpenti velenosi.
Questi animali, però, ora so-no evocati per costruire un quadro non geografico ma simbolico.
Il dato decisivo, infatti, è che Gesù viva in mezzo ad essi in piena armonia.
Le poche parole di Marco rimandano, al-lora, ad un celebre passo messianico di Isaia.
Nei giorni del re Emmanuele «il lupo dimo-rerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, vitello e leoncello pa-scoleranno insieme e un fanciullo li guiderà; la vacca e l’orsa pascoleranno insieme, si sdraieranno insieme i loro piccoli, il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi» (11,6-8).
L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato dal capitolo secondo della Genesi col giardino dell’Eden.
Gesù inaugura, allora, il mondo sognato da Dio e descritto proprio in quella pagina della Genesi a cui abbiamo alluso.
Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, ad essi imponeva il nome, su di essi dominava non come un ti-ranno prepotente e presuntuoso ma come guida incaricata dal Signore.
Gesù è il nuovo e perfetto Adamo che ci ripropone il mondo paradisiaco in cui Dio, uomo, animali e cosmo si intrecciano in uno stupendo arazzo di vita, di pace, di colori e di musica.
Lo stesso orizzonte riaffiora nella prima lettura, che descrive l’alleanza di Dio con Noè, l’uomo emerso dal diluvio, segno del giudizio divino sulle prepotenze e i crimini dell’u-manità.
L’arcobaleno è il simbolo dell’arco dell’ira divina, ormai deposto e non più imbrac-ciato dal Signore, giusto giudice e vindice degli oppressi.
Le acque del nulla e della morte, d’ora innanzi, saranno bloccate da Dio, nei cieli rifulgerà lo splendore di una nuova gior-nata e sulla terra si muoverà un’umanità rinnovata.
La Quaresima diventa il tempo per ri-tessere due squarci che le nostre mani hanno prodotto.
Il primo è quello aperto all’interno della trama delle relazioni con Dio.
Il Signore si affaccia dal suo mistero celeste per offrici ancora la mano in un gesto di alleanza e di riconciliazione.
Il secondo squarcio è, in questi ultimi tempi, consumato con maggior veemenza dal-l’uomo e, quindi, più drammaticamente avvertito che non in passato: tra l’uomo egoista e prepotente e la natura non c’è più fratellanza, ma tensione e ostilità.
Non siamo più in ar-monia con “sorella Terra”.
Ritroviamo, allora, anche con essa – come ha fatto il Cristo – il dialogo e l’alleanza; ritroviamo il rispetto per la creazione e la capacità di dare origine ad uno sviluppo equilibrato delle nostre relazioni con essa.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vi-ta e Pensiero, 2008-2009.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Quaresima! Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell’inverno, prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera, tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore e ci inviti a percorrere l’itinerario della Quaresima.
Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri, ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.
Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.
Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno, di avvertire quella fame profonda che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia, da tante brame che attraversano la nostra esistenza.
Strada antica, quella della Quaresima, sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.
Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo, con audacia e con gioia, perché è un percorso di liberazione, che ci conduce a sperimentare la forza e la bellezza della Pasqua.
Deserto «L’esperienza del deserto è stata per me dominante.
Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante.
Come il roveto ardente, essa brucia e non si consu-ma.
Brucia per se stessa, nel vuoto.
L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo a-scolto» (Edmond Jabès).
Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il de-serto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante.
Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo ari-do e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chor-bah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, sen-z’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali sel-vaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi.
Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attra-verso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio.
È in sostanza luogo di rinascita.
E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b 5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Ge-nesi 2,8 15).
E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1 2).
Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia.
Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla).
È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1 14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19 24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alle-anza nuziale…
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semanti-ca del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino.
Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità ari-da, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione.
Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano.
«Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2).
Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapre-so dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Ge-nesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto.
Il deserto è il luogo delle ribel-lioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11 12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5).
Anche Gesù vivrà il deserto come no-viziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11).
Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico! Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si tra-versa.
Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù.
Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza.
E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà.
Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino.
Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione.
Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa del-l’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante.
L’uomo del deserto può così ricono-scere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria.
Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversio-ne, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3).
Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso dimi-nuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di di-minuzione del deserto.
Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene ci-fra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio.
Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto.
È il deserto che è il mistero stesso di Dio».
(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità.
Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).
Soli nel deserto Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre.
Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo.
Non vediamo mai al di là delle no-stre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci.
Se ci accorges-simo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che sia-mo soli nel deserto, potremmo impazzire.
Quando mia madre offre degli amaretti di La-durée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgra-nocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.
Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139) Il deserto Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo Spirito quando si ritirò nella solitudine.
Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la violenza della persecuzione si attenui.
Non sto parlando in primo luogo del deserto dei monaci, ma di quello dei cristiani.
Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chia-mato e abilitato dalla grazia.
Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza ad-dossata al deserto: essa vive in situazione di diaspora oggi più che mai .
Noi tutti siamo come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sap-piamo trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore.
Ma nel contempo, ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profon-da povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra difesa.
(A.
Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp.
9-20).
«Fuggi, taci e prega» Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell’im-peratore Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio.
Quando era ancora a corte, l’abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato».
Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Ar-senio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto.
Indicano i tre modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.
(H.J.M.
NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).
Preghiera Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.
È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, se-guendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.
Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza.
Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.
So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.
La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita.
Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, a-zioni che siano le tue azioni.
Non vi sono tempi o luoghi senza scelte.
E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.
Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.
Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quan-do verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vi-ta di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

The Millionaire

Una domanda e venti milioni di rupie separano Jamal Malik da Latika, amore infantile e mai dimenticato.
Dopo averla incontrata, persa, ritrovata e perduta di nuovo Jamal, un diciottenne cresciuto negli slum di Mumbai, partecipa all’edizione indiana di “Chi vuol essere Milionario” per rivelarsi alla fanciulla e riscattarla (con la vincita) dalla “protezione” di un pericoloso criminale.
L’acquisita popolarità mediatica, la scalata trionfale al milione e alle caste sociali infastidiscono il vanesio conduttore che cerca di boicottarne la vittoria, ingannandolo e facendolo arrestare.
Sospettato di avere imbrogliato e torturato inutilmente, Jamal rivelerà al commissario di polizia soltanto la verità: conosceva le risposte perché ciascuna di quelle domande ha interrogato la sua straordinaria vita, devota a Latika e votata all’amore.
I personaggi del cinema di Danny Boyle contemplano tutti una magnifica ossessione, correndo a perdifiato per realizzarla.
Il consumo di eroina, di sterline, di sole o di amore crea ai suoi boys una forte dipendenza e il bisogno impellente di averne ancora.
Dopo i tossici friends di Trainspotting e dopo le odissee solari, dopo le spiagge incontaminate e dopo le sterline piovute dal cielo, il regista scozzese entra nello studio televisivo di Mumbai per osservare la vita di Jamal Malik, fino a svelarla nelle domande, fino a comprenderla nelle risposte.
Jamal è il protagonista di una favola mediatica in cui si avverano i desideri dell’uomo indiano comune (e non solo).
Padroneggiando l’estetica e il “fondamentalismo” melodrammatico del cinema bollywoodiano, Doyle mette in scena un eroe virtuoso che (da tradizione) sconfigge il male e salva i deboli senza dimenticare di mostrare le fratture presenti nella società indiana, prodotte da un sistema nel quale sopravvivono forti disuguaglianze.
Jamal è un ragazzo comune che decide di agire alla propria condizione di impotenza spalleggiato dal fratello maggiore Salim, un “angryyoung man” alla Amitabh Bachchan dotato di carisma e potere.
Duro, vendicativo e leale come l’idolo del cinema indiano degli anni Settanta, Salim è un delinquente di buon cuore che ha scelto la strada del crimine per reagire ai soprusi della metropoli.
Nella Mumbai della loro infanzia i “due moschettieri” sviluppano personalità opposte che determineranno destini profondamente diversi.
Latika, tra loro, a unirli e a separarli, è da convenzione elemento femminile e decorativo la cui debolezza esalta la virilità maschile.
Danny Boyle interpreta e utilizza con competenza la musica, un’altra componente essenziale del cinema popolare e della cultura indiana.
Sostenuto dal ritmo e dalle note di Allah Rakha Rahman, uno dei più grandi compositori indiani di soundtracks, il regista usa le canzoni in funzione narrativa, lasciando che la musica si fonda con le immagini, sottolineando e guidando le emozioni.
Autore versatile, che attraversa incolume generi ed estetiche, Danny Boyle gira un film che riposa nell’alternanza del suo fortissimo e del suo pianissimo, in quella brusca scansione tra dolly sconfinati e scontri di classe, assoli sentimentali e crudeltà brutali.
Tra il volo di una stella in elicottero e il tuffo di un bambino nella latrina più sporca (e lirica) di tutta l’India.
The Millionaire (mymonetro 3,50 stelle) Un film di Danny Boyle.
Con Dev Patel, Anil Kapoor, Freida Pinto, Madhur Mittal, Irfan Khan.
Mia Drake, Imran Hasnee, Faezeh Jalali, Shruti Seth, Anand Tiwari Titolo originale Slumdog Millionaire.
Commedia, durata 120 min.
– Gran Bretagna, USA 2008.
– Lucky Red data uscita 05/12/2008.
Il film di Boyle è un caso artistico e produttivo, interessante ed esemplare.
Partito in sordina, senza grandi finanziamenti, soltanto con una sceneggiatura decisamente ispirata, ha trovato un produttore coraggioso, Christian Colson che si è addentrato insieme al regista inglese nei vicoli sudici di Mumbai; ha reclutato la gente che li abita; e ha loro affiancato alcuni attori professionisti legati agli studi di Hollywood.
Protagonista però è Mumbai, è l’India che vi si rispecchia, con le sue contraddizioni, luogo emblematico in cui disperazione e speranza riescono perfettamente a convivere.
Jamal, cresciuto tra cumuli di immondizia e indicibili violenze, conquista le vette del successo partecipando a un noto gioco televisivo che innesca una storia ricca di sentimenti e verità, nella quale tutti si possono facilmente identificare condividendo le ansie e le paure, gli amori e i sacrifici dei giovani protagonisti.
l’Oscar del 2009 sarà ricordato proprio per il confronto, accesissimo e ben costruito, tra le tredici candidature di The Curious Case of Benjamin Button di David Fincher e le dieci di The Millionaire di Danny Boyle, costato il primo 150 milioni di dollari ed esattamente un decimo il secondo, perché girato senza divi, senza effetti speciali, senza scene imponenti e costosi costumi, illuminato e sorretto soltanto da un perfetto e accattivante congegno narrativo.
Così l’originale e drammatica avventura umana del giovane neo-milionario indiano Jamal ha vinto meritatamente otto statuette – tra le quali miglior film, regia, sceneggiatura non originale, fotografia e montaggio – sbaragliando la curiosissima vita del misterioso anziano americano Benjamin, che ne ha ricevute soltanto tre, e tutte di carattere tecnico.

Classe prima – Marzo

 VII unità di apprendimento:  “Gesù racconta…”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO  Conoscenze  Abilità  * Gesù di Nazaret, l’Emmanuele “Dio con noi”.   * Descrivere l’ambiente di vita di Gesù nei suoi aspetti quotidiani, familiari, sociali e religiosi.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire che Gesù utilizza le parabole per trasmettere i suoi insegnamenti  • Capire che ogni parabola racchiude un messaggio  Suggerimenti operativi   • Spiegare ai bambini che Gesù parlava con tutte le persone: bambini, adulti, sapienti, non istruiti…
Per farsi capire usava un linguaggio semplice e dei racconti speciali: le parabole, per trasmettere i suoi insegnamenti…
• Leggere il testo della parabola della pecorella smarrita (utilizzare una Bibbia illustrata, in modo da associare alle parole anche le immagini dei vari momenti del racconto).  • Rappresentare la parabola assegnando a ogni bambino un ruolo (le pecorelle, la pecora smarrita, il pastore, Gesù, la folla), e ripetere la drammatizzazione più volte per fare in modo che i bambini si possano immedesimare nei loro ruoli.
• Riflettere su emozioni/sentimenti provati nel racconto della parabola e sulle caratteristiche dei vari personaggi.  • Individuare il messaggio trasmesso da Gesù e sul quaderno rappresentare la scena che ogni bambino ritiene più significativa.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
7: Ogni bambino ha diritto ad avere un’identità.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.

Sperare nell’uomo

GIORGIO CHIOSSO (ed.), Sperare nell’uomo.
Giussani, Morin, MacIntyre e la questione educativa, Sei Frontiere, 2009 Che cosa hanno in comune un prete italiano che ha dedicato la propria vita all’educazione dei giovani, un intellettuale francese che ha proposto una “riforma del pensiero” per indagare la complessità del mondo e un filosofo americano che ha individuato nella dimensione della comunità un antidoto contro l’individualismo del nostro tempo? La risposta sta forse in tre opzioni che accomunano i tre protagonisti di questo volume, pur nella diversità dei loro approcci: una grande fiducia nell’uomo e nella condizione umana; una tenace resistenza contro le tendenze relativistiche del nostro tempo; il netto rifiuto di pensare l’uomo in termini di semplice adattamento alle regole della vita sociale.
E quasi a unificare questi tre fondamenti della loro riflessione, un’esplicita vocazione educativa segnata dal valore riconosciuto all’uomo in quanto capace di senso, di comprensione, di relazione con gli altri.
Come scrive Giorgio Chiosso nelle pagine introduttive: “Alla visione utilitaristica che segna larga parte della scuola e dell’educazione condizionate dal mercato e dal conseguente esasperato specialismo, Giussani, Morin e MacIntyre oppongono la priorità della formazione di un uomo consapevole di sé, capace di senso critico, solidale con gli altri “terrestri” (per usare l’espressione di Morin) che con lui condividono la condizione umana”.
Per illustrare queste posizioni, serve naturalmente una pluralità di punti di vista: è quello che fa questo volume, chiamando a raccolta pedagogisti e psicologi come Roberto Sani, Concepciòn Naval e Piero Quaglino; sociologi, come Luciano Gallino, Sergio Manghi e Guglielmo Malizia; storici e filosofi come Giovanni De Luna, Enrico Berti, Massimo Mori.
Ma anche economisti e giuristi, come Lorenzo Caselli e Mario Dogliani.
Contro la tentazione di concepire l’educazione come residuale, come un bene semplicemente da usare e scambiare dentro un mercato senza senso se non quello economico.

Primo biennio – Marzo

VII unità di apprendimento: “La storia degli Ebrei continua”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze  Abilità  * Gesù, il Messia, compimento delle promesse di Dio.
* Ricostruire le principali tappe della storia della salvezza, anche attraverso figure significative.
OBIETTIVI FORMATIVI • Conoscere i momenti principali della vita di Mosè e il suo ruolo nella storia della salvezza.
• Scoprire che Dio si schiera dalla parte degli oppressi e dei perseguitati.
 Suggerimenti operativi   • Riprendere la storia del popolo ebreo con i personaggi già conosciuti e inserire nella continuità la vicenda di Mosè.
Collegarsi con lo studio affrontato in storia sulle principali civiltà dell’epoca.
• In ogni lezione raccontare a tappe la vita di Mosè e il suo ruolo nella storia ebraica.
Utilizzare una Bibbia illustrata o a fumetti, con un adattamento del testo.
• Dividere i bambini a coppie o a gruppetti e dare a ognuno la consegna di rappresentare una scena della vita di Mosè.
A turno, ogni gruppo, scriverà al computer una frase di commento da accompagnare al proprio disegno.
Riunire il lavoro in un libro o in un cartellone.
• Sottolineare come Dio sia venuto in soccorso del popolo ebreo che era schiavo e sofferente; ricordare che ancora oggi ci sono popoli perseguitati.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine, storia, informatica Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
6: Ogni bambino ha diritto di vivere.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.