In cerca del padre

L’evoluzione della nozione di paternità in Occidente nell’arco temporale che va dalla Rivoluzione francese ad oggi è l’oggetto di questo studio.
Una vicenda dai molti protagonisti e dalle numerose sfaccettature, risultato di piani complessi che variamente s’intersecano, a volte in anticipo altre in ritardo, alternando momenti di sintonia a stridenti contrapposizioni, l’ultima delle quali è forse solo agli inizi.
La vicenda prende le mosse dall’impostazione romanistica che sino al Novecento, in assenza di indicazioni biologiche, ha cercato di risolvere l’incertezza della paternità affidandone l’individuazione all’ordinamento giuridico, che poggiava sulla volontà implicita o esplicita dell’uomo di essere padre, in uno schema sostanzialmente proprietario.
Solo nel corso del xx secolo le analisi ematologiche prima e quelle sul Dna poi, sono state in grado di fornire elementi precisi, rendendo possibile superare l’antica presunzione giuridica.
Si è trattato tuttavia di un punto d’arrivo ben presto superato, poiché le nuove tecniche di fecondazione assistita, attraverso l’inseminazione eterologa, hanno costretto a ridefinire la nozione di paternità a prescindere dal mero dato biologico.
Ciò ha determinato un paradossale ritorno all’antico, riattribuendo al diritto – pur su basi nuove – il compito di individuare il padre.
Già questa sintesi mostra le difficoltà di ricostruire un percorso in cui ambivalenze e contraddizioni sono in costante agguato, poiché ogni nuovo tassello risolve un problema ma ne crea di nuovi.
E ciò, se è vero in generale, risulta amplificato nella vicenda della paternità che investe il momento più intimo e fondante delle relazioni umane.
Fortemente radicata sul piano affettivo e domestico, la paternità è un termometro significativo dei mutamenti sociali, in cui si intersecano vissuti personali, disposizioni legali ed evoluzione scientifica in una dialettica elicoidale, fonte di drammi e di progresso.
È una storia di esistenze concrete, di uomini che hanno avuto figli, negandoli o amandoli, dimenticandoli o rincorrendoli.
Ma è anche la storia di quei bambini, e degli adulti che diventeranno; delle donne che li hanno partoriti e delle relazioni – spesso drammatiche – che hanno avuto con quei padri.
(…) Nella vicenda il piano giuridico è stato sempre presente in tutte le sue sfaccettature.
Il ruolo che il diritto ha esercitato si è però trasformato nel tempo, passando dalla funzione di attribuire o di negare la paternità, a quella più modesta di registrarla.
E quale debba essere il suo ruolo oggi è questione aperta.
Il passaggio non è stato facile.
Il diritto non ha rinunciato di buon grado al suo compito.
Né molti padri, reali e concreti, sono riusciti ad accettare e interiorizzare la rivoluzione copernicana di una paternità completamente sfuggita al loro controllo, e, quindi, alla loro volontà.
Quanto alle conoscenze scientifiche, il dato di partenza, millenni prima dell’età contemporanea, era davvero scoraggiante: come ha scritto Marco Cavina, “la preistoria non conosceva i padri, anzi si potrebbe forse dire che la storia dell’uomo prenda inizio con la scoperta del padre” (estraneità non facilmente accettata, tanto che l’uomo tentò di rimediare ricorrendo, ad esempio, alla pratica della couvade).
Una volta riconosciuto il ruolo maschile, sorse il problema di “quale maschio” avesse concorso a “quale nascita”, un problema che ha caratterizzato la storia di tutte le civiltà patriarcali.
Se nel Novecento i progressi scientifici hanno impostato su basi completamente nuove la ricerca del padre, oggi tutto questo sembra essere messo irreparabilmente in crisi dalla fecondazione eterologa.
Nella misura in cui scienza e Dna risultano prescindibili, diventa preminente la questione del ruolo, il fatto cioè che l’uomo si comporti come un padre.
Peraltro, nemmeno quest’enfasi sul ruolo parrebbe una novità, trattandosi – ancora una volta – di un ritorno all’antico.
(…) Va da sé che, nella misura in cui si supera il dato biologico e genetico, il discorso sulla paternità indicata dalla natura e rivelata dalla scienza – a prescindere dalla volontà dell’uomo – salta completamente.
Se si ricorre al seme altrui per diventare padre, per rendere il proprio compagno padre o per dare un padre al figlio, è evidente che la volontà diventa il deus ex machina dell’intero processo: è dall’incontro tra la scienza medica e la volontà dei soggetti coinvolti che nasce un bambino.
(…) Siamo davvero davanti ad uno snodo molto delicato: orientarsi tra una paternità biologica e una paternità di decisione e di affetti non è più una questione astratta.
E se è vero che viviamo in società in cui la scelta e la volontà acquistano un peso sempre più notevole in termini di vita e di morte, di nascita e di salute, occorre vedere se saremo in grado di assumerne, in termini innanzitutto sociali, le conseguenze.
(…) Le pagine che seguono mettono in luce l’evoluzione sottesa all’implicito interrogativo del titolo: In cerca del padre intende evocare una duplicità di piani, richiamando un nodo esplicito ed immediato – chi sia il padre del nato – e uno più nascosto e vitale – cosa faccia di un uomo un padre.
Già da queste prime considerazioni emerge tutta la complessità della figura in età contemporanea.
Ad esemplificare il quadro, ci può aiutare un passaggio del romanzo di Philip Roth, Patrimonio.
L’autore ascolta una telefonata tra il suo anziano genitore Hermann (“non era un padre qualunque, era il padre, con tutto ciò che c’è da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare”) e l’amica Lil.
“Sentii che le diceva: “Philip è come una madre, per me”.
Rimasi sorpreso.
Credevo che avrebbe detto “come un padre”, ma la sua descrizione era, in realtà, più sottile delle mie banali aspettative, e al tempo stesso molto più flagrante, impassibile e invidiabilmente, spavaldamente schietta”.
Questo passaggio coglie il nocciolo del nostro tema.
di Giulia Galeotti (©L’Osservatore Romano – 8 febbraio 2009  GALEOTTI GIULIA , In cerca del padre.
Storia dell’identità paterna in età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009, ISBN: 8842086584, pagine 277, euro 20.
L’atto di definire il vincolo che lega un uomo alla sua discendenza è stato per secoli materia di diritto.
Fino al Novecento, infatti, l’impossibilità di stabilire con certezza chi fosse il padre biologico di un nascituro ha reso determinante l’azione giuridica del riconoscimento.
Solo nel corso del XX secolo i progressi della scienza medica sono intervenuti a sovvertire una prassi: le analisi ematologiche, prima, e poi, in maniera definitiva, gli studi sul DNA hanno reso possibile accertare senza ombra di dubbio l’identità paterna.
La scienza ha soppiantato così il diritto in una funzione delicata e gravida di conseguenze, anche simboliche, sull’impianto stesso della società.
Oggi assistiamo a un’ennesima transizione, al punto che si potrebbe parlare di “terza fase” della paternità; il forte sviluppo delle tecniche di fecondazione assistita, sempre più sofisticate ed efficaci, sta rendendo obsoleto un concetto di paternità basato sul dato naturale e biologico.
Con un paradossale ritorno all’antico, si riattribuisce al diritto, sia pure su basi nuove, il compito di individuare il padre.
Tra scienza, prassi sociale e vicende giuridiche, Giulia Galeotti indaga l’evoluzione di un concetto delicato e multiforme, gravido di conseguenze (anche simboliche) sull’impianto stesso della società.

Le parole e i giorni

GIANFRANCO RAVASI,  Le parole e i giorni.
Nuovo breviario laico,  Mondadori, Milano, 2008, pp.
416, euro 19 Gianfranco Ravasi trae spunto dal vasto serbatoio culturale della cultura mondiale per il suo nuovo lavoro ‘Le parole e i giorni.
Nuovo breviario laico’.
L’autore commenta, infatti, le tante testimonianze che intellettuali, scrittori e filosofi di tutti i tempi hanno lasciato ai posteri.
Sulla falsariga del precedente ‘Breviario laico’, interpreta le parole di William Shakespeare, Lev Tolstoj, Catullo, Simone Weil, Confucio e Albert Einstein.
Brani che si presentano innervati nel Cristianesimo delle Sacre Scritture, il ‘grande codice’ della civilta’ occidentale.
L’autore presenta ‘una piccola guida per aiutare a ritagliare un perimetro quotidiano di contemplazione e di meditazione, libero dalle ortiche della banalita’ e della superficialità’.Un perimetro quotidiano che contribuisce a ritagliare, ‘un’oasi di silenzio’ con cui disinnescare le fatiche di sempre.
”Per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione.
La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino.
Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione li ha privati”.
Non è un autore spirituale o un filosofo, non è un predicatore e neppure un credente a aver scritto queste righe.
È stato, invece, uno scrittore agnostico e “indifferente” come Alberto Moravia a offrire questa considerazione nella raccolta di saggi L’uomo come fine, apparsa nel 1964.
Suggestiva è l’immagine della diga: in un mondo come il nostro così obbediente all’idolo della produttività e dell’azione, è necessario far risalire il livello dell’acqua purificatrice, fecondatrice e dissetante nel bacino della coscienza.
Nell’era tecnologica, ove impera il fare e il dire, sembra quasi provocatorio proporre una sosta di riflessione, un’oasi di silenzio, una dieta del parlare.
È significativo che Moravia rimandi a un'”energia” da riconquistare: l’anemia morale di molti uomini e donne del nostro tempo nasce proprio da una carenza di vitalità interiore.
“Per compiere grandi passi” annotava un altro scrittore, l’ottocentesco Anatole France “non dobbiamo solo agire ma anche pensare e sognare, non solo pianificare ma anche credere”.
Ebbene, questo libro intende essere come una piccola guida che aiuti a ritagliare in ognuno dei 366 giorni di un anno (compreso, quindi, il bisestile) un perimetro quotidiano di meditazione e di contemplazione, libero dalle ortiche della banalità e della superficialità.
Idealmente vogliamo con queste pagine ripetere l’esperienza fatta nel 2006 quando abbiamo proposto un primo Breviario laico che aveva allora registrato un sorprendente successo editoriale.
La parola “breviario” evoca un orizzonte religioso e fin sacrale, secondo un’antica tradizione liturgica cristiana.
Certamente le riflessioni che seguiranno recano l’impronta di quel “grande codice” di riferimento della civiltà occidentale che è il cristianesimo con le sue Scritture sacre.
Tra l’altro, a comporre e a proporre tali spunti di moralità e di interiorità è pur sempre un ecclesiastico, anzi, un vescovo.
Eppure l’aggettivo che qualifica questo “breviario” di pensieri quotidiani è, a prima vista, antitetico: “laico”, nell’accezione comune odierna (non in quella tradizionale e storica), è sinonimo di areligioso, agnostico, persino di ateo.
Vorremmo, allora, che le pagine de Le parole e i giorni fossero aperte anche a chi non varcherà mai la soglia di una chiesa, ma ha dentro di sé il fiorire delle domande, la vivacità della ricerca, il desiderio dell’introspezione (ha ragione, infatti, Puccini quando fa cantare al Principe ignoto della Turandot: “Ma il mio mistero è chiuso in me…”).
Forse il programma di questo volume potrebbe essere codificato in una delle Massime e riflessioni del grande Goethe: “La felicità suprema del pensatore è sondare il sondabile e venerare in pace l’insondabile”.
E il metodo potrebbe essere formalizzato con uno dei Pensieri di un altro grande, Pascal: “L’uomo è visibilmente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo compito; e tutto il suo dovere è pensare come sì deve”.
La “laicità” delle riflessioni proposte – nel senso più vasto dei termine – è assicurata anche dalla molteplicità delle voci che ogni giorno interverranno: esse appartengono a culture differenti, a epoche storiche distanti, a religioni diverse o anche a nessuna religione.
Ognuna ha, però, un messaggio, un’intuizione, un pensiero da comunicare, attorno al quale è possibile far fiorire una meditazione breve, un’illuminazione intima, un fremito della coscienza.
Il caleidoscopio delle citazioni si compone, dunque, in un mosaico dai mille colori e forme, al cui interno, però, si intravede un profilo: è quello dell’uomo che pensa e che ama e che quindi vive in modo vero e autentico.
Un po’ come suggerisce la tradizione indù: “Se hai due pezzi di pane, danne uno ai poveri.
Vendi l’altro e compera dei giacinti per nutrire con la loro bellezza la tua anima”.
(©L’Osservatore Romano – 5 febbraio 2009)

Il dubbio

Il dubbio – scritto e diretto da John Patrick Shanley Il tema è uno dei più scottanti: le supposte molestie sessuali da parte di un prete nel mondo cattolico statunitense, proprio là dove si sono levate, negli ultimi anni, una incredibile quantità di denunce contro i sacerdoti locali, tanto da far scoppiare una crisi che non è ancora stata del tutto riassorbita.
Ma il film Il dubbio – scritto e diretto da John Patrick Shanley, interpretato magistralmente dai premi Oscar Meryl Streep e Philip Seymour Hoffman – affronta il tema, così scottante, con pudore e delicatezza, facendo capire, soprattutto, come in questi casi sia veramente difficile scoprire la verità.
Perché, in assenza naturalmente di confessioni, la ricerca della verità si basa sull’interpretazione di un gesto che può anche essere solo di amicizia e di sostegno per un ragazzo particolarmente debole.
Un gesto che può far parte del modo di essere di una personalità di prete estroversa, ma proprio per questo capace di suscitare l’affetto e l’interesse dei parrocchiani.
Nel film, infatti, lo scontro si svolge fra due figure di religiosi straordinariamente diverse: un prete irlandese appunto espansivo e allegro, da una parte, e dall’altra una suora, direttrice della scuola annessa alla parrocchia, gelida e apparentemente solo ligia alle regole, priva di calore umano.
Entrambi si impegnano per proteggere un ragazzo nero di famiglia povera, debole e bisognoso di aiuto, ma in modo completamente diverso.
E se, all’inizio, siamo portati a stare dalla parte del prete allegro e affettuoso, che vuole dare protezione al ragazzo, poi il film ci porta a pensare, attraverso lo sguardo della suora, che forse non si tratta solo di protezione, e che chi difende veramente il ragazzo dalle molestie del prete è, invece, proprio la direttrice.
In mezzo ai due, la figura della madre, talmente debole da accettare qualsiasi cosa pur di vedere il figlio promosso e possibilmente accettato in una scuola superiore, per garantirgli la fuga da un mondo duro e violento – quello del padre – al quale non è adatto.
Tante, e diverse, sono le ragioni, tanti i comportamenti possibili, in una società che vede affrontarsi un uomo in apparenza più forte, e una donna, che teme sempre inganno e sopraffazione da parte degli uomini, anche se preti.
Vediamo così contrapporsi due modi diversi di vivere la fede, e quindi l’educazione dei ragazzi: uno più moderno e permissivo, allegro e affettuoso – ma forse bacato all’interno – e un altro severo, disciplinato, poco propenso al concedere gratificazioni, ma attento alla difesa della dignità dei ragazzi.
Non sapremo mai, alla fine, se il prete è veramente colpevole: anche se molto sembra testimoniare contro di lui, il dubbio finale della superiora accusatrice riapre ogni questione.
Il film è molto bello proprio perché fa capire come sia facile sospettare, e leggere ogni azione come conferma di un sospetto, quando a suffragare il dubbio sia la differenza tra visioni diverse della fede e dell’educazione, financo una certa antipatia personale.
E come il ruolo di educatore e la vicinanza con i ragazzi – indispensabile per seguirli e comprenderli, per difendere i più deboli e aiutarli ad affrontare la vita – possa facilmente scivolare in rapporti troppo personali, troppo affettuosi.
Ed è estremamente significativo che proprio dalla cultura americana, attraversata drammaticamente in anni recenti dal fenomeno degli abusi sessuali di una piccola parte del clero, sia venuta una riflessione così attenta, così profonda, sul tema del sospetto e della denuncia, che ne rivela la complessità e, insieme, la difficoltà di chiarire e di raggiungere la verità.
È un film che invita a controllare i sospetti, a passarli a un severo vaglio di coscienza, in modo da purificarli da antipatie personali, competizioni, divergenze nel modo di concepire il lavoro e la missione religiosa, perché arrivare alla verità è un risultato purtroppo difficile da raggiungere su questioni così spinose.
Ed è facile rovinare delle vite, e al tempo stesso danneggiare la Chiesa, pur di credersi nel giusto.
di Lucetta Scaraffia (©L’Osservatore Romano – 6 febbraio 2009)

V Domenica del tempo ordinario anno A

Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7 Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».
Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è desti-nato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).
Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al ver-setto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope.
Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili.
Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fonda-mentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dal-l’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui.
Il «vedere» di Giobbe e di Dio.
Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente al-ternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio.
«L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1).
Il paragone della vita è il servizio militare (cf.
Gb 14,14) duro, sen-za possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato.
A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf.
Gb 14,6) e lo schiavo.
La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf.
Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dal-lo schiavo (Gb 7,2).
Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).
Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti.
Egli insiste sull’insonnia.
La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica.
Le ore della notte sembrano intermina-bili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo con-forto.
La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf.
3,6, 9,25).
Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf.
19,20; Ab 3,16).
La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo.
Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio, come il responsabile ultimo della vita.
A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita u-mana.
Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, per-ché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale.
Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10).
L’immagine del vedere è molto insi-stente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).
Il Salmo 146 (147), di cui è riportata la prima parte, ci presenta Dio Signore della storia e del cosmo; è un inno di lode e di ringraziamento.
È interessante l’accostamento del grido di Giobbe che si chiede che valore abbia la vita provata dal dolore e un inno che esalta la potenza, la fedeltà, la giustizia e la misericordia di Dio.
Secondo la dinamica biblica dob-biamo tenere insieme dialetticamente questi elementi apparentemente inconciliabili.
Dio è padrone del cosmo tanto che chiama le stelle per nome (Sal 147, 4); è fedele alle sue pro-messe e «ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi di Israele» (Sal 147, 2); è giusto, ma al tempo stesso è misericordioso e pieno di tenerezza verso le creature tanto che «sostiene gli umili, ma abbassa fino a terra gli empi» (Sal 147, 6).
Spesso, però, l’esperienza sembra contraddire in pieno questa presentazione dell’opera divina, i conti non tornano: gli empi prosperano e i giusti sono pieni di guai.
Allora ai momenti di lode si alternano quelli della domanda insistente a Dio, perché non taccia, ma risponda ai nostri angosciati interrogati-vi, come fa Giobbe e lo stesso Gesù che rivolge a Dio sulla croce la domanda del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), Seconda lettura: 1 Corinzi 9,16-19.22-23 Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato.
Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero.
Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno.
Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense ma-teriali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa.
Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire.
Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».
Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi.
E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce.
Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf.
1Ts 2.9).
Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predi-care.
Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, sen-za nessuna imposizione.
Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno.
Paolo dunque proclama di essersi mes-so in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto del-le loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22).
Il Van-gelo non va predicato e basta.
Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo ac-cettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).
Vangelo: Marco 1,29-39 In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni.
La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei.
Egli si avvicinò e la fece al-zare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati.
Tutta la città era riunita davanti alla porta.
Guarì molti che erano af-fetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non per-metteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, usci-to, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava.
Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce.
Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!».
Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E an-dò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Esegesi La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guari-gione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf.
Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf.
Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf.
Mt 4,23).
Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni.
La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo fami-liare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.
Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf.
1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.
Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione.
I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suo-cera, che del resto rimane nell’anonimato.
Il verbo puresso avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.
Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano».
In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda al-la febbre di lasciarla.
La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre.
Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.
Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».
Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neu-tro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».
«Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.
Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due ter-mini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».
Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34).
È ricorren-te in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità.
Vengono tacitati i de-moni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37).
Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9).
Soltanto con la ri-surrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente.
Tale teoria risale a W.
Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formu-lata da questo autore.
Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo.
Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare.
Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35).
Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la pre-ghiera di Gesù.
Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21).
Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12).
Mentre è un’al-tra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf.
Lc 9, 28-29).
A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).
Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che se-guiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio.
Possiamo pensa-re, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’o-pera finora compiuta secondo il volere del Padre.
Tale opera è predicare.
I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf.
Mc 1,15).
Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).
«E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf.
1,34; 7,29; 16,9).
È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predica-zione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno del-la vicinanza del regno di Dio (cf.
Mt 12,28).
Meditazione Di fronte a ogni sofferenza che sfigura il volto dell’uomo, di fronte alla solitudine e alla impotenza generate dal dolore, non sappiamo cosa pensare.
Rifiutiamo ogni sorta di giu-stificazione e finiamo per dibatterci in un groviglio di interrogativi che, alla fine, giungono a chiamare in questione Dio stesso e a domandargli ragione del dolore, dell’ingiustizia, della assurdità del male che viviamo o vediamo attorno a noi.
Rimbalziamo così a Dio quella domanda che Lui stesso aveva fatto all’uomo, quando si era nascosto al suo sguar-do, dopo il peccato: Adamo, dove sei?…
Dio dove sei?.
È questo in fondo il dramma di Giobbe, di cui la liturgia della Parola di questa domenica ci offre un piccolo squarcio.
«Notti di af-fanno mi sono state assegnate…
i miei giorni svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,3.6): così Giobbe percepisce l’inutilità della sua vita.
Ma ha il coraggio di rivolgersi a Dio facendogli memoria della sua responsabilità di fronte all’uomo e alla sua sofferenza.
Dio stesso ha creato l’uomo così debole e allora? «Ricordati che un soffio è la mia vita…» (Gb 7,7).
Sulle labbra di Giobbe la preghiera si trasforma spesso in grido di ribellione, in accusa nei riguardi di un Dio che sembra contraddire il suo progetto, sembra disinteressarsi del-l’uomo.
Giobbe è l’uomo credente che ha il coraggio di porre a Dio le domande più bru-cianti e, in certo qual modo, scandalose; che ha il coraggio di chiedere conto a Dio della re-altà dell’uomo.
La via che Giobbe percorre è una via non solo difficile, ma pericolosa; può aprirsi alla speranza, ma può precipitare nella disperazione.
Infatti non è un cammino che matura attraverso risposte, ma una via che, da interrogativo a interrogativo, ha la possibi-lità di giungere, per pura grazia, a una luce: è cioè la scoperta che proprio una situazione di dolore, di debolezza, di male può essere occasione suprema, evento unico dell’incontro della libertà di Dio con la libertà dell’uomo.
Quel ricordati che Giobbe rivolge a Dio, lascia proprio intravedere questa possibilità di incontro: è la nostalgia di un volto che si desidera contemplare, un volto che guardi le sofferenze dell’uomo e se ne prenda cura.
Attraverso il testo del vangelo, un momento della lunga giornata di Gesù a Cafarnao, è come se Dio venisse incontro al desiderio di Giobbe.
Quel volto di Dio che l’uomo desidera incontrare nel suo dolore, è vicino nel volto umano di Gesù.
E proprio all’inizio del suo racconto Marco insiste su questo volto di Gesù: attraverso la sua potente parola, che è con-solazione e salvezza, Gesù sfida il male e la sofferenza in tutte le sue forme, fino a rag-giungere quel male che tiene schiavo l’uomo distruggendone la relazione con Dio, il pecca-to.
E l’uomo desidera e cerca questo volto e questa parola di salvezza.
Infatti Marco ci pre-senta tutta una folla di uomini e donne che si accalcano alla porta della casa di Simone, in cui Gesù si trova con i suoi discepoli.
E Gesù «guarì molti che erano affetti da varie malat-tie e scaccio molti demoni» (Mc 1,34).
Nell’accalcarsi della folla, nel premere di questa u-manità sofferente attorno a Gesù, davanti alla porta della casa di Simone, Marco ci offre così una immagine viva di questo incontro tra il volto di Dio e l’uomo che soffre.
Tutti i malati, tutta la città, tutti vogliono incontrare Gesù.
Cosi l’evangelista esprime l’entusia-smo, ma anche il bisogno universale di salvezza: tutti in qualche modo si trovano in una situazione di povertà, di indigenza, di smarrimento, di sofferenza.
Tutti sentono che Gesù può dire loro qualcosa, può fare qualcosa per loro.
Notiamo infine, che tutta questa folla di sofferenti si trova di fronte a quella ‘porta’ che immette nel luogo dove Gesù si trova as-sieme ai suoi discepoli.
L’immagine della casa di Simone può essere colta come simbolo della Chiesa: essa diventa il luogo della accoglienza, la mediazione dell’incontro con Gesù di ogni uomo che ha bisogno di essere guarito e liberato.
Ma l’immagine della porta, come spazio di passaggio e di comunicazione, richiama sempre la possibilità di una chiusura: essa può diventare un ostacolo a questa incontro con il volto di Cristo.
Marco, nei versetti 30-31, riporta anche un particolare intervento di Gesù in favore del-l’uomo sofferente: la guarigione della suocera di Simone.
Due versetti soltanto, ma capaci di comunicare la dinamica dell’incontro dell’uomo schiavo del male con il volto di Dio.
Il ge-sto che Gesù compie, scandito in tre verbi, è rivelativo di ciò che realmente si opera in una guarigione.
Gesù si avvicina a quella donna sofferente, la accoglie nella sua povertà e debolezza.
E il chinarsi stesso di Dio su tutte le miserie dell’umanità, è l’espressione plastica di quelle vi-scere di misericordia che con forza esprimono la reazione di Gesù di fronte all’umanità sofferente e sfinita.
Là dove spesso l’uomo si allontana dal fratello, Dio invece si avvicina e si china su di esso (cfr.
Lc 10,34: «gli si fece vicino»).
Gesù prende per mano quella donna.
Il toccare di Gesù esprime certamente un contatto liberatorio.
Ma sottolinea anche la necessità di un incontro personale, quasi fisico, tra l’uomo schiavo del male e la persona di Gesù.
È dunque un incontro personale, irrepetibi-le, una comunione che apre a nuova vita.
Gesù fa alzare quella donna.
È il movimento che sottolinea il passaggio da una situazio-ne di impotenza e di immobilità, di morte, alla ripresa di una nuova vita, alla possibilità di riprendere un cammino.
E Marco descrive questo gesto con un termine che evoca la resur-rezione.
Ciò che Gesù ha fatto è un segno: è anticipazione della vittoria sulla morte.
Il mi-racolo non è spettacolo, ma è rivelazione: provoca l’uomo a uscire da una lettura troppo materiale della propria vita, da una superficialità, e lo apre a una visione più profonda, a un orizzonte vasto rivelandogli il volto di Gesù.
Ciò che compie la donna guarita è profondamente significativo in quanto fa emergere l’autentico modo con cui una persona può rispondere a una liberazione donata: si mise a servirli.
Essere liberati per servire: in questo si rivela la forma concreta della sequela di Cri-sto.
Questa donna, come i discepoli, come il cieco di Gerico, è stata liberata e questa libera-zione è una chiamata a seguire Gesù.
Li serviva: è dunque uno stile che si acquista, una si-tuazione di vita che ha inizio: Gesù ci fa risorgere per incamminarci sulla strada del servi-zio.
Quando, nel dolore, abbiamo la grazia di incontrare il volto di compassione di Cristo (ed è questa la vera liberazione), allora non rimaniamo più ripiegati su noi stessi, immobi-lizzati nella nostra sofferenza.
Ci alziamo e ci mettiamo a servire l’uomo sofferente, diven-tando noi stessi icona del volto misericordioso di Dio.
Amare le domande, vivere le risposte Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato.
A questo proposito, rileggo spesso il con-siglio del poeta Rainer Maria Rilke: “..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle.
Il punto è vivere ogni cosa.
Vivere le domande ora.
Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.
(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).
Diventare l’amato – Spezzato La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a di-stanza, ignorarla, aggirarla o negarla.
La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non do-vrebbe esserci.
È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.
Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se fa-vorirla può sembrare a prima vista masochismo.
Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore.
Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “es-sere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa.
Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.
(Henri J.M.
NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).
Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.
Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.
La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.
“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in u-n’intervista telefonica.
“Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.
Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.
Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.
Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura.
“Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per con-tribuire alla società”.
Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.
La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006.
Il porpo-rato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.
“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’.
Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato.
“Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.
“Ora penso ‘Perché non io?’.
Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.
Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.
Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.
Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina.
Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946.
E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955.
E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991.
Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006.
La prospettiva della sofferenza e della morte Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speran-za di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione.
È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.
Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà.
È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare.
Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi.
Gesù è il «Dio che soffre con noi».
Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologica-mente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario.
Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non e-sporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri.
È per que-sto che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica me-glio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.
L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare que-ste sofferenze in un mezzo di liberazione.
Probabilmente conosci bene le obiezioni solleva-te da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio.
Come può Dio amare davve-ro il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inuti-le? I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivi-de le loro sofferenze.
In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà.
E loro compagno nella sofferen-za.
Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino.
Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta.
È solidale con lo-ro.
Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).
«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano» Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39).
Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto.
E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amore-volmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).
Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).
È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento.
Anzi, non solo torna la salu-te, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata.
Per dirla con linguaggio figurato, le membra che ave-vano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf.
Rm 6,19).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang.
Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commen-to al Vangelo di Marco.
Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol.
1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p.
61-63).
Dammi coraggio Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.
Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.
Non darmi alleati nella lotta della vita…
eccetto la forza che mi proviene da te.
Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.
Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo; ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.
Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone; quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita, bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.
Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.
Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta: i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.
(Rabindranath Tagore) Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’in-giustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dub-bio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritro-va, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

La Bibbia. Via, verità e vita

Pubblichiamo stralci dell’introduzione generale.  La Scrittura tra eternità e tempo Parola divina e parole umane, Verbo e carne, eternità e tempo, infinito e spazio umano, Dio e uomo.
Sono sempre due le prospettive da adottare nella lettura della Bibbia e due sono le luci che devono illuminare il cammino interpretativo del lettore credente.
C’è innanzitutto l’aspetto storico-letterario.
Esso esige nel lettore una certa attrezzatura critica fatta di conoscenze specifiche.
È questo il lavoro che compie l’esegesi, un termine che nella sua origine greca indica un “tirare fuori” dal testo tutta la sua ricchezza di contenuti e di messaggio, identificandone i mezzi espressivi e le sue forme.
A quest’ultimo riguardo è importante saper identificare i cosiddetti generi letterari, cioè le varie modalità con cui si esprimono i diversi contenuti: differenti sono, infatti, i linguaggi adottati quando si deve codificare un testo giuridico, si innalza un inno di lode, si descrive un evento storico, si invoca un sostegno nella supplica, si elabora una lettera, si approfondisce con la riflessione un tema, si narra una parabola per illustrare un concetto, si proclama un oracolo sacrale e profetico, si ammonisce e si esorta a scegliere un comportamento morale e così via.
Naturalmente, oltre ai generi, sono molte altre le forme letterarie, i simboli, le tipologie espressive come anche le ricerche di taglio storiografico da condurre così da interpretare correttamente i testi biblici nel loro profilo storico-letterario.
Anzi, soprattutto nella seconda metà del Novecento si sono moltiplicati altri metodi di scavo nella pagina biblica per coglierne meglio il suo aspetto letterario e il suo contenuto.
Si è attenti, ad esempio, alla dimensione sociale in cui sono vissuti gli uomini e le donne della Bibbia e che è poi riflessa negli scritti sacri.
Si ricorre alla psicologia e alla psicanalisi per meglio decifrare alcune esperienze profetiche o il linguaggio delle immagini e dei simboli biblici e per penetrare nel mondo dei miracoli.
Ci sono letture “femministe” della Bibbia, preoccupate di non confondere alcuni modelli storici ed espressivi patriarcali della società ebraica antica col messaggio della Sacra Scrittura sulla creatura umana.
Altre volte l’attenzione si fissa sull’analisi delle narrazioni bibliche, sulle tecniche di convincimento che in alcuni testi sacri sono sviluppate attraverso la retorica, ossia l’arte della persuasione, come non manca il ricorso a moderni approcci di studio del testo nelle sue strutture (la semiotica).
Due sono gli ambiti nei quali l’esercizio della corretta interpretazione storico-letteraria si accende spesso di interesse vivace, anche perché tocca la nostra sensibilità attuale.
Il primo è quello della “verità” che la Scrittura vuole comunicarci.
In passato si confondevano i piani tra espressione e contenuto e così scattavano forti tensioni tra scienza e fede: tanto per fare un esempio, pensiamo alla teoria dell’evoluzionismo.
Certo, l’autore sacro viveva in una cultura nella quale il modello scientifico era quello “fissista” per cui l’uomo era già compiuto e completo nel suo apparire all’interno di un mondo concepito, tra l’altro, in modo geocentrico.
Era questo l’insegnamento che la Bibbia voleva offrire? In realtà essa non voleva rispondere a domande di scienza riguardanti l’antropologia o l’astrofisica, bensì a interrogazioni esistenziali e religiose sul senso della vita, della creatura umana, dell’essere e del loro legame col Creatore.
È per questo che pittorescamente sant’Agostino affermava che “non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: “Vi manderò il Paraclito per insegnarvi come vanno il sole e la luna.
Voleva formare dei cristiani, non dei matematici”” (De Genesi ad litteram, 2, 9, 20).
Bisogna, dunque, interrogare la Bibbia in modo corretto, senza costringerla a risposte che non vuole offrire e che solo artificiosamente le possiamo strappare.
L'”inerranza” della Sacra Scrittura – come si era soliti dire in passato – non riguarda la scienza o la storiografia ma gli asserti religiosi.
O meglio, la “verità” che la Bibbia ci vuole comunicare non è di tipo scientifico ma teologico, come ha sottolineato in modo nitido il concilio Vaticano ii: “I libri della Sacra Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore, la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata nelle Sacre Lettere” (Dei Verbum, 11).
Le verità che le pagine sacre ci insegnano sono, perciò, quelle finalizzate alla nostra salvezza.
Non possiamo, però, ignorare che molti testi biblici sono striati di sangue e di violenza, di immoralità di ogni genere, non di rado senza un giudizio negativo, anzi, talora con una tacita o diretta, apparente o implicita approvazione divina.
Essi generano reazioni scandalizzate nel lettore che sia sensibile non solo al messaggio dell’amore evangelico ma anche ai puri e semplici valori umani.
È, questa, l’altra questione interpretativa, ancor più delicata e lacerante.
Basta, infatti, sfogliare i primi capitoli del libro di Giosuè, che descrivono la conquista della terra promessa, per scoprirvi un cumulo di efferatezze e di stermini, posti sotto il sigillo dell’ordine divino.
Altrettanto impressionante è la collera furibonda che pervade i cosiddetti “Salmi imprecatori” (ad esempio, Salmi, 58; 109; 137, 8-9).
È indubbio che l’analisi letteraria fa capire subito che queste pagine risentono del linguaggio e dello stile caratteristici della cultura dell’antico Vicino Oriente che amava l’eccesso verbale, i colori accesi, l’esasperazione dei toni e aveva fiducia nella forza “offensiva” della parola stessa, fondamentale in una civiltà di tipo orale.
L’odio per il male e l’ansia per la giustizia si esercitano, perciò, prima di tutto a livello verbale.
Ma tutto questo non basta per giustificare l'”immoralità” di quei testi.
Decisiva per rimuovere questo ostacolo che si para davanti al lettore della Scrittura è un’altra considerazione.
La via maestra per comprendere correttamente simili testi marziali o violenti o immorali è ancora una volta quella di tener presente la qualità specifica della rivelazione biblica: essa è per eccellenza storica.
La parola e l’azione divina non sono sospese in cieli mitici e mistici ma sono innescate nella trama tormentata e faticosa della vicenda umana.
Esse non sono simili a una serie di tesi o verità astratte, raccolte in un florilegio scritto, ma sono come un seme che germoglia sotto il terreno arido, sassoso e opaco della storia e dell’esistenza.
Dio, allora, si fa vicino e paziente, si adatta al limite e persino alla brutalità della creatura umana libera e progressivamente cerca di condurla verso un orizzonte più alto che ha nella legge evangelica dell’amore e del perdono il suo apice, ma che ha già nell’Antico Testamento squarci luminosi: “Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza, ci governi con molta indulgenza (…) Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare l’umanità” (Sapienza, 12, 18-19).
Proprio questa dimensione storica e progressiva della rivelazione biblica ci fa comprendere quanto pericolosa e illusoria sia la lettura “fondamentalista” della Bibbia, praticata da alcuni movimenti religiosi.
Essa vorrebbe presentarsi come esemplare perché la sua fedeltà al testo è letterale, assoluta, ciecamente affidata alle parole e alle frasi così come esse materialmente suonano, senza applicare quella corretta interpretazione che conduce alla scoperta di ciò che veramente l’autore sacro voleva comunicare attraverso un linguaggio connotato e datato, legato a un mondo culturale e sociale concreto e ormai lontano da quello in cui noi ora viviamo.
È, quindi, indispensabile il contributo dell’esegesi e dell’interpretazione – naturalmente ottenuto attraverso un metodo corretto – per essere autenticamente fedeli al senso vero della Sacra Scrittura.
Per questa via non si dissolve la “lettera” della Bibbia e la sua storicità, ma si riesce a cogliere la “verità” che essa ci vuole comunicare così da divenire “lampada per i passi e la luce sul cammino” della vita del lettore (Salmi, 119, 105).
In questa linea si riesce a comprendere il monito di san Paolo secondo il quale “la lettera uccide, è lo Spirito che dà vita” (2 Corinzi, 3, 6).
È per questo che la Bibbia è nel cuore stesso della liturgia, ove è proclamata, commentata, meditata e attualizzata.
Essa è anche l’anima dell’annunzio della fede e della catechesi; è l’alimento della vita spirituale attraverso la lectio divina, ossia la lettura intima e fruttuosa che trasferisce l’appello di Dio nell’esistenza personale del credente.
La Bibbia è alla base della teologia che a quella fonte attinge la verità da illustrare e approfondire e la norma morale da seguire nelle scelte personali e comunitarie.
La Bibbia è alla radice del nostro legame con l’ebraismo ed è il terreno privilegiato per il dialogo ecumenico tra i cristiani che alla Scrittura guardano come a una stella polare.
Anzi, figure, eventi e temi biblici pervadono, sia pure elaborati e trasformati, lo stesso libro sacro dell’islam, il Corano.
La Bibbia è il “grande codice” di riferimento della cultura.
Per secoli personaggi, eventi, simboli, idee, temi biblici hanno offerto le immagini per le creazioni più alte della pittura e della scultura, sono stati trasfigurati nella musica, sono stati ripresi e ricreati dalla letteratura, hanno stimolato la riflessione filosofica e sostanziato la ricerca morale.
Per rendere più disponibili le Scritture ai lettori di nuovi ambiti culturali e spirituali, fin dall’antichità si è proceduto a tradurre in nuove lingue quei libri.
In greco nacque, tra il III e il II secolo prima dell’era cristiana, la versione dei Settanta, così chiamata per una tradizione leggendaria che ne attribuiva la paternità a settanta studiosi riuniti ad Alessandria di Egitto per compiere questa impresa.
In latino san Girolamo, tra il 383 e il 406, tra Roma e Betlemme, ove si era ritirato, si dedicò a preparare la Vulgata, cioè la traduzione “popolare” che dominerà nella Chiesa cattolica nei secoli successivi; le varie comunità cristiane antiche affrontarono altre versioni nelle loro lingue e così si continuò a fare fino ai nostri giorni, in tutte le lingue del nostro pianeta.
Lo stesso accade anche a questa traduzione italiana che è quella ufficiale della Conferenza episcopale italiana, giunta ormai a una definitiva redazione.
Conservata alle origini su papiri, poi su codici di pergamena e persino su cocci di terracotta, divenuta il primo libro stampato (la Bibbia di Gutenberg del 1452), la Sacra Scrittura approda anche nella civiltà informatica sulle pagine elettroniche, testimoniando la sua presenza sempre vitale nella cultura dell’umanità e nella fede dei credenti.
Ora è davanti a noi in questa traduzione rinnovata ed efficace, accompagnata da un commento che coniuga essenzialità e ricchezza di contenuti, offrendo spunti preziosi per l’uso liturgico e pastorale, senza però venir meno alle esigenze di una corretta e rigorosa esegesi e interpretazione.
Si ritrovano, così, in azione le due dimensioni della Parola divina e delle parole umane, della fede e della storia, del “Verbo” e della “carne”.
La Bibbia potrà, così, diventare “la via, la verità e la vita” del fedele nel cammino della sua esistenza e nella luce della sua presenza.
di Gianfranco Ravasi (©L’Osservatore Romano – 1 febbraio 2009) La Bibbia.
Via, verità e vita, Edizione San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, pagine 2672, euro 29 Arriva in libreria l’edizione San Paolo della Bibbia con la nuova traduzione della Conferenza episcopale italiana.
 Il progetto editoriale del volume è diretto da Gianfranco Ravasi per l’Antico Testamento e da Bruno Maggioni per il Nuovo.
In un volume unico il testo biblico nella nuova traduzione CEI accompagnato da inedito apparato di note su tre livelli: VIA, Note di carattere teologico; VERITA’, Note di carattere esegetico; VITA, Note di carattere liturgico.
La dinamica impaginazione permette di avere a portata di mano tutti i riferimenti necessari per la collocazione e l’interpretazione del testo.
La Bibbia Via Verità e Vita è l’unica che tiene traccia, in nota, delle modifiche apportate nella traduzione rispetto alla passata edizione del 1974.

IV Domenica del tempo ordinario anno A

L’enigma del male «Dobbiamo essere consapevoli», dice Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, «che siamo fragili, esposti al grande enigma del male.
Non ci sono per l’uomo luoghi sicuri, “paradisi”.
Coscienti del nostro limite, dobbiamo respingere ogni pretesa di onnipo-tenza.
Non si tratta, per questa catastrofe, di incolpare Dio, ma neanche noi uomini.
Con la fede, possiamo dire che Dio vuole vincere il male con noi, e l’esito finale sarà la trasfigura-zione dell’universo».
(Da «Famiglia Cristiana», 2005, 3).
Sofferenza materia prima della redenzione Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.
Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.
Tu dici del tuo amico: lo porto nel mio cuore, mi vergogno per lui del suo peccato, la sua sofferenza mi fa male.
È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.
Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito.
Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.
Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, «cancellali», le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte.
Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.
(M.
QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).
Il ramo da riattaccare Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal.
«Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha.
«Taglia un ramo di quell’albe-ro».
Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?».
«Rimettilo a posto» ordinò Buddha.
Il bandito rise.
«Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere».
«Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere.
Quella è roba da bambini.
La vera forza sta nel creare e risanare».
(Racconto buddista).
Si stupivano della sua dottrina Entrarono in Cafarnao, e subito, entrato di sabato nella sinagoga insegnava loro, insegnava af-finché abbandonassero gli ozi del sabato e cominciassero le opere del Vangelo.
Egli li am-maestrava come uno che ha autorità, non come gli scribi.
Egli non diceva, cioè «questo dice il Signore», oppure «chi mi ha mandato così parla»: ma era egli stesso che parlava, come già prima aveva parlato per bocca dei profeti.
Altro è dire «sta scritto», altro dire «questo dice il Signore», e altro dire «in verità vi dico».
Guardate altrove.
«Sta scritto — egli dice — nella legge: Non uccidere, non ripudiare la sposa».
Sta scritto: da chi è stato scritto? Da Mosè, su comandamento di Dio.
Se è scritto col dito di Dio, in qual modo tu osi dire «in verità vi dico», se non perché tu sei lo stesso che un tempo ci dette la legge? Nessuno osa mutare la legge, se non lo stesso re.
Ma la leg-ge l’ha data il Padre o il Figlio? […] Qualunque cosa tu risponda, l’accetterò volentieri: per me, infatti, l’hanno data ambedue.
Se è il Padre che l’ha data, è lui che la cambia: dunque il Figlio è uguale al Padre, poiché la muta insieme a colui che l’ha data.
Se l’uno l’ha data e l’altro la muta è con uguale autorità che essa è stata data e che viene ora mutata: infatti nessuno che non sia il re può mutare la legge.
Si stupivano della sua dottrina.
Perché, mi chiedo, insegnava qualcosa di nuovo, diceva cose mai udite? Egli diceva con la sua bocca le stesse cose che aveva già detto per bocca dei profeti.
Ecco, per questo si stupivano, perché esponeva la sua dottrina con autorità, e non come gli scribi.
Non parlava come un maestro, ma come il Signore: non parlava per l’auto-rità di qualcuno più grande di lui, ma parlava con la sua propria autorità.
Insomma egli parlava e diceva oggi quello che già aveva detto per mezzo dei profeti.
«Io che parlavo, ec-co, sono qui» [Is 52,6].
(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2) Il silenzio di Dio Il problema del male con la sua enorme portata di sofferenza prova a fondo la fiducia in Dio del credente e «…molti si arrestano perché dicono: Forse c’è qualcuno là di sopra, però se ci fosse davvero tanto male non ci sarebbe, dunque…
Qui la fede entra nella sua agonia più profonda» è posta di fronte al silenzio di Dio e sembra non aver attenuanti, non aver parole che siano sufficienti, appare…
«intrinsecamente insicura, non è fondata, come diceva Agostino: la mia fede non è fondata, non è un fondamento, la mia fede sta appesa alla croce.
La mia fede non da alcuna sicurezza.
L’esperienza del silenzio di Dio conduce sull’orlo del «forse», un «forse» che per Andrè Neher «sta all’inizio della silenziosa vertigi-ne della libertà»».
(C.M.
MARTINI, Prima sessione della Cattedra dei non credenti, 1987).
Intervista al Padre Aurelio: Di fronte a fenomeni come la guerra in Terra Santa, il male, la sofferenza, come si può spiegare l’Amore misericordioso del Creatore? «Da sempre la sofferenza è la grande e inquietante domanda che sfida la fede in un Dio buono.
È significativo che proprio nella terra del Santo, dove il Signore ha scritto la sua storia di amore e alleanza con un popolo da Lui scelto in vista della salvezza di tutti, pro-prio in quella terra la pace sembra non aver mai trovato casa.
Dai tempi dei patriarchi, all’Esodo e all’entrata in quella terra, come in tutta la storia successiva, il popolo di Israele sembra non avere mai avuto pace.
Ben si addice il pianto e lamento di Gesù sopra Gerusalemme: “Oh, se tu, proprio tu, avessi riconosciuto almeno in questo tuo giorno le cose necessarie alla tua pace! Ma ora es-se sono nascoste agli occhi tuoi” (Lc 19,42).
Dio ha fatto buone tutte le cose, come afferma il ritornello alla fine di ogni giorno della creazione: “E Dio vide ciò che aveva fatto ed era cosa buona” (cfr.
Gen 1).
La Parola del Si-gnore risponde al mistero del male che lacera l’umanità, non con una teoria, ma con la sot-tolineatura di quella libertà che gli uomini, cedendo al tentatore, hanno indirizzato al male anziché al bene, cadendo così nella maledizione (cfr.
Gen 3).
Eppure è proprio di fronte a questa estrema miseria che si rivela l’infinita misericordia di Dio.
S.
Paolo la riassume in una frase: “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia”.
Il Signore si è messo da subito alla ricerca della pecora smarrita (“Adamo, dove sei?”): con una pazienza e tenerezza immensa, parlando e intervenendo molte volte e in diversi modi, per mezzo dei suoi inviati e attraverso gli eventi della storia.
Un amore gratuito che si è rivelato in modo sommo e inimmaginabile nell’incarnazione del Figlio di Dio.
Tutta la vita di Gesù, soprattutto la sua morte e risurrezione è la risposta definitiva di Dio al perché della sofferenza e del male del mondo.
“Dio è amore”, ed è la lontananza da Lui che precipita l’uomo nella morte del male, dell’odio, della violenza cie-ca.
“Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!”, dirà Gesù morente sulla croce, croce che concentra tutto il male fisico, morale e spirituale che c’è nel mondo.
Lui ha voluto prendere su di sé questo male e sconfiggerlo con la Risurrezione, rive-lando così che l’Amore e la Vita di Dio, sono più grandi del peccato, dell’odio, di ogni forma di male.
(Intervista fatta da Zenit al padre Aurelio Pérez, Superiore generale dei Figli dell’Amore misericordioso (FAM), 13 gennaio 2009).
Le preghiere della vita Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste.
Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande benevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie.
Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pregassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.
Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito im-mondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine.
(Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Brescia, 1993).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 18,15-20 Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me.
A lui darete ascolto.
Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene.
Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò.
Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto.
Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».
Tutta la fede biblica è fondata sulla parola di Dio, feconda come la pioggia e la neve (cf.
Is 55,10-11).
Ed è di sempre il problema che essa sia autentica ed efficace.
La prima lettura riporta il passo del Deuteronomio che fa risalire a Mosè l’origine dei profeti, gli inviati di Dio a portare la sua parola, e che ha suscitato pure l’attesa del Messia come profeta.
Il di-scorso è in bocca a Mosè che parla a Israele, al di là del Giordano di fronte a Gerico, sul modo di comunicare con Dio.
Nei versetti che precedono il brano liturgico (Dt 18,9-14), egli esclude perentoriamente che possa farlo l’uomo, perché i suoi mezzi sono del tutto inadeguati e falsi.
Sacrifici uma-ni, divinazione, sortilegio, magia, evocazione dei morti, spiritismo, indovini, incantatori, ecc.
sono un «abominio» davanti a Dio.
Solo Dio può comunicare con l’uomo in modo au-tentico.
Ecco allora la promessa, che risponde alla richiesta già fatta dagli Israeliti al Sinai: dopo Mosè, Dio stesso continuerà a parlare ad Israele, mediante la figura del profeta, del quale tratteggia così le caratteristiche.
Lo susciterà Lui stesso, quindi ne garantirà la vocazione e il carisma.
Sarà un fratello tra fratelli e starà in mezzo a loro: sarà cioè, non uno stravagante, ma una persona normale che vive dentro alle situazioni normali, perché di esse deve capire il senso, per vivere davvero secondo Dio.
Sarà suo porta-parola: «Gli porrò in bocca le mie parole…».
E come tale dovrà essere ascoltato.
Dio poi prospetta un possibile duplice falso profeta: quello che parla falsamente a nome di Dio e quello che parla in nome di falsi dei.
In entrambi i casi è comminata la pena di morte, spiegabile con la rigidità dei tempi e non certo da riesumare.
Testimonia comunque l’im-portanza data alla parola di Dio.
E può far riflettere se la mentalità moderna, assai severa contro le trasgressioni di ordine economico e materiale, non sia invece troppo indifferente e permissiva di fronte agli scandali e alle corrosioni dei valori morali.
Mosè usa sempre il singolare, un profeta, ma con significato collettivo, riferito a tutto il profetismo.
Egli stesso, del resto, condivide il suo spirito profetico con i 70 Anziani (Nm 11,16-30 e Es 18,21-26) e ad essi e ai Leviti dà in consegna la Legge, da custodire, ripetere e attualizzare continuamente (Dt 10,8-9 e 31,9-13.24-27).
Il singolare ha pure fatto attendere il Cristo, come Profeta per eccellenza, come appare da interrogativi dei Giudei (cf.
Gv 1,21.25).
Gesù di Nazaret lo è effettivamente.
Venuto da Dio, si è fatto vero fratello tra fratelli, partecipe del nostro essere e della nostra storia: «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Seconda lettura: 1 Corinzi 7,32-35 Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
La seconda lettura riporta uno stralcio delle risposte di Paolo alle domande scritte, su matrimonio e verginità, fattegli pervenire dalla comunità di Corinto e concentrate in 1Cor 7.
Un legame col tema dell’annuncio e dell’ascolto della parola di Dio c’è nelle distinzioni che l’apostolo fa tra quello che dice lui e quello che ha detto il Signore.
Anche lui cerca la parola autentica o quantomeno la traduzione autentica della parola di Cristo nella vita vis-suta.
Quanto alle vergini, delle quali parla in questo brano, ha infatti premesso: «Non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e me-rita fiducia» (1Cor 7,25).
Parla quindi come un convertito, ma assunto alla dignità di apo-stolo.
E dà consigli per un comportamento lineare nel proprio stato di vita, conforme alla propria vocazione, senza preoccupazioni che dividano l’animo.
Questo lo vede più facile in chi non è sposato, come la vergine, perché si preoccupa delle cose del Signore.
Mentre chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, di come piacere alla moglie o al marito.
Proteso alla trascendenza e alle realtà ultime, per cose del mondo egli intende quelle prov-visorie di questa vita che passa e per cose del Signore quelle dei valori più profondi ed e-terni.
Ma non è a senso unico quanto dice.
Perché appena prima ha raccomandato: «Ti tro-vi legato a una donna? Non cercare di scioglierti.
Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla» (1Cor 7,27).
E all’inizio ha scritto: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono da Dio» (1Cor 7,7).
Importante è vivere secondo il dono ricevuto.
Paolo dunque invita ciascuno a vedere il proprio stato di vita come una vocazione da parte del Signore, alla quale dare risposta con una vita autentica, coerente e non divisa.
E ciò è possibile solo nell’ascolto consapevole, continuo e profondo della parola di Dio.
Vangelo: Marco 1,21-28 In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava.
Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!».
E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità.
Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Esegesi La liberazione di un indemoniato è il primo miracolo che Marco racconta.
Con esso egli introduce la descrizione di un sabato tipico di Gesù a Cafarnao.
Ma in primo piano mette il suo insegnamento, lui che poi si sofferma più sui fatti che sui discorsi.
Riporta, infatti, un episodio accaduto durante la liturgia della parola, nel culto sinagogale.
E sviluppa il rac-conto in tre momenti, che mostrano come la parola nuova di Cristo ha provocato e com-piuto il miracolo.
Dapprima (vv.
21-22), riferisce sommariamente l’insegnamento di lui nella sinagoga e lo stupore di tutti, perché lo fa «con autorità» e non come gli scribi.
Poi racconta il miracolo (vv.
23-26), compiuto dopo uno scontro verbale con un uomo, che si è messo a gridargli contro.
L’uomo è posseduto da uno «spirito immondo», detto così perché lo spinge lontano da Dio e a comportamenti indegni.
Egli riconosce che Gesù, al-l’opposto, è «il santo di Dio», cioè tutto dedito a lui e rivestito delle sue perfezioni.
Lo deve aver percepito dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti.
E si è messo in agitazione perché avverte lucidamente che ciò comporta la rovina del dominio diabolico.
Ma con arroganza contesta a Cristo il diritto di intromettersi, usando un plurale col quale si identifica con tutte le potenze demoniache e nel quale pare voler coinvolgere anche gli uditori, presu-mendoli dalla sua parte.
Al demonio Gesù prima comanda di tacere e poi di uscire da quell’uomo.
Ciò avviene tra convulsioni e grida ancora più forti, provocate dal potere sconvolgente della parola di Dio.
Si è trattato di un esorcismo, ma si può dire che tante re-sistenze a Dio sono fatte di contorcimenti e strepiti di vario genere, che si placano solo a partire dal silenzio delle nostre parole e dal lasciarsi prendere dalla forza della parola di Dio.
Infine (vv.
27-28) Marco torna sulla meraviglia generale, ancora più grande dopo il mi-racolo, accompagnata da timore reverenziale, di fronte alla potenza di Dio, e da interroga-tivi su che cosa questo significhi per tutti nella lotta contro il demonio.
La risposta viene dalla differenza, rimarcata in tutto il racconto, fra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi.
Gli scribi insegnavano, commentando i testi sacri, con tante sot-tigliezze, elucubrazioni, accomodamenti interessati, per i quali si appellavano alle tradi-zioni e ai maestri umani: un insegnamento formalistico e sterile, che può ripetersi fra i cri-stiani.
Gesù invece insegna con autorità.
Cioè, egli parla a nome proprio, con la propria autorità divina: «Ma io vi dico…».
Parla con la coerenza della vita, diversamente dagli scri-bi e farisei, che dicono e non fanno (cf.
Mt 23,2-3).
E la sua parola produce quello che af-ferma, in particolare ha la forza di contrapporsi al demonio e di vincerlo.
Perché egli va al valore originario della parola di Dio e la propone come una semente da sviluppare, non come una teoria sulla quale dissertare o come un formalismo da assumere.
Meditazione Il passo del Deuteronomio, proposto come prima lettura, annuncia la volontà di Dio di «suscitare» un profeta che avrà l’autorità di Mosè e dalla cui bocca usciranno parole pro-venienti dal Signore stesso.
L’ascolto del profeta diviene dunque ascolto di Dio perché u-nica è la parola sulla bocca dell’uno e dell’altro.
L’autorità del profeta non ha altra origine che in questo essere portavoce di Dio, in questo far risuonare la voce di un Altro; nel mo-mento stesso in cui egli ritorna a dare spazio alla propria voce (cioè a dire cose che Dio non gli ha comandato: v.
20) perde la propria autorità e, con essa, la propria identità (non è più un autentico pro-feta, perché il suo «dire pro» torna ad essere un «dire proprio»).
Nel racconto evangelico di questa domenica (Mc 1,21-28), ciò che provoca meraviglia e stupore negli abitanti di Cafarnao è proprio l’autorità con cui Gesù parla e insegna (v.
22).
Un’autorità riconosciuta e temuta anche dai demoni: «Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (v.
27).
È sintomatico che Marco, per mettere in risalto l’autorità della parola di Gesù, non ci ri-porti un suo bel discorso ma ci racconti la cacciata di un demonio, ci narri l’episodio di un esorcismo.
È questo il primo atto pubblico del ministero di Gesù secondo il vangelo di Marco e, come tale, possiamo pensare che rivesta un’importanza non secondaria.
Si può leggere infatti in questo episodio, come in filigrana, tutta la missione di Gesù che ci appare come una grande lotta contro le forze ostili del male, come un’incessante scontro con colui che la tradizione biblica chiama «Satana», l’avversario per eccellenza di Dio e dell’uomo.
Quella che Gesù ingaggia non è una lotta a difesa delle sue prerogative divine ma è una lotta intrapresa esclusivamente a favore dell’uomo, per la sua liberazione.
La volontà di Ge-sù, che emerge da tutti questi racconti di esorcismi e guarigioni (che l’evangelista Marco, più di ogni altro, ha cura di farci conoscere), è infatti quella di liberare l’uomo da ogni forma di male e di oppressione, da ogni potere che schiaccia la libertà e riduce in schiavitù, per ristabilirlo in quella condizione originaria di creatura fatta «a immagine e somiglianza di Dio», quell’immagine che Satana cerca in tutti i modi di deformare.
E forse non è un ca-so che qui l’esorcismo viene compiuto in giorno di sabato: il settimo giorno, il giorno del compimento della creazione, il giorno della signoria del Signore su tutto il creato e su tutti gli esseri umani.
In questo giorno non ci può essere posto per un’altra signoria – quella di Satana – che, anziché liberare e dare dignità, schiavizza sottomettendo l’uomo a un’autorità nefasta e dispotica.
Ciò che Gesù compie, cacciando il demonio in giorno di sabato, si può allora vedere come un atto di ri-creazione, come un atto che anticipa e manifesta quel mon-do nuovo che ha già inizio con l’irrompere del regno di Dio nella storia dell’uomo (cfr.
Mc 1,15).
È da notare un tratto caratteristico di questo gesto: Gesù, per domare lo spirito immon-do, si affida alla potenza della sola parola.
Non si serve di particolari riti o gesti magici, in uso presso gli esorcisti del suo tempo, ma con una sola parola allontana e riduce all’impo-tenza il demonio: «Taci! Esci da lui!» (v.
25).
La sua è una parola forte ed efficace, che rea-lizza ciò che dice, proprio come l’originaria parola creatrice di Dio attraverso la quale il mondo fu fatto («E Dio disse: “Sia la luce!”.
E la luce fu…»).
L’autorità di Gesù, che questa parola rivela, non ha un’origine umana, ma viene dall’Alto; è l’autorità di colui che si pre-senta come l’inviato definitivo di Dio, il suo profeta ultimo (cfr.
Dt 18,15s.), colui che rende presente nelle sue parole e nel suo agire la signoria di Dio.
La gente coglie immediatamen-te la diversità che emerge tra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi: nelle sue parole si sente vibrare qualcosa di più e di diverso di una semplice lezione imparata alla scuola della Tradizione…
La figura di quest’uomo posseduto da uno «spirito impuro» ci riporta al problema della presenza oscura e ostile del male – in tutte le sue manifestazioni – nel nostro mondo e nella nostra esistenza.
Di fronte a questa presenza riconosciamo tutta la nostra impotenza, tutta la nostra debolezza: siamo infatti incapaci di liberarci dal dominio del male affidandoci unicamente alle nostre sole forze.
Forse per questo Gesù, a conclusione della preghiera del Padre Nostro, ha posto quella invocazione che assume la forma di un accorato grido: «Ma liberaci dal Male!».
Come quell’indemoniato, abbiamo bisogno di gridare a Dio tutta la no-stra oppressione, tutta la nostra schiavitù, tutto il nostro «andare in rovina» se non so-praggiunge presto una liberazione.
Solo l’umile riconoscimento del proprio bisogno di sal-vezza e di liberazione può aprirci la via verso la redenzione, verso la guarigione della pro-pria umanità ancora malata e irredenta.

Cristo con gli alpini

CARLO GNOCCHI,  Cristo con gli alpini, Mursia, Milano, 2008, pp.
125, euro 14 Cristo con gli alpini non è un’opera qualunque.
Non è, insomma, un diario, un resoconto, una cronaca, una confessione, ma è un atto di fede gettato nella follia della guerra, un gesto di speranza dedicato a coloro che ormai non ripetevano più questa parola, uno slancio d’amore che replica ai colpi della violenza.
Per questo don Carlo porta Cristo al fronte, o meglio lo conduce nella disperazione degli accerchiamenti dove si consumavano le ultime forze.
Prosa semplice, piccoli esempi e un cuore immenso fanno di questo libro un documento prezioso.
Le pagine dedicate a Giorgio, il bambino che ha perso tutto e poi muore, sono più eloquenti di tutte le analisi degli storici.
Leggendole si capisce perché “tocca alla morte rivelare profonde e arcane somiglianze”; perché nei loro corpicini senza vita era racchiusa la vera condanna della guerra, il prezzo “per le colpe di tutti”.
Con un incedere commovente, don Carlo Gnocchi vedendo il piccolo corpo di Giorgio lascia sulle pagine queste frasi piene di verità che mancano ai trattati: “Quante volte l’avevo già incontrato nella mia vita di guerra! Nella ferale teoria dei fanciulli in attesa degli avanzi del rancio o randagi a cercarlo fra le immondizie; nei bambini febbricitanti e morenti sui miserabili giacigli delle isbe russe o dei tuguri albanesi; nei cadaveri stecchiti dei bimbi morti di fame o di pestilenza, sulle strade della Russia, della Croazia o della Grecia”.
Giorgio era diventato uguale a tutte quelle vittime innocenti travolte dalla guerra, che continuarono la loro agonia quando le armi tacquero e gli eserciti si allontanarono.
Lo sguardo di don Carlo è dedicato ai suoi alpini, alla popolazione incontrata, ma si carica di commozione con questi bambini.
I soldati cercano di rompere l’accerchiamento, le loro canzoni alleviano le immense solitudini della disperazione, ma i bambini mutilati non gli concedono pace.
Il suo spirito e il suo cuore ritornano in quella infelicità concreta dei loro corpicini mutilati.
Mezzo secolo prima, nella medesima terra che a un certo punto don Carlo chiama per disperazione “lurida”, uno scrittore tra i più grandi, Fëdor Dostoevskij, chiese direttamente a Dio: “Signore, perché i bambini muoiono?”.
Non ebbe risposta.
Rifece la domanda, più volte.
Don Carlo ritraduce il quesito con il piccolo Bruno.
Si chiede, gli chiede: “Ora, piccolo Bruno, come farai?”.
E due righe più avanti: “Come potrai fare senza manine?”.
Il libro si chiude con questa domanda che, anche in tal caso, non è seguita da una risposta.
Tuttavia noi la conosciamo: è il resto della vita di don Carlo a fornircela.
Insomma, tornato dalla Russia, accomiatatosi dai suoi alpini, diede vita a quell’opera che continua ancora oggi sorretta dal miracolo del suo amore.
Dedicò se stesso ai mutilatini e ai piccoli invalidi di guerra, fondando per essi una vastissima rete di collegi.
All’infanzia derelitta e minorata rispose agendo, facendo, cercando di alleviarne i problemi.
Per molti aspetti la sua vita spiega quelle domande che si pose al tempo di guerra.
Come dire: partì con gli alpini, riuscì a fare il sacerdote in Russia, conobbe gli orrori dei massacri, si pose domande alle quali non c’erano risposte e poi mise tutto nelle mani di Cristo.
Riproporre Cristo con gli alpini significa conoscere un po’ di più la guerra e la Russia; soprattutto queste pagine spiegano l’inizio di un miracolo.
Ha scritto don Carlo, tra l’altro: “Ogni opera dell’uomo naufraga silenziosamente in questa uguaglianza monotona e sterminata”.
Di chi stava parlando? Certo, della Russia, ma forse anche di lui stesso.
Nella ritirata, dove i soldati erano “mucchi di stracci che si trascinavano”, “larve inebetite dal freddo e dalla fame”, quegli spazi infiniti hanno acceso in un cappellano un’idea d’amore.
Non è il caso di spiegare ulteriormente perché, come sempre, essa si vede ma non si dimostra, si tocca ma non si afferra.
Armando Torno (©L’Osservatore Romano – 24 gennaio 2009)

“Chiesa in Rete 2.0”

“Chiesa in Rete 2.0” è il titolo del convegno nazionale promosso dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e dal Servizio informatico della Cei che si terrà a Roma il 19 e 20 gennaio 2009.
“Si colloca in una fase di accresciuta consapevolezza di partecipazione ad un fenomeno ampio che offre nuove e diffuse possibilità di supportare l’azione pastorale e culturale delle diocesi – spiegano gli organizzatori -.
Il Convegno vuole contribuire a collocare più saldamente le iniziative diocesane in questo contesto generale, evidenziando anche il contributo della Cei in termini di piattaforme comuni, strumenti, servizi e competenze”.
Si aprirà con il saluto e l’introduzione di S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della Cei, di Don Domenico Pompili, Direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e del Dott.
Giovanni Silvestri, Responsabile del Servizio informatico della Cei.
Interverranno tra gli altri il Prof.
Adriano Fabris, Docente di filosofia morale all’Università di Pisa, il Prof.
Giuseppe Mazza, Docente di Teologia fondamentale e comunicazioni sociali della Pontificia Università Gregoriana, il Prof.
Stefano Martelli, Docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Bologna, il Prof.
Daniel Arasa, docente di struttura dell’informazione e comunicazione digitale della Pontificia università della Santa Croce.
Informazioni nel sito internet: www.chiesacattolica.it/chieseinrete

“Un anno con Paolo di Tarso”

Il Servizio Nazionale IRC offre agli Idr un sussidio per l’anno Paolino con alcuni percorsi di approfondimento a cura del bibblista don Cesare Bissoli.
L’approccio è di tipo culturale-scolastico: conoscere il cristianesimo a partire da testimoni autentici.
Il docente potrà liberamente utilizzare i materiali offerti declinandoli secondo il grado e tipo di scuola.
Schede didattiche per l’IRC