Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La Trasfigurazione del Signore Chiesa dei Santi Giacomo e Giovanni, Milano Nella tradizione cristiana, la Trasfigurazione è sempre stata letta nella chiave del mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo e come mistero centrale anche per la vita dell’uomo, in quanto anticipo di ciò che le energie della risurrezione compiranno nella nostra carne mortale: la nostra divinizzazione.
L’umanità di Gesù è realmente il luogo vivo in cui l’uomo diventa Dio, perché, da quando il Verbo ha preso un corpo, Egli è in relazione umana con il Padre e con tutti gli uomini.
“In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).
E Paolo aggiunge, nel versetto successivo: “Voi avete in lui parte alla sua pienezza”.
Ormai è abolita la distanza tra la materia e la divinità.
Nel corpo di Cristo, la nostra carne è in comunione con il Signore della vita, senza confusione, ne separazione.
Di ciò che il Verbo ha inaugurato con la sua incarnazione e manifestato a partire dal battesimo con i suoi miracoli, la trasfigurazione fa intravedere la pienezza: il corpo del Signore Gesù è il sacramento che dona la vita di Dio agli uomini.
Nella misura in cui la nostra umanità acconsente ad unirsi all’umanità di Gesù, partecipa della natura divina (cf 2Pt 1,4).
Cristo nelle vesti bianche rigonfie, mosse dallo Spirito, si trova inserito nella tradizionale mandorla blu scura che indica due cose: anzitutto, che Cristo si rivela come Dio dunque è inaccessibile alla nostra mente, il mistero non si può scrutare; secondariamente, che Cristo nella luce del monte Tabor è la vera luce, il vero sole, tanto da oscurare i raggi del sole cosmico.
Le tenebre del mondo, anche quelle che sommergeranno Cristo nella passione, non resistono davanti all’assolutezza della sua luce.
La trasfigurazione, in realtà, è quella degli apostoli, che per un istante hanno ricevuto la grazia di vedere l’umanità del Cristo come un corpo di luce, grazia di contemplare la gloria del Signore nascosta sotto la sua kenosis.
Dopo questa breve irruzione dell’Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la vita quotidiana.
«Per mostrare la trasformazione dei mortali assunti nella tua gloria, o Salvatore, al momento del tuo secondo e tremendo avvento, sul monte Tabor ti sei trasfigurato.
Elia e Mosè parlavano con te; tu chiamasti tre dei tuoi discepoli, ed essi vedendo, o Sovrano, la tua gloria, per il tuo fulgore restarono sbigottiti.
O tu che un tempo su costoro hai fatto brillare la tua luce, illumina le anime nostre».
(Orthros della trasfigurazione nel rito bizantino).
Il Tabor e il Getsemani Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità.
Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore.
Laggiù amore e dolore si fondono.
Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta.
La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2).
La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani.
Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M.
NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).
L’immagine tra luce e ombra La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione.
Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili.
Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata.
La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce.
Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte.
Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata.
L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti.
Tutto il resto deve essere svelato e illuminato.
Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre.
[…] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa.
La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile.
I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.
I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori.
Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato.
Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini.
Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore.
L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati.
È piuttosto essa a illuminare.
La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori.
L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie.
Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.
L’immagine è tra la luce e l’ombra.
E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra.
In ogni caso la rivelazione non è il riflettore.
La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo.
I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce.
È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.
La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.
(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E.
AFFINATI et al., Saper sperare.
Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).
Una sola tenda Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole.
Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno.
Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso.
Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.
Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21).
Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto.
Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva.
[…] Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui.
San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano.
Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia.
Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto.
Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui.
Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui.
Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia.
Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione.
Credeva fosse bene ciò che diceva.
Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola».
Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo.
All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi.
Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.
(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp.
576-578) Riconoscere Cristo Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte.
C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle.
Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità.
Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge.
Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.
La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura.
Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro.
Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.
(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).
Ancora e sempre sul monte di luce Cristo ci guidi perché comprendiamo il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.
M.
Turoldo) Lectio – Anno B Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18 In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi.
Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.
Aspetti di esegesi Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito.
Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2).
Abramo esegue il volere divino.
«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).
La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8).
L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.
Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio.
All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza.
È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà.
Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.
«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).
Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento.
I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).
«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20).
La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21).
L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.
Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19).
In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio.
La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).
Seconda lettura: Romani 8,31-34 Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13).
Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.
Aspetti di esegesi «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).
L’insieme è un inno di fiducia.
Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente.
Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto.
L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande.
Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi.
Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso.
La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote.
Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi.
La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.
Vangelo: Marco 9,2-10 In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Esegesi Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20).
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro.
È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.
Aspetti di esegesi Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù.
Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio.
Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.
Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23).
Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione.
La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione.
Gesù rimane identico mostrandosi glorioso.
Lo splendore di Gesù è celeste.
La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina.
I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.
«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4).
Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie.
Essi discorrono con Gesù.
Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).
«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati».
Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6).
È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.
«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7).
La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre.
La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.
Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo.
«E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).
Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione.
L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato.
I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”.
Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).
Meditazione Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita.
In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito.
Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio.
E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana.
Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato.
Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino.
Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio.
È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.
Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli.
È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù.
Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33).
La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino.
È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29).
Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.
Notiamo solo alcuni elementi del racconto.
Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’.
Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio.
Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù.
In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).
Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte.
E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte.
Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.
Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3).
Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo.
Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza.
Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore.
È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).
Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena.
E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto.
Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4).
C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola.
E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge.
Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio.
Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola.
E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).
Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze.
La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5).
L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo.
E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia.
Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro.
Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32).
Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.
Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare.
Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme.
Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8).
Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua.
Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino.
Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31).
Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta.
Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
la mostra “Nigra sum sed formosa”
Per gli storici dell’arte la regina di Saba è la donna bellissima che, accompagnata dalle sue ancelle e dai suoi scudieri, si inginocchia come in trance, presa da premonizione, di fronte al legno del ponte sul fiume Siloe, legno destinato a diventare un giorno la croce di Cristo.
Ed è la regale ospite desiderata e a lungo attesa accolta da re Salomone in una reggia che assomiglia al tempio dell’Alberti a Rimini o al palazzo di Luciano Laurana e di Francesco di Giorgio a Urbino.
Sto parlando, naturalmente, del ciclo affrescato da Piero della Francesca ad Arezzo.
Per Jacopo da Varagine che inventò la storia affascinante e piena di colpi di scena della scomparsa e agnizione della Croce di Cristo (vero e proprio thriller archeologico alla Indiana Jones), per i francescani che quella storia moltiplicarono negli affreschi delle loro chiese a stupore ed edificazione dei credenti, la regina di Saba era importante.
Ed era importante anche per l’iconografo (forse l’umanista Ambrogio Traversari) che suggerì a Lorenzo Ghiberti il celebre pannello della Porta d’Oro nel Battistero fiorentino di San Giovanni, dove si vede l’incontro di Salomone con la regina africana.
Correva l’anno 1439, il Concilio aveva riunito a Firenze i dignitari della Chiesa di Roma e delle Chiese d’Oriente e quella iconografia era una promessa di pacificazione fra i cristiani.
La regina di Saba era ed è ancora importante, in maniera del tutto speciale, per la gente d’Etiopia.
La storia era conosciuta in Occidente e soprattutto a Venezia fino dal Medioevo.
Lassù, fra le montagne e gli altopiani dell’Africa più remota e inaccessibile, circondato dall’Islam, c’era un popolo cristiano che praticava la fede degli apostoli.
Non solo, c’era un re che aveva per emblema il leone di Giuda e che diceva di discendere dal seme di Salomone.
Il cristianesimo etiope è un sontuoso ieratico relitto che si è conservato immune da influssi culturali esterni e da ogni contaminazione.
Il sovrano d’Etiopia, il negus neghesti (re dei re) è stato fino a ieri, fino all’ultimo imperatore Hailé Selassié, l’autocrate dei credenti e il custode di una leggendaria ortodossia giudaico cristiana.
Tutta la civiltà religiosa letteraria e artistica dell’Etiopia ha nella regina di Saba la sua pietra angolare.
Il poema epico nazionale, il Kebra Negast (la gloria dei re) databile all’inizio del xiv secolo, racconta che re Salomone e la regina di Saba si amarono, che dalla loro unione nacque una regale discendenza, che la sapienza giudaica e l’Arca dell’Alleanza, al sicuro dagli infedeli musulmani e dagli eretici cristiani, riposano sugli altopiani d’Etiopia, protette dalla spada e dalla lancia del Negus.
Molto antica e molto nobile è la civiltà letteraria e artistica dell’Etiopia cristiana, affascinante nella produzione artigianale a destinazione religiosa – argenti, icone, codici miniati – nei monasteri ancestrali, nelle città sante che replicano i luoghi di Gerusalemme, come la mirabile Lâlibalâ che porta il nome del sovrano che la edificò fra xii e xiii secolo.
Ancora sorprende e imbarazza che gli italiani, negli anni Trenta del secolo scorso, abbiano potuto umiliare e devastare tutto questo con una feroce e stolida guerra coloniale di cui oggi non possiamo che vergognarci.
Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano.
Conviene quindi chiuderlo subito.
Consola invece sapere che alla regina di Saba e alla civiltà etiopica gli italiani di oggi dedicano una mostra.
Curatori sono Giuseppe Barbieri dell’ateneo Veneziano, Gianfranco Fiaccadori della Statale di Milano, l’architetto Mario Di Salvo.
Con loro ha lavorato un folto e prestigiosissimo comitato scientifico internazionale all’interno del quale spicca il nome di Stanislaw Chojncki patriarca dei moderni studi sull’arte etiopica.
Perché un’impresa scientifica ed espositiva così impegnativa e così inusuale è stata concepita a Venezia? Perché Venezia, fra tutte le nazioni dell’antica Europa, è stata quella che ha mantenuto i maggiori e più fruttuosi rapporti con il regno d’Etiopia e che più di ogni altra ha influito nella sua storia artistica.
Si chiamava Nicolò Brancaleon il pittore veneziano che giunse in Etiopia circa l’anno 1481.
Si firmava in latino in icone arrivate fino a noi, fondò una scuola pittorica che ebbe seguito e fortuna fino al XVIii secolo.
Gli ambasciatori portoghesi che lo incontrarono nel 1520 parlano di lui come di un uomo che abitava in Etiopia da circa quarant’anni, che parlava perfettamente la lingua della nuova patria dove amava farsi chiamare Mercurio, e che era diventato ricco, potente, onorato.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Mercoledì 4 è stata presentata in Vaticano la mostra “Nigra sum sed formosa” che sarà aperta dal 13 marzo al 10 maggio all’università Ca’ Foscari di Venezia.
Pubblichiamo l’intervento del direttore dei Musei Vaticani.
“Nigra sum sed formosa”, il versetto celebre del Cantico dei Cantici, è il titolo di questa mostra coltissima e raffinata che subito chiarisce nel sottotitolo il suo obiettivo: “Sacro e Bellezza nell’Etiopia Cristiana”.
Che la sposa del Cantico dei Cantici sia figura della Chiesa o mistico emblema della Vergine Maria – come hanno pensato e scritto gli antichi esegeti cristiani – o che, più realisticamente, sia la bellissima regina africana che va incontro all’amato re Salomone, protagonista della mostra è lei, Saba; la regina che è venuta dalle profondità dell’Africa, che ha incontrato la Legge, ha profetizzato l’Incarnazione, ha dato gloria e splendore alla nazione etiopica.
Ponyo sulla scogliera
Il nuovo film di Hayao Miyazaki! Titolo originale: Gake no ue no Ponyo Titolo ad ideogramma: Titolo internazionale: Ponyo On The Cliff By The Sea Anno: 19 Luglio 2008 in Giappone Regia: Hayao Miyazaki Soggetto: Hayao Miyazaki Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Scenografie: Noboru Yoshida Capo Animatore: Katsuya Kondo Capo Colorista: Michiyo Yasuda Musiche: Joe Hisaishi canzone tema cantata da Fujioka Fujimaki e Ohashi Nozomi Durata: 100 min.
Produttore: Toshio Suzuki Distributore: Toho Data di uscita in Italia: 20 Marzo 2009 Distribuito da: Lucky Red Dvd in italiano: 2009 Il nuovo film di Hayao Miyazaki! Titolo originale: Gake no ue no Ponyo Titolo ad ideogramma: Titolo internazionale: Ponyo On The Cliff By The Sea Anno: 19 Luglio 2008 in Giappone Regia: Hayao Miyazaki Soggetto: Hayao Miyazaki Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Scenografie: Noboru Yoshida Capo Animatore: Katsuya Kondo Capo Colorista: Michiyo Yasuda Musiche: Joe Hisaishi canzone tema cantata da Fujioka Fujimaki e Ohashi Nozomi Durata: 100 min.
Produttore: Toshio Suzuki Distributore: Toho Data di uscita in Italia: 20 Marzo 2009 Distribuito da: Lucky Red Dvd in italiano: 2009 PONYO, una deliziosa pesciolina sulla scogliera Durante un Festival capita spesso che le giornate siano noiose e difficili da sopportare per le tante pellicole costretti a visionare, per fare un buon lavoro di critica, soprattutto per consigliare al meglio i nostri lettori.
Ebbene Hayao Miyazaki, l’esperto maestro di cartoni animati giapponese, da qualche anno partecipa con le sue storie animate alla competizione della Mostra di Venezia.
Nel 2008 ha deliziato tutti i cinefili con Ponyo, la tenera storia di una intraprendente pesciolina che ne combina di tutti i colori e fa vivere momenti di armonia con la natura e i sentimenti.
In questi giorni il film viene proiettato sugli schermi italiani.
Correte a vederlo con i vostri bambini.
Ecco la storia Un villaggio in riva al mare.
Sosuke, un bimbo di cinque anni, vive in cima a una scogliera affacciata su Inland Sea.
Una mattina, giocando sulla spiaggia rocciosa sotto casa, trova Ponyo, una pesciolina rossa con la testa incastrata in un barattolo di marmellata.
Sosuke la salva e la mette in un secchio di plastica verde.
Ponyo è affascinata da Sosuke e il bimbo prova lo stesso verso la pesciolina.
Le dice: “Non preoccuparti, ti proteggerò e mi prenderò cura di te”.
Ma il padre di Ponyo, Fujimoto – una volta umano e ora stregone che abita i fondali marini – la obbliga a tornare con lui nelle profondità dell’oceano.
“Voglio essere umana!” esclama Ponyo e, determinata a diventare una bimba per tornare da Sosuke, tenta la fuga.
Ma prima di farlo, versa nell’oceano l’Acqua della Vita, la preziosa riserva dell’elisir magico di Fujimoto.
L’acqua del mare si alza.
Le sorelle di Ponyo sono trasformate in enormi onde dalla forma di pesce che si arrampicano alte fino alla scogliera dove si trova la casa di Sosuke.
Il caos sprigionato dall’oceano avvolge il villaggio di Sosuke che affonda sotto i flutti marini.
I Domenica di Quaresima (Anno B).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Genesi 9,8-15 Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra.
Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sa-rà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni esse-re vivente che è con voi, per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».
L’Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell’alleanza sinaitica, fino ai primordi della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico.
Di fatti Noè, tramite suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in A-bramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).
In realtà Dio aveva benedetto l’uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn 1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia ricomincia da capo.
Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf.
Gn 9,1), depone la sua ira anche se non l’ha mai avuta e torna amico dell’uomo e di tutti gli esseri del creato.
Non fa-rà più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.
Il Dio dell’antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c’è raccolta tutta la nuova umanità.
Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l’uomo è l’arcobaleno.
C’era anche prima della comparsa di Noè, ma d’ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire.
Ogni volta che apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza.
Seconda lettura: 1Pietro 3,18-22 Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i pec-cati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.
E nello spi-rito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigionie-re, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo.
Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovra-nità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo Testamento.
Soprattutto il brano della liturgia odierna.
I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecu-zioni che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si tro-vavano anche loro, i destinatari dello scritto petrino.
Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf.
Mt 26,41).
Morendo non ha fatto altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo «spirito» perciò spirituale.
È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di entrare «salire» nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di so-pra degli stessi Principati e delle Potenze.
Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.
Il potere di Gesù giudice, secondo l’autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua salvezza.
A tal proposito l’autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol, nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.
I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell’antico Testamento, ma i contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale ri-fiuto furono puniti.
Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a deter-minarsi.
Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio» che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico.
Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e Catechismo, Paideia, 1999, p.
163).
Vangelo: Marco 1,12-15 In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana.
Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vi-cino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Esegesi Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa se-guito un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con un pronunciamento programmatico.
Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima di mettersi all’opera ha bisogno di fare un po’ di chiarezza nel suo animo, di comprendere più a fondo il senso della chiamata che l’ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera più opportuna di darle esecuzione.
Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l’ascolto della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.
Un profeta sembra che abbia una veste d’obbligo da indossare, un atteggiamento incon-fondibile da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell’asprezza, come Giovanni dava a vedere.
A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano ri-spondere all’agire divino più di quello della mitezza, dell’umiltà, del nascondimento, ma nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze.
Un’immagine che a Gesù era stata fatta balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare.
L’alternativa pertanto era tra il discendente davidico e il «servo di JHWH».
Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente.
Dall’esperienza sinaitica il «deser-to» era diventato il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio.
Qui Mosè aveva parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a rinnovare l’intesa con l’Altissimo (cfr.
Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23).
Non per nulla Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito.
Quindi si tratta di una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso.
È un esame che egli dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull’attuazione che intende dargli.
I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia.
In tutti i modi segnala la durata e ricor-da il combattimento spirituale che Gesù ebbe a sostenere con Satana.
Il numero «quaranta» è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una certa esperienza.
Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant’anni nel deserto per verifica-re la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Num 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40 giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni im-piegano 40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco sinistro 40 giorni per scontare l’empietà d’Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).
Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per ve-rificare la scelta compiuta.
Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo «peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentaba-tur», si può dire iterativo, come a indicare che non fu un cimento sporadico, ma persistente per tutto il tempo trascorso nel deserto.
Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.
La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono al-l’Avversario del bene, a Satana.
Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio no-to ai suoi lettori.
Per l’uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio.
Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della sua opera, soprattutto la felicità dell’uomo.
Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento, ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova e-segesi.
La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall’intimo di ciascun uomo e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene co-mune.
Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta del padre.
Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode, onerose, umilianti.
Deve capirlo e soprattutto accettarlo.
Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menzio-na accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli».
Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l’uomo era in pace con le fiere e godeva dell’amicizia di Dio (cfr.
Is 11,6-9).
Il «paradiso» si poteva considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf.
Gv 1,51).
Il Cristo si scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine conseguirà.
Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l’apertura dell’attività messianica di Gesù.
Essa coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Bat-tista.
La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola con quella di alcun altro.
Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono.
Con lui si «compiono i tempi» dell’attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione della salvezza.
E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio.
Molti profeti l’hanno pre-ceduto ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono di Dio.
Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, a-scoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).
Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea.
Un ri-chiamo non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni.
I fatti non si po-tevano smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l’avallo delle Scritture.
Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitra-riamente, a un detto di Isaia (8,23-9.1).
I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale condizione per accogliere l’uno e l’altro.
Il «vangelo di Dio» è un’espressione propria di Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l’avve-nuta realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni che si erano verificate nel tempo tra l’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro.
Il tutto equi-valeva all’instaurazione del regno di Dio.
Non è che il Signore avviava un suo particolare dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo.
Essi saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.
Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, rico-noscere cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall’alto e conformare ad essa la propria condotta.
La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.
Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi della divinità nei confronti dei propri simili.
Il regno di Dio si realizza quando gli uomini tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio.
Il regno porta la deno-minazione di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.
Meditazione Sull’ideale portale d’ingresso della Quaresima iscriviamo l’appello di Cristo: «Converti-tevi e credete al Vangelo».
Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono co-me un colpo d’artiglio che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitu-dini consolidate dell’esistenza umana.
Noi, però, vorremmo oggi fissare la nostra attenzio-ne sulla scena della tentazione di Gesù, che Marco, anziché costruire sui celebri tre gradi di Matteo e di Luca (le pietre del deserto, il monte, il pinnacolo del tempio), semplifica in quattro frasette: lo Spirito che spinge Gesù nel deserto, la tentazione dei quaranta giorni, la vita con le fiere, il servizio angelico.
Certo, nelle solitudini dei monti di Giuda si aggiravano probabilmente i lupi, si udiva il grido lacerante dello sciacallo, strisciavano serpenti velenosi.
Questi animali, però, ora so-no evocati per costruire un quadro non geografico ma simbolico.
Il dato decisivo, infatti, è che Gesù viva in mezzo ad essi in piena armonia.
Le poche parole di Marco rimandano, al-lora, ad un celebre passo messianico di Isaia.
Nei giorni del re Emmanuele «il lupo dimo-rerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, vitello e leoncello pa-scoleranno insieme e un fanciullo li guiderà; la vacca e l’orsa pascoleranno insieme, si sdraieranno insieme i loro piccoli, il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi» (11,6-8).
L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato dal capitolo secondo della Genesi col giardino dell’Eden.
Gesù inaugura, allora, il mondo sognato da Dio e descritto proprio in quella pagina della Genesi a cui abbiamo alluso.
Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, ad essi imponeva il nome, su di essi dominava non come un ti-ranno prepotente e presuntuoso ma come guida incaricata dal Signore.
Gesù è il nuovo e perfetto Adamo che ci ripropone il mondo paradisiaco in cui Dio, uomo, animali e cosmo si intrecciano in uno stupendo arazzo di vita, di pace, di colori e di musica.
Lo stesso orizzonte riaffiora nella prima lettura, che descrive l’alleanza di Dio con Noè, l’uomo emerso dal diluvio, segno del giudizio divino sulle prepotenze e i crimini dell’u-manità.
L’arcobaleno è il simbolo dell’arco dell’ira divina, ormai deposto e non più imbrac-ciato dal Signore, giusto giudice e vindice degli oppressi.
Le acque del nulla e della morte, d’ora innanzi, saranno bloccate da Dio, nei cieli rifulgerà lo splendore di una nuova gior-nata e sulla terra si muoverà un’umanità rinnovata.
La Quaresima diventa il tempo per ri-tessere due squarci che le nostre mani hanno prodotto.
Il primo è quello aperto all’interno della trama delle relazioni con Dio.
Il Signore si affaccia dal suo mistero celeste per offrici ancora la mano in un gesto di alleanza e di riconciliazione.
Il secondo squarcio è, in questi ultimi tempi, consumato con maggior veemenza dal-l’uomo e, quindi, più drammaticamente avvertito che non in passato: tra l’uomo egoista e prepotente e la natura non c’è più fratellanza, ma tensione e ostilità.
Non siamo più in ar-monia con “sorella Terra”.
Ritroviamo, allora, anche con essa – come ha fatto il Cristo – il dialogo e l’alleanza; ritroviamo il rispetto per la creazione e la capacità di dare origine ad uno sviluppo equilibrato delle nostre relazioni con essa.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vi-ta e Pensiero, 2008-2009.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Quaresima! Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell’inverno, prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera, tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore e ci inviti a percorrere l’itinerario della Quaresima.
Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri, ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.
Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.
Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno, di avvertire quella fame profonda che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia, da tante brame che attraversano la nostra esistenza.
Strada antica, quella della Quaresima, sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.
Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo, con audacia e con gioia, perché è un percorso di liberazione, che ci conduce a sperimentare la forza e la bellezza della Pasqua.
Deserto «L’esperienza del deserto è stata per me dominante.
Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante.
Come il roveto ardente, essa brucia e non si consu-ma.
Brucia per se stessa, nel vuoto.
L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo a-scolto» (Edmond Jabès).
Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il de-serto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante.
Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo ari-do e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chor-bah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, sen-z’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali sel-vaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi.
Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attra-verso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio.
È in sostanza luogo di rinascita.
E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b 5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Ge-nesi 2,8 15).
E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1 2).
Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia.
Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla).
È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1 14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19 24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alle-anza nuziale…
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semanti-ca del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino.
Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità ari-da, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione.
Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano.
«Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2).
Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapre-so dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Ge-nesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto.
Il deserto è il luogo delle ribel-lioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11 12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5).
Anche Gesù vivrà il deserto come no-viziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11).
Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico! Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si tra-versa.
Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù.
Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza.
E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà.
Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino.
Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione.
Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa del-l’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante.
L’uomo del deserto può così ricono-scere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria.
Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversio-ne, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3).
Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso dimi-nuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di di-minuzione del deserto.
Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene ci-fra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio.
Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto.
È il deserto che è il mistero stesso di Dio».
(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità.
Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).
Soli nel deserto Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre.
Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo.
Non vediamo mai al di là delle no-stre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci.
Se ci accorges-simo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che sia-mo soli nel deserto, potremmo impazzire.
Quando mia madre offre degli amaretti di La-durée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgra-nocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.
Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139) Il deserto Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo Spirito quando si ritirò nella solitudine.
Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la violenza della persecuzione si attenui.
Non sto parlando in primo luogo del deserto dei monaci, ma di quello dei cristiani.
Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chia-mato e abilitato dalla grazia.
Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza ad-dossata al deserto: essa vive in situazione di diaspora oggi più che mai .
Noi tutti siamo come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sap-piamo trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore.
Ma nel contempo, ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profon-da povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra difesa.
(A.
Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp.
9-20).
«Fuggi, taci e prega» Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell’im-peratore Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio.
Quando era ancora a corte, l’abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato».
Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Ar-senio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto.
Indicano i tre modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.
(H.J.M.
NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).
Preghiera Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.
È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, se-guendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.
Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza.
Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.
So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.
La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita.
Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, a-zioni che siano le tue azioni.
Non vi sono tempi o luoghi senza scelte.
E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.
Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.
Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quan-do verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vi-ta di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).
The Millionaire
Una domanda e venti milioni di rupie separano Jamal Malik da Latika, amore infantile e mai dimenticato.
Dopo averla incontrata, persa, ritrovata e perduta di nuovo Jamal, un diciottenne cresciuto negli slum di Mumbai, partecipa all’edizione indiana di “Chi vuol essere Milionario” per rivelarsi alla fanciulla e riscattarla (con la vincita) dalla “protezione” di un pericoloso criminale.
L’acquisita popolarità mediatica, la scalata trionfale al milione e alle caste sociali infastidiscono il vanesio conduttore che cerca di boicottarne la vittoria, ingannandolo e facendolo arrestare.
Sospettato di avere imbrogliato e torturato inutilmente, Jamal rivelerà al commissario di polizia soltanto la verità: conosceva le risposte perché ciascuna di quelle domande ha interrogato la sua straordinaria vita, devota a Latika e votata all’amore.
I personaggi del cinema di Danny Boyle contemplano tutti una magnifica ossessione, correndo a perdifiato per realizzarla.
Il consumo di eroina, di sterline, di sole o di amore crea ai suoi boys una forte dipendenza e il bisogno impellente di averne ancora.
Dopo i tossici friends di Trainspotting e dopo le odissee solari, dopo le spiagge incontaminate e dopo le sterline piovute dal cielo, il regista scozzese entra nello studio televisivo di Mumbai per osservare la vita di Jamal Malik, fino a svelarla nelle domande, fino a comprenderla nelle risposte.
Jamal è il protagonista di una favola mediatica in cui si avverano i desideri dell’uomo indiano comune (e non solo).
Padroneggiando l’estetica e il “fondamentalismo” melodrammatico del cinema bollywoodiano, Doyle mette in scena un eroe virtuoso che (da tradizione) sconfigge il male e salva i deboli senza dimenticare di mostrare le fratture presenti nella società indiana, prodotte da un sistema nel quale sopravvivono forti disuguaglianze.
Jamal è un ragazzo comune che decide di agire alla propria condizione di impotenza spalleggiato dal fratello maggiore Salim, un “angryyoung man” alla Amitabh Bachchan dotato di carisma e potere.
Duro, vendicativo e leale come l’idolo del cinema indiano degli anni Settanta, Salim è un delinquente di buon cuore che ha scelto la strada del crimine per reagire ai soprusi della metropoli.
Nella Mumbai della loro infanzia i “due moschettieri” sviluppano personalità opposte che determineranno destini profondamente diversi.
Latika, tra loro, a unirli e a separarli, è da convenzione elemento femminile e decorativo la cui debolezza esalta la virilità maschile.
Danny Boyle interpreta e utilizza con competenza la musica, un’altra componente essenziale del cinema popolare e della cultura indiana.
Sostenuto dal ritmo e dalle note di Allah Rakha Rahman, uno dei più grandi compositori indiani di soundtracks, il regista usa le canzoni in funzione narrativa, lasciando che la musica si fonda con le immagini, sottolineando e guidando le emozioni.
Autore versatile, che attraversa incolume generi ed estetiche, Danny Boyle gira un film che riposa nell’alternanza del suo fortissimo e del suo pianissimo, in quella brusca scansione tra dolly sconfinati e scontri di classe, assoli sentimentali e crudeltà brutali.
Tra il volo di una stella in elicottero e il tuffo di un bambino nella latrina più sporca (e lirica) di tutta l’India.
The Millionaire (mymonetro 3,50 stelle) Un film di Danny Boyle.
Con Dev Patel, Anil Kapoor, Freida Pinto, Madhur Mittal, Irfan Khan.
Mia Drake, Imran Hasnee, Faezeh Jalali, Shruti Seth, Anand Tiwari Titolo originale Slumdog Millionaire.
Commedia, durata 120 min.
– Gran Bretagna, USA 2008.
– Lucky Red data uscita 05/12/2008.
Il film di Boyle è un caso artistico e produttivo, interessante ed esemplare.
Partito in sordina, senza grandi finanziamenti, soltanto con una sceneggiatura decisamente ispirata, ha trovato un produttore coraggioso, Christian Colson che si è addentrato insieme al regista inglese nei vicoli sudici di Mumbai; ha reclutato la gente che li abita; e ha loro affiancato alcuni attori professionisti legati agli studi di Hollywood.
Protagonista però è Mumbai, è l’India che vi si rispecchia, con le sue contraddizioni, luogo emblematico in cui disperazione e speranza riescono perfettamente a convivere.
Jamal, cresciuto tra cumuli di immondizia e indicibili violenze, conquista le vette del successo partecipando a un noto gioco televisivo che innesca una storia ricca di sentimenti e verità, nella quale tutti si possono facilmente identificare condividendo le ansie e le paure, gli amori e i sacrifici dei giovani protagonisti.
l’Oscar del 2009 sarà ricordato proprio per il confronto, accesissimo e ben costruito, tra le tredici candidature di The Curious Case of Benjamin Button di David Fincher e le dieci di The Millionaire di Danny Boyle, costato il primo 150 milioni di dollari ed esattamente un decimo il secondo, perché girato senza divi, senza effetti speciali, senza scene imponenti e costosi costumi, illuminato e sorretto soltanto da un perfetto e accattivante congegno narrativo.
Così l’originale e drammatica avventura umana del giovane neo-milionario indiano Jamal ha vinto meritatamente otto statuette – tra le quali miglior film, regia, sceneggiatura non originale, fotografia e montaggio – sbaragliando la curiosissima vita del misterioso anziano americano Benjamin, che ne ha ricevute soltanto tre, e tutte di carattere tecnico.
Classe prima – Marzo
VII unità di apprendimento: “Gesù racconta…” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * Gesù di Nazaret, l’Emmanuele “Dio con noi”. * Descrivere l’ambiente di vita di Gesù nei suoi aspetti quotidiani, familiari, sociali e religiosi.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire che Gesù utilizza le parabole per trasmettere i suoi insegnamenti • Capire che ogni parabola racchiude un messaggio Suggerimenti operativi • Spiegare ai bambini che Gesù parlava con tutte le persone: bambini, adulti, sapienti, non istruiti…
Per farsi capire usava un linguaggio semplice e dei racconti speciali: le parabole, per trasmettere i suoi insegnamenti…
• Leggere il testo della parabola della pecorella smarrita (utilizzare una Bibbia illustrata, in modo da associare alle parole anche le immagini dei vari momenti del racconto). • Rappresentare la parabola assegnando a ogni bambino un ruolo (le pecorelle, la pecora smarrita, il pastore, Gesù, la folla), e ripetere la drammatizzazione più volte per fare in modo che i bambini si possano immedesimare nei loro ruoli.
• Riflettere su emozioni/sentimenti provati nel racconto della parabola e sulle caratteristiche dei vari personaggi. • Individuare il messaggio trasmesso da Gesù e sul quaderno rappresentare la scena che ogni bambino ritiene più significativa.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
7: Ogni bambino ha diritto ad avere un’identità.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Sperare nell’uomo
GIORGIO CHIOSSO (ed.), Sperare nell’uomo.
Giussani, Morin, MacIntyre e la questione educativa, Sei Frontiere, 2009 Che cosa hanno in comune un prete italiano che ha dedicato la propria vita all’educazione dei giovani, un intellettuale francese che ha proposto una “riforma del pensiero” per indagare la complessità del mondo e un filosofo americano che ha individuato nella dimensione della comunità un antidoto contro l’individualismo del nostro tempo? La risposta sta forse in tre opzioni che accomunano i tre protagonisti di questo volume, pur nella diversità dei loro approcci: una grande fiducia nell’uomo e nella condizione umana; una tenace resistenza contro le tendenze relativistiche del nostro tempo; il netto rifiuto di pensare l’uomo in termini di semplice adattamento alle regole della vita sociale.
E quasi a unificare questi tre fondamenti della loro riflessione, un’esplicita vocazione educativa segnata dal valore riconosciuto all’uomo in quanto capace di senso, di comprensione, di relazione con gli altri.
Come scrive Giorgio Chiosso nelle pagine introduttive: “Alla visione utilitaristica che segna larga parte della scuola e dell’educazione condizionate dal mercato e dal conseguente esasperato specialismo, Giussani, Morin e MacIntyre oppongono la priorità della formazione di un uomo consapevole di sé, capace di senso critico, solidale con gli altri “terrestri” (per usare l’espressione di Morin) che con lui condividono la condizione umana”.
Per illustrare queste posizioni, serve naturalmente una pluralità di punti di vista: è quello che fa questo volume, chiamando a raccolta pedagogisti e psicologi come Roberto Sani, Concepciòn Naval e Piero Quaglino; sociologi, come Luciano Gallino, Sergio Manghi e Guglielmo Malizia; storici e filosofi come Giovanni De Luna, Enrico Berti, Massimo Mori.
Ma anche economisti e giuristi, come Lorenzo Caselli e Mario Dogliani.
Contro la tentazione di concepire l’educazione come residuale, come un bene semplicemente da usare e scambiare dentro un mercato senza senso se non quello economico.
Primo biennio – Marzo
VII unità di apprendimento: “La storia degli Ebrei continua” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * Gesù, il Messia, compimento delle promesse di Dio.
* Ricostruire le principali tappe della storia della salvezza, anche attraverso figure significative.
OBIETTIVI FORMATIVI • Conoscere i momenti principali della vita di Mosè e il suo ruolo nella storia della salvezza.
• Scoprire che Dio si schiera dalla parte degli oppressi e dei perseguitati.
Suggerimenti operativi • Riprendere la storia del popolo ebreo con i personaggi già conosciuti e inserire nella continuità la vicenda di Mosè.
Collegarsi con lo studio affrontato in storia sulle principali civiltà dell’epoca.
• In ogni lezione raccontare a tappe la vita di Mosè e il suo ruolo nella storia ebraica.
Utilizzare una Bibbia illustrata o a fumetti, con un adattamento del testo.
• Dividere i bambini a coppie o a gruppetti e dare a ognuno la consegna di rappresentare una scena della vita di Mosè.
A turno, ogni gruppo, scriverà al computer una frase di commento da accompagnare al proprio disegno.
Riunire il lavoro in un libro o in un cartellone.
• Sottolineare come Dio sia venuto in soccorso del popolo ebreo che era schiavo e sofferente; ricordare che ancora oggi ci sono popoli perseguitati.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine, storia, informatica Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
6: Ogni bambino ha diritto di vivere.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Secondo biennio – Marzo
VII unità di apprendimento: “Le religioni del mondo” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * Il cristianesimo e le grandi religioni: origine e sviluppo.
* Leggere e interpretare i principali segni religiosi espressi dai diversi popoli.
OBIETTIVI FORMATIVI • Prendere coscienza che nel mondo esistono religioni differenti • Conoscere alcuni aspetti delle principali religioni del mondo • Riconoscere l’importanza del dialogo interreligioso Suggerimenti operativi • Procurare un planisfero da appendere in classe e ragionare sulla presenza di molte religioni diverse nei vari continenti.
Far emergere le conoscenze pregresse sulle principali religioni del mondo.
• Dividere la classe in gruppi di ricerca e assegnare a ognuno il compito di approfondire una religione: cristianesimo, islam, ebraismo, induismo, buddhismo.
Fornire libri, immagini, testi scolastici di religione a ogni gruppo.
Le informazioni da puntualizzare sono: fondatore, periodo di nascita, luogo-giorno-ministro di culto, simbolo, libro sacro, feste principali.
• Collaborare con l’insegnante di educazione all’immagine per realizzare dei disegni e con l’insegnante di informatica per scrivere le informazioni essenziali. • Ogni gruppo dovrà relazionare ai compagni la propria ricerca; potrà utilizzare varie tecniche: esposizione orale, drammatizzazione, letture, fotografie, disegni…
• Riprendere l’approfondimento sul tema della pace svolto nel mese di gennaio e riascoltare il canto imparato.
Sottolineare l’importanza degli incontri di Assisi per l’impegno del dialogo interreligioso; alla fine realizzare un cartellone con la scritta pace e intorno i nomi e i simboli delle religioni studiate.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine, informatica Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
VI Domenica del tempo ordinario (Anno B).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 43,18-19.21-22.24-25 Così dice il Signore: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.
Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi.
Invece tu non mi hai invocato, o Giacobbe; anzi ti sei stancato di me, o Israele.
Tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità.
Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati».
Questa lettura è tratta dalla seconda parte del libro di Isaia, dalla sezione che annunzia la liberazione dalla schiavitù in Babilonia e il ritorno nella terra dei padri (cc.
40-44).
— I vv.
18-19 contengono una esortazione a dimenticare il passato e ad aprirsi alla speran-za, volgendo lo sguardo verso il futuro.
La dimenticanza del passato qui intesa non è cer-tamente quella che riguarda le imprese salvifiche di Dio, poiché quella memoria deve in-vece nutrire la fede nel futuro.
Bisogna invece dimenticare quel modo di ricordare che al-letta l’immaginazione e imprigiona la volontà, distogliendola dalle decisioni che riguarda-no il presente.
Il profeta esorta a volgere lo sguardo verso il futuro, perché Dio è sul punto di fare una cosa nuova.
Con immagine poetica, il momento attuale è paragonato alla prima-vera, quando sugli alberi germogliano le gemme e si preparano a sbocciare.
Con altre im-magini poetiche di grande effetto, è detto che si apriranno strade nel deserto e sgorgheranno sorgenti di acqua nella steppa, intendendo dire che sarà reso possibile il ritorno degli esiliati attraverso il deserto e la steppa.
— Il v.
21 dice quale sarà l’effetto più bello del ritorno dall’esilio: il popolo eletto tornerà a cantare le lodi di Dio nella sua terra.
— I vv.
22 e 24-25 assicurano che Dio stesso farà quello che ha raccomandato di fare al suo popolo: cancellerà dalla sua memoria i misfatti di Israele, non ricorderà più i suoi peccati.
Ciò vuol dire che il popolo rientrato dall’esilio inizierà a vivere in piena armonia con il suo Di-o.
Come si vede, le grandi novità e la remissione dei peccati di questa profezia hanno avu-to pieno adempimento nella persona di Gesù, secondo la nostra lettura evangelica.
Seconda lettura: 2Corinzi 1,18-22 Fratelli, Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no».
Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì».
Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì».
Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria.
È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.
La nostra seconda lettura appartiene alla seconda lettera di S.
Paolo ai Corinzi, che ec-celle tra le opere dell’antica letteratura greca.
Il nostro brano si distingue in essa per la sua commossa eloquenza.
Paolo è venuto a sapere che, nella comunità di Corinto, dei mestatori si agitano per scalzare ogni suo credito e il suo prestigio di apostolo.
Sfruttano per questo ogni pretesto, tra cui il fatto che egli non ha mantenuto la promessa di ritornare a Corinto, dopo che se ne era allontanato per il suo dovere apostolico.
Mettono in ridicolo quel suo promettere e non mantenere, quasi che, per lui, il «sì» equivalga al «no».
Paolo replica dichiarando che quest’accusa, per lui e per i suoi collaboratori Silvano e Timoteo, rasenta l’assurdità: essi non possono mescolare il «sì» e il «no», perché contraddirebbero il vangelo di Gesù Cristo (cf.
Mt 5,37) e contraddirebbero soprattutto l’esempio personale del Signore Gesù, che in tutta la sua vita ha sempre obbedito prontamente al Padre, al punto che egli può essere de-finito un unico continuo «sì» (vv.
18-20).
In tal modo, il contenuto di un’accusa che, in se stessa, poteva essere considerata un tra-scurabile pettegolezzo, fornisce a Paolo l’occasione per riflettere sul comportamento di Ge-sù Cristo nei confronti del Padre.
E su questa riflessione si innesta l’esortazione ai Corinzi di saper dire sempre il loro «Amen» (cioè il loro «sì») a tutto ciò che Dio può a loro chiede-re.
Questa deve essere per tutti noi una norma continua, perché tutti, seguaci di Cristo ab-biamo ricevuto l’unzione, che ci ha assimilati a lui per mezzo dello Spirito (vv.
21-22).
Anche questi pensieri si armonizzano con il messaggio della lettura evangelica, che par-la della novità portata tra gli uomini da Gesù e dal suo vangelo.
Vangelo: Marco 2,1-12 Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni.
Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola.
Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone.
Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico.
Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati».
Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?».
E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua».
Quello si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».
Esegesi Il racconto della guarigione di un paralitico introduce, nel vangelo di Marco, la sezione delle così dette dispute galilaiche, che vanno da 2,1 a 3,6.
La sezione, che segue quella in cui è descritta l’accoglienza trionfale di Gesù da parte delle folle della Galilea (1,14-15), ci fa conoscere il crescente contrasto che si stabilisce tra Gesù e le guide religiose del popolo e-braico.
Motivo fondamentale del contrasto è il potere che Gesù si attribuisce, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), di voler riportare al senso originario le disposizioni della legge mosaica, di saperne dare una interpretazione nuova, di portare a compimento la ri-velazione fatta ai padri e di realizzare l’attesa messianica.
— I vv.
1-2 ci danno la cornice dell’avvenimento: Gesù è rientrato a Cafarnao ed è proba-bilmente ospite nella casa dei discepoli Simone e Andrea.
Gran numero di gente è accorsa per ascoltarlo ed egli «annunziava loro la parola»; proclamava, cioè il suo vangelo.
— I vv.
3-4 descrivono, con vivace semplicità, l’azione di quattro uomini che, impediti di giungere a Gesù a causa della folla, dal tetto scoperchiato gli calano davanti un paralitico.
Il gesto era così eloquente per se stesso, che non aveva bisogno di parole esplicative: ciò che si chiedeva era la guarigione dello sventurato.
Né i padroni di casa né Gesù accenna-no a una protesta per i danni inferti all’edificio e per l’interruzione imposta al discorso.
Sembra di capire che i primitivi narratori dell’episodio abbiano visto che c’era continuità essenziale tra l’annunzio della parola e la guarigione dei malati.
La stretta unione di queste due cose è chiaramente espressa in questa frase di Luca, che parla della missione affidata da Gesù ai Dodici: «E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2).
— Il v.
5 è teologicamente molto ricco, perché, ci presenta Gesù nella pienezza dei suoi po-teri speciali: egli vede la fede del malato e dei suoi portatori; garantisce al paralitico la remis-sione dei peccati.
La fede è vista da Gesù nel gesto del paralitico e dei suoi portatori che si affidano totalmente a lui, superando ogni ostacolo e senza neppure il bisogno di parlare.
Per rispondere a quella fede, Gesù attinge al massimo del suo potere concessogli dal Padre: accoglie il paralitico con l’appellativo tenero di figliolo e gli da l’annunzio che gli sono ri-messi i peccati.
Con queste parole, Gesù non stabilisce uno stretto rapporto tra peccati per-sonali e malattia in quel sofferente, ma richiama certamente alla memoria il principio a tut-ti noto che la radice prima di tutti mali dell’uomo consiste nel peccato.
Contemporanea-mente annunzia che egli per questo è venuto: per sconfiggere il peccato e iniziare una nuova fase della storia umana.
A questo punto, i vv.
6-7 interrompono il racconto del miracolo e introducono la pre-senza degli scribi (che rappresentano l’intera categoria delle guide spirituali del popolo) questi sono ben lontani dall’accettare l’insegnamento di Gesù e, in cuor loro, non esitano ad accusarlo di bestemmia.
Il loro atteggiamento è dunque in netto contrasto con la dispo-nibilità a credere della folla.
Nei vv.
8-9, opponendosi all’incredulità degli scribi, Gesù svela i suoi poteri sovrumani: legge nei loro pensieri (ciò che è possibile solo a Dio) e presenta il suo intervento sulla ma-lattia come prova del suo potere di rimettere i peccati.
Nei vv.
10-11, alle parole seguono i fatti: Gesù comanda al paralitico di prendere lui stesso il suo giaciglio e di andarsene a casa.
Dice anche che questo miracolo dimostrerà con evidenza che egli, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), ha davvero il potere di rimettere i pecca-ti.
Viene così enunciato il principio che i miracoli di Gesù sono segni visibili di avvenimen-ti e realtà che trascendono ciò che si tocca e si vede: l’evangelista Giovanni chiamerà infatti segni tutti i miracoli di Gesù.
Nel v.
12, che conclude il nostro racconto, la folla esprime il suo stupore dichiarando la sua apertura alla fede: dicendo che non hanno mai visto nulla di simile, insinuano che in Ge-sù si sta realizzando qualcosa di assolutamente nuovo, vale a dire l’attesa messianico-escatologica.
Nulla è detto degli scribi, suggerendo così che essi sono rimasti murati nella loro incredulità.
Meditazione Solo Dio, con la potenza della sua misericordia che si manifesta mediante il perdono, può ricreare la vita dell’uomo; le ferite del peccato vengono rimarginate e la bellezza di co-lui che è stato creato per essere immagine di Dio viene ridonata.
L’uomo è chiamato a guardare in avanti, verso una novità di vita che è solo dono di Dio.
Questa nuova creazio-ne si realizza in modo definitivo nella parola potente di Gesù, parola che può salvare l’uomo dalla paralisi del peccato, parola pronunciata mediante quella autorità che il Figlio ha ricevuto dal Padre: «…perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra» (Mc 1,10).
Può essere questo il tema centrale della liturgia della Parola in questa domenica del tempo ordinario: una vita rinnovata dal perdono.
E il racconto della guarigione del paralitico, riportato dall’evangelista Marco, è una icona stupenda di ciò che Dio può fare per l’uomo.
Marco apre la narrazione del miracolo con tre elementi descrittivi che hanno come pun-to focale Gesù e i suoi discepoli, simbolo della comunità dei credenti, la Chiesa, in cui l’uomo trova, nell’annuncio dell’evangelo e nella remissione dei peccati, lo spazio per in-contrare Gesù e la potenza stessa di Dio.
Infatti c’è un luogo, una casa in cui Gesù è presen-te con i suoi discepoli e nella quale egli «annuncia la Parola» (v.
2) e guarisce.
Davanti alla porta di questa casa ci sono tante persone che si accalcano in cerca di una parola di conso-lazione, di un segno di salvezza, di una guarigione, di una liberazione.
È in quella casa che tutti desiderano entrare per incontrare Gesù, a costo di trovare altre vie di accesso se sono impediti (ciò che avverrà per il paralitico).
E infine ciò che risuona in questa casa è anzitut-to una parola, piena di autorevolezza, potente, capace di cambiare la situazione dell’uomo, forte come l’atto creatore di Dio.
È la parola dell’ euangelion, una parola di gioia, di libertà e di pace.
In questa cornice, così carica di forza rinnovatrice, di salvezza, viene simbolicamente ‘calato’ l’uomo che soffre, ferito nella sua dignità, incapace di camminare verso la vita, sfi-gurato dal male.
È questa la realtà che possiamo cogliere nella figura del paralitico.
Ab-biamo detto: viene calato.
Nel gesto compiuto dai quattro uomini che scoperchiano il tetto nel punto in cui si trova Gesù e di lì calano «la barella su cui era adagiato il paralitico» (v.
4), non solo si rivela il mistero di una fede che si fa solidale, ma soprattutto l’impossibilità dell’uomo di salvarsi da solo.
L’uomo immobilizzato, incapace di muoversi, di reagire, di camminare verso la vita, non solo ha bisogno di essere salvato, ma di lasciare che altri lo conducano alla salvezza.
È la fede di una comunità che sa farsi carico delle sofferenze del fratello, con la preghiera e con gesti concreti (capace addirittura di aprire varchi impensati quando si incontrano ostacoli), a condurre l’uomo immobilizzato di fronte a Gesù.
E Gesù ammira proprio questa fede a cui il paralitico si è affidato.
In che cosa consiste la salvezza, la novità di vita che viene donata all’uomo? Al paraliti-co Gesù dice dapprima: «Figlio, ti sono perdonati i peccati» (v.
5).
E poi, di fronte agli scribi scandalizzati, dirà: «alzati, prendi la tua barella e va a casa tua» (v.
11).
Lo sguardo di Gesù, pieno di compassione, sa penetrare nel profondo della esistenza di quell’uomo immobiliz-zato.
Va oltre il male fisico che impedisce a quell’uomo di muoversi e rivela come il pecca-to sia il vero fallimento dell’uomo, di ogni uomo, anche di colui che crede di esser sano (come quegli scribi).
Dalla parola potente di Gesù (di fatto non compie nessun gesto), l’uomo viene toccato nel suo essere profondo e invisibile, lì dove si manifesta la reale rot-tura con Dio, lì dove l’uomo si nasconde a colui del quale è immagine, lì dove sperimenta paura, disorientamento e alienazione.
Vicino a Gesù, attraverso la sua parola che è perdo-no, l’uomo riscopre il suo volto interiore come comunione con Dio; e questo si riflette su tutta l’esistenza , ridando all’uomo la possibilità di agire e di camminare.
Veramente la vita dell’uomo è ri-creata.
Ma resta un dubbio: guarigione dalla sofferenza fisica e guarigione dal peccato sono la stessa cosa? Perché Gesù sembra percorrere due vie di salvezza, unendole così tra di loro? Allora peccato e malattia sono legati? C’è la tentazione di vedere strettamente unite questa due realtà di male che sfigurano mortalmente il volto umano.
Una certa visione di Dio, presente anche nella Scrittura, può condurre quasi a una identificazione tra peccato e sof-ferenza: è questo il tormento di Giobbe.
Ma questo è un volto di Dio che non può essere accettato; Gesù stesso, rivelando il suo amore per tutti coloro che sono afflitti da varie ma-lattie, non solo rifiuta questa visione della sofferenza, ma manifesta un Dio pieno di com-passione.
E allora perché questa relazione peccato-malattia? Spesso, capita anche a noi, quando viviamo o incontriamo la sofferenza, di dire frasi come questa: «Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Perché il Signore mi ha castigato?».
Dobbiamo riconoscere che proprio il peccato, come lontananza da Dio, ci fa sentire la sofferenza come silenzio, ostilità, assenza di Dio.
Guarire l’uomo alla radice di questa profonda rottura vuol dire li-berarlo dalla paura di Dio, quella paura che paralizza, e annunciargli la prossimità di Dio, un Dio che si china, si avvicina proprio a chi è ferito e sofferente.
Davvero Gesù salva e li-bera l’uomo integralmente.
Il profeta Isaia aveva preannunciato: «Non ricordate più le cose passate…
Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19).
Al paralitico Gesù dice: «Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua» (v.
11 ).
Colui che è stato guarito e perdonato dalla misericordia di Dio può ri-prendere un cammino autentico, prima impossibile, ‘verso casa’: è un ritorno alla vita, ma rinnovato, nel quale anche i segni della sofferenza sono accolti e portati su di sé in modo diverso.
Infatti sulle spalle l’uomo guarito porta proprio quel lettuccio che lo teneva para-lizzato; ma da questo momento quel luogo di sofferenza sarà memoria della salvezza e della misericordia di Dio.
Il perdono ci da occhi nuovi con i quali possiamo guardare con coraggio le nostre sofferenze e il nostro peccato.
Le cicatrici possono rimanere, e a volte possono fare ancora male; ma da segno della nostra debolezza e del nostro peccato, si tra-sformano in memoria della compassione di Dio.
Solo Dio può trasfigurare così la nostra vi-ta: le tenebre possono diventare luce.
«Ecco, io faccio una cosa nuova».
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
L’ascolto del deserto “L’Arabo, quando giunge in mezzo al deserto, ferma il cammello, scende e mette l’orecchie sulla sabbia.
– Che fai? – Ascolto il deserto.
– Sì, ascolto il deserto che piange.
E piange, perché vorrebbe essere una immensa, sconfinata prateria”.
E vennero conducendo a lui un paralitico che era portato da quattro persone (Mc 2,3) La guarigione di questo paralitico raffigura la salvezza dell’anima la quale, sospirando verso Cristo dopo la lunga inerzia dell’ozio carnale, ha dapprima bisogno dell’aiuto di tutti per essere sollevata e portata a Cristo, cioè dell’aiuto dei buoni medici che le ispirano la speranza della guarigione e intercedono per lei.
A buon diritto viene riferito che il paraliti-co era condotto da quattro persone; sia perché sono i quattro libri del Santo Vangelo che convalidano la parola e l’autorità di chi diffonde il Vangelo; sia perché sono quattro le vir-tù che infondono sicurezza allo spirito e lo portano alla salvezza.
Di tali virtù si parla quando si loda l’eterna sapienza: «Temperanza e prudenza ella insegna, e giustizia e for-tezza delle quali niente c’è di più necessario per gli uomini nella vita» (Sap 8,7).
Alcuni, penetrando il senso di questi nomi, chiamano tali virtù prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.
E non riuscendo a portarlo davanti a lui per la folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli stava (Mc 2,4).
Desiderano presentare a Cristo il paralitico, ma ne sono impediti dalla folla che li pre-me da ogni parte.
Accade ugualmente sovente all’anima, dopo l’inerzia del torpore carna-le, che, volgendosi a Dio e desiderando essere rinnovata dalla medicina della grazia cele-ste, sia ritardata dagli ostacoli delle antiche abitudini.
Spesso, quando l’anima è immersa nella dolcezza della preghiera interiore e intrattiene quasi un soave colloquio con il Signo-re, sopraggiunge la folla dei pensieri terreni e impedisce che lo sguardo dello spirito veda Cristo.
Che cosa dobbiamo fare in tali frangenti? Non dobbiamo certamente restar fuori e in basso dove tumultano le folle; dobbiamo salire sul tetto della casa nella quale Cristo in-segna, cioè dobbiamo tentare di raggiungere le altezze della sacra Scrittura e meditare, di giorno e di notte, con il salmista, la legge del Signore.
«Come» infatti «potrà un giovane serbare puro il proprio cammino? Nel custodire — dice il salmista — le tue parole» (Sal 118,9).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang.
Marc., I, Mc 2,3-4.
In BEDA, Commento al Vangelo di Marco, Vol.
1, Roma, Città Nuova Editrice, 1970, p.
71-72).
Confermarsi l’un l’altro nella fede «Decisi di porre fine alla mia vita, che era stata estremamente egoista e immorale.
Ero talmente infelice che volevo farla finita con tutto.
Volevo morire per affogamento.
Imma-ginavo l’oceano come un’ampia madre d’acqua che mi avrebbe cullato sulle onde e ripulito nelle sue acque.
Giunsi sulla riva dell’oceano, dove dovevo morire.
Camminai tutta sola lungo la spiag-gia deserta.
Quel giorno, però, l’oceano non era una distesa d’acqua calda e materna.
Il tempo era brutto, e la distesa d’acqua era una bestia ringhiosa.
Dentro di me sapevo di do-ver morire, di farla finita con tutto, e se dovevo darmi a una bestia ringhiosa, anziché get-tarmi nelle braccia di una grande madre, che così fosse.
Camminavo sulla spiaggia sabbiosa e stavo per girarmi per entrare in acqua, quando udii una voce molto chiara, che sembrava venire da dentro di me.
Era molto distinta e chiara.
La voce mi chiedeva di fermarmi, di girarmi e guardare in basso.
C’era qualcosa di irresistibile in quell’ordine, perciò feci quanto mi veniva richiesto.
Vedevo solo le onde del-l’oceano che, giungendo a riva, cancellavano le mie impronte sulla sabbia.
La voce tornò a farsi sentire: “Così come le acque cancellano le tue impronte, allo stesso modo il mio amo-re e la mia misericordia hanno cancellato ogni traccia dei tuoi peccati.
Ti rivoglio nel mio amore, ti chiamo alla vita e all’amore, non alla morte”.
Fu come un raggio di luce accecante nell’oscurità che a quell’epoca costituiva la mia vi-ta.
Mi allontanai dall’acqua e da qualsiasi pensiero di morte.
Con il continuo amore e aiuto di Gesù, ho trovato una vita bella e piena di soddisfazione.
Ora vivo e amo.
Ma non avevo mai raccontato a nessuno, proprio a nessuno, ciò che mi accadde quel giorno sulla spiaggia.
Tutta la mia vita è stata cambiata per sempre da questa esperienza.
Ciononostante temevo che, se l’avessi condivisa, qualcuno avrebbe potuto dirmi che era tutto un sogno, un inganno.
Qualcuno potrebbe dirmi che non volevo realmente morire, perciò mi sono inventata una voce che mi dicesse ciò che davvero volevo sentirmi dire.
Da allora, una parte così grande della mia vita, della vita buona e bella che ho trovato, è talmente fondata su quel momento, che non potrei metterne a rischio la sacralità affidan-dola a mani che potrebbero essere dure e insensibili.
Non tollererei di permettere che qual-cuno prenda il mio segreto più sacro e lo metta in ridicolo.
Dopo avere letto il tuo libro, ho pensato che avresti capito, perciò ho voluto condi-videre tutto questo con te.
Alla fine del tuo libro hai scritto che raccontare la tua storia è stato il tuo dono d’amore per noi.
Ti prego, dunque, di accettare il racconto di questa mia storia come il mio dono d’amore per te».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 174-175).
Le mie mani Le mie mani, coperte di cenere, segnate dal mio peccato e da fallimenti, davanti a te, Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di costruire e perché tu ne cancelli la sporcizia.
Le mie mani, avvinghiate ai mie possessi e alle mie idee già assodate, davanti a te, o Signore, io le apro, perché lascino andare i miei tesori…
Le mie mani, pronte a lacerare e a ferire, davanti a te, o Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di accarezzare.
Le mie mani, chiuse come pugni di odio e di violenza, davanti a te, o Signore, io le apro, deponi in loro la tua tenerezza.
Le mie mani, si separano da loro peccato, davanti a te, o Signore, io le apro: attendo il tuo perdono.
(Charles Singer).
Sofferenza materia prima della redenzione Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.
Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.
Tu dici del tuo amico: lo porto nel mio cuore, mi vergogno per lui del suo peccato, la sua sofferenza mi fa male.
È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.
Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito.
Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.
Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, « cancellali », le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia mor-te.
Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzio-ne.
(M.
QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).
II ramo da riattaccare Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal.
«Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha.
«Taglia un ramo di quell’albero».
Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?».
«Rimettilo a posto» ordinò Buddha.
Il bandito rise.
«Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere».
«Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere.
Quella è roba da bambini.
La vera forza sta nel creare e risanare».
(Racconto buddista) Ebbene, Atanasio dice di Antonio, una volta che questi divenne padre spirituale rinomato per la santità: «Antonio fu come un medico donato da Dio all’Egitto.
Chi venne da lui triste e non se ne andò gioioso? Chi si presentò a lui in lacrime per i propri morti e non abbandonò presto il lutto? Chi arrivò in collera e non cambiò la sua ira in amicizia? Quale povero, schiacciato dallo sfinimento non arrivò a capire, attraverso le sue parole e avendolo visto, il disprezzo delle ricchezze e la consolazione della povertà? Quale monaco scoraggiato non fu reso più forte dopo aver parlato con lui? Chi venne a lui nelle tentazioni del demonio e non trovò riposo? Chi venne tormentato da pensieri malvagi e non si sentì pacificato nell’animo?» (Vita di Antonio, 87).
(Luciano MANICARDI, La paternità spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 301-308).
Il Perdono O Signore, per vivere Te in mezzo agli uomini, uno dei più grandi rischi da prendere è quello di perdonare, di dimenticare il passato dell’altro.
Perdonare e ancora perdonare, ecco ciò che libera il passato e immerge nell’istante presente.
Amare è presto detto.
Vivere l’amore che perdona, è un’altra cosa.
Non si perdona per interesse, non si perdona mai perché l’altro sia cambiato dal nostro perdono.
Si perdona unicamente per seguire Te.
In vista del perdono oserei pregarti, o Gesù, con la tua ultima preghiera: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.
E questa preghiera ne farà nascere un’altra: Padre, perdona me, perché così spesso anch’io non so ciò che faccio.
Fa’ che sappia ricominciare sempre di nuovo a convertire il mio cuore: per essere testimone di un avvenire.
(Regola di Taizé)