L’intervista a Kevin Macdonald La paura: dell’imprevedibilità, del nemico, della follia, della violenza, dell’inganno, del potere, della falsità, della corruzione, della morte.
Nei suoi film la paura, in queste diverse declinazioni, è una protagonista non secondaria. C’è qualche ragione particolare? Sarebbe facile rispondere confessando di essere una persona che spesso ha paura.
Ma credo di essere anche un classico storyteller, ossia mi piacciono le storie – leggerle, immaginarle, raccontarle – e la paura ne fa sempre parte.
Oggi il cinema si è dimenticato di quanto è importante e piacevole raccontare storie e raccontarle bene.
Sempre, in ogni buona storia, l’eroe – in tutti i miei documentari e film c’è sempre un eroe, il più delle volte personaggio ambiguo e complesso – deve confrontarsi con alcune difficoltà reali e con fatti che lo terrorizzano.
Accade anche a noi di avere spesso paura, pur se non siamo eroi.
La paura fa parte della vita e può essere dovuta all’inganno, al tradimento, all’abbandono.
Le storie che ho raccontato nei miei film preparano ad affrontare queste brutte esperienze, spesso inevitabili.
L’Uganda di Idi Amin, come molti altri Paesi del continente africano, nasce dalle ceneri, ancora calde, degli imperi coloniali.
Nell’Ultimo re di Scozia desiderava anche ricordare come in quelle ceneri covano, forse ancora oggi, mostri imprevedibili? Quello che ho cercato di raccontare in quel film è una versione originale del mito di Faust.
Infatti, la storia è quella di un giovane dottore, innocente e ingenuo, trasportato soltanto dal suo interesse egoistico, che tenta di farsi amico il dittatore ugandese, un vero maniaco dell’egoismo, soltanto perché questo lo fa sentire più vicino al potere, dunque più importante e degno di attenzione.
Ma, nel momento in cui si accorge che per essere qualcuno, sta vendendo la sua anima, capisce di essere in trappola, di non poter più scappare.
È ciò che accade oggi a molti giovani dell’Occidente, che vanno nel cosiddetto Terzo mondo, in India o Thailandia o in Africa, usando quei Paesi come un campo giochi per i loro abusi di potere, per le loro nefandezze, per un egocentrismo che non pensa alle conseguenze, su se stessi e sugli altri, delle azioni che si compiono.
Sembra quasi affascinato dalla figura di questo odioso dittatore, come del resto lo è stato di altri mostri della storia, come Klaus Barbie, il feroce nazista francese raccontato nel documentario Il nemico del mio nemico – Cia, nazisti e guerra fredda.
È difficile spiegare perché ci affascinano certi personaggi.
Io ho cercato razionalmente di esaminarlo perché volevo capire bene le motivazioni che mi hanno portato a scrivere e dirigere questi film.
Penso di essere interessato a umanizzare quei personaggi che sono stati interpretati soltanto in modo unidimensionale, etichettandoli facilmente come dei mostri.
Idi Amin e Klaus Barbie sono stati elevati a personificazione del male, ma, come è accaduto con il bellissimo film tedesco La caduta sugli ultimi giorni di Hitler nel bunker di Berlino, la gente si sente offesa e sconvolta da questa umanizzazione.
È un grande errore: le persone diaboliche e maligne non sono state, all’inizio della loro vita, diverse da noi.
Sono stati bambini come tutti noi, hanno giocato come bambini, hanno amato.
Mi sembra importante vedere il lato umano anche nelle peggiori persone dell’umanità, per conoscerle meglio, identificarle ed evitare, per quanto possibile, che ne nascano ancora nel futuro. Il gioco tra impegno della verità e potere nella falsità sembra predominante in State of Play, ove tutti, nel bene o nel male, sono responsabili di una società che sembra non funzionare a pieno regime, che soltanto a parole si dice la migliore possibile, ma poi nei fatti…
Tutti abbiamo in testa un’utopia, l’idea di una società perfetta, il desiderio di circondarci soltanto di persone buone.
Ma nessuno, ed è la condizione umana, è soltanto buono o soltanto cattivo.
I personaggi per me più interessanti, nella letteratura e nel cinema, sono quelli più ambigui, che hanno una moralità incerta e spesso devono lottare contro il male che alberga dentro di loro, fare guerra ai propri impulsi cattivi.
In State of Play abbiamo a che fare con due personaggi centrali, quello del giornalista interpretato da Russell Crowe e quello del politico da Ben Affleck, ambedue ambivalenti.
Il primo impersona un giornalista che va ben al di là di quelli che sono i limiti imposti dall’etica professionale: lui minaccia molti dei suoi interlocutori, registra conversazioni illegalmente, ricatta per avere la storia che insegue a tutti i costi.
Ma, cosa più importante, vuole aiutare il suo amico politico e, facendolo, questa amicizia si scontra con la sua integrità giornalistica.
Penso che questa battaglia tra i propri interessi personali e ciò che, invece, dovremmo fare e scegliere nella nostra carriera, sia un’esperienza abbastanza comune a tutti.
Anche Ben Affleck è un personaggio interessante: mi è sempre piaciuta l’idea di una persona cattiva, responsabile di alcuni delitti, ma politicamente mossa da una causa giusta, avendo deciso di bloccare la privatizzazione, avviata per questione di soldi e guadagni, dei sistemi di difesa americani, appaltati a gruppi di mercenari reduci dalla guerra in Iraq.
I suoi propositi sono giusti, ma il suo ragionamento è totalmente sbagliato quando afferma che vale la pena uccidere tre o quattro persone, ossia scegliere il male minore, per non permettere che accada qualche cosa di molto peggio.
Alla fine pagherà per queste sue scelte immorali.
Oggi i giornali possono ancora essere lo specchio del declino etico e culturale che attanaglia e svuota di valori molte delle società e fungere, con le loro denunce, a diga per questo declino? Io amo i giornali, ma questo amore è frutto di nostalgia.
L’idea di un giornale di cultura è ancora molto attraente, ma è un rimpianto.
Il problema non è tanto dei giornali che lentamente scompaiono.
Ciò che veramente importa è che non muoia il giornalismo.
Se la carta stampata è sostituita da internet – ed è uno scontro che viviamo nel film con il personaggio della giovane apprendista interpretata da Rachel McAdams, che puntualmente dimentica la penna perché abituata ormai alla tastiera – la cosa mi preoccupa fino a un certo punto, anche se stiamo vivendo un progressivo cambiamento del sistema dell’informazione.
Quello che mi preoccupa veramente è che la gente legge sempre meno, anzi alcuni non leggono più.
Vogliono la notizia scritta in due righe perché non hanno più tempo e pazienza per arrivare alla terza.
Seriamente ritengo che i giornalisti svolgano una funzione importantissima nelle società democratiche, quando fanno domande difficili a coloro che sono al potere.
C’è un vecchio motto che dice: “La notizia vera è quello che non vogliono esca e sia stampata, tutto il resto è operazione cosmetica”.
Il suo prossimo impegno cinematografico la fa tornare indietro nel tempo, al ii secolo dell’era cristiana, anche questa volta per una lontana e remota storia di colonialismo e di eroi.
Il libro da cui è tratto il film che comincerò a girare in settembre in Ungheria e poi, per i due mesi successivi, nel nord della Scozia, è tratto dal romanzo The Eagle of the Ninth scritto nel 1954 da Rosemary Sutcliff.
È stato il mio libro preferito quando avevo tredici anni e lo ricordo vividamente perché la storia ha avuto un potere “mitico” su di me.
Narra del giovane soldato Marcus Aquila, che vive soltanto dei sogni e degli ideali dettati dalla sua condizione di legionario romano.
Ma il nome della sua famiglia è stato infangato quando quindici anni prima il padre, a capo della nona legione, sparì con tutti i suoi soldati nella Britannia appena conquistata.
Vuole rivendicare l’onore perduto.
Parte alla ricerca dell’aquila d’oro della legione scomparsa per riportarla a Roma.
Gli capita, però, un terribile incidente che lo rende invalido all’esercito e così tutti i suoi sogni si infrangono, perché servire l’Impero nella legione era tutto ciò che desiderava.
Cresciuto e educato in modo monolitico ai valori della romanità, è un uomo disperato.
Si fa amico lo schiavo celtico Esca, comincia a crescere e a capire che ci sono altre culture, comincia a guardare al di là dei confini.
Oltrepassa il Vallo di Adriano, si addentra in un mondo sconosciuto, come accadeva in Vietnam ai soldati americani di Apocalypse Now.
È un film sullo scontro delle culture, sulla occupazione di nazioni da parte di altre e sulle ragioni della fine di un impero, che per me inizia quando si comincia a dubitare della certezza assoluta della propria superiorità culturale.
Trama del film State of Play – scopri la verità: Crowe interpreta il reporter Cal McCaffrey che, grazie alla sua scaltrezza, si ritrova a risolvere un mistero di delitti e collusione nel quale sono coinvolti alcuni dei politici e degli uomini d’affari più promettenti del paese.
Il membro del congresso degli Stati Uniti Stephen Collins (Ben Affleck), bello e imperturbabile, è il futuro del suo partito politico: onorevole eletto, è il presidente di un comitato che supervisiona la spesa della difesa.
Tutti gli occhi sono puntati su questo astro nascente che dovrebbe rappresentare il suo partito nella prossima corsa alla Casa Bianca.
Tutto questo finché la sua assistente/addetta alle ricerche ed amante viene brutalmente assassinata e segreti seppelliti da tempo cominciano a tornare alla luce.
State of Play – la recensione State of Play è uno di quei film che riescono a mediare al meglio le esigenze della spettacolarità e dell’intrattenimento legate a certo tipo di cinema con la necessità di raccontare qualcosa di un po’ più spesso e sensato della storiellina che si guarda e passa di troppi titoli hollywoodiani e non solo.
Ci riesce grazie alla solidità del suo impianto e alla mancanza di ogni forma di pedanteria nell’affrontare le tematiche che propone.
Kevin Macdonald aveva già fatto vedere di che pasta fosse fatto, e questa volta si può appoggiare ad una sceneggiatura – basata su un serial omonimo della BBC – sulla quale hanno messo le mani gente come Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy e Billy Ray.
Che poi Brad Pitt, inizialmente scelto per il ruolo del protagonista, abbia abbandonato il progetto e sia stato sostituito da Russell Crowe è stata solo una fortuna (altro discorso è quel Ben Affleck finito al posto che era di Ed Norton): ché l’australiano è in gran forma – attorialmente parlando – ed è perfetto nella sua indolente ed energica gigioneria sovrappeso nei panni del reporter Cal McCaffrey.
E lo stile recitativo e la fisicità di Crowe, specchio di quanto il suo personaggio è deputato a simboleggiare,sono fondamentali in un film che – tolti gli intelligenti richiami a certi conspiracy thriller degli anni Settanta o quelli, più contemporanei, al neonato filone dei finance thriller – è fondamentalmente e principalmente un affettuoso e nostalgico canto del cigno della carta stampata e del giornalismo “di una volta”.
Perché è evidente che al di la della trama gialla, della lotta interiore di McCaffrey tra il rispetto per il ruolo di amico e quello di giornalismo, del rapporto sfumato e complesso tra il giornalista e la moglie del politico, della ricostruizone dei meccanismi occulti e non di Washington (tutti elementi tratteggiati comunque con grande attenzione ed efficacia), il cuore di State of Play sta tutto nel (non) dualismo tra il personaggio di Crowe e quello di Rachel McAdams, una blogger dell’edizione online del quotidiano per il quale entrambi lavorano, il Washington Globe.
McCaffrey è una vecchia volpe della carta stampata, di quelli che sanno trattare e mettere al loro posto tanto le fonti quanto i direttori, ruvido, sporco, ma affascinante proprio come la carta di un giornale fresco di stampa.
Della Frye è invece apparentemente asettica e pulitina, ma in realtà pungente e agguerrita, come certe pagine da leggere online.
Certo, le manca forse un po’ d’esperienza e di malizia, ed è per questo che diventerà l’ombra di un Cal destinato a diventare mentore.
In un film che esce in un periodo come questo, dove realmente i quotidiani chiudono per mancanza di fondi, dove sono i blogger ufficiali e non a fare soldi e informazione, dove la stampa pare sempre di più aver abdicato al ruolo di watchdog dei poteri forti per appiattirsi su un velinismo più o meno mascherato, State of Play è un film a suo modo importante.
Cal e Della sono le incarnazioni di due culture solo apparentemente antitetiche, poiché solo nella reciproca accettazione e nel loro imbastardirsi costruttivo e propositivo, quel mondo comune alle quale entrambe appartengono potrà continuare a ribadire ruolo e importanza.
Per questo, nonostante in apparenza le posizioni del film riguardo il giornalismo e la sua evoluzione possono sembrare eccessivamente conservatrici e nostalgiche, è evidente che Macdonald non vuole restaurare né accusare: vuole solo rendere omaggio a quello che è stato, invitare a non dimenticarlo, a perpetrarlo, anche se in forme nuove, non analogiche ma digitali.
E il simbolico passaggio di consegne del finale, seguito da titoli di coda quasi commoventi nella loro nostalgica sincerità, sta lì a dimostrarlo.
Federico Gironi State of Play – scopri la verità Regia: Kevin Macdonald Sceneggiatura: Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy, Billy Ray Attori: Russell Crowe, Ben Affleck, Robin Wright Penn, Helen Mirren, Rachel McAdams, Wendy Makkena, Katy Mixon, Jeff Daniels, Maria Thayer, Viola Davis, Jason Bateman Ruoli ed Interpreti Fotografia: Rodrigo Prieto Montaggio: Justine Wright Produzione: Andell Entertainment, Universal Pictures, Working Title Films Distribuzione: Universal Pictures Paese: USA 2008 Uscita Cinema: 30/04/2009 Genere: Drammatico, Thriller Durata: 127 Min Formato: Colore 35MM – 2.35 : 1 Sito Italiano Raccontare fa parte dei cromosomi di famiglia.
Il nonno, Emmerich Pressburger, di origini ebraiche, nato nell’impero austro-ungarico all’inizio del secolo, errabondo in Europa e rifugiatosi nella campagna inglese allo scoppiare della guerra, scrittore divenuto poi sceneggiatore – vinse un Oscar nel 1943 per 49° parallelo – infine regista, rilasciava negli anni Ottanta questa confessione: “Credo che un film debba avere una buona storia, una storia chiara e debba anche avere, se possibile, qualche cosa, forse la più difficile di tutte, un poco di magia…
Proprio perché è intoccabile, perché è molto difficile affidarle una parte, la magia non è qualche cosa con cui trattare.
Puoi soltanto tentare di preparare alcuni nidi, sperando che un pochino di quella magia possa scivolarvi dentro”.
Il nipote, oggi regista, l’ha raccolta assai bene, questa bella eredità di famiglia: Kevin Macdonald ha 41 anni, è nato a Glasgow e vive a Londra.
È un serio documentarista – anche lui ha conquistato il suo Oscar, vincendolo nel 2000 con A day in September, in cui ricostruiva l’attacco terroristico agli atleti israeliani durante le tragiche Olimpiadi di Monaco del 1972 – e un abile, scrupoloso regista, che è riuscito a intessere, con le sue preziose pellicole, alcuni “nidi” assolutamente non trascurabili nella storia del cinema.
Nel 2003, con La morte sospesa, racconta un’altra drammatica vicenda, anch’essa realmente accaduta: due scalatori sulle Ande peruviane alle prese con il sacrificio, la morte e la sopravvivenza; nel 2006 ancora morte e paura (e premi) nell’Uganda marchiata a sangue dalla follia del dittatore Idi Amin, L’ultimo re di Scozia, film cui arride un nuovo successo internazionale; infine, in questi giorni sugli schermi europei e nord-americani e a fine settimana su quelli italiani, State of Play, versione aggiornata, intrigante e molto ben diretta, delle tradizionali, poco pulite e pericolose connessioni e interdipendenze tra giornalismo e potere politico, tra il dovere della verità che dovrebbe sottostare al primo e quello dell’onestà che dovrebbe orientare il secondo.
Fiction e documentario sono, per Kevin Macdonald, due mondi complementari.
Realtà e finzione, per il regista, sembrano inseparabili.
“Nei miei documentari per il grande schermo ho sempre cercato di inserire alcune caratteristiche del cinema di fiction, ad esempio il modo col quale raccontare una storia anche realmente accaduta, oppure come creare la suspence.
Quando poi ho affrontato film di fiction, ho semplicemente cercato di fare il contrario, ossia portare alcune istanze del documentario, come l’esattezza e la verità, in una storia inventata.
Nel caso dell’Ultimo re di Scozia, ad esempio, ho voluto girare nelle località ugandesi che sono state realmente teatro delle follie di Idi Amin, rimanendo aderente al massimo alla realtà dei posti, degli edifici, delle facce.
Anche per State of Play una delle mie preoccupazioni è stata come essere originale: ci sono tantissimi film ambientati a Washington D.C., ma io volevo rendere la mia storia di giornalismo e corruzione il più possibile vera, dandole una prospettiva realistica sia negli interni dove lavorano i giornalisti e i politici sia negli esterni dove si svolgono le scene di azione.
Allora sono andato a cercare la versione della città che viene vissuta ogni giorno, più che creare il palcoscenico del potere e dell’informazione normalmente allestito per questo genere di film”.
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
“Educare per la famiglia”
Dal 15 al 17 maggio 2009, l’Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare della Pontificia Università della Santa Croce organizza le Giornate di studio e di aggiornamento “Educare per la famiglia”.
L’iniziativa nasce dalla consapevolezza che “il rapporto educativo è un aiuto indispensabile per la maturazione della persona, in quanto mira allo sviluppo delle qualità che consentono di stabilire relazioni valide e di crescere come membri della famiglia umana”.
Per cui, “educare a saper costruire dei legami positivi per sé e per gli altri” risulta “di vitale importanza per la persona e per l’intera società”.
Come confermano gli organizzatori, l’obiettivo è di “innescare un circolo virtuoso che riporti la famiglia al centro del processo educativo, non solo perché è l’ambito naturale della crescita di ogni persona, ma anche perché costituisce il vero fine al quale il processo educativo stesso deve tendere”.
Saranno tre gli ambiti tematici attorno ai quali ruoterà lo svolgimento dei lavori: – “La famiglia, principale agenzia educativa”, con le relazioni del Prof.
Folco Cimagalli (Lumsa) su “Famiglia e famiglie: com’è cambiato il rapporto tra le generazioni” e della Prof.ssa Alessandra La Marca (Università degli Studi di Palermo) su “Sviluppare le qualità umane in famiglia”); – “Chi collabora con la famiglia? Chiesa, scuola, media”, con gli interventi del Dott.
Luca Pasquale (Ufficio di pastorale familiare della Diocesi di Roma) su “La famiglia, cellula viva della Chiesa”; del Dott.
Sergio Cicatelli (dirigente scolastico a Roma) su “Famiglia e scuola: il recupero di un’alleanza” e del Prof.
Alessandro D’Avenia (docente e sceneggiatore) su “I mass media, agenzia educativa” a cui seguirà la proiezione di filmati, commenti e dibattito; – “L’anello mancante: l’educazione affettiva”, con la relazione della Prof.ssa Paola Binetti (Campus Bio-Medico di Roma) su “La maturazione affettiva: nuovi modelli e nuovi ritmi” e della Dott.ssa Rita Zecchel, che presenterà il progetto “Proteggi il tuo cuore”.
Le iscrizioni al Convegno sono aperte fino al 30 aprile 2009 e vanno comunicate alla segreteria dell’Istituto (ISSRA, Piazza Sant’Apollinare, 49 – 00186 Roma – Tel: 06.68164330 – issrapoll@pusc.it).
È possibile scaricare la brochure informativa direttamente dal sito www.issra.it.
Per ulteriori informazioni: Segreteria organizzativa: issrapoll@pusc.it, +39 0668164330 Rapporti con la stampa: Giovanni Tridente, tridente@pusc.it, +39 0668164399 —
Earth
La trama Cinque miliardi di anni fa un imponente asteroide si abbatté su una Terra ancora giovane, spostandola a esattamente 23,5 gradi di inclinazione rispetto al sole.
Questo incidente cosmico si è rivelato un assoluto miracolo, perché senza questa fondamentale inclinazione tutto sarebbe stato decisamente diverso.
E’ questo che ha creato la spettacolare varietà di territori diversi sul nostro pianeta, gli estremi del caldo e del freddo e, cosa più importante, le stagioni che cambiano nel corso dell’anno.
Cast tenico Regia:Alastair Fothergill , Mark Linfield Sceneggiatura:Alastair Fothergill , Mark Linfield Musiche:George Fenton Montaggio:Martin Elsbury CastVoce narrante: Paolo Bonolis Dati Anno:2007 Nazione:S tati Uniti d’America / Germania / Stati Uniti d’America Distribuzione: Buena Vista Durata: 98 min Data uscita in Italia: 22 aprile 2009 Genere:documentario Dolce.
Violento.
Emozionante.
Appassionante.
Pericoloso.
Intenso.
Uno spettacolo che ha luogo tutti i giorni, tutte le stagioni, tutti gli anni proprio qui, sul nostro Pianeta: tra i ghiacci del Polo come nel deserto africano, nel blu degli oceani come nella foresta pluviale, l’avventura della vita sulla Terra va avanti.
Una sorta di reality show di incredibile forza e bellezza, lontano dall’occhio indiscreto dell’uomo.
Non sempre, però.
Perché a volte i registi di documentari riescono a cogliere l’attimo, a filmare abitudini e comportamenti delle altre specie, violandone – in senso buono – i segreti.
E realizzando ottimi prodotti destinati quasi sempre alla tv, un po’ meno frequentemente (vedi La marcia dei pinguini, Il popolo migratore e altri) al cinema.
Ma forse mai nessuno è riuscito a portare sugli schermi una vera e propria summa della vita degli animali, e del ciclo delle loro migrazioni, come gli autori di Earth: pellicola in arrivo nei nostri cinema il prossimo 22 aprile (Giornata mondiale della Terra), e che sarà proiettata anche al Reggio Calabria Film Festival.
Un vero e proprio docu-kolossal.
Sponsorizzato da un marchio prestigioso come la Disney, che proprio con questo progetto ambizioso inaugura la sua nuova divisione, Disney Nature: con un occhio all’ambiente e uno al business, produrrà ogni anno opere a contenuto naturalistico.
Narrata dalla voce italiana di Paolo Bonolis (scelta nazionalpopolare per attrarre il grande pubblico), l’avventura di Earth segue il ciclo delle stagioni legandolo alle migrazioni delle varie specie.
Risultato: un reality show appassionante che parla di vita e di morte, di fame e di sete, di cacciatori e prede, di vittorie e sconfitte.
Con tanti animali protagonisti, ma con tre famiglie che svettano sulle altre: quella di un orso bianco, alle prese con lo scioglimento dei ghiacci; quella di un elefante africano, che percorre centinaia di chilometri alla ricerca dell’acqua; e quella di una balena con cucciolo al seguito, in viaggio dai Tropici all’Antartide.
A dirigere sono due registi specializzati in questo tipo di prodotti, Alastair Fothergill e Mark Linfield.
LE IMMAGINI IL TRAILER Intervista a Linfield.
Guardando Earth, si capisce che lo sforzo produttivo e registico deve essere stato imponente.
“Proprio così: basta pensare che abbiamo girato in ben cinque anni, con 40 troupe diverse, e in 200 location.
Dal Polo all’Antartide, passando per l’Equatore.
Le difficoltà sono state innumerevoli, ma la sfida è stata comunque affascinante”.
I momenti in assoluto più difficili? “Forse quando un nostro operatore ha dovuto aspettare praticamente immobile per giorni e giorni, per poter immortalare la danza degli uccelli del paradiso.
Ci sono anche capitati degli imprevisti che sono finiti nel film: ad esempio, mentre seguivamo la migrazione della balena mamma e del suo cucciolo, abbiamo visto uscire dall’acqua un enorme squalo bianco che ha azzannato la sua preda.
L’Oscar della difficoltà, però, riguarda le sequenze sui pinguini: abbiamo aspettato i sei mesi invernali, al buio completo, per poter catturare le loro immagini alla fine della stagione”.
Scelte impegnative.
E anche costose, vero? “Ovviamente.
Anche se non so dire precisamente quanto è stato speso, perché contemporaneamente al film abbiamo realizzato anche la serie televisiva Planet Earth per la Bbc, così non so distinguere precisamente tra le due attività.
Ma almeno per noi ne è valsa la pena: abbiamo fatto cose che nessuno aveva fatto prima”.
E adesso il risultato di questi sforzi arriva nei cinema, con un marchio forte come quello Disney.
“Per noi essere agganciati a un brand così universalmente noto è una grande opportunità.
Perché in qualsiasi parte del mondo Disney vuol dire cinema per famiglie di qualità: e questo spero ci aiuterà a portare più gente possibile nelle sale.
Del resto per noi Earth non si può definire un documentario, ma un film per famiglie a tutti gli effetti”.
Tenete molto al lato educativo di questa operazione? “Uno degli scopi che volevamo raggiungere era raggiungere le giovani generazioni.
Oggi la gente viaggia, è più informata, sembra più aperta: eppure, paradossalmente, stiamo perdendo i legami con le nostre origini, col Pianeta in cui viviamo.
In questo senso mostrare lo spettacolo di Earth, il reality show della natura, è sicuramente importante”.
Educativo, dunque.
Ma anche spettacolare…
“Contiene in sé tutti i generi cinematografici: dal thiller al romanticismo.
Nel nostro Pianeta c’è ogni emozione: conflitti, bellezza, violenza.
E anche humor, tenerezza, azione.
Cosa si può volere di più?”.
di Claudia Morgoglione Repubblica 31 marzo 2009
III Domenica di Pasqua Anno B
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
Sulle tracce di Gesù II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri.
Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre.
Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo pecca-tore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.
Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7).
Questa espressione, infatti, rievoca le pro-fessioni di fede della Chiesa primitiva.
Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Si-gnore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.
Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico.
Egli mangia con i discepoli.
L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive.
Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.
Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità.
Il pasto descrit-to nel cap.
21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico.
Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento.
Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle.
Allude all’ulti-ma cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiara-mente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.
(C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsa-mo, San Paolo, 2009, 258-259).
E’ il Signore! E’ l’acclamazione pasquale, è una parola che contiene tutto.
Il Signore è Colui che possiede la tua vita e te la vuole far vivere al centuplo; Colui che ha un progetto per te, che ti conduce a esprimere pienamente te stesso; Colui che è la somma di tutte le cose desiderabili; Colui che chiarisce, dipana, ordina, purifica, soddisfa tutti i tuoi desideri più profondi.
E’ il Signore della vita, della storia, della mia vicenda personale.
E’ il Signore della mia famiglia, della scuola, della società.
E’ Colui nel quale tutto trova il senso.
E’ Colui che è capace di dare a tutto un progetto ed una prospettiva.
(dagli Scritti del Card.
C.M.
Martini).
Aprire gli occhi Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente chiusi per evitare di vedere la miseria agitarsi alla nostra porta? Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente tappati per evitare di guardare faccia a faccia il prossimo che ci viene incontro? Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente velati per evitare di essere abbagliati dalla presenza di Cristo con il suo vangelo esigente? Chi aprirà i nostri occhi per riconoscere lo Spirito di Dio all’opera sui molteplici cantieri dove l’umanità si rinnova? Chi aprirà i nostri occhi per riconoscere il seme che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata? La pace sia con voi! Di ritorno dagli inferi, Cristo per donare la pace al mondo esclama: «La pace sia con voi! I discepoli parlavano ancora, quando Gesù stette in mezzo a loro e disse loro: La pace sia con voi!».
Giustamente dice: «con voi», perché la terra si era già consolidata, il giorno era ritornato, il sole aveva ripreso il suo splendore e il mondo aveva ritrovato il suo ordine e la coesione.
Ma presso i discepoli la guerra infuriava ancora; fede e mancanza di fede si combattevano violentemente.
Il turbamento della passione non aveva scosso il loro cuore quanto la terra; credulità e incredulità devastavano il loro animo con una guerra senza tregua; schiere di pensieri assediavano la loro mente e sotto i colpi della disperazione e della speranza il loro cuore si spezzava, nonostante la sua forza.
I sentimenti e i pensieri dei discepoli erano divisi tra gli innumerevoli miracoli che rivelano Cristo e le molteplici umiliazioni della sua morte, tra i segni della sua divinità e le debolezze della carne, tra l’orrore della sua morte e le grazie della sua vita.
Ora il loro spirito veniva portato in cielo, ora le loro anime ricadevano a terra; e nel loro cuore in cui infuriava la tempesta non tro-vavano alcun porto tranquillo, nessun luogo di pace.
Al veder questo, Cristo che scruta i cuori, che comanda ai venti, governa le tempeste e con un semplice segno muta la tempe-sta in un cielo sereno, li conferma con la sua pace, dicendo: «La pace sia con voi! Sono io; non temete.
Sono io, il morto e sepolto.
Sono io.
Per me Dio, per voi uomo.
Sono io.
Non uno spirito rivestito di un corpo, ma verità stessa fatta uomo.
Sono io.
Sono io, vivente tra i morti, celeste al cuore degli inferi.
Sono io, che la morte ha fuggito, che gli inferi hanno temuto.
Gli inferi mi hanno proclamato Dio, nel loro spavento.
Non temere Pietro, che mi hai rinnegato, ne tu, Giovanni, che sei fuggito, ne tutti voi che mi avete abbandonato, che avete pensato a tradirmi, che non credete ancora in me, anche se mi vedete.
Non temete, sono io.
Sono io, vi ho chiamati per grazia, vi ho scelti perdonandovi, vi ho sostenuto con la mia compassione, vi ho portato nel mio amore e oggi vi accolgo per mia sola bontà, per-ché il Padre non vede più il male quando accoglie suo figlio».
(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 81, PL 52, 428A-D).
Andremo alla casa del Signore Mi rallegrai quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore».
E ora i nostri piedi sono nell’interno delle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme costruita come città, in sé ben compatta! Là salivano le tribù, le tribù del Signore, secondo il precetto dato a Israele di lodarvi il nome del Signore.
Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide.
Augurate la pace a Gerusalemme: vivano in prosperità quanti ti amano! Sia pace fra le tue mura, prosperità fra i tuoi palazzi.
Per amore dei miei fratelli e amici dirò: Sia pace in te! Per amore della casa del Signore, nostro Dio, chiederò: Sia bene per te! (Salmo 121).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ric-chezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indiffe-renza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello).
Preghiera O Signore, Signore risorto, luce del mondo, a te sia ogni onore e gloria! Questo giorno, così pieno della tua presenza, della tua gioia, della tua pace, è davvero il tuo giorno! Sono appena rientrato da una passeggiata attraverso l’oscurità dei boschi.
Era freddo e ventoso, ma tutto parlava di te.
Ogni cosa: le nuvole, gli alberi, l’erba umida, la valle con le sue luci lontane, il rumore del vento.
Parlavano tutti della tua risurrezione: tutti mi rende-vano consapevole che ogni cosa è davvero buona.
In te tutto è creato buono e da te tutta la creazione è rinnovata e portata a una gloria persino più grande di quella posseduta al principio.
Camminando nell’oscurità dei boschi alla fine di questa giornata piena di intima gioia, ti ho sentito chiamare Maria Maddalena per nome e dalla riva del lago ti ho sentito gridare ai tuoi amici di gettare le reti.
Ti ho anche visto entrare nella sala con la porta serrata dove i tuoi discepoli erano radunati pieni di paura.
Ti ho visto apparire sul monte così come nei dintorni del villaggio.
Quanto sono veramente intimi questi eventi: sono come favori spe-ciali fatti a cari amici.
Non sono stati fatti per impressionare o sopraffare qualcuno, ma semplicemente per mostrare che il tuo amore è più forte della morte.
O Signore, ora so che è nel silenzio, in un momento tranquillo, in un angolo dimentica-to che tu m’incontrerai, mi chiamerai per nome e mi dirai una parola di pace.
E nell’ora della maggiore quiete che tu diventi per me il Signore risorto.
O Signore, sono così riconoscente per tutto quello che mi hai dato nella settimana tra-scorsa! Rimani con me nei giorni che verranno.
Benedici tutti quelli che soffrono in questo mondo e dona pace alla tua gente, che hai tanto amato da dare la vita per lei.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, Preghiere dal silenzio, in ID., La sola cosa necessaria Vivere una vita di pre-ghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 242-243).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 3,13-15.17-19 In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete con-segnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassi-no.
Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo te-stimoni.
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi.
Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire.
Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
Questo brano fa parte della catechesi su Gesù che Pietro rivolge ai suoi uditori di origi-ne ebraica.
L’autore degli Atti degli apostoli ha raccolto questa catechesi in una serie di «discorsi» e li ha collocati nella prima parte della sua opera (capitoli 2-4).
È importante sot-tolineare gli elementi che caratterizzano questa catechesi.
Innanzitutto emerge la continuità tra l’agire di Dio nell’Antico Testamento e ora nella risurrezione di Gesù: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri pa-dri ha glorificato il suo servo Gesù».
La risurrezione di Gesù non va considerata come un cor-po estraneo nella Bibbia.
Essa si inserisce pienamente nel progetto di salvezza che Dio ha pensato per l’uomo, un progetto che passa misteriosamente attraverso la croce e culmina nella gloria della Pasqua.
Questo progetto era già anticipato nei «Canti del Servo sofferen-te del Signore» (vedi Is 42; 49; 52-53), nei quali si delineava chiaramente la «logica» di Dio: il Servo sofferente sarebbe divenuto il Messia glorificato, grazie all’intervento decisivo di JHWH.
Ai suoi uditori, che conoscevano bene la Bibbia, Pietro propone questa «logica», ricorrendo alla stessa terminologia di Isaia: «Dio ha glorificato il suo Servo Gesù».
L’entrare in questa «logica» esige però un cambiamento di mentalità e una conversione nei confronti di Gesù.
L’espressione «io so che voi avete agito per ignoranza» vuole sottolinea-re quanto sia difficile comprendere la vita, la morte e la risurrezione di Gesù nella «logica» che è propria di Dio.
Il termine «ignoranza» (in greco, àghnoia) indica la difficoltà di com-prendere in questo modo tutta la vicenda di Gesù.
Questa «ignoranza» è da collocare alla base del processo condotto contro Gesù: «Voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato…
avete rinnegato il Santo e il Giusto…
Avete ucciso l’autore della vita».
Infatti nessuno era stato in grado di comprendere il progetto di salvezza di Dio, che doveva passare attraverso la cro-ce e la sofferenza.
Solo dopo la risurrezione di Gesù, gli apostoli vengono illuminati e comprendono in pienezza l’agire di Dio.
La predicazione di Pietro e degli altri apostoli, te-stimoni della misteriosa «logica» di Dio, offre la possibilità di convertirsi al progetto di Di-o, portato a compimento da Gesù in un modo e in una forma che la mentalità degli uomini non è riuscita a comprendere.
Seconda lettura: 1Giovanni 2,1-5 Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha pecca-to, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto.
È lui la vittima di e-spiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti.
Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità.
Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfet-to.
Questo breve brano presenta una nuova esortazione per il cristiano, che è quella di os-servare i comandamenti.
Precedentemente l’autore aveva esortato i destinatari del suo scritto a pentirsi dei peccati e a riconoscerli davanti a Dio, per entrare nella pienezza della salvezza offerta da Gesù.
A queste esortazioni seguiranno quelle di guardarsi dal «mon-do» (inteso come tutto ciò che si oppone al vangelo) e dagli «anticristi» (il riferimento è ad alcune eresie che già hanno preso piede nella comunità cristiana a cui scrive Giovanni).
«Abbiamo un Paràclito presso il Padre»: il termine greco paràkletos («avvocato», «interces-sore», «consolatore») è caratteristico di Giovanni, che lo riferisce allo Spirito Santo (vedi i seguenti testi del suo vangelo: 14,16.26; 15,26; 16,7) e, in questo passo della prima lettera, a Gesù.
Esso designa una persona amica, che sta vicino a chi è accusato e condotto in tribu-nale (il verbo greco parakalèo significa anche: «chiamare accanto») e ne sostiene le ragioni o ne mitiga la sentenza, qualora questa risultasse sfavorevole.
«Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo»: il verbo «conoscere» va inteso nel suo significato globale, come è usato nella Bibbia.
Questo è il verbo che signi-fica sapere chi è Dio e ciò che egli vuole.
Significa conoscere il modo di porsi di Dio nei confronti dell’uomo e significa l’imitazione di questo stesso comportamento di Dio da par-te dell’uomo.
Non è quindi un verbo puramente astratto, teorico, ma è un verbo con una forte accentuazione pratica ed etica.
Il richiamo all’osservanza dei comandamenti è motivato dal fatto che l’eresia gnostica — sviluppatasi all’epoca di questo scritto — sosteneva che la salvezza dell’uomo era possibile solo attraverso la conoscenza teorica di Dio (ma senza alcuna implicanza etica).
Questa co-noscenza — chiamata con il termine greco ghnòsis — portava a considerare il corpo del-l’uomo, con le sue passioni e i suoi peccati, come irrilevante nel conseguimento della sal-vezza.
Ciò significava un totale disinteresse per la morale, che per il cristiano non è tanto un insieme di leggi o di divieti, quanto piuttosto la conoscenza della volontà di Dio e il conformarsi ad essa, compiendola ogni giorno.
Infatti per il cristiano non vi può essere se-parazione tra anima e corpo, tra conoscenza di Dio e pratica cristiana, tra religione e mora-le, tra vangelo e vita quotidiana.
Vangelo: Luca 24,35-48 In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Un-dici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano ri-conosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Ge-sù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».
Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma.
Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho».
Di-cendo questo, mostrò loro le mani e i piedi.
Ma poiché per la gioia non credevano an-cora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?».
Gli of-frirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».
Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Ge-rusalemme.
Di questo voi siete testimoni».
Esegesi Il brano proposto conclude l’episodio che ha come protagonisti i due discepoli di Em-maus, e contiene un nuovo racconto di apparizioni, che gli esegeti chiamano «apparizione di riconoscimento».
Mediante alcuni segni/gesti che Gesù compie — come il mangiare, il lasciarsi toccare, il mostrare le mani e i piedi —, egli vuole eliminare negli apostoli il so-spetto che si tratti della visione dello spirito di un morto («un fantasma»), vanificando così l’esperienza più vera della Pasqua.
Per i cristiani che provenivano dall’ambiente greco, infatti, era comune credenza che lo spirito vivesse separato dal corpo dopo la morte.
Era perciò necessario precisare che Gesù risorto non è uno spirito senza corpo e che non appartiene più al regno dei morti, come gli spiriti.
Per questo, nel racconto di apparizione, si insiste sul vedere, mangiare, toccare.
Ma anche l’ambiente ebraico incontrava grandi difficoltà nel comprendere e nell’accetta-re la risurrezione di Gesù.
Accettarla significava, infatti, che ormai si era davanti all’inter-vento definitivo di JHWH nella storia, che erano iniziati gli ultimi tempi e che ormai erano giunti il mondo nuovo, il Regno di Dio e la risurrezione finale e definitiva, promessa dai profeti (vedi Ezechiele).
Per questo l’evangelista colloca l’evento della Pasqua di Gesù nel-l’insieme delle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il ter-zo giorno».
«Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma»: lo spavento ha origine dal fat-to che Gesù appare all’improvviso.
Il termine «fantasma» traduce il greco pneuma («spiri-to»).
Secondo la concezione greca, dopo la morte lo spirito era separato dal corpo e non si riuniva più ad esso.
Nella concezione cristiana, invece, corpo e spirito costituiscono la per-sona, e la risurrezione fa di questo nostro corpo non un fantasma, ma un corpo «glorioso», «glorificato», come quello di Gesù.
«Lo prese e lo mangiò davanti a loro»: con questa frase, più che insistere sulla realtà incon-fondibile del corpo di Gesù, l’evangelista vuole evidenziare la vittoria di Gesù sulla morte, simboleggiata dalla rinnovata partecipazione alla mensa con i suoi discepoli, come avve-niva prima della morte.
L’espressione «davanti a loro» (in greco, enòpion autòn) si potrebbe tradurre anche: «a mensa con loro».
È un’espressione che ricorre anche in Lc 13,26: «Ab-biamo mangiato e bevuto in tua presenza (in greco, enòpion sou, «alla tua mensa»)» e pro-babilmente con essa si vuole esprimere la continuità tra il Gesù prima della Pasqua e il Ge-sù risorto.
«Nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi »: è la suddivisione di tutta la Bibbia secondo il canone ebraico.
È curioso, qui il rilievo dato ai Salmi, dal momento che la Bibbia ebraica chiama la terza parte della Scrittura, con il termine generico «Gli Scritti».
Probabilmente i Salmi vengono nominati perché costituiscono la parte più abbondante degli «Scritti».
Non va neppure dimenticato che nel Nuovo Testamento i Salmi vengono citati con frequenza sia nei vangeli sia negli Atti degli apostoli come profezie della risurrezione di Gesù.
Meditazione «Ma non mi riconosci?».
È capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi dinanzi a qualcuno che chiede di essere identificato come quel tale compagno di scuola, di lavoro, di una qualche avven-tura estiva o invernale, di un’esperienza vissuta assieme in un tempo ormai trascorso…
Prima di indagare mediante domande di approfondimento e prima di metter mano a do-cumenti probanti, cosa abbiamo fatto per verificare l’ipotesi? Abbiamo guardato con atten-zione il volto del nostro interlocutore, ovviamente! È curioso che nel brano evangelico odierno Gesù chieda di essere riconosciuto…
dalle mani e dai piedi! Ora, né Gesù né l’evangelista Luca erano dei burloni.
Questa sorprenden-te espressione del Risorto ci aiuta invece…
a non sentirci più sfortunati dei contemporanei di Gesù: se i suoi discepoli, che hanno vissuto con lui per anni, non lo hanno riconosciuto guardandolo in faccia, perché noi ci ostiniamo a sostenere che ci sarebbe più facile credere se lo avessimo visto ‘in carne e ossa’? L’invito di Gesù mira piuttosto a calibrare la nostra fede a un livello più profondo e ‘democratico’: ognuno di noi può dire con autenticità e au-torevolezza che il Signore è risorto solo se accettiamo che egli sia anche…
il Crocifisso! Ec-co perché invita a guardare le mani e i piedi, dove sono – e restano! – impressi i segni, le ci-catrici della sua morte orrenda e ingiusta.
Il mistero della ‘fìnitudine’ divina, iniziato con il Natale, trova qui la sua massima espressione.
Per condividere fino in fondo la nostra con-dizione umana, il ‘tutto’ sta e rimane in un ‘frammento spezzato, crocifisso’.
Ma la ‘credibi-lità’ di Gesù sta proprio nel non aver voluto fare il dio ‘ovvio’, giocare ad un dio ‘scontato’, che mantiene le distanze e le distinzioni…
Se gli Undici erano «sconvolti e pieni di paura» (v.
37) non è soltanto perché credevano di «vedere un fantasma» (vv.
37,39) ma probabilmente perché temevano di essere ripresi – e non poco! – a causa della loro assenza sotto la croce di Gesù.
Era pertanto difficile affron-tare questo sorprendente incontro con il loro maestro nel clima della ipotizzata ‘rimpatria-ta’ di cui sopra si diceva…
E invece non c’è nulla di tutto ciò nelle parole di Gesù che Luca ci riporta.
Emerge piuttosto la ferma volontà di voler farsi vicino ai suoi discepoli, di con-solare il loro dolore, illuminare la loro delusione, apprezzando la loro disponibilità a ritro-varsi ancora insieme per dare ascolto a Pietro e ai due sconosciuti provenienti da Emmaus; soprattutto, per offrire loro la pace, pienezza di tutti i doni messianici.
In verità, seppur più lievemente rispetto a Cleopa e al suo compagno (cfr.
vv.
24,25), Gesù ‘rimprovera’ i presenti, affermando con vigore che la sua morte in croce non è stato ‘un incidente di percorso’ da dimenticare quanto prima…
Rammenta loro che avrebbero potuto ricordare le parole del Primo Testamento, in tutte le sue parti, in cui non veniva vi-sto come contradditorio l’aspetto penoso e quello vittorioso: il percorso del Messia non era pensato come precluso alla prova, al rifiuto, all’ostilità, alla sofferenza, non era affatto pro-fetizzato come una celeste cavalcata trionfale.
Se è vero che ogni uomo cresce, matura e si appropria della sua umanità attraverso queste esperienze, perché le si sarebbe dovute e-scludere dall’esistenza di Gesù? Come avrebbe potuto costui innalzare, rialzare la vita del- l’uomo se non l’avesse assunta in pienezza? C’è effettivamente da «non riuscire a credere ed essere stupefatti per la grande gioia» (v.
41 )! Lo sguardo deve essere stato addirittura trasognato quando Gesù ha incaricato questi uomini frastornati e impauriti di aiutare ogni uomo a interpretare la propria esistenza alla luce di quella vicenda che si era appena conclusa e li aveva così impressionati.
Allora an-che l’incarico di testimoniare a tutte le genti questa solidarietà umile, ma tenace e liberante, non sarà stato fonte di timore ma stupita riconoscenza, annuncio di benevolenza gratuita e generosa, esigente educazione alla maturità a misura di Cristo: era nata la Chiesa!
“Apocrifi. Memorie e leggende oltre i Vangeli”
Ottanta capolavori, a costituire un panorama di pitture su tavola lignea, dipinti su tela, sculture, altari ed incisioni, dal Medioevo ad oggi, selezionati dalle sedi museali più prestigiose d’Europa, come i Musei Vaticani, gli Uffizi di Firenze, la Galleria Borghese e la Galleria Doria Pamphilj di Roma, l’Accademia Carrara di Bergamo, la Galleria Tretyakov di Mosca, i Musei Reali di Arte e Storia di Bruxelles e diverse altre.
Nell’elegante e suggestiva sede della Casa delle Esposizioni si potranno ammirare, tra le altre, opere di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, Albrecht Dürer, Andrea Pozzo, Pomponio Amalteo, Ludovico Mazzolino, insieme ad antiche icone russe e bizantine.
Inoltre, Illegio esporrà eccezionalmente per un mese (fino al 18 maggio), lo straordinario dipinto “Il riposo durante la fuga in Egitto” di Caravaggio.
Questo capolavoro, del 1596 circa, lasciò la storica Galleria Doria Pamphilj di Roma soltanto in tre occasioni nella sua storia, alla volta di Londra, Parigi, Washington.
La Galleria ha però deciso che il prezioso dipinto di Caravaggio, sicuramente una delle opere più belle nella storia della pittura, uscirà una quarta volta dalla sua sede e sarà esposto ad Illegio alla mostra Apocrifi.
Il curatore scientifico della mostra, come per le precedenti edizioni, è don Alessio Geretti, che esprime grande soddisfazione per questo prestito eccezionale, ma precisa al contempo che l’esposizione avrà molte altre opere di altissimo livello e affronterà temi iconografici di notevole interesse, in un articolato percorso che va dalla scultura lignea medievale fino ad importanti opere rinascimentali e barocche.
“Questo permetterà – spiega il curatore – di riscoprire quanto a fondo l’immaginario collettivo cristiano sia stato integrato e arricchito da alcune pagine dei Vangeli apocrifi, sia contribuendo a determinare la forma tipica assunta dall’iconografia di determinati episodi canonici, come ad esempio l’Adorazione dei Magi, sia colmando i vuoti della narrazione scritturale con altri materiali compatibili con la fede, come quelli che raccontano l’infanzia di Maria o la sua Assunzione”.
Oggi si è svolta a Palazzo Borromeo, sede dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, la presentazione a livello nazionale di “Apocrifi”, con la partecipazione del sottosegretario al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, on.
Giro, con la presenza di mons.
Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura.
Il capolavoro di Caravaggio, che si potrà ammirare per un mese ad Illegio, racchiude anche un piccolo mistero, un messaggio “in codice”, che proprio in occasione della mostra “Apocrifi” sarà finalmente del tutto svelato.
Lo spartito musicale che san Giuseppe tiene in mano di fronte all’angelo è un mottetto composto dal fiammingo Noël Bauldewijn nel 1519.
Si tratta del “Quam pulchra es et quam decora”, dedicato alla Vergine Maria ed ispirato dal Cantico dei Cantici.
Il quadro, quindi, racchiude in sé una chiave di lettura mistica.
Don Geretti conferma: “È una specie di didascalia cifrata che ci spiega lo spirito con cui l’artista ha dipinto questo capolavoro, il messaggio che il committente gli ha domandato di inscrivere nella scena”.
Ci sarà in mostra anche un’opera di Caravaggio, per straordinaria concessione della Galleria Doria Pamphilj di Roma.
Illegio, piccolo centro montano nel cuore della Carnia, diventa ancora una volta attore protagonista e scrigno di un evento artistico di portata nazionale e internazionale.
Dopo le cinque mostre internazionali proposte annualmente dal 2004 ad oggi – ricordando le ultime, “Apocalisse.
L’ultima rivelazione” (Illegio Musei Vaticani 2007) e “Genesi.
Il mistero delle origini” (Illegio 2008) –, il Comitato di San Floriano annuncia un’altra grande esposizione internazionale: “Apocrifi.
Memorie e leggende oltre i Vangeli”.
“Si solleva il velo di mistero che spesso s’immagina avvolgere gli antichi Vangeli apocrifi – spiega mons.
Angelo Zanello, presidente del Comitato promotore e parroco di Tolmezzo e Illegio –, ossia quelli che non entrarono nel canone delle Sacre Scritture, ma che talvolta lasciarono il segno in tanta parte della tradizione iconografica e devozionale cristiane.
La mostra si presenta quindi come una suggestiva indagine alla ricerca di tutto ciò che i Vangeli hanno taciuto, ma che la memoria delle prime generazioni cristiane ha fatto giungere sino a noi”.
Io non mi vergogno del Vangelo
L’Apostolo Paolo, può essere un modello per l’insegnante di religione cattolica, giacché è capace di dialogo con la cultura del tempo a partire dalle sollecitazioni del vangelo.
Egli infatti è testimone consapevole della forza interpretativa della Parola di Dio circa l’esperienza religiosa umana e da credente proclama la salvezza per chiunque crede, esprimendo la gioia dell’appartenenza ed il coraggio della testimonianza.
Da questa riflessione è nato lo slogan messo a tema del Meeting: “Io non mi vergogno del Vangelo” (Rm 1,16).
L’Irc per una cultura a servizio dell’uomo.
Il titolo intende richiamare, da una parte, la portata umana del Vangelo, ispiratore della civiltà dell’amore nell’attuale contesto socio-culturale; dall’altra, l’Irc come disciplina scolastica a servizio della persona umana e della sua crescita integrale, per cui l’Idr esercita la sua professionalità docente con la sua identità credente e appartenenza ecclesiale.
La cura e la competenza con cui gli Idr svolgono la loro quotidiana azione scolastica è una risorsa non solo per la Scuola, ma per l’intera Società, giacché va incontro ai bisogni culturali ed educativi degli alunni e delle loro famiglie, mostrando un impegno educativo per la piena realizzazione dell’uomo.
– Programma completo (PDF) – Organizzazione dell’evento
Apprendere la Religione
OSSERVATORIO RELIGIOSO TRIVENETO, A.
CASTEGNARO (a cura ), Apprendere la religione. L’alfabetizzazione religiosa degli studenti che si avvalgono dell’insegnamento di religione cattolica, Edizioni EDB, Bologna 2009, ISBN 978-88-10-60610-0, pp.
264, Euro 21,60 Che cosa sanno i ragazzi e i giovani di oggi della religione, e in particolare della religione cattolica? È proprio vero che la nostra società si caratterizza per una crescente ignoranza religiosa, che le nuove generazioni anticipano? E che ciò avviene nonostante l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, sia pubbliche sia paritarie? E nonostante la partecipazione dei bambini e dei ragazzi alla catechesi? Questi interrogativi sono all’origine dell’indagine sui livelli di alfabetizzazione religiosa manifestati, al termine della scuola secondaria di I e II grado, dagli studenti che frequentano l’ora di religione.
La ricerca ha coinvolto oltre 5000 studenti delle scuole statali e paritarie ai quali è stato sottoposto un test e un questionario mirato.
L’indagine getta uno sguardo sui livelli di conoscenza acquisiti.
Perché alcuni studenti ne sanno di più e altri di meno? C’è qualcosa nel modo in cui i corsi vengono impostati, nella didattica o nei contenuti proposti, che può influenzare i livelli di apprendimento? I risultati sembrano smentire il luogo comune secondo cui i giovani di oggi non sanno niente di religione.
Gli studenti paiono aver acquisito in maggioranza una significativa formazione di base, forse più ampia di quella posseduta dalle generazioni precedenti, comparabile a quella ottenuta in altri campi del sapere, che esigono un diverso impegno di studio e dispongono di orari più ampi.
I risultati migliori si ottengono non dove l’offerta formativa enfatizza i contenuti di istruzione religiosa, ma quando i docenti propongono una sintesi tra la riflessione sui problemi della vita e le conoscenze relative alla religione.
Non dall’insistenza sugli specifici contenuti conoscitivi deriva l’apprendimento, ma dalla capacità di porre in relazione la materia studiata con l’esperienza di vita.
Una conclusione il cui valore va probabilmente al di là dell’ora di religione.
è presidente dell’Osservatorio Socio¬Religioso Triveneto e membro del Consiglio Scientifico dell’Associazione Italiana di sociologia, sezione sociologia della religione.
Tra le sue più recenti pubblicazioni: Fede e libertà.
Indagini sulla religiosità nel Patriarcato di Venezia, Marcianum Press, Venezia 2oo6; Preti del Nord Est.
Condizioni di vita e questioni di pastorale, Marcianum Press, Venezia 2oo6; Religione in Standby, Marcianum Press, Venezia 2008.
Marcianum è un centro di ricerca promosso dalle diocesi del Triveneto.
Conduce attività di documentazione e ricerca sulle trasformazioni socio-culturali e religiose oltre che sull’evoluzione delle Chiese del Nord Est.
Costituzione, religione, scuola
SERGIO CICATELLI, Costituizione religione, scuola.
L’insegnamento della religione cattolica nella giurisprudenza costituizionale, Lateran University Press, Roma 2009, pp.118, Euro 10,00.
Presentazione Linsegnamento della religione cattolica (IRC) è spesso motivo di contestazioni o discussioni per l’evidente significato ideale e valoriale ad esso legato.
Nel 1984 l’Accordo di revisione del Concordato lateranense ha motivato autorevolmente la presenza dell’IRC nelle scuole italiane con il valore della cultura religiosa e con il peso che i principi del cattolicesimo hanno nel patrimonio storico del popolo italiano, collocando altresì tale insegnamento nel quadro delle finalità della scuola.
L’attuazione della nuova normativa concordataria è stata accompagnata da un ampio e vivace dibattito nel Parlamento e nell’opinione pubblica, sfociando infine anche nelle aule dei tribunali.
Data la delicatezza della materia, che im¬pegna da un lato i rapporti istituzionali tra Stato e Chiesa e dall’altro le respon¬sabilità educative della sede scolastica, più volte è stata chiamata ad intervenire la Corte Costituzionale, sia per dare un giudizio di legittimità dello stesso assetto concordatario, sia per risolvere questioni più particolari che comunque pote¬vano avere una rilevanza costituzionale.
Il presente volume raccoglie tutti i pronunciamenti della Corte Costituzio¬nale sull’IRC per offrire una documentazione completa e corretta ad un pub¬blico di non specialisti.
Di fronte a controversie suscettibili di ripresentarsi periodicamente per motivi strumentali o per passione ideale, è sembrato op¬portuno invitare alla lettura dei testi prodotti dalla Corte, che rappresentano un riferimento ultimativo e sono lezioni imprescindibili di alta cultura giuri¬dica e civile. I testi delle ordinanze e sentenze riprodotti in questo volume sono ripresi, con la sola correzione di qualche refuso, dal sito web della Corte Costituzionale (www.cortecostituzionale.it).
Nel suo intento divulgativo, il sintetico saggio introduttivo rifugge da tecnicismi giuridici e si rivolge principalmente ad operatori della scuola, in particolare agli insegnanti di religione, per fornire un utile strumento di riflessione ed una fondazione autorevole per la natura dell’IRC e per la vita dell’intera scuola.
Riper¬correre gli interventi della Corte Costituzionale diventa così un punto di osserva¬zione privilegiato per ricostruire la storia recente dell’IRC e fissare le coordinate – non solo dal punto di vista giuridico – del suo statuto epistemologico.
Roma, dicembre 2008 Sergio Cicatelli
Pasqua di Resurrezione anno B
Il sole di giustizia Il sole di giustizia scomparso da tre giorni si leva oggi e illumina tutta la creazione: Cristo nella tomba da tre giorni ed esistente da prima dei secoli.
È germogliato come una vigna e riempie di gioia tutta la terra abitata.
Volgiamo i nostri occhi alla luce senza tra-monto e lasciamoci riempire della gioia di questa luce.
Le porte degli inferi sono spezzate da Cristo, i morti si levano come dal sonno; è risorto il Cristo, resurrezione dei morti, e ha destato Adamo.
È risorto Cristo, resurrezione di tutti, e ha liberato Eva dalla maledizione.
È risorto Cristo, la resurrezione, e ha trasfigurato in bellezza ciò che era privo di bellezza e di splendore.
Il Signore si è risvegliato come dal sonno e ha confuso i suoi nemici calpe-standoli sotto i piedi.
Cristo è risorto e ha dato gioia a tutta la creazione; è risorto e la pri-gione degli inferi è stata svuotata; è risorto e ha trasformato il corruttibile in incorruttibile.
Cristo è risorto e ha ristabilito Adamo nell’antica dignità dell’immortalità.
Chiunque è una nuova creatura in Cristo sia rinnovato dalla resurrezione.
[…] La chiesa che è in Cristo diventa oggi un cielo nuovo, cielo più bello di quello che vediamo.
Non ha bisogno della luce di un sole che tramonta ogni sera, perché ha per luce quel Sole che il sole della terra ha temuto quando lo ha visto sospeso alla croce.
Di questo sole il pro-feta ha detto: «Si leva il sole di giustizia per quelli che temono il Signore» (Ml 3,20).
(EPIFANIO DI CIPRO, Omelia sulla santa resurrezione di Cristo, PG 43,465A-C Cantiamo: Alleluia! Bisogna che «questo corpo corruttibile» – non un altro – «si rivesta di incorruttibilità, e questo corpo mortale» – non un altro – «si rivesta di immortalità.
Allora s’avvererà la paro-la della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria».
Cantiamo: Alleluia! «Allora si av-vererà la parola della Scrittura», parola di gente non più in lotta, ma in trionfo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria».
Cantiamo: Alleluia! «Dov’è, o morte, il tuo pungi-glione?».
Cantiamo: Alleluia! (cfr.
1Cor 15,53-55).
[…] Cantiamo «Alleluia» anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono sia dagli altri sia da noi stessi.
Di-ce l’Apostolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre for-ze» (1Cor 10,13).
Anche adesso, dunque, cantiamo «Alleluia».
L’uomo resta ancora preda del peccato, ma Dio è fedele.
E non si dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: «Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita perché possiate reggere».
Sei in balìa della ten-tazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione.
[…] Oh! Felice alleluia quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena sicurezza, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici.
Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente tribolata, là da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speran-za, lassù nella realtà; qui in via, lassù in patria.
Cantiamo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere la gioia del riposo, ma per procurarci un sollievo nella fatica.
Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia.
Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, nella retta fede, in una vita buona.
(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 256,2-3, NBA XXXII/2, pp.
816-818).
Imparare a riconoscere Gesù Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manife-sta in maniera chiara, che non ci dice come fare.
Adagio adagio, però, si capisce che il Si-gnore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca.
Noi diventiamo veri ricer-catori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.
Così cresciamo.
Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col pro-gramma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema.
Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca.
Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è cre-scita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).
Pasqua è… Credere che anche i ladroni possono andare in Paradiso.
Dico ladroni perché mi pare che aggiungere “buoni” sia pleonastico.
È credere che in tre giorni possono accadere cose che non sono accadute in trenta secoli.
È credere che i soldi non comprano mai nessuno e se lo comprano è per distruggerlo.
È credere che anche gli amici veri possono tradire altri amici veri.
La causa: troppa si-curezza nel reputarsi “veri”.
È accettare di iscrivere il dolore dentro la storia della nostra vita, accettarlo come com-pagno.
C’è un dolore che annulla l’uomo e c’è un dolore che annulla gli errori dell’uomo.
È uscire dalla metropoli e percorrere i sentieri oltre le mura: sentieri di silenzio, faticosi, scoscesi, puliti, stretti.
È credersi Giuda e Pietro, cireneo e soldato, Pilato e Maddalena, sepolcro e giardino, terremoto e sindone, legno e sangue, mors e alleluja.
È smettere di farsi parola per incominciare a farsi pane, vino, mensa, cenacolo, fuoco, amore.
È incontrarsi con il giardiniere e scoprirlo Cristo; incontrarsi con un viandante e sco-prirlo Cristo; incontrarsi con i vecchi compagni e scoprirli Cristo; incontrarsi con i pescato-ri e …mangiare con Cristo.
È asciguarsi il volto pieno di lacrime e …meravigliarsi che dalle lacrime possano nasce-re …le risurrezioni.
(Antonio Mazzi).
Andate presto, andate a dire… Voi che l’avete intuito per grazia correte su tutte le piazze a svelare il grande segreto di Dio.
Andate a dire che la notte è passata.
Andate a dire che per tutto c’è un senso.
Andate a dire che l’inverno è fecondo.
Andate a dire che il sangue è un lavacro.
Andate a dire che il pianto è rugiada.
Andate a dire che ogni stilla è una stella.
Andate a dire: le piaghe risanano.
Andate a dire: per aspera ad astra.
Andate a dire: per crucem ad lucem.
Voi, che lo avete intuito per grazia, correte di porta in porta a svelare il grande segreto di Dio.
Andate a dire che il deserto fiorisce.
Andate a dire che l’Amore ha ormai vinto.
Andate a dire che la gioia non è sogno.
Andate a dire che la festa è già pronta.
Andate a dire che il bello è anche vero.
Andate a dire che è a portata di mano.
Andate a dire che è qui, Pasqua nostra.
Andate a dire che la storia ha uno sbocco.
Andate a dire: liberate, lottate.
Andate a dire che ogni impegno è un culto.
Voi, che lo avete intuito per grazia, correte, correte per tutta la terra a svelare il grande segreto di Dio.
Andate a dire che ogni croce è un trono.
Andate a dire che ogni tomba è una culla.
Andate a dire che il dolore è salvezza.
Andate a dire che il povero è in testa.
Andate a dire che il mondo ha un futuro.
Andate a dire che il cosmo è un tempio.
Andate a dire che ogni bimbo sorride.
Andate a dire che è possibile l’uomo.
Andate a dire, voi tribolati.
Andate a dire, voi torturati.
Andate a dire, voi ammalati.
Andate a dire, voi perseguitati.
Andate a dire, voi prostrati.
Andate a dire, voi disperati.
Andate a dire, comunque sofferenti.
Andate a dire, offerenti-sorridenti.
Andate a dire su tutte le piazze.
Andate a dire di porta in porta.
Andate a dire in fondo alle strade.
Andate a dire per tutta la terra.
Andate a dire gridandolo agli astri.
Andate a dire che la gioia ha un volto.
Proprio quello sfigurato dalla morte.
Proprio quello trasfigurato nella Pasqua.
Oggi, proprio ora, qui andate a dire.
Andate a dire.
Ed è subito pace.
Perché è subito Pasqua.
(Sabino Palumbieri, Via Paschalis, Elledici, 2000, pp.
28-29) Quelli che fanno suonare le campane Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l’ultimo giorno andai in una scuola materna.
C’erano tantissimi bambini di tre o quattro anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico.
La maestra chiese: “Bambini, sapete chi è il vescovo?”.
Tutti diedero delle risposte.
Uno disse: “E’ quello che porta il cappello lungo in testa”; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: “il Vescovo è quello che fa suonare le campane”.
Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane.
Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profon-damente umana.
Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così.
Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane”: le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.
(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).
I macigni rotolati Ricorrerò alla suggestione del macigno che la mattina di Pasqua le donne, giunte nel-l’orto, videro rimosso dal sepolcro.
Ognuno di noi ha il suo macigno.
Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro.
E’ il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato.
Siamo tombe alienate.
Ognuna col suo sigillo di morte.
Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi, e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di cristo.
Pasqua è la festa dei macigni rotolati.
E’ la festa del terremoto.
(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).
L’affidamento dell’uomo a Dio Nella Pasqua Gesù, da un lato, rivela il mistero dell’amore di Dio per l’uomo; dall’altro, celebra e attua nel modo umanamente più perfetto l’amore, l’obbedienza, l’affidamento dell’uomo a Dio.
L’aspetto singolare, eccezionale, unico del sacrificio pasquale è che la ri-velazione e la celebrazione – attuazione sono una sola cosa, così come nell’essere di Gesù, Dio e l’uomo, pur rimanendo distinti, diventano una sola cosa.
La Pasqua di Gesù, proprio perché è quella manifestazione-celebrazione dell’amore di Dio ora descritta, tende a raggiungere ogni uomo, sia per manifestargli l’amore di Dio, per annunciargli che il suo peccato è perdonato, per dargli speranza di vita e di gioia oltre la sofferenza e la morte, sia per attrarre ogni uomo nello stesso movimento di celebrazione del mistero, di adorazione di Dio, di conformazione alla volontà del Padre che ha animato tutta la vita di Gesù suggellata nella Pasqua.
L’eucaristia è appunto la modalità istituita da Gesù nell’ultima cena per attuare questa intrinseca intenzione salvifica della Pasqua.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol.
II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).
Questo giorno fatto dal Signore penetra tutte le cose In questo giorno, per opera della risurrezione di Cristo gli inferi aperti restituiscono i morti, la terra rinnovata fa germogliare risorti, il cielo dischiuso accoglie chi sale.
Il ladro-ne sale in paradiso (cfr.
Lc 23,43), i corpi dei santi entrano nella città santa (cfr.
Mt 27,53), i morti ritornano tra i vivi (cfr.
Mt 27,52) e in certo senso tutti gli elementi alla risurrezione di Cristo progrediscono e si innalzano.
Gli inferi rinviano in alto quanti racchiudono, la terra invia al cielo quelli che li ha sepolti, il cielo presenta al Signore quelli che accoglie e, con una sola operazione, la passione del Salvatore innalza dal profondo, solleva dalla terra e colloca nell’alto dei cieli.
La risurrezione di Cristo è infatti vita per i morti, perdono per i peccatori, gloria per i santi.
Il santo David invita dunque ogni creatura a festeggiare la ri-surrezione di Cristo, poiché dice che bisogna esultare in questo giorno fatto dal Signore e rallegrarsi [Sal 117 (118) ,24].
[…] Questo giorno fatto dal Signore penetra tutte le cose, con-tiene il cielo, abbraccia la terra e gli inferi.
La luce di Cristo infatti non è fermata da pareti, non è divisa da elementi, non è oscurata dalle tenebre.
La luce di Cristo, voglio dire, è giorno senza notte, giorno senza fine, splende in ogni luogo, si irradia ovunque, non viene meno in alcun luogo.
Che questo giorno sia Cristo lo dice l’Apostolo: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,12).
La notte è avanzata, è detto e non si dice che segue il giorno; questo affinché tu capisca che al sopraggiungere della luce di Cristo le tenebre del Diviso-re sono messe in fuga e non giunge l’oscurità dei peccati e un perenne splendore scaccia le nebbie del passato, arresta il male che cerca di farsi spazio.
La Scrittura attesta che questo giorno, cioè il Cristo, illumina cielo, terra e gli inferi.
Che risplenda sopra la terra lo dice Giovanni: «Era la vera luce, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9).
Che risplenda negli inferi, lo dice il profeta: «Una luce è sorta per quelli che sedevano nel-l’ombra di morte» (Is 9,2).
Che questo giorno duri in eterno nei cieli, lo dice David: «Stabi-lirò per sempre la sua discendenza e il suo trono come i giorni del cielo» [Sal 88 (89),30].
(MASSIMO DI TORINO, Discorsi 53,1-2, Scrittori dell’area santambrosiana, pp.
250-252).
Auguri di Pasqua Fa’ di me, Signore, un arcobaleno di bene, di speranza e di pace.
Un arcobaleno che per nessun motivo annunci ingannevoli bontà, speranze vane e false immagini di pace.
Un arcobaleno sospeso da Te nel cielo, che annunci il tuo amore di Padre, la risurrezione del tuo Figlio, la meravigliosa azione del tuo Spirito Santo.
(H.
Camera).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 10,34a.37-43 In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sa-pete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti colo-ro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme.
Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai mor-ti.
E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimo-niare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costitui-to da Dio.
A lui tutti i profeti danno questa testimonian-za: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
Il brano di oggi inizia con le prime parole del versetto 34 del capitolo 10 e continua col versetto 37 fino al 43, togliendo le parole di Pietro dal loro contesto.
Pietro sta parlando a Cornelio ai suoi congiunti e amici intimi (At 10,24), che lo avevano mandato a chiamare, per ispirazione divina.
Pietro risponde prontamente all’invito, per-ché, per grazia divina, ha capito che i disegni di Dio sulle persone non corrispondono agli schemi umani e che «chi teme e pratica la giustizia è a lui accetto» (At 10,35).
Si tratta quindi di un discorso a dei pagani, ai quali viene annunciato il Cristo morto e risorto, nucleo essenziale della predicazione apostolica.
La missione di Gesù comincia a partire dal battesimo di Giovanni ed è compiuta in Giudea a partire dalla Galilea.
L’autore degli Atti pone la Galilea come una regione della Giudea, che viene intesa come tutto il territorio abitato dagli ebrei.
Politicamente Galilea e Giudea erano separate, pur facendo parte entrambe della provincia romana.
Dio è protagonista della vicenda di Gesù.
Dio stesso ha consacrato (echrisen) in Spirito Santo Gesù (At 10,38 cf.
Is 61,l; Mt 3,16; Lc 4,18).
La parola greca «consacrare» richiama l’appellativo «Cristo» unto, messia in ebraico.
La potenza dello Spirito conferito da Dio fa sì che Gesù passi «beneficando e risanando» (At 10,38).
Più che le parole di Gesù importano i suoi gesti, che rivelano che Dio è con lui.
Gli apostoli e i discepoli, che devono annunciare Gesù morto e risorto, sono investiti del dovere della testimonianza «di tutte le cose da lui compiute» (At 10,39).
«Essi lo uccisero, appendendolo alla croce».
La versione usata dalla liturgia sembra dare per scontato che gli uccisori di Gesù sono stati i giudei, mentre i responsabili ultimi della sua morte erano i capi romani, i soli che potevano comminare la pena di morte, come Cor-nelio, che era un centurione romano, ben sapeva.
E i Romani non avevano nessuna inten-zione di derogare alle loro prerogative o il loro potere; essi avevano tutta la forza per deci-dere anche contro il parere dei giudei.
Per amore di quieto vivere e per una certa intelli-genza politica, essi cercavano la collaborazione in loco; essi lasciavano una certa libertà al Sinedrio, a patto naturalmente che non fosse di intralcio, ma servisse da intermediario fra il potere e il popolo.
È molto importante aver presente la reale situazione storica, per non ricadere anche involontariamente nell’assurda denuncia dei giudei «deicidi», denunciata apertamente come erronea dalla chiesa cattolica a partire dal concilio Vaticano II (cf.
Nostra Aetate n.
4 e relativi documenti di applicazione della commissione pontificia per i rapporti religiosi con gli ebrei del Segretariato per l’unità dei cristiani — ora consiglio pontificio — Orientamenti …e sussidi).
Dio ha risuscitato Gesù il terzo giorno ed è sua volontà che non apparisse a tutto il po-polo, ma solo ad alcuni testimoni particolari, da lui stesso scelti (At 10,41).
A questi pochi è stato concesso di mangiare e bere con lui, dopo la risurrezione dei morti.
Essi e coloro che credono sulla loro parola formano la catena della tradizione e, di generazione in genera-zione, predicano la sua risurrezione.
«Vi ho trasmesso, quello che ho ricevuto, dice Paolo, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e poi ai dodici…
(1 Cor 15,3,5).
Gesù è costituito, grazie alla sua risurrezione e glorificazione, «giudee dei vivi e dei morti».
Coloro a cui egli è apparso dopo la risurrezione hanno il dovere di predicarlo.
A questo annuncio si riallaccia la predicazione della conversione (cf.
Mc 1,15) a cui sono invi-tati coloro che crederanno nel suo nome e che in suo nome riceveranno per dono di Dio la remissione dei peccati.
«A lui tutti i profeti danno questa testimonianza» (At 20,43): si fa un breve accenno all’ar-gomento della testimonianza profetica, che però non viene svolto, trattandosi di un udito-rio pagano.
Tuttavia è sintomatico che non venga omessa del tutto la menzione della con-tinuità tra l’Antico Testamento e il Nuovo, assicurata dalle predizioni profetiche» (CARLO MARIA MARTINI, Nuovissima versione della Bibbia, 37, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 199510 174, n.
17).
Seconda lettura: Colossesi 3,1-4 Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifesta-to, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
I versetti che leggiamo oggi danno inizio alla parte parenetica della lettera.
I cristiani col battesimo (Col 2,11-13,20) sono «risorti con Cristo», sono rinati a vita nuova, devono quindi vivere secondo questa nuova situazione.
«Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù» (Col 3,1).
Queste cose sono le virtù con-trarie ai vizi, che vengono enumerati dopo (Col 3,5-6.9).
I cristiani, infatti, sono già risorti col Cristo e sono là dove egli è, ma in modo nascosto; la loro gloria, come quella del Cristo si manifesterà nel giorno della rivelazione definitiva.
Per ora vale l’esortazione a manife-stare questa gloria attraverso una vita di rettitudine e di carità (Col 3,12-14).
Vangelo: Giovanni 20,1-9 Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e an-dò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal se-polcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recaro-no al sepolcro.
Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma av-volto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro di-scepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Esegesi Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna par-ticolare: Maria di Magdala.
Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato tra-fugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.
Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane.
Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia.
Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte.
Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni.
Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).
«Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8).
Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore.
Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche.
Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le perso-ne in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa.
Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto.
Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).
Meditazione Può sorprendere la scelta della liturgia di interrompere la lettura dell’evangelo secondo Giovanni al v.
9.
In tal modo, in questa domenica di Pasqua non viene proclamato il rac-conto di una manifestazione personale del Risorto.
Eppure il capitolo 20 di Giovanni de-scriverà nei versetti seguenti alcuni di questi incontri: dapprima la manifestazione a Maria di Màgdala, poi quella ai discepoli nel Cenacolo, infine, otto giorni dopo, ancora nel Cena-colo, il riconoscimento da parte dell’incredulo Tommaso.
Tuttavia, nel brano scelto per questa domenica di Risurrezione, il Signore ancora non si rivela e non viene ricono-sciuto.
Nonostante questa reticenza, la scena, avvolta ancora in una misteriosa penombra (è già mattino, ma ancora buio, v.
1), inizia a essere rischiarata dalla fede del discepolo che Gesù amava (v.
2), il quale «vide e credette» (v.
8).
Basta davvero poco alla fede e all’amore di questo discepolo per giungere a credere.
Egli gode già della beatitudine di coloro che «non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29).
O meglio, credono perché sanno vedere dei segni e interpretarli nella luce delle Scritture, come ricorderà la finale di questo capitolo, che con ogni probabilità è anche la conclusione della redazione più antica del quarto vangelo: «Ge-sù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e per-ché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31).
Per credere e avere vita nel nome di Gesù occorre riconoscere dei ‘segni’ che sono ‘scrit-ti’, dunque mediati e interpretati da una parola, oltre che dalla fede di coloro che ce li han-no consegnati attraverso la loro testimonianza.
La disponibilità a interpretare dei segni nella luce delle Scritture, come pure, circolarmente, ad ascoltare le Scritture lasciando che siano interrogate dai segni, conduce alla fede.
Tale è anche l’esperienza del Discepolo ama-to: vede alcuni segni, che da soli però non sono sufficienti ad accendere la fede nella risur-rezione; occorre anche ascoltare e comprendere la Scrittura (v.
9).
D’altro canto, si com-prende davvero la Scrittura quando le si consente di interpretare i segni e di farceli leggere in modo nuovo.
Quelli che in primo momento potevano sembrare nient’altro che la testi-monianza di un’assenza o di un trafugamento, sono al contrario l’annuncio di una presen-za definitiva, che nulla e nessuno potrà più eliminare dall’orizzonte della nostra esperien-za.
Non un trafugamento, ma un dono.
«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto», grida la disperazione di Maria di Màgdala.
Anche lei do-vrà giungere a vedere e a credere che Gesù non è stato portato via, ma ci è stato donato in modo nuovo e definitivo.
Ora è ‘posto’ nella sua vera dimora: la comunione di vita con il Padre e con tutti i suoi fratelli.
Là potrà essere di nuovo incontrato e riconosciuto, non per trattenerlo per sé, ma per accoglierlo e testimoniarlo come dono di perdono, di riconcilia-zione, di vita per tutti.
Non soltanto un sepolcro di morte, ma nessun altro ‘posto’ potrà ora rinchiudere il Risorto, che è consegnato a tutti, come il Vivente e il Signore di ogni cre-atura che in lui trova vita, senso, libertà.
Iniziamo così a intuire la bellezza e la profondità della scelta operata dalla liturgia della parola in questa domenica.
Anche noi, insieme a Maria, a Pietro, al Discepolo amato, sia-mo condotti a vedere alcuni segni e ad ascoltare alcune parole affinché possiamo aprirci alla fede e riconoscere la presenza del Vivente in mezzo a noi.
Il vangelo non ci racconta un incontro, ci offre però una traccia preziosa per giungere a una relazione personale con il Risorto.
L’incontro che non viene narrato dischiude così lo spazio per il nostro incontro personale.
Come giungere dunque, insieme al Discepolo amato, a vedere e a credere? Occorre anzitutto mantenere vivo un legame di amore con il Signore, una memoria gra-ta della sua parola e dei suo gesti, della rivelazione del volto di Dio e del volto dell’uomo che egli ci ha offerto nella concretezza della sua vita e della sua storia.
Il verbo ‘correre’ ri-torna con frequenza nel racconto: corre Maria, corrono soprattutto Pietro e l’altro discepo-lo.
Non è solo la sorpresa, la curiosità o l’incapacità di comprendere a farli correre; più an-cora è il legame d’amore che, nonostante la morte, continua ad attrarli verso il loro Signo-re.
Sperimentano un’assenza, a motivo di quel corpo privo di vita che sanno rinchiuso in un sepolcro di morte, ma non viene meno la loro appartenenza a quell’uomo e alla sua sto-ria.
Che sia proprio l’amore e non altro a farli correre, l’evangelista ce lo ri-corda mostran-do che è il Discepolo amato a correre più veloce e a giungere prima di Pietro.
Giunti al sepolcro la prima cosa che si scorge è la pietra ribaltata.
Più che una tomba vuota, vedono un sepolcro ‘aperto’.
Il termine greco che Giovanni usa per designare il se-polcro – mnemeion – deriva dal verbo mimnesko, «ricordare».
È un memoriale, ma ora ‘aper-to’.
Anziché custodire un passato, si apre al futuro.
Ben oltre il legame del ricordo, d’ora in poi dovrà essere una relazione viva e personale a unire i discepoli al loro Signore.
Ne po-tranno riconoscere il volto e penetrare appieno l’identità solo comprendendo che egli è co-lui che apre i sepolcri, che vince la morte, che garantisce un futuro di speran-za.
Le sue pa-role, i suoi gesti, la sua vicenda storica potranno essere ora ricordati in modo del tutto di-verso; non semplicemente come una sapienza umana o religiosa, ma come la promessa di una vita che ci viene donata in modo definitivo, senza che nulla più ce la possa sottrarre, senza che niente possa più separarci dal Vivente! Entrando in quel sepolcro, come fanno Pietro e Giovanni, non si trova più un corpo pri-vo di vita, ma i teli e il sudario che lo avevano avvolto, senza poterlo imprigionare per sempre nella loro morsa senza speranza.
Non solo in quel sepolcro, ma ogni volta che una persona entrerà nel mistero della morte, incontrerà ora, grazie al dono del Risorto, dei teli e un sudario dai quali sarà liberata, che potrà lasciare lì, senza rimanerne avvin-ghiata per sempre.
Certo, in prima battuta quei panni piegati testimoniano che il corpo di Gesù è assente dal sepolcro non perché trafugato, come in un primo momento aveva pensato Maria.
Non si può portare via un corpo e lasciare ben piegata la sindone che lo avvolgeva.
Annunciano però un mistero più profondo, che solo una fede alimentata dall’amore e illuminata dall’a-scolto delle Scritture giunge a vedere.
Ogni vero discepolo ama, vede, ascolta le Scritture e crede.
«La Scrittura da un corpo al Risorto.
Origene l’aveva compreso quando aveva indi-viduato quattro incorporazioni del Logos: in Gesù di Nazaret, nella Scrittura, nell’eucari-stia e nella Chiesa.
Scomparso il corpo di Gesù di Nazaret, il corpo della Scrittura intervie-ne per primo a conferirgli il suo contenuto intelligibile e simbolico per la fede» (Y.
Simo-ens).
Siamo anche noi sollecitati a vivere questo cammino: amare e cercare il Signore, anche quando sembra farsi assente; mantenere vivo il legame con lui attraverso il ricordo delle sue parole e dei suoi gesti; lasciarci attrarre e condurre in una fedele appartenenza; aprire il ricordo e trasformarlo nell’attualità di una presenza; ascoltare le Scritture per interpreta-re i segni dello Spirito nella nostra vita e della nostra storia.
Vivendo una ricerca nutrita di questi atteggiamenti dischiuderemo lo spazio perché il Risorto stesso possa venire, incon-trarci personalmente, chiamarci per nome.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Il triduo Pasquale:
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 52,13-53,12 Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.
Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.
I carmi del «Servo di JHWH» segnano una svolta nel messianismo biblico.
L’affermazione monarchica aveva fatto pensare che la salvezza escatologica potesse venire da un eventuale discendente della famiglia regale (cf 2Sam 7,12-14).
La figura del re davidico compare nei salmi e nei profeti e servirà ad accendere l’immaginazione popolare verso un grande futuro, che si rivelerà ben presto illusorio.
Con l’esilio le speranza riposte nella dinastia e nel dinasta davidico vanno attenuandosi e al suo posto subentra la figura di un martire ideale che sopporta afflizioni e pene per l’intera nazione.
Una figura insolita che non farà mostra di potenza ma di umiltà e di mansuetudine; non trionferà sui nemici con la forza delle armi anzi sarà deriso umiliato, sconfitto.
Egli ritrae in concreto le sofferenze del popolo d’Israele nella sua amara esperienza dell’esilio.
Sulle rive del Chebar, in terra straniera nasce una nuova scuola di spiritualità, un nuovo modo di pensare e di impostare i rapporti con Dio e con i propri simili, i connazionali e gli altri, fatto di remissività, di abbandono e di perdono.
Occorreva farsi umili davanti a Dio come lo si era diventati davanti alle genti e con tale atteggiamento da poveri, mendichi alzare il volto verso l’alto con fiducia.
Non era importante offrire a Dio doni, quanto semmai mostrargli le proprie mani vuote e, bisognose di essere riempite dalle sue elargizioni.
I «poveri in spirito» sono nati nell’esilio e fanno sentire la loro voce in molti salmi (I salmi dei poveri) e tra di essi vi sono anche i «Carmi del servo di JHWH», l’ideale che Gesù ritiene dovere incarnare nella sua vita più che quello del discendente davidico.
Infatti respingerà le insinuazioni di grandezza, di potenze come istigazioni salamene (Mt 4,1-11), fuggirà quando vorranno farlo re (Gv 6,15), e respingerà come diabolico il suggerimento di Pietro di evitare a scansare la passione (Mt l6,23).
Perché umile e indifeso, sarà facilmente catturato e vinto, ma per questa sconfitta conseguirà la vittoria.
«Non doveva il Cristo patire è così, cioè e per questo motivo, entrare nella gloria», ricorda il misterioso viandante ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26).
Perché si è umiliato fino alla morte di croce Dio l’ha esaltato al di sopra di ogni potestà, ribadisce l’autore dell’inno presente nella lettera agli Efesini (2,1-11).
Seconda lettura: Ebrei 4,14-16; 5,7-9 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Il testo di Ebr 5,7-9 riassume l’esperienza del Getsemani nei termini più drammatici di tutto il nuovo Testamento.
L’autore chiama la passione di Gesù «i giorni della sua carne».
Nel linguaggio biblico il termine basar (carne) denota l’aspetto maggiormente precario più vulnerabile dell’essere umano: uno stato di «debolezza» (5,2) più che di forza, simboleggiata quest’ultima dallo «spirito».
La «carne è debole» ricorda Gesù nel Getsemani (Mt 26,41) e intendeva far riferimento anche alla condizione di panico e di ansietà che stava attraversando nel suo animo.
La passione metteva alla prova anche Gesù.
La sconfitta imminente, l’abbandono degli amici e, sembrava, anche del Padre (Mc 15,34) provocavano uno stato di insicurezza interiore che lo facevano tremare.
Per questo, l’autore parla di «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime» per ridire il suo stato di vera, estrema angoscia.
Le semplici parole dei sinottici «passi da me questo calice» lo esprimono con maggiore concretezza e forse obiettività.
Davanti allo spettro della morte Gesù non rimane impavido, ma atterrito e non trova altro scampo che volgere il pensiero al Padre.
L’autore non ricorda che cosa egli dice ma certamente parole di comprensione e di soccorso.
La frase «Dio che poteva salvarlo da morte» lascia capire quale possa essere stato l’oggetto della sua preghiera.
La morte sopraggiungerà egualmente, ma l’autore afferma che ciò nonostante «venne esaudito».
La vera vittoria non era quella di evitare la morte, ma di saperla accettare; l’importante non era sconfiggere i nemici, ma superare le reazioni che si annidavano nel suo animo: la volontà di fuga davanti al dolore e alla croce, la possibilità di cedere e di arrendersi.
Era ciò che a Gesù stava a cuore; non di evitare ma di superare la dura prova che la missione profetica gli stava riservando.
E Gesù fu esaudito per la sua riverenza, pietà, fiducia in Dio.
Pregare è un atto di fede, ma occorre anche essere pronti ad accogliere qualsiasi risposta, sapendo che tutto ciò che Dio dispone è tutto quello che egli può dare, quello che è più opportuno per la creatura, maggiormente rispondente al suo disegno.
Gesù è stato sempre un «figlio» ubbidiente, ma ha dovuto anche apprendere a quale prezzo a volte l’ubbidienza è subordinata.
Vangelo: Giovanni 18,1-19,42 – Catturarono Gesù e lo legarono In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.
Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi.
Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
Gli risposero: «Gesù, il Nazareno».
Disse loro Gesù: «Sono io!».
Vi era con loro anche Giuda, il traditore.
Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?».
Risposero: «Gesù, il Nazareno».
Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io.
Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro.
Quel servo si chiamava Malco.
Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
– Lo condussero prima da Anna Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno.
Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo.
Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote.
Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta.
Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro.
E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?».
Egli rispose: «Non lo sono».
Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento.
Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?».
Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male.
Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi.
Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?».
Egli lo negò e disse: «Non lo sono».
Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».
Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
– Il mio regno non è di questo mondo Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio.
Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.
Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?».
Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato».
Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».
Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna.
Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!».
Barabba era un brigante.
– Salve, re dei Giudei! Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.
E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora.
Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!».
E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna».
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora.
E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa».
Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura.
Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?».
Ma Gesù non gli diede risposta.
Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».
Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto.
Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
– Via! Via! Crocifiggilo! Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà.
Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare».
Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.
Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno.
Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!».
Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».
Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
– Lo crocifissero e con lui altri due Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo.
Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.
I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”».
Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».
– Si sono divisi tra loro le mie vesti I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica.
Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».
Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte».
E i soldati fecero così.
– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre! Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!».
Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».
E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».
Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.
Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!».
E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
– E subito ne uscì sangue e acqua Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui.
Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.
Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso».
E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù.
Pilato lo concesse.
Allora egli andò e prese il corpo di Gesù.
Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe.
Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura.
Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto.
Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.
Esegesi Il «racconto» della passione secondo Giovanni è totalmente diverso da quello dei sinottici (Mc-Mt-Lc).
Il quarto evangelista ricorda occasionalmente i patimenti di Gesù; di fatti descrive il suo cammino trionfale verso il trono della sua gloria.
Il titolo è dato già in 12,32: «quando sarò esaltato da terra trarrò tutti a me».
Nel Getsemani invece di essere prostrato dal dolore, sopraffatto dall’agonia (cf.
Mc 14,33-34) Gesù si erge contro i suoi avversari prostrandoli a terra (18,6).
In Marco è lui a cadere su se stesso sopraffatto dal dolore e dallo spavento; qui sono i suoi nemici folgorati dalla sua maestà.
Un’intera corte e le guardie dei giudei indietreggiano e finiscono a terra quando dice: «Sono io».
Gesù accetta sì il «calice» che il padre gli ha preparato ma da «Signore» più che da vittima.
Il processo davanti ad Anna (18,18-24) e a Pilato (18,28-40) è sostenuto da Gesù dignitosamente.
Sembra egli il giudice più che il reo.
Pur incatenato è sempre a testa alta di fronte agli accusatori e alle accuse.
Non ha paura di rispondere al sommo sacerdote come il reagire contro il servo che l’ha ingiustamente schiaffeggiato mentre i sinottici riferiscono solo gli scherni e gli insulti che ha ricevuto e danno più rilievo al comportamento degli avversari che all’atteggiamento di Gesù.
L’interrogatorio da parte di Pilato serve a mettere in rilievo l’innocenza di Gesù e la sua supremazia sul giudice e sugli accusatori.
Egli è la «verità» in persona e cerca di raggiungere persino lo stesso procuratore romano e quelli che l’attorniano dato che quelli a cui era prima di tutti destinata la rifiutano come rifiutano il loro re per sottostare a Cesare.
Il «re dei giudei» di cui i soldati mettono in scena una sua simbolica intronizzazione è proposto a Barabba, un rivoltoso quindi un partigiano, ma per Giovanni è semplicemente un «ladro».
La scena centrale del racconto della passione di Giovanni è quando il funzionario romano fa uscire Gesù dall’interno del pretorio, lo fa sedere su uno sgabello alla vista di tutto il popolo e pronuncia le fatidiche parole: «Ecco l’uomo!» ( 19,14).
L’evangelista nota il giorno (la «parasceve» ossia della preparazione alla Pasqua), l’ora «sesta», ossia verso le dodici) e il luogo (Lithostron).
Pilato non si rende conto di ciò che sta facendo; senza volerlo egli sta compiendo un gesto altamente profetico: emette un pronunciamento che avrebbero dovuto emettere le autorità religiose d’Israele.
In tutti i modi è un riconoscimento ufficiale della messianità di Gesù che viene più sicuramente da Dio quanto più è estraneo alle intenzioni di chi lo pronuncia.
Quando Caifa aveva proclamato che era opportuna la morte di Gesù per salvare tutta la nazione, Giovanni commenta che pronunciò una profezia a sua insaputa (11,51); la stessa cosa pensa ora, anche se non lo dice espressamente, del gesto di Pilato.
Solo così si spiega il rilievo che gli accorda.
La maggior parte degli esegeti interpretano il verbo ekathisen in senso intransitivo e quindi lo riferiscono a Pilato che si «siede» sul seggio del giudice; solo che il termine bêma (seggio) è senza articolo e sta più per «uno scanno» qualunque che per la sedia del tribuno.
In tutti i modi con questo simbolico insediamento o senza di esso è indiscutibile per Giovanni che Gesù più che processato è riconosciuto persino dal procuratore il re messianico che gli israeliti attendevano.
Non solo non c’è alcuna condanna sul suo conto, ma c’è il pubblico riconoscimento della sua reale dignità da parte della persona più impreparata a farlo, quindi è ancora più autentico.
Il viaggio di Gesù al luogo del supplizio è senza traumi; egli avanza «portandosi la croce» come uno stendardo.
Non c’è alcun cireneo ad aiutarlo; come non ci sono segni di sofferenza o di stanchezza quando è sulla croce, non riceve alcuna droga («vino e mirra», non grida, non si raccomanda al Padre ma conserva il pieno dominio di sé e il controllo della situazione.
La croce non può essere né cancellata né dimenticata, ma è più un trono, un luogo regale che un luogo di tormenti.
La scritta che Pilato ha fatto apporre al vertice lo conferma.
Gesù è il re dei giudei e già fa sentire il peso della sua autorità; da le sue ultime disposizioni; consegna alla madre il discepolo prediletto e viceversa (19,26-27); dà compimento agli ultimi oracoli profetici (la spartizione delle vesti, il sorteggiamento della tunica, il dissetamento mediante l’aceto invece che con l’acqua, come aveva predetto il Sal 69,22) e quando aveva portato tutto a compimento, attuata quindi in pieno la sua missione, come un martire ma anche come un eroe vittorioso, lascia partire il suo spirito.
La frase giovannea «consegnò lo spirito» è volutamente ambivalente.
Dietro il significato abituale, morire, ce n’è uno più recondito: trasmise lo Spirito sugli stanti, quindi dà corso alla sua attività salvifica.
Poco dopo, in occasione della trafittura del costato, l’evangelista annota che ne «uscì sangue ed acqua».
Se il sangue richiama la passione, la morte, l’acqua riporta alla promessa dello Spirito santo fatta nel giorno della festa dei tabernacoli (Gv 7,39).
«Chi ha sete venga a me e beva.
Disse questo dello Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui, ma lo Spirito non veniva ancora accordato perché Gesù non era stato ancora glorificato» (ivi).
Ma ora dalla croce lo può già effondere, anche se la donazione piena, ufficiale comincia la sera di pasqua quando nel cenacolo si presenta ai suoi, alita su di loro e dice: «Ricevete lo Spirito santo» (20,22).
I corpi dei condannati a morte venivano gettati nella fossa comune dei malfattori, ma gli evangelisti si sono preoccupati di evitare a Gesù questa umiliazione e gli accordano una onorata sepoltura.
Anzi Giovanni menziona la bende, gli aromi e prima ancora la mirra recata in abbondanza da Nicodemo; la sepoltura non è affrettata, ma secondo tutte le regole giudaiche.
I sinottici parlano del sepolcro nuovo (Mt 27,60) Giovanni aggiunge che era in un «giardino», traduzione dell’ebraico gan, il luogo dove Dio aveva collocato il primo uomo dopo la creazione avvenuta nell’adamah o terra arida.
Gesù non è entrato perciò nel regno della morte, ma della vera vita; il paradiso delle origini da cui l’uomo era stato espulso si è finalmente riaperto grazie alla sua opera.
La storia stava riprendendo il corso impostale dal creatore.
Meditazione La liturgia del Venerdì santo, celebrando la passione del Signore, mette al centro dello sguardo credente la Croce, che viene svelata e mostrata.
Alla sua estensione segue l’adorazione.
Questa terminologia, per quanto tradizionale, non è del tutto esatta; può rischiare anzi di essere fuorviante.
Non si adora infatti né la Croce, né la morte di Cristo in se stessa, ma la sua persona e ciò che la sua persona crocifissa significa per noi: la rivelazione insuperabile dell’amore di Dio che ci salva.
Il racconto della Passione, che ogni anno in questo giorno ascoltiamo secondo il vangelo di Giovanni, ci offre lo sguardo giusto con cui guardare alla Croce, posta al centro di questa celebrazione liturgica.
I tre annunci della passione, che nei sinottici scandiscono il cammino di Gesù verso Gerusalemme, nel quarto vangelo sono sostituiti dai tre annunci dell’’innalzamento’ (Gv 3,14-15; 8,28; 12,32).
Il Cristo crocifisso è ‘elevato’ e la sua elevazione significa per Giovanni che gli uomini dispersi sono nuovamente riuniti, perché attratti insieme verso di lui.
Riletti in modo sintetico, questi annunci consentono di individuare almeno tre doni che Colui che è innalzato sulla Croce offre agli uomini nella sua Pasqua.
Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna: l’Innalzato comunica la vita eterna, cioè la vita stessa di Dio, il mistero di amore e di comunione che nello Spirito sussiste tra il Padre e il Figlio.
Essere attratti a lui significa perciò entrare nel mistero della vita stessa di Dio che ci vie- ne donata.
Saprete che Io Sono: l’Innalzato costituisce la piena rivelazione del volto di Dio che traspare nella carne umiliata di Gesù.
Essere attratti a lui significa perciò giungere a una conoscenza più profonda del mistero di Dio che proprio nella Pasqua si rivela.
Attirerò tutti a me: l’Innalzato consente di vincere ogni nostra dispersione, creando legami di comunione con Dio e tra di noi.
Essere attratti significa perciò entrare in comunione con il Crocifisso perché da questa fonte possano scaturire anche rapporti di riconciliazione e di amore tra di noi.
Potremmo ridire tutto ciò con un’immagine.
La liturgia mostra oggi la Croce invitandoci a contemplarla.
Fissiamo così lo sguardo sulla verticalità del Crocifisso, innalzato tra cielo e terra, con le braccia distese orizzontalmente in un ampio abbraccio.
Nell’incrocio di questa verticalità e di questa orizzontalità la Croce disegna il duplice slancio con cui Gesù ha vissuto la sua ora.
Nel movimento verticale possiamo riconoscere una caduta/abbassamento cui corrisponde un innalzamento (a essere elevato da terra è infatti proprio colui che ha accettato di cadere nella terra per morirvi come un seme, secondo Gv 12,20-33); nel movimento orizzontale c’è un dono, o una consegna di sé, cui corrisponde un’attrazione.
O meglio, più che corrispondersi, i diversi movimenti avvengono l’uno dentro l’altro.
Il Cristo è innalzato perché ha accettato di essere umiliato; il Cristo ci attrae a sé perché ha consegnato per noi la sua vita.
È questo dono di sé che diventa la vera ‘calamità’ che ci attrae, così come l’accettazione di vivere un cammino di abbassamento, di umiliazione, fino alla croce, addirittura fino agli inferi, diviene la grande ‘calamità’ che lo innalza verso l’alto e verso il Padre.
A essere elevato dalla terra è proprio il seme che vi è caduto per marcirvi.
Muore nella terra per non rimanere solo; viene elevato dalla terra per attrarre tutti a sé.
Morte e vita, umiliazione e innalzamento, solitudine e comunione costituiscono sempre un unico e indivisibile movimento.
L’unica ora di Gesù.
Il racconto della Passione secondo Giovanni ci ricorda con forza che il luogo di questa attrazione è il costato aperto, il fianco trafitto da cui sgorga sangue e acqua.
«Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 37).
Nei racconti sinottici è il velo del tempio a squarciarsi per significare il pieno accesso al mistero di Dio, reso possibile anche per il peccatore.
Non sussiste più separazione di sorta: siamo in comunione con Dio.
In Giovanni non quello del tempio, ma è il velo stesso della carne di Gesù a essere squarciato.
Essere attratti significa entrare nello spazio di questo costato aperto, che è lo spazio dell’amore che si consegna, dello Spirito che si effonde.
Come ha scritto von Balthasar, l’ultimo grande segno nell’evangelo di Giovanni è il cuore aperto che diviene insieme spazio di rivelazione e di comunione.
Sulla croce la rivelazione di Dio diviene un cuore aperto in cui dimorare.
Nel Cristo di Velàzquez Miguel de Unamuno commenta con questi versi il costato trafitto: Ecco la bocca che la lancia aperse perché col sangue la passione parlasse, serrata l’altra bocca.
Quando la bocca di Gesù viene serrata dalla morte è il suo costato a divenire bocca aperta, da cui esce la parola definitiva di Dio, che salva, attrae, ci consegna, crea comunione.
Giovanni scrive con precisione: «volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto».
Questo futuro ci coinvolge in prima persona.
Il testo greco ha una sfumatura da non lasciar cadere.
«Guardare verso» è detto con una preposizione che suggerisce l’idea di un guardare ‘dentro’, un ‘entrare in’.
Alcuni anni fa il Cardinale Martini, nella sua lettera pastorale Quale bellezza salverà il mondo?, suggeriva di entrare nei sentimenti del Figlio, e da qui, dal segreto della sua vita, conoscere veramente il volto del Padre.
Il cuore della esistenza di Gesù è tutto racchiuso in quel sangue e in quell’acqua che fuoriescono dal suo costato trafitto, segno di una vita che si dona totalmente per comunicare anche a noi la vita stessa di Dio, il suo Spirito, il suo amore, che rimane in noi e diviene possibilità di amarci come lui ci ha amati.
Sangue e acqua, insieme, inseparabilmente.
C’è un famoso detto di un padre del deserto, Longino, che afferma: «Da’ il sangue e prendi lo Spirito».
Dare sangue allude a ogni gesto della nostra vita in cui sappiamo far vivere in noi l’amore di Cristo, divenendo disponili al dono di noi stessi, unificando in questa logica la no-stra obbedienza, la nostra libertà, il nostro desiderio.
Solo dimorando in questo mistero, avendo in noi gli stessi sentimenti del Figlio, possiamo vedere il volto del Padre e ricevere il dono del suo Spirito.
Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uomo, della natura e della cultura, il pane esprime il bisogno, ciò che davvero è necessario per vivere.
Non a caso la parola «pane» indica cibo essenziale e non superfluo: quando diciamo che «non c’è pane», evochiamo fame e carestia, cosi come del fenomeno migratorio non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’evidenza che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame.
Una corsa, quella cui assistiamo oggi – dalle sponde meridionali a quelle settentrionali del Mediterraneo – che segue il percorso compiuto proprio dalla cultura del pane quasi cinquemila anni fa.
Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità o meno a spezzarlo perché tutti ne possano avere, pane che, secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo quando è spezzato e condiviso.
E la civiltà del Mediterraneo ha sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino.
Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il dono accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino dà gusto alla vita; il pane ritempra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino ne addolcisce le fatiche.
Pane e vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in quei due semplici alimenti, quanti volti appaiono dietro di loro! Il contadino e il mugnaio, il fornaio e il vignaiolo, e poi il bottaio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della mietitura, il silenzio delle cantine e dei granai, il rumore della mola e il pigiare nei tini …
E ora sono lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci la qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo e su come desideriamo che sia il nostro mondo.
Forse anche per questo, come ha giustamente osservato Predrag Matvejevié, «la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o simili».
Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua.
Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».
È cosi che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo.
E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 42-44) Vi ho dato un esempio «Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12).
È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7).
[…] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi».
[…] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda.
Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15).
Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi.
Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi.
[…] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo.
Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà.
[…] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io».
Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.
Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16).
È questo l’esempio che ci ha dato il Signore.
Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp.
1094.1098-1100) Pane della condivisione Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Un giorno unico Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino.
Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta.
Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta.
Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima.
Quella volta che facesti il primo sacrificio.
Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia.
La prima vittima.
(Ch.
PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).
Giovedì Santo Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto.
Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15).
Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.
Questi due gesti sono intimamente uniti.
Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore.
Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso.
Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15).
Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).
Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo.
Ci chiama a una totale autodonazione.
Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi.
Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.
Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate.
E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me».
Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.
(H.J.M.
NOUWEN, In cammino verso la luce).
O Signore, dove mai potrei andare? Io volgo il mio sguardo a te, o Signore.
Tu hai pronunciato parole così piene di amore.
Il tuo cuore ha parlato così chiaro.
Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami.
Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…
Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me.
Voglio che tu condivida in pieno la mia vita.
Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre.
Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».
Ti sto di nuovo guardando, o Signore.
Tu ti alzi e mi inviti alla mensa.
Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me.
«Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te».
Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te».
Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine.
Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei.
Mi doni il tuo stesso io.
Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto.
Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.
O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto? (H.J.M.
NOUWEN, Da cuore a cuore).
Ogni volta Ogni volta che celebriamo l’eucaristia e riceviamo il pane e il vino, il corpo e il sangue di Gesù, la sua sofferenza e la sua morte diventano sofferenza e morte per noi.
Siamo incorporati in Gesù.
La passione diventa compassione, per noi.
Veniamo incorporati a Gesù.
Diventiamo parte del suo ‘corpo’ e in questa via quanto mai compassionevole, veniamo liberati dalla nostra più profonda solitudine.
Per mezzo dell’eucaristia riusciamo ad appartenere a Gesù nella maniera più intima a lui che ha sofferto per noi, è morto per noi ed è di nuovo risorto, così che possiamo soffrire, morire e di nuovo risorgere con lui.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane).
Preghiera Dio onnipotente ed eterno la sera prima di soffrire, il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa il sacrifico della nuova ed eterna alleanza e istituì il convito del suo amore.
Fa’ che da questo mistero possiamo ricevere la pienezza di vita e di amore.
Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14 Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno.
Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa.
Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto.
Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno.
In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare.
Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta.
È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto.
Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto.
Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.
La Pasqua è la grande solennità del calendario giudaico.
Indipendentemente dal suo significato originario si ricollegava con la liberazione egiziana, il soggiorno sinaitico, l’alleanza.
Soprattutto era il ricordo della partenza miracolosa dalla terra della schiavitù verso la libertà.
«Pasqua» significa infatti «passaggio» (Es 12,11), sia dell’angelo di JHWH nella notte dell’esodo, sia del popolo di Dio dalla servitù dei faraoni al servizio del vero Dio, sia l’ingresso d’Israele nell’alleanza con il Signore del cielo e della terra.
Ritualmente la celebrazione era legata all’immolazione dell’agnello e al banchetto conviviale dei membri della comunità che si raccoglieva per rivivere l’esperienza dei padri e riassorbirne i benefici.
Ognuno si doveva sentire come liberato personalmente dall’antica e da qualsiasi altra forma di schiavitù presente.
E tutti erano invitati a sentire la gioia della liberazione.
Il banchetto a cui tutti i gruppi di dodici persone sedevano, i cibi simbolici che venivano apprestati (l’agnello di un anno, intatto e senza macchia perché rappresentava tutto intero Israele, le erbe amare per ricordare le sofferenze sopportate, il dolce color mattone per rievocare i lavori forzati a cui furono costretti) commemorava la fine dell’esilio e la gioia della conseguita liberazione.
Un «trapasso» che doveva quasi inorgoglire tutti i membri del popolo eletto fino agli ultimi discendenti e rallegrarli dal profondo del cuore.
Essi avevano sperimentato la presenza di Dio in modo tangibile e spettacolare, una presenza e assistenza che non era venuta mai meno e costituiva il vanto e l’esultanza di ogni israelita.
Non c’è altra «grande nazione che abbia la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi», sottolinea il deuteronomista (4,7).
Israele è un popolo missionario chiamato a segnalare alle genti l’unico vero Dio creatore di tutte le cose e ad attendere la piena manifestazione della sua benevolenza (salvezza) in mezzo agli uomini, ma è caduto in un grave abbaglio quando si è ritenuto destinatario esclusivo delle «benedizioni» divine che oltre ad Abramo erano destinate a «tutte le nazioni» (Gn 12,3).
Seconda lettura: 1 Corinzi 11,23-26 Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
L’apostolo Paolo è un testimone della tradizione primitiva della Chiesa, in questo caso della «cena del Signore» che è il momento culminante della convocazione assembleare.
I cristiani (di Gerusalemme) si radunano per pregare (At 1,14), per ascoltare l’istruzione degli apostoli, prender parte all’agape e alla frazione del pane (At 2,42; 20,7,11; 27,35).
Frequentavano la liturgia del tempio e poi nelle case «spezzavano il pane prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (ivi).
È quanto fanno i cristiani di Corinto.
Anche se con certi gravi abusi anch’essi si ritrovano insieme per la condivisione del cibo con i più poveri e per la frazione del pane, solo che alcuni consumavano quello che avevano portato prima che arrivassero gli altri, gli ultimi, in genere servi o operai che non potevano lasciare il lavoro a piacimento.
Quindi oltre che eran più stanchi di tutti trovano poco o nulla per rifocillarsi.
Questa prima refezione ordinata al nutrimento del corpo era il contesto in cui si ripeteva, si commemorava l’ultima cena di Gesù con i suoi, nella stessa notte in cui stava per essere tradito, consegnato cioè nelle mani dei nemici ed essere ucciso.
Gesù compì un rito che doveva tenere desta nella memoria, quindi nella mente e nel cuore dei suoi, quello che egli aveva sopportato per il loro bene e il bene di tutti gli uomini.
Aveva costituito un «memoriale», voluto cioè ritualizzare l’atto della sua morte affinché i suoi seguaci potessero più agevolmente tenerlo presente e assumersi tutto l’onere che un tale «ricordo» comportava.
Ogni volta infatti che il cristiano si apprestava a ricevere gli alimenti, il pane e il vino, sui quali erano state ripetute le formule di benedizione: «Questo è il mio corpo (spezzato) per voi», «Questo è il calice del mio sangue (versato per voi)» intendeva compiere una commemorazione (anamnesis) e quindi un «”annunzio” della morte e risurrezione del Signore».
Alla vigilia della sua morte Gesù ha voluto lasciare ai suoi un segno permanente del suo amore.
Egli da lì a poco avrebbe finito i suoi giorni sul patibolo, ma quella morte era il prezzo della sua dedizione al volere del Padre e del suo bene ai fratelli.
Si lascerà spezzare, verserà fino alla sua ultima goccia il suo sangue ma non si arrenderà alle pressioni e angherie delle potestà terrene, ossia del potere ingiustamente costituito.
Gesù moriva martire di ubbidienza e di carità e lasciava ricapitolato il suo sacrificio nel simbolico rito dello spezzamento del pane e nel versamento del vino nel calice.
Chiunque avesse preso parte a tale banchetto commemorativo e avesse assunto gli alimenti offerti dichiarava agli astanti e più ancora a se stesso che anche lui era pronto come Gesù ad accogliere la proposta del Padre mettendo la propria vita a servizio dei fratelli fino a perderla per il loro bene.
Vangelo: Giovanni 13,1-15 Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo».
Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».
Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!».
Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti».
Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.
Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
Esegesi La lavanda dei piedi è la testimonianza estrema che Gesù lascia del suo amore ai discepoli e in essi a tutti gli uomini.
L’evangelista Giovanni non parla dell’autorità intesa come puro servizio, della scelta dell’ultimo posto per chi desidera porsi al primo (cf.
Mc 10,41-45; Mt 20,24-28; Lc 22,22-27), ma è l’unico a ricordare questa alta prova di umiltà che Gesù lascia ai suoi nelle ore precedenti al suo commiato.
È un gesto che vale più per il suo significato che per se stesso, per il beneficio cioè che apporta a coloro che lo ricevono.
La lavanda dei piedi era un’operazione che compiva non un comune domestico ma solo lo schiavo.
Era addirittura indegna da parte di un uomo libero.
Gesù pur definendosi «signore e maestro», anche se verosimilmente è dubbio che una tale dichiarazione sia uscita dalle sue labbra, non trova impossibile o irriverente compiere un tale atto.
Lo stupore di Pietro e dei suoi colleghi è più che plausibile.
Anche se gli altri discepoli non parlano, sentono dentro di sé lo stesso disagio.
Ma Gesù è irremovibile, non perché i dodici hanno bisogno di una particolare mondezza fisica prima della cena, ma perché debbono imparare ad assumere un particolare atteggiamento interiore davanti a Dio e ai propri fratelli.
Gesù lavando i piedi ai discepoli segnala una sua scelta e collocazione sociale, una chiara opzione messianica.
Tutti attendevano il prestigioso, potente discendente davidico, egli invece opta per l’ideale del «Servo sofferente» (Is 53) pronto agli scherni, alle derisioni, alle sofferenze al martirio.
È quanto Pietro e i suoi colleghi debbono capire e accettare.
O al seguito di un salvatore senza titolature e aureole, anzi disprezzato e vilipeso come uno schiavo o ritirarsi dalla sua sequela.
Le due strade erano inconciliabili: quella della liberazione degli uomini poveri e affranti e quella della propria esaltazione.
Se si doveva scegliere la prima era impraticabile la seconda, poiché le moltitudini fatte di gente senza dignità e onore avevano bisogno di un salvatore del loro rango, non di un altro oppressore.
Gesù sarà un messia mite ed umile di cuore (Mt 11,29), passerà senza spezzare la canna incrinata e spegnere il lucignolo fumigante, senza gridare sulle piazze (Mt 12,18-19), andrà incontro a una fine ignominiosa per difendere la causa dei peccatori, ma anche dei poveri e oppressi.
Cingersi i fianchi con un grembiule, prendere in mano un catino e mettersi a lavare i piedi dei suoi discepoli era una conferma delle scelte, dei comportamenti assunti sino allora, per questo diventava un gesto altamente significativo.
Essenziale come la morte sul legno della croce; che era oggetto di sofferenza e insieme di maledizione.
Gesù non ha assunto atteggiamenti guerrieri, né trionfalistici; è fuggito quando volevano farlo re (Gv 6,15) ed entra a Gerusalemme su un giumento invece che su un destriere e ha esortato i suoi a portare la croce più che lo scettro.
E Luca aggiunge quotidianamente (9.13).
Egli era venuto per servire e non per essere servito (Mt 20.28) per questo non trova inopportuno il gesto che compie.
Le parole conclusive esplicitano il significato e tutta la portata che l’operazione compiuta ha nella vita cristiana.
Non è una scelta e un atteggiamento che riguarda la sua persona, ma indistintamente tutti coloro che desiderano essere suoi discepoli.
«Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (v.
15).
Anche per loro valeva l’alternativa posta a Pietro o accettare un messia servo e assumere un comportamento dimesso e umile o rinunciare a proclamarsi cristiani.
Bisognava sentirsi pronti a lavare i piedi degli altri, degli amici e persino dei nemici, aggiungeranno Matteo (5,48) e Luca (6,35) senza tirarsi indietro.
La lavanda dei piedi è un gesto reale ed emblematico poiché in pratica abbraccia qualsiasi tipo di servizio, persino spiacevole e ripugnante se qualcuno ne ha bisogno.
Lavare i piedi è il sacramento fondamentale del cristiano poiché è la prova inconfondibile della sua identità e della sua conformità a Cristo.
È il segno di quella carità che rende l’uomo «figlio di Dio», «perfetto» come lui (cf.
Mt 5,48; Lc 6,35).
Meditazione Il Giovedì santo costituisce un grande portale di ingresso al Triduo pasquale della morte, sepoltura e risurrezione del Signore.
La memoria rituale della cena del Signore fornisce infatti la corretta chiave per entrare nel Triduo, suggerendo come interpretarlo e viverlo.
Celebrando il memoriale dei due gesti che Gesù pone nella vigilia della sua passione – la consegna del pane e del vino secondo la tradizione sinottica e la lavanda dei piedi secondo la tradizione giovannea – la liturgia ci introduce nell’atteggiamento stesso con cui Gesù è andato incontro alla sua morte, dandole un senso diverso, secondo la volontà del Padre e non secondo quella degli uomini.
I gesti e le parole sono differenti, ma tutti rivelano il modo con cui Gesù ha interpretato la sua morte e più ancora il significato che nella sua libertà obbediente e nel suo amore radicale – «fino alla fine» (Gv 13,1) – ha voluto conferirle.
Il racconto evangelico di Giovanni si apre con quattro versetti molto densi, che nell’originale greco costituiscono un’unica frase, nei quali per due volte risuona il verbo ‘sapere’ (vv.
1.3).
L’evangelista dischiude in tal modo un piccolo squarcio nel ‘sentire’ stesso con cui Gesù si appresta a vivere gli eventi decisivi della sua Pasqua.
Se il racconto della Passione narra quanto accadrà lungo la via della Croce, il racconto della cena svela l’atteggiamento interiore con cui Gesù ha vissuto quel cammino.
In particolare il quarto evangelo insiste sulla sua consapevolezza: egli sa che è giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, ma sa anche che il Padre ha posto tutto nelle sue mani.
È consapevole dunque degli avvenimenti tragici che si stanno profilando davanti a lui, del destino che lo attende, di ciò che gli uomini, in primis uno dei suoi discepoli, Giuda, stanno ordendo contro la sua persona; ma è consapevole che tutto è stato messo dal Padre nelle sue mani: rimane dunque libero e signore degli eventi.
Conosce la situazione, non è lui a determinarla, sono altri a farlo; nello stesso tempo non la subisce passivamente.
Negli eventi della passione sta per manifestarsi la volontà peccaminosa degli uomini; Gesù li vivrà per trasformarli in luogo in cui si manifesterà compiutamente l’amore misericordioso del Padre.
Con i gesti che compie e le parole che pronuncia durante questa cena Gesù anticipa quello che sta per accadere e gli dona un significato nuovo e diverso attraverso la consegna di se stesso nell’amore, in obbedienza libera all’amore stesso del Padre che consegna il proprio Figlio.
Quando subito dopo lo arresteranno nel Getsemani, o nel ‘giardino’, come lo definisce Giovanni, si impossesseranno di una vita che si era già liberamente consegnata nell’amore.
Il suo è infatti un corpo offerto per noi, un sangue versato per noi e per la nostra salvezza.
Anche il gesto della lavanda dei piedi racchiude simbolicamente il medesimo significato.
Gesù inverte i ruoli: lui, il Maestro e Signore, compie il gesto dello schiavo.
Addirittura, se possibile, si pone un gradino sotto lo schiavo, perché uno schiavo ebreo mai avrebbe lavato i piedi a un altro ebreo.
Si fa schiavo e servo dei suoi discepoli, e il servizio che vive è quello di chi giunge a donare la vita per loro, in modo del tutto gratuito, perché i piedi Gesù li lava anche a Giuda, colui che sta per consegnarlo e al quale invece è Gesù stesso a consegnarsi in un amore più forte e radicale, che previene il peccato di chi lo tradisce.
I verbi con i quali l’evangelista narra che Gesù depone le vesti (v.
4) per poi riprenderle di nuovo (v.
12), in greco sono i medesimi con cui al capitolo decimo, nel cosiddetto «discorso del buon pastore», Gesù dichiara di deporre la propria vita nella morte per poi riprenderla di nuovo nella risurrezione (cfr.
Gv 10,17).
Appare chiaro che con questo gesto Gesù non solo si fa servo, ma vive il servizio di chi dona la propria vita per poi riprenderla di nuovo, affinché gli uomini possano «avere parte con lui» (v.
8).
Possano, in altri termini, divenire partecipi della sua stessa vita e di quell’amore che ne costituisce il segreto più intimo e profondo.
Il gesto della lavanda dei piedi, infatti, come anche il pane spezzato e il vino versato, sono espressione di un amore «fino alla fine».
Dovremmo tradurre meglio: «fino al compimento».
Gesù, morendo sulla croce, esclamerà «tutto è compiuto» (Gv 19,30), con il verbo greco tetélestai in cui risuona il termine télos (‘fine’, ‘compimento’) che Giovanni usa qui, in apertura del capitolo tredicesimo.
L’amore di Gesù giunge al suo compimento non solo perché giunge a donare tutto, fino all’ultimo respiro, non solo perché è un amore definitivo, ma anche perché è un amore che si «compie in noi».
Non arresta la sua corsa pri-ma di giungere a questo traguardo, che è il suo amore in noi, la nostra possibilità di amarci come lui ci ha amati.
Il compimento dell’amore di Gesù, che la lavanda dei piedi simbolicamente rivela, è il comandamento nuovo, che Gesù consegna in questa stessa cena, in versetti che la lectio liturgica omette ma che è utile richiamare alla memoria: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri.
Come io ho amato voi, così ama-tevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Il comandamento nuovo è il dono di un ‘come’, da intendersi però non nella prospettiva dell’imitazione, ma di una ‘fondazione’: sul fondamento di come io vi ho amati, ora potete amarvi gli uni gli altri.
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