SS.Corpo e Sangue di Cristo anno B

«Amen» Celebrando l’eucaristia, la comunità ecclesiale partecipa al gesto di autoconsegna e di compassione di Gesù, lo rivive in sé e accetta di lasciarsi plasmare da esso, impegnandosi a trasformare i rapporti tra gli uomini in rapporti di consegna e di compassione.
L’eucaristia porta in sé la forza di cambiare in ciò che essa è coloro che la celebrano e mangiano di quell’unico pane e bevono di quel calice.
Una prospettiva che trova il suo fondamento nell’atto stesso di istituzione dell’eucaristia ed appare tipica della patristica e della grande tradizione teologica.
Basta ricordare, per tutti, uno straordinario testo di Ago-stino rivolto ai battezzati che, per la prima volta, si accostavano alla mensa eucaristica: alla mensa eucaristica: «Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero! Voi rispondete “Amen” a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete.
Sentite dire: “Corpus Christi, il Corpo di Cristo” e rispondete: “Amen”! Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il vostro “Amen” sia vero».
(S.
AGOSTINO, Sermo 272, in PL 38, 1247).
Il nascondimento di Dio nell’eucaristia Anche in questa lettera voglio tornare per un istante sul tema dell’eucaristia, perché l’eucaristia può definirsi a buon diritto il sacramento in cui Dio si nasconde.
Che c’è di più comune di un po’ di pane e di un bicchiere di vino? Che c’è di più semplice delle parole: «Prendete e mangiate, prendete e bevete: questo è il mio corpo e sangue.
Fate questo in memoria di me»?.
Mi sono trovato spesso con degli amici intorno a una piccola tavola, ho preso del pane e del vino e ho ripetuto le parole dette da Gesù quando si congedò dai suoi discepoli.
Niente di speciale o di spettacolare, nessuna grande folla, nessun canto straordinario, nes-suna formalità.
Solo alcune persone che mangiano un pezzo di pane che non basta a sfa-marli e bevono un sorso di vino che non basta a dissetarli.
Eppure…
in questo nascondi-mento è presente Gesù risorto e si rivela l’amore di Dio.
Come Dio si fece uomo per noi nel nascondimento, così pure nel nascondimento egli si fa per noi cibo e bevanda.
Tanta gente passa vicino all’eucaristia senza curarsene, eppure l’eucaristia è il più grande avvenimento che possa accadere tra noi uomini.
Durante il mio soggiorno all’‘Arca’, in Francia, ho scoperto la stretta relazione tra il na-scondimento di Dio nell’eucaristia e il suo nascondimento nel popolo di Dio.
Mi ricordo che una volta madre Teresa mi disse che non si può vedere Dio nei poveri, se non lo si ve-de nell’eucaristia.
Quelle parole mi sembrarono allora un po’ esagerate; ma ora che ho pas-sato un anno intero con gli handicappati comincio a capirne meglio il significato.
Non è realmente possibile vedere Dio negli esseri umani, se non lo si vede nella realtà nascosta del pane che scende dal cielo.
Fra gli esseri umani puoi vedere tipi di ogni specie: angeli e demoni, santi e bruti, anime caritatevoli e malevoli maniaci del potere.
Tuttavia, è solo quando hai imparato per esperienza personale quanto Gesù si curi di te e quanto egli de-sideri essere il tuo cibo quotidiano, è solo allora che impari anche a vedere ogni cuore co-me dimora di Gesù.
Quando il tuo cuore è toccato dalla presenza di Gesù nell’eucaristia, ricevi occhi nuovi, capaci di conoscere la stessa presenza nel cuore degli altri.
I cuori si parlano fra loro.
Il Gesù che è nel nostro cuore parla al Gesù che è nel cuore dei nostri fra-telli e delle sorelle.
È questo il mistero eucaristico di cui noi facciamo parte.
Noi vogliamo vedere dei risultati e se possibile – vogliamo vederli subito.
Ma Dio opera in segreto e con pazienza divina.
Partecipando all’eucaristia riuscirai un po’ alla volta a comprendere que-sta verità.
E allora il tuo cuore potrà cominciare ad aprirsi al Dio che soffre in chi ti sta in-torno.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 78).
Parola ed eucaristia L’eucaristia, con tutta la realtà sacramentale che da essa promana, è memoria della Pa-squa di Gesù, non nel senso psicologico del ricordo, sulla misura e secondo le leggi della memoria umana, bensì nella luce della potenza dell’amore divino manifestato nella Pa-squa.
In Gesù morto e risorto Dio proclama e attua la sua amorosa volontà di vicinanza al-l’uomo, di presenza nella storia, di perdono del peccato, di vittoria sulla morte, di inizio di una vita nuova.
L’eucaristia è la concreta modalità storica con cui l’amore onnipotente di Dio, culminante nella Pasqua di Gesù, raggiunge il suo intento di rendersi realmente pre-sente e operante in ogni momento della storia umana.
L’eucaristia è presenza viva e reale di Gesù, del suo mistero, del suo sacrificio, della sua Pasqua.
Tutta la vicenda di Gesù, dall’incarnazione del Figlio preesistente alla dolorosa umiliazione del Crocifisso, alla glorificazione del Cristo risuscitato e datore dello Spirito, si ripropone a noi nell’eucaristia, in forza dell’interiore efficacia del sacrificio pasquale.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 142-143).
Diventare segni di Cristo amore Lo Spirito di Cristo che ha parlato per mezzo dei profeti, e che nel Cristo morto e risor-to ha ridato al mondo la speranza dell’amore, è presente e operante nella Chiesa, che non cessa di ripresentare all’uomo d’oggi l’istanza suprema della verità e della carità [ …
].
La Chiesa, infatti, ha la missione, umile e ardente, povera e fiduciosa insieme, di ricon-ciliare con l’amore la società e di restituire l’unità al mondo.
Noi Chiesa, come comunione d’amore, come luogo della perfetta amicizia, siamo chia-mati, partendo dalla nostra povertà, fragilità, dal nostro peccato, a essere principio da cui procede la vita autentica del singolo; siamo chiamati come Chiesa – perché Gesù ci ama – a essere il noi del mondo riconciliato che ha come legge suprema, e in un certo senso unica, la carità, cioè l’amore gratuito e autentico.
Questa Chiesa, di cui siamo grati di essere membra e servitori, ci presenta Gesù, esem-pio e fonte di carità perfetta principalmente nell’eucaristia.
È Gesù nell’atto di dare la vita per te che ti viene proposto nel mistero della Cena.
O Gesù, Cristo amore, manifesta la tua presenza in mezzo a noi! Fa’ che ci accostiamo alla tua cena non come Giuda, che pensa ai suoi trenta denari: ma come Pietro che ti dice: Signore, purificami interamente! Lavami piedi, testa e tutte le membra, purifica ogni mio amore sbagliato, rendimi capace di amore vero.
Fammi, o Signore, segno di unità nella tua Chiesa; fammi strumento della tua pace nel mondo! (Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 156-157).
Il mistero del corpo e del sangue Concluse le antiche feste della Pasqua che si celebravano per ricordare l’antica libera-zione dalla schiavitù d’Egitto del popolo di Dio, Cristo è passato alla nuova Pasqua e ha voluto che la chiesa la celebrasse in memoria della sua redenzione.
Al posto della carne e del sangue dell’agnello sostituì il mistero del suo corpo e del suo sangue.
[…] Egli stesso spezza il pane che porge ai discepoli per dimostrare che il suo corpo sarà in futuro spezza-to non contro la sua volontà, ma, come dice altrove, egli ha il potere di offrire la sua vita da se stesso e di riprenderla di nuovo (cfr.
Gv 10,18).
E prima di spezzare il pane, lo benedice con la grazia sicura del sacramento perché insieme con il Padre e lo Spirito santo ricolma di grazia divina la natura umana che ha assunto per sottostare alla passione.
Benedisse dunque il pane e lo spezzò perché volle sottomettersi alla morte in modo da dimostrare che in lui era veramente la potenza della divina immortalità e insegnare così che il suo corpo ben presto sarebbe risorto dalla morte.
«E preso un calice, rese grazie, lo diede loro e tutti ne bevvero» (Mc 14,23).
Nell’imminenza della passione rese grazie dopo aver preso il pane.
[…] E lui che non meritò affatto di soffrire, umilmente nella sofferenza benedisse per mostrare come deve comportarsi chiunque non soffre per propria colpa.
Infatti, nel mo-mento stesso in cui per compiere ogni giustizia si addossa il peso della nostra colpa, rende ugualmente grazie al Padre proprio per mostrare in che modo dobbiamo sottometterci alla correzione.
«E disse loro: Questo è il mio sangue della nuova alleanza, versato per molti» (Mc 14,24).
Poiché il pane rinvigorisce il corpo, mentre il vino agisce sul sangue, mistica-mente il primo si riferisce al corpo di Cristo e il secondo al suo sangue.
Ma poiché è neces-sario che noi restiamo in Cristo e Cristo in noi, il vino del Signore si mischia nei calici con l’acqua, dato che Giovanni testimonia: «Le acque sono i popoli» (Ap 17,15).
A nessuno è consentito di fare offerta di sola acqua o solo vino, come neppure di grano che non sia sta-to impastato con l’acqua per fame pane.
E questo perché non si pensi che il corpo debba essere separato dalle membra, o che Cristo abbia sopportato la passione non per amore della nostra redenzione, o che noi possiamo essere salvati e offerti al Padre senza la pas-sione di Cristo.
(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco 4, COL 120, pp.
611-612).
La singolarità dell’eucaristia «Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro» (Gv 21, 18).
Questa comunione di mensa tra Gesù e i suoi, anche se non è un’eucaristia propriamente detta, riprende il vo-cabolario eucaristico del Nuovo Testamento e ci invita a riflettere sulla cena e sull’eucari-stia.
L’eucaristia, così come è accolta nella fede della Chiesa, presenta un aspetto sorpren-dente, che sconvolge l’intelligenza e commuove il cuore.
Siamo di fronte a uno di quei ge-sti abissali dell’amore di Dio, davanti ai quali l’unico atteggiamento possibile all’uomo è una resa adorante piena di sconfinata gratitudine.
L’eucaristia non è solo la modalità voluta da Gesù per rendere perennemente presente l’efficacia salvifica della Pasqua.
In essa non è presente soltanto la volontà di Gesù che istituisce un gesto di salvezza; in essa è presente semplicemente (ma quali misteri in questa semplicità!) Gesù stesso.
Nell’eucaristia Gesù dona a noi se stesso.
Solo lui può lasciare in dono a noi se stesso, perché solo lui è una cosa sola con l’amore infinito di Dio, che può fare ogni cosa.
Certo, occorre badare anche agli strumenti umani, di cui Gesù si serve.
Poiché la Pa-squa rivela e insieme celebra l’amore di Dio che attrae l’uomo a sé, troviamo plausibile che Gesù nell’ultima cena abbia valorizzato la tensione alla comunione con Dio espressa nel gesto del mangiare insieme e soprattutto abbia fatto riferimento al valore commemorativo dell’alleanza, che era proprio della liturgia pasquale veterotestamentaria.
È quindi norma-le e doveroso che la Chiesa, nel configurare concretamente la liturgia eucaristica, abbia as-sunto nel passato e debba assumere e aggiornare continuamente le espressioni celebrative provenienti dalla nativa spiritualità umana e dalla liturgia veterotestamentaria.
Ma tutto questo è percorso e oltrepassato da una novità assoluta: è tale la forza di camminare manifestata e attuata nel sacrificio della croce, che essa rende presente nell’eu-caristia il Cristo stesso nell’atto di donarsi al Padre e agli uomini per restare sempre con lo-ro.
Gesù, che già in molti modi attrae a sé la Chiesa con la forza del suo Spirito e della sua Parola, suscita nella Chiesa la volontà di obbedire al suo comando: «Fate questo in memo-ria di me» (Lc 22,19).
E quando la Chiesa, nell’umiltà e nella semplicità della sua fede, obbedisce a questo comando, Gesù, con la potenza del suo Spirito e della sua Parola, porta l’attrazione della Chiesa a sé al livello di una comunione così intensa, da diventare vera e reale presenza di lui stesso alla Chiesa: il pane e il vino diventano realmente, per quella misteriosa trasfor-mazione che è chiamata transustanziazione, il corpo dato e il sangue versato sulla croce; nei segni conviviali del mangiare, bere, festeggiare si attua la reale comunione dei credenti col Signore; le funzioni sacerdotali si svolgono non per designazione o delega umana, ma per una reale assunzione dei ministri umani nel sacerdozio di Cristo, secondo le modalità stabilite da Cristo stesso.
L’eucaristia si presenta così come la maniera sacramentale con cui il sacrificio pasquale di Gesù si rende perennemente presente nella storia, dischiudendo a ogni uomo l’accesso alla viva e reale presenza del Signore.
Si tratta di prodigi che fioriscono su quel prodigio di inesauribile amore, che è il miste-ro pasquale.
D’altra parte si potrebbe dire che si tratta della cosa più semplice: Dio, nel-l’eucaristia di Gesù, prende sul serio la propria volontà di alleanza, cioè la decisione di sta-re realmente con gli uomini, di accoglierli come figli, di attrarli nell’intimità della sua vita.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol.
II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).
Non di solo pane vive l’uomo Che cosa voleva dire Gesù affermando che l’uomo non vivrà di solo pane? Perché usa questa espressione al futuro invece che al presente? Il Maestro ci vuole far comprendere che la vita vera, quella che attende l’uomo, non la puoi conseguire con i beni materiali.
Essi tutt’ al più permettono alla carne e al sangue di sopravvivere nel frammento di tempo pre-sente, ma senza le prospettive che si aprono sull’ eternità.
Se vuoi vivere in pienezza, oltre i limiti dello spazio e la corrosione del tempo, devi nutrirti di un altro pane, il pane della vita, che viene dal cielo e non dalla terra: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51).
Caro amico, la realtà del nostro tempo è sotto i tuoi occhi.
Guardati intorno ed esamina la tua situazione esistenziale.
Quante sono le persone che hanno fame del pane vivo che dà la vita eterna? Quanti sono quelli che sentono il bisogno di cercare Gesù e di scoprirlo nella loro vita? I beni materiali sono divenuti una droga, di cui hanno continua-mente bisogno, ma che li irretiscono nella tela che il ragno infernale tende instancabilmen-te.
Non attendere che la clessidra del tempo si sia svuotata del tutto per renderti conto del-l’inganno mortale.
(Padre Livio FANZAGA, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 9).
Nel tuo tabernacolo Signore Gesù, c’è grande silenzio nel tuo tabernacolo.
Dov’è la tua luce? Chi sente la tua voce? Chi ode i tuoi passi? Nel tuo tabernacolo, o Signore, tutto è immobile, tutto è silenzio, tutto è mistero.
Eppure, ogni giorno la tua parola invita alla lode.
Eppure, ogni giorno, tu imbandisci una mensa per coloro che ti amano.
Davanti al tuo santo altare quanti hanno ritrovato la fede, quanti hanno riacquistato la grazia, quanti si sono votati alla tua causa! Tu solo conosci l’intima storia di innumerevoli anime che qui, dinanzi a te, hanno espresso la loro gioia, hanno versato calde lacrime, hanno ritrovato fiducia e speranza.
Nel tuo tabernacolo, o Signore, c’è pienezza di vita.
Tu parli, o Signore.
Tu ascolti, o Signore, Tu ami, o Signore.
Preghiera Signore Gesù, con gioia ci prostriamo in adorazione presso il tuo santo altare.
Con te, o Gesù, tutto è merito di vita eterna, tutto è luce che rischiara la vita, tutto aiuta a proseguire il cammino, tutto è dolcezza…
anche il dolore! Tu sei fonte copiosa di purissima gioia.
Gioia che cominciamo a gustare qui, nella valle del pianto, e che sarà piena quando ci svelerai la tua gloria: al gaudio della fede subentrerà quello della visione.
Signore Gesù, tu, pane vivo disceso dal cielo, ci basti.
Non abbiamo bisogno di altri.
Tu sei la nostra vita.
Tu sei la nostra gioia.
Tu sei il nostro tutto.
Ci affidiamo a te: nostro conforto, nostro gaudio, nostra pace.
(Paolo VI).
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 24,3-8 In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme.
Tutto il popolo rispo-se a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore.
Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele.
Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacri-fici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.
Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo.
Dissero: «Quanto ha detto il Si-gnore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Il capitolo 24 del libro dell’Esodo narra la conclusione dell’alleanza stipulata tra il Signo-re Dio e Israele con la mediazione di Mosè.
Questi, infatti, era stato più volte convocato da Dio sul monte per ricevere le “parole”, riferirle poi al popolo e ritornare da Dio per portare la risposta affermativa del popolo.
Anche questa volta troviamo Mosè che «andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme.
Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!» (24,3).
Ricevuto l’assenso da parte del popolo, Mosè diede inizio a un rito: prima costruì un al-tare con dodici stele, una per ogni tribù d’Israele (cf.
24,4), poi fece offrire da alcuni giovani olocausti e sacrifici di comunione in onore del Signore (cf.
24,5).
Infine, completò il rito co-sì: «Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.
Quin-di prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo.
Dissero: «Quanto ha detto il Signo-re, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ec-co il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (24,6-8).
Attraverso questo rito Mosè vuole quindi esprimere una profonda realtà: egli è situato tra i due contraenti: il primo è Dio, che viene rappresentato dall’altare; il secondo è il po-polo, al quale viene di nuovo letto l’intero libro dell’alleanza affinché, in modo consapevo-le, possa pronunciare il suo sì.
Che cosa può unire i due contraenti, per suggellare solennemente il patto? Mosè sceglie allora il segno del sangue, il quale, versato per metà sull’altare e per l’altra metà sul popo-lo, stabilisce tra i due una ”comunione”.
Non è difficile, nelle parole del versetto 8, ricono-scere l’analogia con il sangue di un’altra vittima, ben più importante di quegli animali sa-crificati.
Infatti, Gesù Cristo, sull’altare della croce, versa il proprio sangue con cui viene aspersa l’umanità per ritrovare, finalmente la pace e la riconciliazione con il Padre (cf.
Col 1,19-20).
Il sangue, tra l’altro indica anche un rapporto di “parentela”, che ci viene guada-gnato da Gesù Cristo.
In virtù di questo sangue, allora, non siamo «più stranieri né ospiti, ma siamo concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19), addirittura figli di adozione di un Padre eccezionale, che per farci entrare nella sua famiglia non ha esitato di mandare sulla croce il suo Figlio Unigenito.
Seconda lettura: Ebrei 9,11-15 Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione.
Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscien-za dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle tra-sgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che so-no stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
Su questa linea si trova anche lo stupendo brano della Lettera agli Ebrei.
L’autore, in poche battute, evidenzia i due grandi mezzi con i quali Cristo entra nel santuario.
Egli, ve-nuto in mezzo all’umanità in qualità di sommo sacerdote dei beni futuri per il fatto che ci ha ottenuto la redenzione eterna, entrò nel santuario «attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione.
Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue» (9,11-12).
Ma occorre chiarire bene a che cosa si riferisca l’autore con i termini ‘tenda” e “santua-rio”.
Infatti, la tenda, più grande e perfetta, non può essere paragonata con la tenda che Mosè eresse nel deserto per custodire l’arca dell’alleanza, perché designa un’altra realtà, che era ben nota ai primi cristiani.
Inoltre essa va intesa in rapporto all’altro mezzo ossia al sangue, e alle ulteriori qualificazioni, su cui bisogna fare delle precisazioni: quando si dice che la tenda è «non costruita da mano di uomo» ci si collega con Mc 14,58, dove i falsi te-stimoni, durante il processo, accusarono Gesù dicendo: «Noi lo abbiamo udito mentre di-ceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo».
Benché tale affermazione si trovi in una deposizione di falsi testimoni, il suo tenore orienta chiaramente a capire che non è questo che l’evangelista considera falso, poiché un confronto con Gv 2,19 conferma che Gesù ha realmente afferma-to tale “profezia”.
La tenda è, quindi, il corpo glorioso di Cristo, nuova creazione realizzata in tre giorni per mezzo dell’effusione del suo sangue.
La tenda, che è il corpo glorioso di Cristo, consente all’umanità aspersa dal sangue di lui, di entrare in contatto, o meglio in comunione, con il santuario, ossia con la santità e la trascendenza di Dio Padre.
Cristo ha, in altre parole, portato a compimento ciò che nel-l’Antico Testamento era desiderato ma impossibile da realizzare.
D’altronde, se Dio si ac-contentava di considerare efficaci i sacrifici animali, come non doveva reputare “definiti-vo” quello di suo Figlio? «Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?» (9,13-14).
In forza di tutto questo, Cristo può ben essere considerato «mediatore di una nuova al-leanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa» (9,15).
Vangelo: Marco 14,12-16.22-26 Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pa-squa, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo.
Là dove entrerà, dite al padrone di ca-sa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”.
Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, en-trati in città, trovarono come aveva detto loro e prepara-rono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Pren-dete, questo è il mio corpo».
Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti.
E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti.
In verità io vi dico che non berrò mai più del frut-to della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel re-gno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli U-livi.
Esegesi Il brano evangelico proposto in quest’anno liturgico ci riconduce immediatamente al contesto insieme semplice e solenne della Pasqua.
Così infatti inizia Marco: «Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (14,12).
La Pasqua rappresentava la festa più importante dell’anno liturgico ebraico: con essa il popolo d’Israele si ricollega ancora oggi all’evento salvifico vissuto con Mosè e ricorda la liberazione dalla schiavitù in Egitto, em-blema di liberazione da ogni qualsivoglia forma di schiavitù e dipendenza, sia materiale che spirituale.
Fondamentale risulta il patto che viene stipulato: Dio consegna la Legge e s’impegna a essere il Dio d’Israele, svolgendo anche la funzione di padre, di soccorritore, di giudice e medico, di ispiratore e difensore.
Da parte sua, Israele promette fedeltà, cioè di eseguire tutto ciò che il Signore comanda.
Tale alleanza viene suggellata attraverso il san-gue di animali quali vittime offerte in sacrificio, come poi vedremo nella prima lettura.
Alla festa di Pasqua ne fu associata un’altra, pur importante, tanto da divenire un tut-t’uno, ossia la festa degli Azzimi.
Quest’ultima era connessa all’usanza primaverile agrico-la di iniziare l’anno nuovo con il primo raccolto dell’orzo.
Perciò tale inizio veniva espresso con l’eliminazione del vecchio lievito (durante la settimana degli azzimi gli alimenti fatti con il lievito vecchio devono sparire, perché si mangia pane non lievitato in attesa del lie-vito nuovo alla fine della festa).
Il tutto confluisce nella cena pasquale, quando si mangia il pane azzimo, unitamente all’agnello, maschio, senza difetto e nato nell’anno (cf.
Es 12,5), secondo l’usanza dei pastori per la loro festa di primavera.
Con questi cibi, che indicano il rinnovarsi della vita nella tradizione pastorale e in quella agricola, Israele rammenta che la propria origine è legata all’azione salvifica e liberatrice di Dio.
Il momento in cui i discepoli pongono a Gesù la domanda circa la preparazione della cena pasquale è quello dell’inizio della settimana degli Azzimi, il giorno in cui i sacerdoti, nel tempio, di pomeriggio, immolavano gli agnelli che sarebbero poi stati consumati a Pa-squa.
Marco, però, mostra che Gesù aveva già pensato al luogo della cena e, addirittura, indica ai discepoli pure a chi devono rivolgersi appena entrati in città: «Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo.
Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”.
Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua» (14,13-16).
La pericope letta non comprende i versetti che ci presentano lo smascheramento di Giuda (vv.
17-21), per cui si passa subito al racconto dell’istituzione.
Non è certo facile commentare in poco spazio il racconto dell’istituzione dell’eucaristia, perciò è preferibile soffermarsi sul senso del sangue in rapporto all’alleanza, argomento poi da completare con la trattazione delle altre letture bibliche.
Che cosa sia il sangue per l’uomo biblico viene chiarito da Lv 17,11.14: «Poiché la vita della carne è nel sangue.
Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vo-stre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita […]; perché la vita di ogni essere viven-te è il suo sangue, in quanto sua vita; perciò ho ordinato agli Israeliti: Non mangerete san-gue di alcuna specie di essere vivente, perché il sangue è la vita d’ogni carne; chiunque ne mangerà sarà eliminato».
Esso è dunque un elemento vitale, necessario all’uomo per la sua vita biologica della quale, in qualche modo, segna anche il limite, la peribilità.
Difatti, quando tra i giudei si voleva alludere alla fragilità della condizione umana, si usava spes-so la formula basar wadam (carne e sangue), come Gesù stesso fece in Mt 16,17.
Ma il san-gue è anche elemento di trasmissione di vita da un essere a un altro.
Se il sangue è legato inscindibilmente alla vita e alla sua trasmissione, l’espressione “versare il sangue”, invece, ha il significato di “uccidere”.
Tenendo presente tutto ciò, noi ci orientiamo alla contemplazione di Gesù crocifisso, che non ha rifiutato di “versare il sangue”, ossia di venire ucciso per noi, perché egli sape-va bene che dal suo sangue sparso scaturisce l’espiazione e la vita per chi confida in Lui: «E disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti » (14,24).
Egli, dunque, è libero e sovrano nel suo donarsi a nostro favore, non solo attraverso una morte violenta, che manifesta tutto il livore dei suoi avversari, bensì anche con l’atto di imbandire una mensa con il pane-corpo e il vino-sangue, a sostegno della nostra cronica debolezza.
È il banchetto eucaristico, il quale, mentre ci fa ricordare la tragica morte del Giusto per eccel-lenza, ci restituisce la gioia di “proclamare” la sua risurrezione, per cui egli è presente e vi-vo in mezzo a noi, sostenendo con fedeltà, il peso dell’alleanza.
Meditazione Sullo sfondo dell’ultima cena di Gesù si stende idealmente la grande scena dell’alleanza al Sinai.
Nella cornice aspra e solitaria di quel monte del dialogo tra Dio e Israele si compie un rito, solennemente descritto dal capitolo 24 dell’Esodo.
Il sangue è il simbolo della vita, l’altare è il segno della presenza di Dio, il popolo è tutto attorno all’altare come un’unica comunità spirituale.
Il sangue sacrificale è versato da Mosè sull’altare e sul popolo, quindi su Dio e sull’uomo.
Un patto di sangue lega ormai il Signore e Israele in una relazione di intimità e di amore.
È proprio a quelle parole che Gesù rimanda nell’ultima sera della sua vita terrena, quando nella «grande sala con i tappeti» del Cenacolo celebra la cena pasqua-le coi suoi discepoli.
Il rito pasquale giudaico entrava nel vivo con la benedizione del pane nuovo azzimo, cioè senza lievito (Esodo 12-13).
«Sii lodato tu, Signore, Dio nostro, re del mondo, che hai fatto nascere pane dalla terra»; così si esprimeva l’antica benedizione del pane.
A quel punto il capofamiglia spezzava la focaccia azzima e la offriva ai commensali in segno di comunione e di benedizione.
Gesù, pur seguendo il rituale, ne offre all’improvviso un si-gnificato sorprendente e inedito.
Decisive, infatti, sono le parole della sua “benedizione del pane”: «Prendete, questo è il mio corpo», che nel linguaggio semitico significano sempli-cemente e paradossalmente: «Questo sono io stesso».
Spezzando quel pane e offrendolo ai commensali Cristo stabiliva con loro un legame di comunione profonda, facendo sì che es-si entrassero nella sua stessa vita, nella sua morte e nella sua gloria.
Nel rito giudaico, alla consumazione del pane azzimo e dell’agnello pasquale seguiva la benedizione solenne del calice, che spesso veniva anche inghirlandato.
Anche a questo punto Gesù imprime al rituale una svolta con le parole del suo “ringraziamento” (in greco il termine è “eucaristia”): «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per mol-ti».
È qui che riecheggiano le parole di Mosè al Sinai: il vino della Pasqua è ora il sangue di Cristo e il sangue di Cristo crea l’alleanza piena e perfetta tra Dio e l’uomo.
È un «sangue versato per molti», espressione orientale per indicare che è il sangue di una persona sacri-ficata per salvare tutti gli uomini.
Gesù indirizza infine ai suoi discepoli un ultimo messaggio che si affaccia sul suo futuro: egli annunzia che, dopo la cena eucaristica e la pausa buia della morte, berrà il calice del vino nuovo nel regno di Dio.
È il banchetto della perfezione celeste cantato da Isaia, du-rante il quale si «eliminerà la morte per sempre e il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (25,8; vedi Apocalisse 21,4).
La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella so-lennità del Corpo e del Sangue del Signore è, quindi, una pregustazione di un’intimità senza incrinature e senza frontiere con Dio.
È per questo che l’eucaristia domenicale è ce-lebrata sempre «nell’attesa della venuta» gloriosa del Cristo.
L’eucaristia è espressione del-la presente vicinanza di Dio al suo popolo, che pellegrina in mezzo alle oscurità della sto-ria, ma è anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno espulsi dalla storia.
Quando celebriamo l’eucaristia dovremmo scoprire un bagliore del senso ul-timo della vita nostra e dell’umanità, anche se attorno – come in quella sera – calano le te-nebre della morte, si consuma il tradimento.

Campus Art Voice Academy

ART VOICE ACADEMY APRE LE PORTE! Sette giorni full immersion di Campus, tra lezioni aperte, conferenze, performances e spettacoli, per conoscere le attività della scuola e scoprire le proprie attitudini.
Ad aprire il programma, ospite speciale, RON: dalla passione alla professione, il cantautore si racconta ai giovani.
    Padova, 26 maggio 2009 – Un’intera settimana per avvicinarsi alle discipline del canto, della musica e della recitazione, scoprire le proprie attitudini e potenzialità, conoscere docenti e modalità didattiche, attività e corsi dell’Art Voice Academy di Riese Pio X, in provincia di Treviso.
Da lunedì 29 giugno a domenica 5 luglio, un vero e proprio Campus in cui l’Accademia apre le proprie porte e accoglie chi voglia visitarne gli spazi e partecipare alle numerose iniziative proposte dal ricco calendario: dibattiti, lezioni aperte, seminari, conferenze tematiche tenute dagli insegnanti della scuola e da esperti dei singoli ambiti artistici.
Un’opportunità da non perdere per valutare i diversi percorsi formativi del centro e, allo stesso tempo, scoprire come una passione e un sogno possano trasformarsi in realtà, facendo leva sui propri talenti ma anche imparando a coltivarli con impegno e serietà.
  Centro di alta formazione dello spettacolo divenuto oggi un punto di riferimento in Veneto e non solo, Art Voice Academy cura il perfezionamento e la preparazione di cantanti e performers già affermati e di quanti intendano intraprendere la carriera musicale e artistica.
Nata dall’associazione Voce Arte e Comunicazione (fondata dal maestro Diego Basso), la scuola vuole promuovere e diffondere la cultura della musica e sostenere i giovani o futuri artisti non soltanto garantendo loro una formazione di alto livello – grazie alla comprovata professionalità di tutti i docenti e all’articolata e completa proposta didattica – ma anche accompagnandoli concretamente nel loro inserimento nel mondo del lavoro: un mondo spesso difficile da avvicinare e da affrontare, ancora prima da comprendere e decifrare.
Lo stretto contatto con il settore dello spettacolo è senza dubbio uno dei punti di forza della scuola, come dimostrano le numerose esibizioni e le partecipazioni a prestigiose rassegne musicali di Le Voci dell’Accademia e Academy Voice, le due formazioni composte dagli allievi più preparati e meritevoli, nonché le collaborazioni con grandi artisti del panorama musicale nazionale.
  Proprio con l’obiettivo di offrire un’importante occasione di orientamento il Campus è a ingresso libero e si rivolge in particolare ai ragazzi e ai giovani, con possibilità di alloggio presso strutture convenzionate.
Dalla respirazione nel canto alla tecnica vocale, dall’analisi della partitura all’interpretazione di un brano, e ancora l’improvvisazione e la sperimentazione vocale, ma anche l’uso del microfono, il mondo della radio e della discografia, la verità della scena e la costruzione di uno spettacolo,…
: sono solo alcuni dei temi affrontati nei seminari di canto, musica e teatro condotti dai docenti dell’Accademia e da esperti del settore che si svolgeranno tutti presso villa Benzi a Caerano di San Marco (Treviso), sede staccata dell’Accademia.
Ad aprire la settimana di full immersion incontrando i partecipanti sarà niente meno che RON, che racconterà la propria esperienza artistica e umana: la testimonianza personale di uno dei più grandi cantautori italiani, che ha saputo gestire con grande serietà e dedizione il proprio percorso professionale, nonostante la notorietà arrivata a lui in età molto giovane.
Tra gli altri artisti ospiti, giovedì 2 luglio, anche le cantanti Delia Gualtiero e la figlia Chiara Canzian (partecipante a Sanremo Giovani 09)  in un incontro sul tema delle “generazioni a confronto”.
  Ma il programma della settimana vede anche performances e spettacoli serali aperti a un pubblico più ampio (alcuni presso il teatro arena di villa Eger a Riese Pio X) , per sottolineare l’apertura della scuola al territorio e la sua missione di promozione della cultura musicale e artistica.
A breve il calendario dettagliato e aggiornato sul sito www.vocearteecomunicazione.it.
  Per informazioni e iscrizione al Campus: associazione Voce Arte e Comunicazione cell.
392/1011180 Email  accademia@vocearteecomunicazione.it.
Entro il 25 giugno 2009, fino ad esaurimento posti.
 

Domenica della SS. Trinità anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 4,32-34.39-40 Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro.
Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
La pericope conclude il primo dei tre grandi discorsi di Mosè che costituiscono il libro del Deuteronomio, la «seconda Legge».
Siamo nella pianura di Moab, alle porte della Terra promessa, e Mosè ricapitola per il popolo sempre riottoso la storia meravigliosa della liberazione dall’Egitto, con l’esortazione ripetuta a osservare la Legge, non per paura dei castighi o per sottomissione a un Dio tiranno, ma per risposta d’amore a un’elezione d’amore.
In questi versetti, si ribadisce l’unicità di Dio e del popolo che Egli si è scelto, non per merito degli Israeliti ma per amore gratuito.
Il motivo classico dell’elezione di Israele e della sua particolarità (vv.
32-38) è parallelo a quello dell’unicità del Dio di Israele (v.
39).
vv.
32-34 – Una serie di domande retoriche, che si ricollegano a quelle con cui il discorso di Mosè si era aperto (4, 7-8), riassume le grandi opere di Dio, dalla creazione (v.
32) alla teofania di Sinai (v.
33) fino ai prodigi e ai miracoli dell’Esodo (v.
34).
Nel confronto con gli altri popoli, che seguono altri dèi, è affermata la grandezza del Dio d’Israele; e insieme la familiarità di Dio con il suo popolo, che può ascoltarne la voce e restare in vita (cf.
Es 24,11).
L’espressione «con mano potente e braccio teso» (v.
34), che rappresenta Dio alla guida del popolo nell’attraversamento del mare e del deserto, riprende la tipologia regale egiziana; ve ne è traccia anche nelle lettere di El-Amarna.
vv.
39-40 – Sono espressioni caratteristiche del Deuteronomio.
La proclamazione del monoteismo (v.
39) corrisponde allo Shemà Israel (Deut 6,4: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno»); l’incentivo materiale per incoraggiare l’osservanza della Legge (v.
40 «perché sii felice…») riecheggia i motivi della letteratura sapienziale.
Seconda lettura: Romani 8,14-17 Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio.
E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Il brano prosegue nella spiegazione dei frutti dello Spirito, iniziata con Rm 8,1-11: lo Spirito non solo da la vita nuova, ma rende figli adottivi e eredi di Dio.
Appare qui per la prima volta nella lettera il tema dell’adozione.
«Spirito che rende figli adottivi» (pneuma yiothesì as) è un termine sconosciuto alla traduzione dei LXX, e non proviene quindi a Paolo dall’Antico Testamento, ma piuttosto dal linguaggio giuridico del mondo greco-romano.
In Israele infatti l’istituto dell’adozione non era pratica abituale tranne rari casi riguardanti schiavi o mèmbri della famiglia.
Il concetto di figliolanza divina è tuttavia uno sviluppo dell’idea veterotestamentaria dell’elezione di Israele (cf.
Deut 4,34), che viene chiamato più volte «il mio primogenito» (cf.
Es 4,22; Is 1,2; Ger 3.19-22; 31,9; Os 11,1) anche se sempre come entità collettiva di popolo e non come singolo individuo credente.
Per Paolo, il dono dello Spirito inserisce nella famiglia di Dio, è quindi alla base dell’adozione, costituisce propriamente la figliolanza.
v.
14 – «guidati dallo Spirito di Dio»: si tratta di ciò che i teologi chiameranno la «grazia preveniente», l’influenza attiva dello Spirito nella vita cristiana.
vv.
15-16- Introdotti da gar (infatti), questi due versetti spiegano il v 14.
I cristiani non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, ma da figli: Paolo gioca sul senso della parola pneuma, che indica sia lo Spirito di Dio sia il nostro spirito.
L’affermazione fondamentale di questo passo è siamo figli di Dio.
Anche l’espressione aramaica Abbà, come modo di rivolgersi a Dio, è assente dall’Antico Testamento, dove la relazione filiale (cf.
Deut 14 1) è sempre corporativa e non individuale, se si eccettua l’invocazione di Sl 89,27 (Sap 2,16 è in un contesto descrittivo).
Qui viene subito tradotta (Abbà ho patèr), in quanto Paolo si rivolge a una comunità di cristiani provenienti dai Gentili.
v.
17 – Vengono ora le conseguenze escatologiche di questa condizione, ovvero l’eredità che assimila al Cristo, partecipi della sua passione e della sua gloria.
Ritornano qui i verbi caratteristici in Paolo composti con la particella syn (con).
Vangelo: Matteo 28,16-20 In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono.
Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.
Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato.
Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Esegesi I versetti conclusivi del Vangelo di Matteo rivolgono lo sguardo alla continuazione dell’opera nella comunità cristiana, rendendo esplicito il mandato missionario all’esterno di Israele, altrove solo accennato.
v.
16 – L’apertura alle genti era già indicata nel v.
7: «vi precede in Galilea».
Il ritorno dei discepoli in Gallica, determinato forse anche dalla necessità di allontanarsi da Gerusalemme per non essere arrestati subito dopo la Crocifissione, assume un significato teologico visto come obbedienza all’invito di Gesù, e un valore simbolico in rapporto alla missione.
La Galilea infatti, abitata in prevalenza da pagani, rappresenta «i popoli» del v.
19.
Già vi si era ritirato Gesù dopo l’arresto di Giovanni, e da lì aveva cominciato la sua predicazione (Mt 4, 12-17; cf.
anche Is 8, 23: «la Galilea delle Nazioni», Gelil haggoîm).
Gli Undici si recano dunque all’appuntamento, su un monte che è difficile identificare: il monte delle Beatitudini? il Tabor? Anche qui prevale il valore simbolico del «monte», collegato spesso nell’Antico come nel Nuovo Testamento a teofanie o rivelazioni.
v.
17 – La prostrazione (prosekynesan, latino adoraverunt) manifesta il riconoscimento della divinità di Gesù, una fede post-pasquale matura, che presuppone una comunità già consapevole e strutturata, e probabilmente un’epoca posteriore.
L’affermazione infatti è subito mitigata dalla seguente: «alcuni però dubitavano», che ci riporta all’esperienza immediata delle apparizioni del Risorto: cfr.
Mc 16, 8.11.13; Lc 24,37; Giov 21,12).
vv.
18-19 – Gesù si identifica con il «Figlio dell’Uomo» del libro di Daniele (Dan 7, 13-14), cui viene attribuito un potere eterno e universale: «tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano».
Da questo potere universale discende la missione universale degli Apostoli: limitata a Israele nei giorni del suo ministero terreno (cf.
15, 24), ora la predicazione della parola di Gesù è estesa a tutti i popoli.
Segue il comando specifico di «battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», presente solo qui in forma così definita e completa.
Il battesimo indica l’atto di iniziazione nella comunità cristiana, e presuppone significati presenti anche altrove nel Nuovo Testamento: la purificazione con l’acqua e il pentimento (cf.
il battesimo di Giovanni Battista), ma anche il perdono e la professione di fede in Gesù come Messia e Signore.
Più che una formula liturgica (che si precisa più tardi) si tratta qui di una descrizione di ciò che il battesimo opera nel neofita: l’espressione «nel nome…» descrive l’entrata in comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito.
Il concetto di Dio Trinità è antico quanto la comunità cristiana, quale la conosciamo dagli scritti del Nuovo Testamento: cf.
1Cor 12, 4-6; 2Cor 13,13; 1Pt 1,2; 1Giov 3,23-24.
Questo naturalmente lascia impregiudicata la delicata questione di quanto si possa retroproiettare alla comunità immediatamente post-pasquale una consapevolezza trinitaria formulata secondo la mentalità post-nicena.
v.
20 – Il comando dato già ai discepoli di proclamare l’avvento del Regno (10,7) e guarire gli infermi (10,1.8) è completato, ora che Gesù non svolge più il suo ministero in mezzo a noi, da quello di «insegnare».
Il passo appartiene agli stadi più recenti della tradizione, quando il ritardo della parusia richiedeva anche un’assicurazione e un conforto per i discepoli rimasti in attesa: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (cf.
18,20).
La fine tante volte annunciata (cf.
13,39.49; 24,3) non è evidentemente più sentita così vicina.
Meditazione La Bibbia, pur affermando che Dio è sempre Altro e Oltre il nostro pensiero, si presenta come “rivelazione”, cioè come uno squarcio nel velo di silenzio che nasconde il mistero divino.
La rivelazione cristiana apre ulteriori orizzonti in questa luce invalicabile, che «l’uomo non può vedere continuando a restare in vita», come si ripete spesso nell’Antico Testamento.
Appare, così accanto al Padre, il Figlio inviato nel mondo e lo Spirito vivificatore, e nel nome della Trinità noi apriamo questa e ogni altra liturgia, concludiamo ogni preghiera ed è benedetta ogni persona e cosa.
Due sono i testi dell’odierna liturgia che esaltano questa rivelazione nuova del mistero divino.
Il primo è tratto dal capitolo ottavo della lettera ai Romani, il vertice del pensiero paolino ove con un suggestivo contrappunto l’apostolo presenta due “spiriti”.
C’è innanzitutto lo spirito dell’uomo, cioè il principio del suo esistere, del suo operare, del suo amare e del suo peccare, della sua libertà e della sua schiavitù.
Ma c’è anche uno Spirito di Dio, principio del suo amore e della sua comunicazione all’uomo.
Ebbene, questo Spirito divino penetra nello spirito dell’uomo, lo invade come un vento che tutto avvolge e permea.
La creatura che accoglie e si lascia conquistare da questo Spirito viene trasformata da figlio dell’uomo in figlio di Dio, diventa membro della sua famiglia, è ufficialmente dichiarato coerede del primogenito di Dio, il Cristo.
Paolo, quindi, proclama una vera e propria ammissione dell’uomo all’interno della vita divina.
Questo ingresso avviene attraverso il battesimo, visto come radice dell’intera vicenda cristiana, e attraverso l’ascolto obbediente della Parola.
È ciò che è lapidariamente formulato nella scena finale del Vangelo di Matteo che oggi domina la nostra liturgia.
In Gallica non si danno solo appuntamento il Cristo risorto e gli Undici, ma il mistero di Dio e quello della Chiesa.
Da un lato, infatti, il Cristo glorioso appare nello splendore più puro della sua divinità; egli è per eccellenza “superiore” e trascendente rispetto a tutta la realtà creata: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra».
Davanti a lui l’uomo si prostra in adorazione.
La sua presenza non è come quella di una persona terrena.
È una presenza che dev’essere scoperta attraverso la via della fede, ed è per questo che conosce anche l’esitazione, l’oscurità, il dubbio.
D’altra parte, però, Cristo è vicino, è «con noi tutti i giorni» e in tutte le epoche storiche.
Soprattutto è operante all’interno della Chiesa a cui comunica la sua Parola e la sua grazia salvifica.
Infatti alla Chiesa egli affida il compito di annunziare all’umanità «tutto ciò che egli ha comandato», coinvolgendo ogni uomo nella salvezza: l’«ammaestrate» della versione del Vangelo, che oggi leggiamo, nell’originale suona meglio come un «fare discepoli» i popoli.
Per la Bibbia, quindi, il mistero infinito di Dio non respinge ma accoglie in sé i nostri piccoli misteri, immergendoli nella sua luce infinita.
Non dobbiamo, perciò, considerare Dio solo come oggetto di discussione filosofica e teologica, non dobbiamo solo parlare in modo distaccato e freddo di Dio e della Trinità.
Dobbiamo anche parlare a Dio in un dialogo di intimità e di vita che lui stesso ha inaugurato.

“Il Signore è grande e non si può disegnare, perché nel foglio non ci sta”.

PEIRCE GUALTIERO, Il signore è grande e non si può disegnare (perché nel foglio non ci sta), Einaudi Torino 2008, ISBN: 8806193082, pp.
132, € 12.50 Per la prima volta bambini ebrei, cristiani e musulmani raccontano come vedono Dio e ci parlano della paura, del perdono, della colpa e dell’eternità…
Peirce ha trascorso molto tempo ad ascoltare gli alunni di tre scuole confessionali di Roma.
Ne è nato un reportage in cui i bambini ci regalano momenti di candore e stralunata saggezza, definizioni buffe, visioni e concetti che ci riportano alle origini del pensiero religioso.
Peirce ha trascorso molto tempo ad ascoltare gli alunni di tre scuole confessionali di Roma.
Ne è nato un magnifico reportage in cui i bambini ci regalano momenti di candore e stralunata saggezza, definizioni buffe, visioni e concetti che ci riportano alle origini del pensiero religioso.
Prima C, scuola elementare ebraica.
Gaia punta al cuore del problema: «Maestra, ma Dio come è nato?» «Secondo voi? Chi ha un’idea?».
«Con la mamma!» «Con il vento!» «Con le nuvole!» «Ma bambini, questa è una storia difficile da capire, per ora…» Invece no.
C’è un bimbo di 6 anni che lo sa: «Maestra…
Dio è nato con le parole».
Seconda B, scuola elementare cattolica: «Ditemi un po’, a chi somiglia Dio?» Un paio di alunni si mettono subito al sicuro: «Alla maestra!», «Ai genitori!» Poi alza la mano Sofia, guardando dritto dritto dietro gli occhiali rossi: «Dio assomiglia a Giulio!» E con l’indice benedice il compagno che le sta di fronte, tutto rosso di imbarazzo.
Moschea, scuola integrativa per bimbi musulmani.
«Noi siamo tutti figli di Adamo…», racconta l’imam.
Tasnim, il velo intorno al viso, si fa due conti: «Tutti? Ma proprio tutti? Madonna, quanti figli!»

Uomini che odiano le donne

Uomini che odiano le donne è il primo film tratto dalla trilogia ‘Millennium’, i romanzi di Stieg Larsson, che hanno venduto oltre 8 milioni di copie in tutto il mondo.
Purtroppo, Larsson non è vissuto abbastanza per vedere il successo del suo lavoro, essendo morto all’improvviso nel 2004, poco dopo aver consegnato il manoscritto all’editore svedese.
La trama Quarant’anni fa Harriet Vanger è scomparsa da una riunione di famiglia sull’isola abitata dal potente clan dei Vanger, che ne sono anche i proprietari.
Benché il corpo della donna non sia mai stato ritrovato, lo zio è convinto che sia stata assassinata e che l’autore del delitto sia un membro della sua stessa famiglia – una gruppo disfunzionale ma i cui membri sono legati da vincoli molto stretti.
Per indagare sull’accaduto, lo zio assume il giornalista economico in crisi Mikael Blomkvist e la hacker tatuata e senza scrupoli Lisbeth Salander.
Dopo aver collegato la scomparsa di Harriet a una serie di grotteschi delitti avvenuti una quarantina d’anni prima, i due investigatori cominciano a dipanare una storia familiare oscura e sconvolgente.
Ma i Vanger sono gelosi dei loro segreti, e Blomkvist e Salander scopriranno che sono capaci di qualsiasi cosa pur di difenderli.
Scheda Uomini che odiano le donne (Män som hatar kvinnor, Svezia, 2009) Regia: Niels Arden Con: Michael Nyqvist, Noomi Rapace, Lena Endre, Sven Bertil Taube Distribuzione: Bim Genere Thriller Durata: 152′ Data di uscita: 29-05-2009 » IL SITO UFFICIALE Il fenomeno ‘Millennium’ sembra destinato a diventare un fenomeno anche nelle sale italiane.
In quelle scandinave Uomini che odiano le donne, uscito il 27 febbraio scorso, è stato visto da oltre un milione e mezzo di spettatori con un incasso di 25 milioni di dollari.
I prossimi due episodi si chiameranno: La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta.
Stieg Larsson (1954-2004) è stato un giornalista, con una grandissima esperienza sulle organizzazioni anti-democratiche, della destra estremista e naziste, sulle quali veniva spesso consultato.
La serie ‘Millenium’ è un esordio straordinariamente brillante nel genere del giallo.
Nei tre romanzi, l’azione si svolge a partire dal 2003.
La forza principale di Larsson sta nel suo stile non artificioso, asciutto, privo di cliché.
La sua è una scrittura efficace, incisiva e professionale.
E non lascia mai niente di irrisolto.
Per quanto riguarda il film Michael Nyqvist è uno degli attori svedesi più amati, mentre per quanto riguarda Lisbeth Salander, si erano vagliati vari nomi prima di scegliere la ‘particolare’ Noomi Rapace.
Il regista, Niels Arden Oplev, ha affermato: “Molti mi hanno chiesto se mi sentivo onorato di essere stato scelto per dirigere Uomini che odiano le donne, la verità è che avevo sentito parlare dei libri ma non li avevo letti.
Poi mi ci sono messo di impegno e li ho trovati interessantissimi.
Quello che mi ha conquistato è che il romanzo non l’ho mai visto come un giallo, piuttosto come un film drammatico a sfondo poliziesco.
Volevo fare un film con emozioni potenti e una storia controversa e intrigante.
Era importante che conservasse lo spirito tagliente del libro, che avesse il coraggio di mostrare il lato oscuro della società.
Spero tanto di esserci riuscito!” Detective dell’odio nella Svezia più oscura  di  Luca Pellegrini Penetra a fondo nel bianco della neve svedese, che tutto copre e tutto nasconde, l’odio degli uomini per le donne, per chi arranca nella verità, l’odio per chi porta un nome ebraico, per chi è debole e solo, l’odio vorticoso e incontenibile nel quale sguazzano impuniti capitalisti farabutti, parenti corrotti, figli assassini, padri brutali, avvocati perversi.
No, non è la Svezia serena e democratica, efficiente e pulita che immaginiamo dalle cartoline turistiche e dall’idea di civiltà che da sempre abbiamo associata ai Paesi del Grande nord.
Harriet Vagner è scomparsa da quarant’anni, lo zio Henrik si dispera, Mikael Blomkvist indaga, Lisbeth Salander collabora a modo suo.
Per chi ha dimestichezza con i best seller, subito riconosce in questi nomi i protagonisti delle 676 pagine di intrighi e crudeltà, vendette e misteri, che Stieg Larsson ha sviluppato nel primo capitolo della sua trilogia Millennium (è il nome di un fittizio mensile politico-economico), caso letterario in cui l’artificioso marasma psicologico scaturisce probabilmente dalla realtà sperimentata dall’autore, la cui fine sembra lambire le sue stesse storie.
Dieci milioni di copie vendute nel mondo, lettori famelici che non spengono la luce nelle loro notti profonde pur di arrivare il prima possibile alla parola “fine” e naturalmente ora anche un film autarchico, tutto svedese o almeno nordico (per fortuna Hollywood se ne è tenuta, fino ad ora, alla larga), a cominciare dal giovane regista danese Niels Arden Oplev – che ha confessato non essere stato mai un lettore appassionato della trilogia e nemmeno molto interessato alle riprese, almeno fino al loro inizio, perché preso dalla scrittura di un film sui Testimoni di Geova – insieme alla lunga serie di bravi attori, tra i quali Michael Nyqvist e Noomi Rapace, i volti inquieti dei due amatissimi protagonisti.
I diritti, confessa il produttore Sören Staermose, sono stati acquistati nel 2005, dopo ardue trattative, comunque prima dell’esplosione del successo letterario che ha fatto schizzare le aspettative mondiali, i costi e ora, si spera, anche i guadagni, mentre i due successivi capitoli – La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta – sono già in fase di post produzione e in uscita sugli schermi rispettivamente il prossimo autunno e nella primavera del 2010.
Larsson, però, non può godersi questi inaspettati successi terreni: morto improvvisamente a cinquant’anni nel 2004 e con trecento pagine del quinto capitolo ambientato in Canada (dieci quelli progettati), testo depositato nel file del suo computer – non si sa ora a chi appartenga – e che probabilmente non si leggerà mai.
Non ci possiamo certo immaginare come sarebbero proseguite le indagini di questa spericolata e stranamente assortita “compagnia investigativa” che si inabissa nelle più oscure perversità dell’animo umano: la società contemporanea è crudele verso le donne – centomila casi di violenza sono stimati in Svezia ogni anno su appena nove milioni di abitanti – un odio che cresce in tenerissima età e si espande fino a quella più matura.
Poi, spiega il regista, si diramano ovunque rigagnoli di razzismo in superficie mentre sotto, ben nascosti, prosperano commercio di armi, di esseri umani e scandali finanziari.
Più che esplorare le radici di tanto odio, di tanto disprezzo, di tanto marciume che dalla Danimarca di Amleto è tracimato nella Svezia dei Nobel, romanzo e film esaltano i contrasti tra bene fragile e male agguerrito a fini puramente spettacolari, esasperano la drammaticità delle relazioni familiari del gruppo patriarcale dei Vagner marchiato dall’adesione al nazismo in tempi oscuri e non lontani e da un fanatismo religioso che fa da collante logico agli spaventosi delitti, parlano in ogni momento di emozioni vere e di peccati gravi.
Tipica letteratura d’evasione, dunque, scritta però con sapida attrazione e fedele trasposizione cinematografica – oltre due milioni e mezzo di spettatori in Scandinavia – che non altera troppo la struttura narrativa, condensa molto bene le diverse tensioni e paure, non evita certo il raccapriccio di alcune scene che vanno prese e maneggiate con estrema cura.
Nessuno è esente dalla debolezza del cuore, del sesso, dell’egoismo, dell’avidità, nella Svezia delle parole di Larsson e delle immagini di Oplev.
Tutti sono sull’orlo dell’abisso: quassù si cammina in una penombra incerta e ingannevole, laggiù si precipita senza salvezza e senza assoluzione.
Il personaggio di Lisbeth – non ci si aspetti un eroina da fumetto, ma una hacker quasi anoressica, a tratti sgradevole, che sa muoversi come Diabolik e pensare come Sherlock Holmes – è l’icona della donna fragile, vulnerabile.
“Lisbeth è una vittima che rifiuta di essere vittima non si adatta mai, non si autocommisera.
Combatte per la sua sopravvivenza, si ribella, trova sempre il modo di risorgere con un’energia che affascina.
Assapora, quando possibile, la vendetta.
Potrebbe sembrare un bene: lo è nel romanzo, ma nella realtà non credo – dice Noomi, l’attrice che la interpreta – che la sua reazione sia giusta.
Ciò che è giusto sarebbe essere giudicati tutti allo stesso modo in un mondo di pari diritti, che però non ha visto ancora la luce”.
Nel crepuscolo che avvolge l’isola di Hedeby teatro di tante efferatezze, gli uomini continuano ad odiare, le donne a subire e non si capisce bene che fine abbiano fatto pietà, misericordia, onore, giustizia.
Per il film può andar bene così, per la vita sarebbe una catastrofe.
(©L’Osservatore Romano – 29 maggio 2009)

Domenica di Pantecoste anno B

La Pentecoste La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito.
La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion.
La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45).
La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano.
Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.
In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.
Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.
Vieni Spirito Santo.
Vento impetuoso, fuoco che divora, ma anche brezza leggera, scintilla di luce.
Vieni in me.
Parola potente, ma anche lieve sussurro.
Vieni in me.
Fresca cascata, ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…
Dammi occhi nuovi, dammi ali di libertà, dammi trasparenza di vita, dammi tenerezza e audacia e attenderò con te, nella speranza, il nuovo Giorno.
(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare.
40 immagini di un’iconografa, Milano, Ancora, 2003, 54-55).
Aprirci al “di più” Il dono che il Signore vuol farci e che da sempre ci ha fatto con il suo Spirito è di capire che l’uomo si realizza andando oltre se stesso, che si realizza donandosi.
Dio non esiste se non nella relazione di donazione del Padre al Figlio, e non è pensabile al di fuori dello Spirito che è effervescenza continua di amore.
Egli è fuoco che brucia sen-za consumare, è al di là del mistero stesso del fuoco, pur essendo fuoco.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 54).
Sii un vero amico Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno.
L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale.
Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio.
L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte.
In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte.
Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami.
È questo il centro del messaggio di Gesù.
Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata.
Al contrario, è cresciuta.
È questo il significato dell’invio dello Spirito.
Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’ami-cizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte.
È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro.
Sai dall’esperienza quanto questo sia reale.
Coloro che hai amato profondamen-te e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze re-ali.
Osa amare ed essere un vero amico.
L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condur-rà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.
(H.J.M.
NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).
“Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato” E’ il 14 luglio.
Tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.
C’è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I religiosi dicono il mattutino di sant’Enrico, re.
Ed io, penso all’altro re.
Al re David che danzava davanti all’Arca.
Perché se ci sono molti santi che non amano danzare, ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare, tanto erano felici di vivere: Santa Teresa con le sue nacchere, San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia, e san Francesco, davanti al papa.
Se noi fossimo contenti di te, Signore, non potremmo resistere a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo, e indovineremmo facilmente quale danza ti piace farci danzare facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.
Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero, di conoscerti con aria da professore, di raggiungerti con regole sportive, di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
Un giorno in cui avevi un po’ voglia d’altro hai inventato san Francesco, e ne hai fatto il tuo giullare.
Lascia che noi inventiamo qualcosa per essere gente allegra che danza la propria vita con te.
(…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti, non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire, essere gioioso, essere leggero, e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni sui passi che ti piace fare.
Bisogna essere come un prolungamento, vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra scandisce.
(…) Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito, e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica; dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza, che la tua Santa Volontà è di una inconcepibile fantasia, e che non c’è monotonia e noia se non per le anime vecchie, che fanno tappezzeria nel ballo gioioso del tuo amore.
Signore, vieni a invitarci.
(…) Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo che sono tristi; se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo che sono logoranti.
E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere; sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno avviato fra te e noi, il ballo singolare della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni; in essa quel che tu permetti da suoni strani nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno la nostra condizione umana come un vestito da ballo che ci farà amare da te, tutti i suoi dettagli come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita, non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato, non come un match dove tutto è difficile, non come un teorema rompicapo, ma come una festa senza fine in cui l’incontro con te si rinnova, come un ballo, come una danza, fra le braccia della tua grazia, nella musica universale dell’amore.
Signore, vieni a invitarci.
(MADELEINE DELBRÉL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89.
Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo La solennità di questo giorno ci riempie di gioia non soltanto perché riconosciamo la sua importanza, ma anche perché assaporiamo la sua dolcezza.
Ciò che essa fa risaltare è l’amore.
Ora, non vi è nel linguaggio umano una parola più dolce a udirsi, un sentimento più delizioso da coltivare.
Quest’amore non è altro che la bontà di Dio, la sua benevolenza, il suo amore.
O piuttosto, Dio in persona è la bontà, la benevolenza, l’amore.
E questa bon-tà si identifica al suo Spirito, che è esso stesso Dio.
[…] E secondo il disegno di Dio, in prin-cipio, lo Spirito di Dio ha riempito l’universo, «dispiegando la sua forza da un confine al-l’altro del mondo e governando ogni cosa con dolcezza» (Sap 8,1).
Ma per quanto riguarda la sua opera di santificazione, è a partire da questo giorno di Pentecoste che lo Spirito del Signore ha riempito l’universo.
Poiché è oggi che questo dolce Spirito è stato inviato dal Padre e dal Figlio per santificare ogni creatura secondo un nuovo disegno, un modo nuo-vo, una manifestazione nuova della sua potenza e della sua forza.
Certo, in precedenza «lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,39).
[…] Ma oggi, discendendo dalla dimora celeste, lo Spirito si è dato ai mortali con tutta la sua ricchezza, la sua fecondità.
Così questa rugiada divina si stende su tutta la terra, nella diversità dei suoi doni spirituali.
Ed è giusto che la pienezza delle sue ricchezze sia discesa dall’alto dei cieli per noi, perché pochi giorni prima, grazie alla generosità della nostra ter-ra, il cielo aveva ricevuto il Signore.
La nostra terra non ha mai prodotto nulla di più dolce, di più piacevole, di più delizioso, di più santo.
[…] «Lo Spirito di Cristo riempie l’universo, lui che tiene insieme tutti gli esseri, sente tutte le voci» (Sap 1,7).
Ovunque lo Spirito agi-sce, ovunque lo Spirito prende la parola.
Certamente prima dell’Ascensione lo Spirito fu dato ai discepoli, quando il Signore disse loro: «Ricevete lo Spirito santo» ( Gv 20,23).
Ma in nessun modo, prima di Pentecoste, non si udì la voce dello Spirito santo, non si vide ri-splendere la sua potenza.
E i discepoli di Cristo non giunsero a conoscerlo; non erano stati ancora riconfermati, la paura li obbligava ancora a nascondersi in una stanza a porte chiu-se.
Ma a partire da quel giorno, «la voce del Signore domina le acque, il Dio della gloria scatena il tuono, la voce del Signore spezza i cedri e tutti gridano: Gloria!» (cfr.
Sal 28 [29] , 3.5.9).
(AELREDO DI RIEVAULX, Omelia sulla settuplice voce dello Spirito 1, in Sermones inediti, a cura di di C.H.
Talbot, Roma 1952 pp.
112-114).
Preghiera allo Spirito Santo Spirito Santo, eterno Amore, che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore; Tu ci guidi qual mano di una mamma; ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo! Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.
Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla, da dove all’esser mi chiamasti.
Tu a me vicino più di me stessa, più intimo dell’intimo mio.
Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende e d’ogni nome infrangi le catene.
Spirito Santo, eterno Amore.
(Edit Stein [S.
Teresa Benedetta della Croce]).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 2,1-11 Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nel-lo stesso luogo.
Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbat-te impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano.
Apparvero loro lingue come di fuo-co, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spiri-to Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo.
A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua.
Erano stupiti e, fuori di sé per la meravi-glia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai cia-scuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abi-tanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Ro-mani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
In questo brano degli Atti degli Apostoli sono presentati i due propulsori dello svilup-po della chiesa: lo Spirito e la Parola.
La parola dell’apostolo arriva, provoca la fede e con-verte, perché è stata preceduta dallo Spirito, che solo apre l’orecchio all’ascolto.
Al tempo di Gesù la Pentecoste, o festa delle settimane — antica festa agricola (offerta del-le messi), celebrata sette settimane dopo la pasqua (cf.
Lv 23,15-21) — aveva assunto anche il senso di commemorazione dell’alleanza del Signore e di celebrazione della legge mosai-ca.
Poiché il giorno inizia la sera del giorno prima, l’espressione «stava compiendosi il giorno di Pentecoste» indica la mattinata inoltrata che conclude il periodo della festività.
Ma essa indica anche una realtà più profonda: il «giorno» atteso dai profeti sta per finire; la storia è al suo giro di boa, perché il vero Israele incomincia a separarsi dal giudaismo incredulo.
La scena descritta nel testo ricalca la teofania del Sinai (Es 19,16-22): l’antica alleanza è sostituita dalla nuova alleanza.
Tuoni, lampi, rumore di tromba, fumo indicano la presen-za del Signore nel Sinai e la «discesa» dello Spirito sugli apostoli.
L’antica legge diventa «nuova» per la presenza dello Spirito, che non solo istruisce ma anche dà la forza di compiere quello che la legge richiede.
Il «fuoco» che purifica e illumina (cf.
Is 6,6), indica una trasformazione interiore nei di-scepoli di Gesù, i quali, da poveri e incolti pescatori, diventano annunciatori del vangelo: il messaggio più sconvolgente che gli uomini possano sentire (At 1,8).
La presenza di tutte le nazioni a Gerusalemme ha un significato più profetico che stori-co: la Chiesa oltrepassa i confini del giudaismo; ad essa tutti possono accedere per speri-mentare i frutti della Nuova Alleanza promessa non solo per Israele, ma per tutti.
Il miracolo delle lingue può essere una semplice glossolalia (gesti simbolici tradotti da un interprete in un linguaggio comprensibile) o un apprendimento (o una traduzione si-multanea) di nuove lingue (così si potrebbe comprendere come i presenti sentano parlare le loro lingue).
Ma Luca potrebbe essere stato influenzato dalla tradizione giudaica secon-do la quale nel Sinai la voce di Dio si era divisa in 70 lingue, perché la capissero tutte le 70 nazioni della terra: con il dono dello Spirito la Chiesa si apre all’evangelizzazione di tutte le nazioni del mondo.
Seconda lettura: Galati 5,16-25 Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il deside-rio della carne.
La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desi-deri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quel-lo che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idola-tria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubria-chezze, orge e cose del genere.
Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho det-to: chi le compie non erediterà il regno di Dio.
Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge.
Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la car-ne con le sue passioni e i suoi desideri.
Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.
La figliolanza abramitica, o divina, non è possibile senza lo Spirito.
È solo lo Spirito che fa di un uomo della carne, un uomo dello Spirito.
L’uomo della carne è l’uomo schiavo dei propri vizi: fornicazione, impurità, libertinaggio (disordini sessuali), idolatria, stregoneria (corruzione del culto), inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidia (peccati contro la comunità), ubriachezza, orge (disordini dei sensi), e cose del genere (l’e-lenco è solo indicativo).
L’uomo vorrebbe compiere la legge, che porta alla vita, ma non ha in se stesso la forza di compierla, e si trova a fare quello che non vuole (v.
17): gli è impedi-to l’esercizio della vera libertà, quella di amare rinnegando se stesso per perdersi nell’altro.
In questa battaglia contro l’uomo della carne che vorrebbe tornare a prevalere nella vita del cristiano, s’inserisce lo Spirito Santo.
La sua presenza è indicata dai frutti: il punto d’ar-rivo dell’attività vivente dello Spirito, che sollecita la nostra libera cooperazione.
Essi sono: amore, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (V.
22).
Sono gli atteggiamenti dell’uomo nuovo, liberato dalle sue paure e dal suo egoismo, in grado di amare gratuitamente.
La comunità, in questa battaglia, può anche dire di no alla forza liberante dello Spirito, e ricadere nelle antiche opere della carne.
Vangelo: Giovanni 15,26-27; 16,12-15 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimo-nianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parle-rà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo an-nuncerà».
Esegesi I due brani del vangelo sono tratti dal secondo discorso d’addio di Gesù durante la cena pasquale.
Gesù parla della testimonianza che i suoi discepoli daranno nel contesto della persecuzione.
Essi non saranno mai soli, perché egli manderà il Consolatore, o meglio il Difensore, che procede dal Padre.
La forza necessaria, infatti, per testimoniare la verità su Cristo durante il giudizio verrà dallo Spirito di verità, che in modo silenzioso continua l’o-pera di Gesù che è la Verità.
Lo Spirito ricorderà loro quel che hanno visto e udito fin da principio.
La testimonianza oculare non basta per comprendere Gesù.
È solo lo Spirito che dona gli occhi della fede per capire chi veramente egli sia: «per il momento non siete capaci di portarne il peso» (16,12).
Lo Spirito è una guida «a tutta la verità» (16.13): Gesù è la verità, ma è anche la «via», che conduce alla verità.
Lo Spirito dopo la risurrezione sarà il maestro interiore che li accom-pagnerà alla comprensione sempre più profonda di Gesù.
Anche i vangeli sono stati scritti sotto la guida di questo Spirito, e così pure la comprensione del loro significato nelle co-munità del futuro avverrà sotto l’azione dello Spirito.
Come Gesù ci ha detto tutto quello che ha udito dal Padre, così anche lo Spirito non dà del suo, ma di quello che riceve da Gesù (v.
13b).
Egli rivela e glorifica Gesù, mettendo in evidenza la sua natura trascendente (v.
14): questa è anche l’opera d’ogni discepolo dopo la Pasqua.
Meditazione Attraverso una lunga e simbolica attesa di cinquanta giorni, la liturgia prepara i creden-ti a vivere quel giorno di dono e di pienezza che è la Pentecoste, il giorno in cui il Signore Gesù porta a compimento la missione che il Padre gli ha affidato, facendo dono all’umani-tà del suo Spirito affinché tutto il mondo possa entrare nella novità della vita divina (cfr.
il racconto di At 2,1-11).
Gesù stesso, con la sua parola, prepara il discepolo in questo tempo di attesa: gli fa comprendere che, nella vita di chi si pone alla sequela di Cristo, ciò che da forza, freschezza, passione, vivacità a ogni parola, a ogni gesto, è proprio quello Spirito che abita in lui, quello Spirito che è stato il segreto stesso della vita di Gesù (cfr.
Gal 5,16-25 e Gv 15,26-27).
E la dimensione del dono emerge con forza nelle letture che la liturgia di questo giorno ci propone.
Nel racconto redatto da Luca e riportato in At 2,1-11, l’esperienza della Pentecoste viene descritta attraverso allusioni bibliche che richiamano l’evento del Sinai (cfr.
in particolare gli elementi descrittivi che caratterizzano la teofania del Sinai, come il fragore che viene dal cielo, il vento che si abbatte impetuoso, il fuoco) e la stessa comunità dei discepoli radunata «tutta insieme nello stesso luogo» (2,1) ricorda il popolo di Israele accampato davanti al monte (cfr.
Es 19,2, una delle letture proposte per la messa vigilare).
Di qui deriva un pri-mo aspetto del dono che la comunità dei credenti riceve a Pentecoste: «l’invio dello Spirito – annota J.
Dupont – si sostituisce alla promulgazione della Legge; l’alleanza che era fon-data sulla legge mosaica viene rimpiazzata da una nuova alleanza, basata sulla presenza e sull’azione dello Spirito nei cuori.
Tale alleanza non è più legata all’obbedienza a coman-damenti imposti dal di fuori, ma ad una trasformazione intima operata dallo Spirito che ispira, a coloro che l’hanno ricevuto, un atteggiamento filiale nei riguardi di Dio».
Ma questa intima comunione tra Dio e l’uomo che si realizza mediante lo Spirito del Ri-sorto investe anche le relazioni: crea una comunità che è la Chiesa.
Il dono dello Spirito è un dono che suscita unità e comunione tra gli uomini.
E Luca sottolinea il carattere univer-sale della koinonia inaugurata dallo Spirito.
Viene capovolta la pretesa di Babele (Gen 11,1-9, prima lettura della messa vespertina della vigilia): ciò che l’uomo non può realizzare nella logica di una conquista autonoma, cioè l’unità delle lingue, viene compiuta come do-no da Dio, mediante lo Spirito che apre alla comprensione dell’altro nella diversità dei lin-guaggi.
Nella Pentecoste, dunque, ci viene rivelato ciò che unisce gli uomini: non è il ‘no-me’ che essi si danno annullando ogni alterità nella pretesa di una unità puramente uma-na, ma lo Spirito (il volto della relazione intradivina) che viene donato.
L’unità che scaturi-sce da questo dono, allora, non è nella riduzione a una sola lingua, ma nella comprensione della parola dello Spirito nella diversità e nella unicità di ciascuna lingua.
E inoltre, a Pentecoste, sotto il simbolo del vento gagliardo che all’improvviso investe il luogo ove erano riuniti i discepoli di Gesù e si trasforma in fuoco che si posa su ciascuno di loro, la comunità dei credenti riceve in dono quella forza che gli permetterà, lungo la storia e in ogni luogo, di essere testimone dell’evangelo e portatrice della Pasqua di Cristo.
È come se in quel giorno a quel primo seme di Chiesa, attraverso lo Spirito, venisse donato un vento e un fuoco inestinguibili, tali da percorrere senza sosta ogni epoca e ogni luogo e tali da rendere possibile annunciare, comprendere e vivere l’evangelo.
Si può capire allora, proprio attraverso questa immagine, ciò che lo Spirito Santo compie nella Chiesa e in noi credenti: ci abilita ad essere testimoni dell’evangelo, ci dà la forza di annunciare la parola di Gesù, ci rende capaci di comunione e di unità.
Ed è l’aspetto che emerge nella pericope del vangelo di Giovanni.
In un contesto di per-secuzione, il discepolo fa esperienza certamente di una conformazione al destino del suo Signore: «se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20).
Tuttavia sente il peso di portare una testimonianza che a volte sembra al di là delle sue forze.
Gesù allora promette la presenza dello Spirito il quale si rivela come «il Paraclito […] lo Spirito di verità che procede dal Padre» (15,26).
Egli diventa il testimone interiore del discepolo, colui che ha la forza di convincere il cuore del discepolo della verità della parola di Gesù, quasi ‘di-fendere’ Gesù nel cuore del discepolo e di rendere trasparente la testimonianza del disce-polo di fronte al mondo, facendo comprendere la bellezza della testimonianza data al no-me di Gesù.
Solo lo Spirito può fare del discepolo un testimone.
Ma in Gv 16,12-13 ci viene anche ricordato che solo lo Spirito può fare da ‘esegeta’ della parola di Gesù, da guida nel cammino di comprensione di questa parola a volte così diffi-cile da ‘portare’.
È lo Spirito di verità, poiché «non parla da se stesso, ma dice tutto ciò che ha udito e annuncia le cose future» (cfr.
16,13).
Mediante lo Spirito, la comunità dei disce-poli viene condotta nel cuore stesso del mistero di Gesù; lo Spirito guida «verso e dentro la pienezza della verità» (tale è il senso della espressione odegesei eis del v.l3).
E questo cam-mino guidato dallo Spirito è, nello stesso tempo, un cammino di fedeltà e di novità, di memoria e di rinnovamento.
Senza lo Spirito, la parola stessa di Gesù resta estranea al nostro cuore, come qualcosa di duro, di impossibile da capire e da accogliere nella propria vita.
Solo lo Spirito ha la for-za di inciderla nel nostro cuore e di nasconderla come seme che feconda la nostra esisten-za, ricreandola, aprendo vie nuove, rendendoci veramente liberi.
Solo lo Spirito, ci ricorda Gesù, può introdurci alla verità tutta intera: alla verità della parola di Dio, ma anche alla verità della nostra vita, del nostro cuore, alla verità dell’altro.
E infine, mediante lo Spirito, questa parola di verità si trasforma in vita.
E come ci ri-corda l’apostolo Paolo, il dono dello Spirito fa maturare nella nostra esistenza, nel nostro agire, il frutto dello Spirito (cfr.
Gal 5,22).
«Camminate secondo lo Spirito…
lasciatevi guida-re dallo Spirito» (Gal 5,16.18): questo è l’invito di Paolo.
Ed è un modo di vivere nella logi-ca del dono e della novità: significa affidare il nostro cuore con i suoi desideri alla guida dello Spirito, camminare con il ritmo che lui ci indica; significa vivere nell’ascolto dello Spirito, il quale, conoscendo le profondità del nostro cuore, sa trarre fuori da esso ogni de-siderio di bene e, irrobustendolo con la sua potenza, mettendolo in sintonia con il cuore stesso di Dio (con ciò che lui desidera per noi), lo fa diventare un frutto di vita.
Vivere se-condo lo Spirito, secondo i suoi desideri, è trasformare la propria vita in un terreno fecon-do in cui germogliano i semi che sono già nascosti nel nostro cuore (i nostri desideri) di-ventando frutto dello Spirito.
Paolo ci dice, tra l’altro, che c’è un solo frutto da portare e, in qualche modo, tutti i nostri desideri devono convogliare in quel frutto.
Questo frutto è l’amore, l’agape, il riflesso della carità di Dio in Gesù che si rivela nella nostra vita.
Il dono dello Spirito è la carità.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.
RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007 – Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

“Terra Futura per la scuola”:

“Terra Futura per la scuola” Workshop, laboratori, animazioni e spettacoli dedicati ai più giovani, perché insegnare a “vivere in modo sostenibile” è una delle sfide educative dell’epoca in cui viviamo.
La scuola è il luogo in cui si formano le nuove generazioni, e Terra Futura, la mostra convegno internazionale delle buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale che torna alla Fortezza da Basso di Firenze dal 29 al 31 maggio prossimi, non può che riservare ai giovani un’attenzione tutta particolare perché è fondamentale partire da loro per diffondere una cultura della sostenibilità.
Lo chiede il momento di crisi attuale, che ci ricorda l’urgenza di ripensare anche la “missione educativa”: nasce da qui l’iniziativa speciale “terrafutura per la scuola”, che prevede molte proposte dedicate a studenti e docenti, fra progetti, laboratori, seminari, momenti di orientamento e formazione, ma anche animazione e spettacolo.
“Educarsi al futuro” si intitola il progetto di collaborazione scientifica tra l’Ente per le Nuove tecnologie e l’Ambiente (ENEA) e le scuole, per creare nuovi saperi umanistici, sociali, scientifici e tecnologici da convogliare in materiali e percorsi didattici, oltre che in iniziative per la diffusione di fonti rinnovabili e del risparmio energetico sia territoriali, che di cooperazione fra scuole italiane e africane: allo stand di ENEA, sarà presente un percorso con pannelli illustrativi e kit fotovoltaici dimostrativi, per l’elettrificazione di villaggi e scuole rurali africane.
A Terra Futura parteciperà anche il centro italiano Area Science Park di Trieste con “IUSES” – Intelligente Use of Energy at School – parte del programma comunitario “Intelligent Energy Europe” per imparare fra i banchi di scuola le piccole pratiche quotidiane di risparmio energetico: dalla sveglia che suona alla mattina alla luce che spegniamo prima di andare a dormire.
Torna alla Fortezza da Basso il “Progetto Cellulare Solidale” a cura del Movimento e Azione di Gesuiti Italiani per lo Sviluppo (Magis), che sensibilizza gli studenti al corretto smaltimento dei cellulari, un’attenzione che “si trasforma” in aiuti alla cooperazione: fra gli apparecchi dimessi una società specializzata separa quelli inutilizzabili da quelli ancora funzionanti e, a fronte di ogni cellulare ricevuto, il Magis riceve un corrispettivo per finanziare progetti di sviluppo per l’Africa.
E ancora, fra le numerose iniziative, a Terra Futura avrà luogo “IN-FORUM cittadini crescono, 2009”, evento conclusivo del progetto “Le Chiavi della Città”, a cura del Comune di Firenze, che vedrà duemila ragazzi condividere la documentazione prodotta sinora sui temi della formazione alla cittadinanza e all’impegno civile: una sorta di piccolo villaggio globale per parlare di best practices quotidiane, costituzione, democrazia, legalità, solidarietà.
Fra i numerosi laboratori, tanti i percorsi per sensibilizzare gli alunni alle buone prassi: dall’imparare a fare la spesa con consapevolezza e responsabilità e a risparmiare l’acqua e l’energia, all’apprendere come ricavare jeans, bigiotteria e accessori da materiali di riciclo.
Molte anche le esperienze sensoriali: un bosco allestito in miniatura che si imparerà a conoscere attraverso i cinque sensi, l’ascolto della musica prodotta dalle piante; i colori e i profumi del commercio equo e solidale attraverso percorsi fra spezie di mondi lontani, i “soggiorni” in “fattoria” e nel “villaggio ecologico” fra mille sapori e saperi, e ancora alla scoperta delle erbe officinali, dell’agricoltura e della cucina biologica, dell’accudimento degli animali, dell’arte della lavorazione della terra cruda…
Altre animazioni condurranno i ragazzi in paesi lontani fra racconti popolari, maschere, tradizioni, suoni e musiche, ma anche attraverso la creazione di oggetti tradizionali, da quelli realizzati con le perline colorate dello Swaziland al warry, una sorta di dama africana con semi locali in funzione di pedine.
La conoscenza reciproca, nel rispetto dei diritti e della dignità di ognuno, sarà anche al centro della mostra fotografica contro il razzismo (a cura della Cgil).
E ancora, giochi ideati per far conoscere ai più piccoli cos’è un ecosistema e in cosa consiste la catena alimentare, anche attraverso esperimenti interattivi che fanno comprendere le relazioni fra effetto serra, cambiamenti climatici e fonti di energia, come l’Energy Game della Fondazione Enrico Mattei, il cui scopo per ogni giocatore è quello di arrivare a realizzare un proprio obiettivo “di ottimo equilibro energetico” rispetto al territorio assegnato.
In calendario anche giochi di ruolo che trasferiranno i ragazzi nei paesi del Sud del mondo: qualche minuto “nei panni” di bambini senegalesi che non possono andare a scuola, recitando attimi delle loro vite con vestiti e oggetti tradizionali; in altre simulazioni i ragazzi “diventeranno” produttori di banane e cacao alle prese con sfruttatori senza scrupoli, davanti ai quali dovranno imparare, insieme ai compagni, a rivendicare i propri diritti.
Infine il “diario scolastico della sostenibilità”, proposto dalla Fiba Cisl per trasmettere ai più giovani il messaggio che “dalle piccole azioni e dai piccoli pensieri di ogni giorno nascono i grandi cambiamenti”.
Numerose le iniziative dedicate anche ai piccolissimi con proposte specifiche adatte alla loro età.
“Terra Futura per la scuola” è promossa da Fondazione culturale Responsabilità Etica, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Direzione Generale Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana, Regione Toscana, Provincia di Firenze, Comune di Firenze – Assessorato alla Pubblica Istruzione, Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c., in collaborazione con Acli, Arci, Caritas italiana, Cisl Toscana, Cospe, Legambiente, ManiTese, Ucodep.
Terra Futura è promossa e organizzata da Fondazione culturale Responsabilità Etica per conto del sistema Banca Etica (Banca Etica, Etica SGR, Rivista “Valori”), Regione Toscana e Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c., in partnership con Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete e Legambiente.
www.terrafutura.it

Galileo 2009

Il congresso potrebbe portare ad una svolta storica della questione: coinvolti i massimi studiosi mondiali Galileo, Napolitano al convegno internazionale di Firenze Il Presidente della Repubblica inaugurerà ‘Il caso Galileo’ il 26 maggio Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parteciperà all’inaugurazione del convegno internazionale di studi “Il caso Galileo.
Una rilettura storica, filosofica, teologica”, in programma a Firenze dal 26 al 30 maggio e organizzato dall’Istituto Stensen dei gesuiti di Firenze, diretto da Padre Ennio Brovedani sj, ideatore dell’iniziativa.
Il convegno verrà inaugurato martedì 26 maggio nella basilica di Santa Croce – mausoleo dei sommi italiani, dove si trova la tomba di Galileo – con le lectiones magistrales di Nicola Cabibbo (presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) e Paolo Rossi (Professore emerito di Storia della Scienza dell’Università degli Studi di Firenze).
Oltre al Presidente della Repubblica, saranno presenti numerose autorità del mondo istituzionale italiano.
“Ritengo che, visti gli ampi strumenti che verranno messi sul tavolo, il convegno potrebbe portare realmente ad una svolta storica della complessa questione galileiana, una delle più scottanti della storia – ha detto Paolo Rossi – Il convegno affronta, con un’ampiezza finora intentata, tutti i temi essenziali: la condanna della dottrina di Copernico nel 1616 e il processo a Galileo del 1633; la genesi del “caso Galilei” nell’Italia, Francia e Inghilterra del Seicento; la storia di quel caso prima nell’Illuminismo e poi nell’Ottocento (nell’età del positivismo e del Risorgimento) e infine nel Novecento, fino a questi nostri giorni”.
“La partecipazione del Presidente della Repubblica – sottolinea P.
Brovedani – rivela che il Quirinale ha colto non solo l’evidente valore culturale del Convegno, ma anche e soprattutto la sua alta valenza politica.
La memoria del passato e la corretta contestualizzazione della ‘vicenda galileiana’ contribuirà sicuramente a favorire le condizioni per un rapporto di collaborazione e serenità tra la Chiesa e le istituzioni di ricerca, soprattutto nella prospettiva delle complesse e, a volte, inedite problematiche filosofiche ed etiche sollevate dalle prospettive della ricerca bio-tecno-scientifica contemporanea.” Il convegno fiorentino ha ottenuto l’adesione e la partecipazione di 18 autorevoli Istituzioni, che si ritrovano per la prima volta insieme dopo 400 anni.
Queste istituzioni, rappresentative di importanti settori della vita culturale e scientifica, sono storicamente coinvolte in una vicenda e in un evento che hanno fortemente caratterizzato l’intelligenza e la creatività italiane, innescando tuttavia tensioni mai completamente risolte nei rapporti tra la Chiesa e diversi ambiti della produzione intellettuale.
Al convegno interverranno i massimi esperti e studiosi mondiali del tema (teologi, storici, filosofi): tra gli altri, George Coyne, Evandro Agazzi, Nicola Cabibbo, Claus Arnold, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Annibale Fantoli, Jean-Robert Armogathe, Horst Bredekamp, Michele Ciliberto, Paolo Rossi e Paolo Galluzzi.
Per informazioni: WWW.GALILEO2009.ORG MERCOLEDÌ 27 MAGGIO PRIMA GIORNATA PALAZZO DEI CONGRESSI ore 8.30 registrazione  a sessione: Cosmologia e teologia: la condanna del 1616 Presiede Cesare Vasoli 09.15 Apertura dei lavori 09.30 Censura ecclesiastica e filosofia naturale negli anni di Galileo Vittorio Frajese 10.00 Il copernicanesimo e la teologia Mauro Pesce 10.30 Coffee-break 11.00 Des nouveautés célestes aux textes sacrés Maurice Clavelin 11.30 Teologie a confronto: Bellarmino, Campanella, Foscarini Paolo Ponzio 12.00 The Jesuits: Transmitters of Galilean Science Rivka Feldhay 12.30 Discussione 13.00 Pausa pranzo II a sessione: I due processi: premesse e contesti Presiede Isabelle Pantin 15.00 Natura e Scrittura Pietro Redondi 15.30 Il processo del 1633 Annibale Fantoli 16.00 I meccanismi di controllo sociale e il sistema di protezione: i Farnese di Roma e Galileo Federica Favino 16.30 Coffee-break 17.00 “Mirabile e veramente angelica dottrina”: Galileo e l’argomento di Urbano VIII Luca Bianchi 17.30 Discussione 18.30 Chiusura dei lavori GIOVEDÌ 28 MAGGIO SECONDA GIORNATA PALAZZO DEI CONGRESSI ore 8.30 registrazione I a sessione: La genesi del “caso Galileo” I Presiede Maurice Clavelin 09.15 Apertura dei lavori 09.30 Il “caso Galileo” nella cultura italiana del ‘600 Franco Motta 10.00 Il “caso Galileo” nella cultura inglese del ‘600 Franco Giudice 10.30 Coffee-break 11.00 Les premiers effets de l’“affaire Galilée” chez les libertins et philosophes français Isabelle Pantin 11.30 Galileo as the unpunished artist.
Peiresc’s argument Horst Bredekamp 12.00 Galileo e l’“accomodatio” copernicana Michele Camerota 12.30 Discussione 13.00 Pausa pranzo II a sessione: La genesi del “caso Galileo” II Presiede Michele Ciliberto 15.00 Il “caso Galileo” e la riflessione teologica Jean-Robert Armogathe 15.30 L’attività scientifica nell’ottica dei censori ecclesiastici, dalla “Licet ab initio” (1542) alla “Sollicita ac provida” (1753) Ugo Baldini 16.00 L’Illuminismo e il “caso Galileo” Vincenzo Ferrone 16.30 Coffee-break 17.00 Il “caso Galileo” e il Sant’Uffizio 1820-1822: fine della controversia? Francesco Beretta 17.30 Discussione 18.30 Chiusura dei lavori VENERDÌ 29 MAGGIO TERZA GIORNATA PALAZZO DEI CONGRESSI 8.30 registrazione I a sessione: Il “caso Galileo”: l’Ottocento Presiede Sergio Givone 09.15 Apertura dei lavori 09.30 Galileo e Bruno “martiri del libero pensiero” Michele Ciliberto 10.00 Galileo e le passioni del Risorgimento Massimo Bucciantini 10.30 Coffee-break 11.00 Il “caso Galileo” ed i neotomisti dell’Ottocento Luciano Malusa 11.30 The “Galileo Affair” and the “question biblique” Claus Arnold 12.00 La représentation de Galilée dans la peinture du XIXe siècle François de Vergnette 12.30 Discussione 13.00 Pausa pranzo II a sessione: Il “caso Galileo”: Il Novecento Presiede Jean-Robert Armogathe 15.00 Galilée et Bellarmin entre Duhem et Feyerabend Jean-François Stoffel 15.30 Galileo during the Nazi Time Volker R.
Remmert 16.00 Il Vaticano II, Paschini e Galileo Alberto Melloni 16.30 Coffee-break 17.00 Galileo judged: Urban VIII to John Paul II George Coyne 17.30 Discussione 18.30 Chiusura dei lavori                

Laicità della ragione, razionalità della fede?

A.A.V.V.
, Laicita’ della ragione razionalita’ della fede? la lezione di Ratisbona, CLAUDIANA, 2008, EAN : 9788870167469, € 15,00 A partire dalla cosiddetta “lezione di Ratisbona” del pontefice Benedetto XVI e dalla risposta del vescovo luterano di Berlino Huber, giuristi, politologi, teologi e filosofi si confrontano da posizioni diverse sul rapporto tra fede e ragione, interrogandosi sull’influenza della religione sulla sfera pubblica.
Dalla quarta di copertina: Dalla “lezione di Ratisbona” di Benedetto XVI alla replica del vescovo evangelico di Berlino, Wolfgang Huber: un problema che ha segnato la storia del cristianesimo occidentale si trova nuovamente al centro di un’accesa disputa sui criteri etici e politici della convivenza civile.
Fede e ragione oggi: non solo una riflessione sui fondamenti del cristianesimo e sui rapporti con la cultura religiosa e scientifica occidentale, ma una discussione sul rapporto tra religione e modernità, sul ruolo pubblico della religione e sulla laicità.
La crisi del pluralismo liberale, il “ritorno” del religioso sulla scena pubblica e il risorgere dei fondamentalismi ripropongono il nodo filosofico del rapporto tra fede e ragione.
Un testo dove giuristi e politologi, filosofi e teologi si confrontano e si incontrano nel tentativo di disegnare uno spazio di discussione tra credenti, protestanti e cattolici, e laici.

Vincere

La trama La storia tragica di Ida Dalser, prima moglie di Mussolini, che da lui ebbe un figlio, Benito Albino Mussolini, che morì con la madre in un ospedale psichiatrico di Milano dove il Duce li aveva fatti internare.  Cast tecnico Regia: Marco Bellocchio Sceneggiatura: Marco Bellocchio Musiche: Carlo Crivelli Fotografia: Daniele Ciprì Montaggio: Francesca Calvelli Scenografia: Marco Dentici Costumi: Sergio Ballo Cast Riccardo Paicher: Fausto Russo Alesi Benito Mussolini: Filippo Timi Ida Dalser: Giovanna Mezzogiorno Rachele Guidi: Michela Cescon Pietro Fedele: Pier Giorgio Bellocchio  Dati Anno: 2009 Nazione: Italia Distribuzione: 01 Distribution Durata: 128 min Data uscita in Italia: 20 maggio 2009 Genere: biografico,drammatico,storico Mussolini si affaccia al balcone e una folla immensa lo applaude: è una fantasia, o una premonizione, o una personale certezza, perché in quel momento la piazza è vuota e il futuro duce è completamente nudo, visto da dietro anche con un bel sedere, e ha appena fatto l´amore, a lungo, con molti gemiti, i celebri occhi di fuoco sempre scomodamente spalancati nell´amplesso, la mascella volitiva già protesa verso l´avvenire, con la sua bella amante, anche lei molto gemente, una delle tante, quella Ida Dalser che avrebbe poi sposato (forse) con matrimonio religioso nel settembre 1914.
Ma quanto è periglioso rievocare il dittatore Mussolini, tanto amato quanto odiato, quello che ci tramandano la storia e i tanti cinegiornali che oggi ci fanno ridere, al massimo del potere e dell´istrionismo, nei suoi anni giovani, quando passava dal socialismo al fascismo, dall´Avanti al Popolo d´Italia, dal pacifismo all´interventismo, e in più faceva con Rachele una piccina, Edda, e cinque anni dopo un piccino, Benito Albino, con Ida.
Vincere, l´unico film italiano invitato in concorso a Cannes, diretto da uno dei nostri registi più degni e amati, Marco Bellocchio, soprattutto nella prima metà non convince e quasi provoca un disagio che non si riesce a decifrare.
Forse perché la parte storica ovviamente frettolosa, evocata attraverso troppi filmati e titoli d´epoca e con un voluto ritmo “futurista”, soffoca il fulcro del film, che è la storia di una donna che pagò per tutta la vita un amore sbagliato e mai rinnegato, che osò opporsi sola e inerme a un uomo cui la maggior parte degli italiani credeva e ubbidiva e contro cui si mosse un crudele apparato di giudici, medici, spie, giornalisti preti, politici, poliziotti, funzionari, per dimostrarne l´inesistenza e la pazzia: e distruggerla.
Qualche aggancio col presente, con il muro mediatico che si è alzato contro una moglie che ha detto basta al matrimonio con l´uomo che oggi in Italia è il più amato, il più ricco, il più ubbidito, il più potente? Sarebbe un´esagerazione, anche perché la storia, tutta la storia, è piena di donne che la ragion di Stato ha sacrificato alla vanità e ai capricci del principe ma anche di donne che sul principe e la sua corte hanno finito col prevalere.
Il Mussolini gagà di Filippo Timi è un po´ caricaturale, anche se volutamente i baci appassionati paiono quelle dei film con Rodolfo Valentino, la Ida di Giovanna Mezzogiorno è commovente.
Ida morirà di dolore e torture mediche nel 1937, a 57 anni, Benito Albino nel 1942, a 26 anni; Mussolini finirà peggio e solo pochi anni dopo.
  Le altre recensioni Mariarosa Mancuso (Il Foglio) Lietta Tornabuoni (La Stampa) Carlos Boyero (El Pais) Jean-Luc Douin (Le Monde) Luca Pellegrini (Osservatore Romano) Natasha Senjanovic (Hollywood Reporter) Paolo Mereghetti (Il corriere della sera) Lee Marshall (Screen International) Jay Weissberg (Variety)  Gabriella Gallozzi (l’Unità) Maurizio Cabona (il Giornale)