LIBERTà

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XVII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Re 4,42-44 In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia.
Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente».
Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?».
Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente.
Poi-ché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”».
Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
Il brano fa parte del ciclo di Eliseo (2Re 2,1-9,10; 13,14-21), del quale si narrano l’inter-vento negli affari politici del tempo, il ruolo da lui svolto nella rivolta di Iehu e i prodigi, fra cui questo della moltiplicazione delle primizie offerte all’uomo di Dio.
Il possidente terriero proveniente da Baal Salisa (l’attuale Ketr-Tilt distante 26 km a o-vest di Galgala), porta, secondo le prescrizioni di Levitico 23,17-18 («Porterete dai luoghi do-ve abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore»), «il pane di primizia», fatto cioè con il raccolto dell’anno e destinato a Dio.
Con la sua offerta esso vuole onorare l’uomo di Dio, che dal contesto risulta essere chiaramente Eliseo.
La pietà del profeta verso la folla che soffre la fame a causa della carestia (v.
38) spinge Eliseo a dividere generosamente l’offerta con i cento discepoli dei profeti che lo seguiva-no.
La quantità è sufficiente solo per venti dei presenti.
L’obiezione del servo è motivata: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?» (v.
43a).
Ma più forte della ragione umana è la fede del profeta nell’intervento di Dio: «Dallo da mangiare alla gente.
Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”» (v.
43b).
Dio non delude chi confida nel suo nome e dona ai suoi eletti più di quanto sia necessa-rio: «Dallo da mangiare alla gente.
Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avan-zare» (v.
44).
Seconda lettura: Efesini 4,1-6 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.
Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Questo brano della lettera agli Efesini presenta un discorso parenetico che ha per contenuto l’esortazione all’unità per mezzo dell’amore.
Quello di Paolo è un premuroso incoraggiamento.
È Paolo stesso, infatti, che invita in prima persona, presentandosi non solo come «l’Apostolo di Cristo», ma anche come «prigioniero a motivo del Signore».
Per effetto della sua esperienza di sofferenza ha acquistato una sapienza delle cose divine e quindi può esortare i membri della comunità a una vita che corrisponda alla beneficenza divina.
La condotta corrispondente si attua soltanto se i membri della Chiesa, rinunciando alla superbia, si lasciano guidare dall’umiltà collaborando col prossimo.
Accanto all’umiltà si trova la mansuetudine o mitezza che consiste in un comportamen-to pacifico e paziente, dolce e amichevole che trae origine dal timore di Dio e dall’amore.
All’umile mansuetudine si accompagna la magnanimità, dono dello Spirito, che è sop-portazione paziente e longanime del prossimo e che sgorga dalla carità.
Paolo completa e precisa il suo pensiero esortando i fedeli a sopportarsi nell’amore che avviene quando si perdonano reciprocamente, mantenendo e custodendo la pace.
Ciò che i cristiani devono custodire, però, non è stato prodotto da essi, né deve essere da essi acquisito, ma è stato loro concesso e devono semplicemente custodirlo.
Ciò che devono custodire è l’unità dello spirito: il pneuma (lo spirito), infatti, è la forza che produce e conserva l’unità.
Chi è anche solo pigro nel custodire l’unità tiene una condotta indegna della sua vocazione, dimostrando di mancare di umiltà e mansuetudine, di pazienza e magnanimità, di libertà d’amore.
L’unità si custodisce nel vincolo della pace, nella pace alla quale i fedeli sono stati am-messi quando hanno accolto la chiamata di Dio.
L’esortazione a custodire l’unità è fondata e giustificata dal fatto che uno è il corpo, uno lo spirito ed unica anche la speranza.
Non custodire l’unità dell’unico corpo significherebbe negare l’unità dell’unico spirito, ledere la nuova natura in cui i credenti vivono dal momento del battesimo.
Significherebbe negare l’unità dell’unico Signore, della sola fede, del solo battesimo.
Dall’unica Chiesa, attraverso l’unico Signore, lo sguardo dell’Apostolo giunge all’unico Dio, che è il supremo e più intimo fondamento dell’unità.
In definitiva l’unità si fonda sul fatto che nei cristiani abita l’unico Dio.
Vangelo: Giovanni 6,1-15 In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi.
Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli.
Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?».
Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere.
Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».
Rispose Gesù: «Fateli sedere».
C’era molta erba in quel luogo.
Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto».
Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!».
Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
Esegesi Con una indicazione generica di tempo (v.
1: «Dopo questi fatti»), l’evangelista racconta un trasferimento di Gesù all’altra riva del lago di Galilea, cioè a quella orientale, e lo colloca lontano dalla città santa.
Da dove venga la folla, che compare improvvisamente (v.
2: «…
e lo seguiva una grande folla »), qui non è detto.
Di un seguito di tanta gente non si fa mai parola nel Vangelo di Giovanni.
Le folle inizialmente seguono Gesù per i segni che egli compie sugli infermi, ma ora partecipano al prodigio straordinario della moltipli-cazione dei pani.
Tuttavia, il giorno seguente, rifiuteranno la rivelazione del Figlio di Dio e non lo riconosceranno (6,26ss).
Il monte (v.
3: «Gesù salì sul monte»), su cui Gesù si reca con i suoi discepoli, non è una montagna qualsiasi, ma il monte della Galilea.
Monte teologico e punto fondamentale di interesse per i Sinottici che vi collocano i fatti più importanti della vita di Gesù.
L’inte-resse di Giovanni è anch’esso teologico e non geografico e segue la tradizione biblica che presenta Dio che si rivela sul monte (il Sinai).
Anche l’annotazione sull’imminenza della Pasqua ha un significato teologico e corri-sponde pienamente allo stile dell’evangelista che inquadra i vari episodi della vita di Ge-sù nelle principali feste giudaiche (2,13; 7,2; 11,15).
C’è però molto di più: Gv 6,4 sembra, infatti, porre la moltiplicazione dei pani sotto il segno della pasqua cristiana, l’Eucaristia.
L’esplicitazione che la pasqua è la festa dei giudei sembra insinuare che al tempo dell’e-vangelista si celebrava un’altra pasqua (quella cristiana), riattualizzata nel sacramento dell’Eucaristia.
Giovanni non si sofferma a sottolineare la compassione di Gesù per la folla.
A differen-za dei Sinottici, è Gesù che rivolge a Filippo la domanda per metterlo alla prova (v.
5: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?») e non i discepoli.
Un acquisto rilevante di pane, quanto si sarebbe potuto comprare con un denaro (il salario giornaliero di un operaio), sarebbe stato ugualmente insufficiente.
Lo sforzo umano, infatti, anche se generoso, è sempre insufficiente a saziare, mentre l’intervento del Verbo incarnato appaga non solo i bisogni dei presenti, ma di tutto il mondo, come insinua la raccolta dei dodici pezzi avanzati.
L’informazione data da Andrea sul ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci è pro-pria del quarto vangelo: solo Giovanni scrive che i pani erano d’orzo, per indicare che si tratta di cibo dei poveri e per rievocare l’analogo prodigio operato dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44).
Giovanni (ma anche i Sinottici) sottolinea che sul posto c’era molta erba tipico della pri-mavera in Palestina.
Questa osservazione concorda con quella di 6,4 sulla vicinanza della Pasqua.
Il numero dei commensali, come la menzione dei gesti del Maestro, fanno parte della tradizione comune e sono riferiti allo stesso modo dai Sinottici.
Le particolarità più rilevanti del quarto vangelo si trovano nell’uso del verbo euchari-stéin (rendere grazie) che sostituisce eulogéin (benedire) dei Sinottici, nella presenza del participio anakéimenois (seduti) e nella distribuzione dei pani fatta da Gesù in persona.
Nella moltiplicazione dei pesci adopera òpsos invece di ichthys.
Anche l’ordine di radunare i pezzi avanzati è proprio di Giovanni.
I Sinottici, infatti, non riportano questo ordine del Maestro.
L’annotazione finale, sui dodici cesti di pezzi avanzati, dopo che le cinquemila persone si erano saziate, sottolinea per contrasto l’abbondanza e la ricchezza del dono di Gesù, co-me avviene alle nozze di Cana per il vino (Gv 2,1-11).
Gv 6,14 descrive la reazione della folla dinanzi al prodigio straordinario e ricorda l’en-tusiasmo del popolo ebreo in attesa del Messia.
Il Maestro è riconosciuto come il profeta atteso per la fine dei tempi dalla folla sfamata, ma il passo finale ci fa capire che l’entusia-smo messianico della folla è di carattere politico (6,15).
La folla vuole rapire Gesù per far-lo re, ma siccome la sua regalità è fraintesa dalla folla egli fugge sul monte (6,15), per sottrarsi al loro sguardo.
Meditazione «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v.
9).
Effettivamente, davanti ad una folla di cinquemila uomini – senza contare le donne e i bambini – chi non si porrebbe una simile domanda? Che chiede, peraltro, risoluzione pressoché immediata! Ma, a ben pensarci, a ogni livello, da quello economico a quello educativo, da quello religioso a quello relazionale, chi si sente certo di poter offrire a ognuno ciò che gli è necessario per una crescita sana e completa? Chi non si sente inadeguato dinanzi al compito di diventare adulto, a qualunque epoca, situazione, cultura appartenga? Questa cruda constatazione non è conferma del detto ‘mal comune, mezzo gaudio’, ma forse ci aiuta a relativizzare le affermazioni spavalde di chi, magari politico, assicura la risoluzione di ogni problema in scioltezza…
Ma torniamo al nostro brano, che ci pone drammaticamente dinanzi alla dimensione più essenziale della nostra stessa sussistenza: il cibo.
Il pane, evidente immagine simbolica dell’elemento più elementare e necessario per la nostra vita, non c’è.
O almeno, non c’è per tutti.
La nostra superficialità e la nostra ricchezza occidentale ci permettono di riuscire a dimenticare che ogni giorno nel mondo migliaia di persone muoiono di fame e di sete.
Le ragioni sono molteplici e il vangelo non è un testo di strategia socio-politico-economica (anche se questa dimensione non è esclusa).
Eppure ci può aiutare ad affrontare in modo più corretto la totalità della nostra – e altrui – vita.
Si può, ad esempio, osservare che se cinque pani e due pesci non sono praticamente nulla per un’immensa folla come quella che Gesù aveva raccolto attorno a sé, è altrettanto vero che sono tanti per una sola persona.
Perché i beni essenziali sono nelle mani di pochi, di pochissimi? Una riflessione sulla nostra sobrietà e sulla nostra volontà di condivisione di quei beni che per essenza non possono diventare strumento di ricatto e di schiavitù ver-so altre persone meno fortunate di noi – perché solo di fortuna si tratta: che merito c’è nell’essere nato in una zona del mondo piuttosto che in un’altra? – si impone.
Ma poi, ci poniamo questa domanda – «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v 5) – oppure resta un optional per ‘anime belle’? Quale prezzo siamo disposti a pagare perché vi sia oggettivamente una migliore giustizia per tutti? Non a caso la domanda viene posta da Gesù.
Il racconto di questo grande segno, riportato – unico caso nei vangeli, segno che effettivamente il fatto è storico e ha stupito non poco – anche da Matteo, Marco e Luca, ci svela impietosamente quale fu il suggerimento dato dai discepoli al Signore: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14,15).
Detto altrimenti, ‘si arrangino’! Cosa fa allora Gesù? Innanzi tutto non fa un discorso: di ottimi e unanimemente condi-visi principi morali e spirituali.
Non lo fa nemmeno per prendere tempo.
O meglio, il di-scorso lo tara, bellissimo e profondo, il più lungo mai riportato nei vangeli, capace di far interrogare tutti i presenti sul senso di quanto appena avvenuto (cfr.
vv.
22-59).
Ma, ap-punto, lo farà solo dopo aver agito, solo dopo aver preso a cuore questa impellente urgenza alimentare.
E per prima cosa fa sedere i presenti (cfr v.
10), li mette comodi: c’è un desiderio e uno stile di qualità dietro questo particolare.
Non si vuole ‘fare la carità’ – intendendo quest’espressione nel peggior modo possibile, ovvero mantenendo ben evidenti le distanze tra chi dona e chi riceve esasperando l’umiliazione degli indigenti – ma raggiungere una relazionalità accogliente, attenta, umana.
Successivamente si parte da quello che si possiede, da quanto – seppur pochissimo che sia – viene messo a disposizione di Gesù.
La rinuncia a trattenere solo per sé, con il rischio che tolga al possessore la propria sicurezza, è una forza inestimabile di condivisione.
E Gesù ringrazia, il Padre e – certamente – anche l’offerente.
E nelle mani di Gesù avviene la possibilità che ognuno trovi nutrimento sufficiente, anzi abbondante (cfr.
vv.
11-13).
Era già successo nei tempi antichi, quando un altro ragazzo, Davide, offrendo anch’egli la disponibilità a giocare tutta la sua vita e affidandosi alla forza di Dio, aveva vinto Golia con una fionda e qualche ciottolo di fiume (cfr.
1Sam 17).
Solo Gesù è in grado di colmare la nostra fame e sete di vita, di una vita piena.
Lui de-sidera nutrire la nostra esistenza, essere il cibo che rende bella e giusta la nostra vita.
Ma lo vuole per tutti, proprio tutti.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Sofferenza Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento di amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito ne-cessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.
Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, 28-29).
Questi è davvero il profeta Furono riempite dodici ceste.
Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale.
Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentir-ne parlare, rimaniamo freddi.
Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo.
Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede.
Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi.
Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: «Beati quelli che non vedono e credono» (Gv 20,29).
Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire.
Ci siamo così veramente sa-ziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo.
Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? «Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta» (Gv 6,14).
[…] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: «Susciterò per loro un profeta simile a te» (Dt 18,18).
Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà.
E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli.
Lo stesso Signore dice di se stesso: «Un profeta non riceve onore nella sua patria» ( Gv 4,44).
Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta.
Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli.
Egli stesso è detto angelo del grande consiglio.
E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr.
Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 24,6-7, NBA XXIV, pp.
564-566).
Il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro «Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».
È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo.
E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua ma-terialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Offerta la mondo Noi cittadini e cittadine del mondo, gente del cammino, gente che cerca, eredi del legato di antiche tradizioni, vogliamo proclamare: – che la vita umana è, per se stessa, una meraviglia; che la natura è la nostra madre e il nostro focolare, e che dev’essere amata e preservata; – che la pace dev’essere costruita con sforzo, con la giustizia, col perdono e la generosità; – che la diversità di culture è una grande ricchezza e non un ostacolo; – che il mondo ci si presenta come un tesoro se lo viviamo in profondità, e le religioni vogliono essere dei cammini verso tale profondità; – che, nella loro ricerca, le religioni trovano forza e senso nell’apertura al Mistero inafferrabile; – che fare comunità ci aiuta in questa esperienza; – che le religioni possono essere un punto di accesso alla pace interiore, all’armonia con se stesso e col mondo, ciò che si traduce in uno sguardo ammirato, gioioso e grato; – che noi che apparteniamo a diverse tradizioni religiose vogliamo dialogare tra di noi; – che vogliamo condividere con tutti la lotta per fare un mondo migliore, per risolvere i gravi problemi dell’umanità: la fame e la povertà, la guerra e la violenza, la distruzione dell’ambiente naturale, la mancanza di accesso ad un’esperienza profonda di vita, la mancanza di rispetto per la libertà e la differenza; – e che vogliamo condividere con tutti i frutti della nostra ricerca delle aspirazioni più alte dell’essere umano, nel rispetto più radicale di ciò che ciascuno è e col proposito di poter vivere tutti insieme una vita degna di essere vissuta.
(Testo elaborato dalle diverse tradizioni religiose radunate per il IV Parlamento delle Religioni del Mondo, a Barcellona nel 2004).
Rese grazie per insegnarci a rendere grazie Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui.
E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui.
Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6).
[…] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla.
Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi.
Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr.
Lc 24,44-45).
I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20).
[…] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie.
Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale.
[…] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti.
«Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr.
Mc 6,43).
Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere.
Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale.
Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp.
195-198).
Preghiera Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.
Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà.
Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre.
Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di es-sere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza.
Tu mi ripeti, Gesù, che pro-prio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.
Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

Il cielo in una stanza

L’approccio post-romantico al paesaggio, colto e talvolta sottilmente ironico che ha caratterizzato molta della nostra produzione fotografica dagli anni Settanta fino ai primi Novanta, è andato progressivamente trasformandosi e dilatandosi in un sempre più evidente e aggressivo lavoro di documentazione e manifestazione delle mutazioni ambientali, industriali e post-industriali in atto nel nostro Paese.
Come ovunque del resto, ricerche sovente proposte in forma di racconto o di raccolta di immagini quasi inaspettatamente obbligavano il pubblico a riflettere, a domandarsi la ragione dei contenuti, e non solo a contemplare gli scatti riprodotti.
  Con una selezione di giovani autori della scena fotografica italiana, la rassegna IL CIELO IN UNA STANZA tenta la codificazione di un linguaggio differente, frutto di una ricerca che nasce da un gioco tra continuità e rottura e pertanto volta ad un confronto critico e dialettico con la tradizione.
Non vi sono sinergie fra le opere presentate ma una comune capacità di intenti, un dialogo fra inquadrature apparentemente differenti ma concepite su un comune sentire, basate su una rinnovata fiducia nella sintesi della narrazione.
A conferma della sua natura aperta, il dialogo si evolve e modifica  rispondendo alle varie sollecitazioni: a dispetto dell’attuale crisi vi è la necessità di elaborare una risposta sì perturbativa ma fondativa, che immagini un diverso atteggiamento nei confronti del futuro prossimo.
  Al di là dei segni espressivi che connotano il concetto stesso di Natura, gli autori invitati nella mostra esprimono un’acuta sensibilità nelle loro opere, una passione nel descrivere che, memore di un profondo cambiamento in atto, estromette di fatto lasciti tardo-postmoderni a favore di una fenomenologia emotiva rinnovata.
  La mostra è organizzata all’interno del progetto Aeson – Arti nella Natura che si svolge in concomitanza presso la Riserva Naturale Regionale Foce dell’Isonzo in collaborazione con l’Associazione Ecopark.
Aeson – Arti nella natura è un festival di ricerca e sperimentazione artistica, una proposta per vivere la natura in modo creativo e dinamico, un percorso per riscoprire paesaggi e luoghi di confine.
  GC.
AC – Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone, piazza Cavour 44 IL CIELO IN UNA STANZA .
Per una osservazione eccentrica del paesaggio Inaugurazione venerdì 17 luglio 2009, ore 19 Apertura 17 luglio > 2 agosto 2009, Orario dal mercoledì alla domenica, 17.00 > 20.00 Info tel.
0481 494 360 – 46262 / galleria@comune.monfalcone.go.it / www.galleriamonfalcone.it Ingresso libero   AESON .
Arti nella natura Un The con gli Artisti sabato 18 luglio 2009, ore 17.30 Apertura 12 luglio > settembre 2009 Info tel.
349 1530844 / www.aeson.it / www.isoladellacona.it Ingresso libero Quando sei qui con me / questa stanza non ha più pareti / ma alberi, alberi infiniti quando sei qui vicino a me / questo soffitto viola / no, non esiste più.  Io vedo il cielo sopra noi / che restiamo qui / abbandonati / come se non ci fosse più / niente, più niente al mondo.
(Gino Paoli, Mogol, Il cielo in una stanza, 1960).
  La Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone presenta, venerdì 17 luglio 2009 una nuova importante mostra dedicata alla fotografia di paesaggio nella sua accezione più contemporanea.
Il Cielo in una Stanza espone 27 fotografi che hanno saputo interpretare in maniera nuova e personale una delle discipline da sempre più praticate della fotografia.
Con il titolo della mostra, il direttore della Galleria Andrea Bruciati, ha voluto donare un primo omaggio a Gino Paoli, un grande artista e poeta dai natali monfalconesi, che riceverà poi ad ottobre dal Comune il prestigioso riconoscimento della Rocca d’Oro.
  Artisti invitati: Marco Campanini, Marco Citron, Emanuele Colombo, Ettore Favini, Michael Fliri, Linda Fregni Nagler, Christian Frosi, Andrea Galvani, Luigi Ghirri, Claudio Gobbi, Andreas Golinski, Stefano Graziani / Giulia Nomis, Teodoro Lupo, Domenico Mangano, Tancredi Mangano, Margherita Morgantin, Giovanni Ozzola, Andrea Pertoldeo, Daniele Pezzi, Alessandro Piangiamore, Claudia Pozzoli, Antonio Rovaldi, Sara Rossi, Richard Sympson, Nicola Uzunovski.

“Iota unum”

 ROMANO AMERIO, Iota unum.
Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di Enrico Maria Radaelli, prefazione del card.
Darío Castrillón Hoyos, Lindau, Torino, 2009.
ROMANO AMERIO, Stat veritas.
Séguito a Iota unum, a cura di Enrico Maria Radaelli, Lindau, Torino, 2009.
Da domani fanno ritorno nelle librerie italiane, editi da Lindau, due volumi entrati tra i classici della cultura cattolica, il cui contenuto è in impressionante sintonia col titolo e col fondamento della terza enciclica di Benedetto XVI: “Caritas in veritate”.
I due volumi hanno per autore Romano Amerio, letterato, filosofo e teologo svizzero scomparso nel 1997 a 92 anni di età.
Un suo grande estimatore, il teologo e mistico don Divo Barsotti, ne sintetizzò così il contenuto: “Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente a un generale disordine mentale per cui viene messa la ‘caritas’ avanti alla ‘veritas’, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità”.
In effetti, Amerio vide proprio in questo rovesciamento del primato del Logos sull’amore – ossia in una carità senza più verità – la radice di molte “variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX”: le variazioni che egli descrisse e sottopose a critica nel primo e più imponente dei due volumi citati: “Iota unum”, scritto tra il 1935 e il 1985; le variazioni che lo portarono a porre la questione se con esse la Chiesa non fosse divenuta altra cosa da sé.
Molte delle variazioni analizzate in “Iota unum” – ma ne basterebbe una sola, uno “iota”, stando a Matteo 5, 18 che dà il titolo al libro – spingerebbero il lettore a pensare che una mutazione d’essenza vi sia stata, nella Chiesa.
Amerio però analizza, non giudica.
O meglio, da cristiano integrale qual è, lascia a Dio il giudizio.
E ricorda che “portae inferi non praevalebunt”, cioè che per fede è impossibile pensare che la Chiesa smarrisca se stessa.
Una continuità con la Tradizione permarrà sempre, pur dentro turbolenze che la oscurano e fanno pensare il contrario.
C’è uno stretto legame tra le questioni poste in “Iota unum” e il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 alla curia romana, discorso capitale per quanto riguarda l’interpretazione del Concilio Vaticano II e il suo rapporto con la Tradizione.
Ciò non toglie che lo stato della Chiesa descritto da Amerio sia tutt’altro che pacifico.
Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005, paragonò la babele della Chiesa contemporanea al marasma che nel IV secolo seguì al Concilio di Nicea, descritto da san Basilio, all’epoca, come “una battaglia navale nel buio di una tempesta”.
Nella postfazione che Enrico Maria Radaelli, fedele discepolo di Amerio, pubblica in coda a questa riedizione di “Iota unum”, la situazione attuale è paragonata piuttosto allo scisma d’Occidente, cioè ai quarant’anni tra il XIV e il XV secolo che precedettero il Concilio di Costanza, con la cristianità senza guida e senza una sicura “regola della fede”, divisa tra due o persino tre papi contemporaneamente.
In ogni caso, riedito oggi a distanza di anni, “Iota unum” si conferma libro non solo straordinariamente attuale, ma “costruttivamente cattolico”, in armonia col magistero della Chiesa.
Nella postfazione Radaelli lo mostra in modo inconfutabile.
La conclusione della postfazione è riprodotta più sotto.
Quanto al secondo libro, “Stat veritas”, pubblicato da Amerio nel 1985, esso è in lineare continuità col precedente.
Confronta la dottrina della Tradizione cattolica con le “variazioni” che l’autore ravvisa in due testi del magistero di Giovanni Paolo II: la lettera apostolica “Tertio millennio adveniente” del 10 novembre 1994 e il discorso al Collegium Leoninum di Paderborn del 24 giugno 1996.
Il ritorno in libreria di “Iota unum” e “Stat veritas” rende giustizia sia al loro autore, sia alla censura di fatto che si è abbattuta per lunghi anni su entrambi questi suoi libri capitali.
In Italia, la prima edizione di “Iota unum” fu ristampata tre volte per complessive settemila copie, nonostante le sue quasi settecento pagine impegnative.
Fu poi tradotto in francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco, olandese.
Raggiunse decine di migliaia di lettori in tutto il mondo.
Ma per gli organi cattolici ufficiali e per le autorità della Chiesa era tabù, oltre che naturalmente per gli avversari.
Caso più unico che raro, questo libro fu un “long seller” clandestino.
Continuò a essere richiesto anche quando si esaurì nelle librerie.
La rottura del tabù è recente.
Convegni, commenti, recensioni.
“La Civiltà Cattolica” e “L’Osservatore Romano” si sono anch’essi svegliati.
All’inizio del 2009 una prima ristampa di “Iota unum” è apparsa in Italia per i tipi di “Fede & Cultura”.
Ma questa nuova edizione del libro ad opera di Lindau, assieme a quella di “Stat veritas”, ha in più il valore della cura filologica, da parte del massimo studioso ed erede intellettuale di Amerio, Radaelli.
Le sue due ampie postfazioni sono veri e propri saggi, indispensabili per capire non solo il senso profondo dei due libri, ma anche la loro perdurante attualità.
Lindau, con Radaelli curatore, ha in animo di pubblicare nei prossimi anni l’imponente “opera omnia” di Amerio.
> Grandi ritorni: Romano Amerio e le variazioni della Chiesa cattolica (15.11.2007) > “La Civiltà Cattolica” rompe il silenzio.
Su Romano Amerio
(23.4.2007) > Fine di un tabù: anche Romano Amerio è “un vero cristiano” (6.2.2006) > Un filosofo, un mistico, un teologo suonano l’allarme alla Chiesa (7.2.2005) __________ Su Enrico Maria Radaelli, discepolo di Amerio, e sul suo libro “Ingresso alla bellezza”: > Tutti a vedere il “sacro teatro dei cieli”.
Un teologo fa da guida
(15.2.2008) Qui di seguito ecco un brevissimo assaggio della postfazione a “Iota unum”: le considerazioni finali.
Tutta la Chiesa in uno “iota” di Enrico Maria Radaelli […] La conclusione è che Romano Amerio si rivela essere il pensatore più attuale e vivificante del momento.
Con il garbo teoretico che contraddistinse tutti i suoi scritti, egli offre con “Iota unum” un pensiero molto costruttivamente cattolico, colmando uno spazio filosofico e teologico altrimenti incerto su interrogativi gravi.
Egli individua e indica che nella Chiesa una crisi c’è, ed è crisi che pare anche sovrastarla, ma mostra che non l’ha sovrastata; che pare rovinarla, ma non l’ha rovinata.
Individua poi e indica con chiarezza la causa prima di questa crisi in una variazione antropologica e prima ancora metafisica.
Individua e indica infine gli strumenti logici (iscritti nel Logos) necessari e sufficienti (eroicamente sufficienti, ma sufficienti) per superarla.
E tutto questo Amerio lo fa sviluppando un “modello di continuità” con la Tradizione, di ordinata e perciò perfetta obbedienza al papa, di intima adesione alla regola prossima della fede, che parrebbe chiarire in tutto come va intesa quella “ermeneutica della continuità” richiesta da papa Benedetto XVI nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 per mantenersi sicuri sulla strada della ragione, che è a dire sulla strada della salvezza, ossia sulla strada della Chiesa per perseguire la vita.
Romano Amerio: critico sì, discontinuista mai.
Questo “modello di continuità” tutto ameriano attende solo di essere oggi finalmente riconosciuto, anzi, finalmente apprezzato.
Chissà: magari persino seguìto, per il bene comune (teorico e pratico, filosofico ed etico, dottrinale e liturgico) della Città di Dio, con la semplicità e il coraggio necessari.
Se con l’uso di ambiguità e di contraddizioni si è riusciti a compiere una rivoluzione antropologica verso le più vane fantasie, tanto più si potrà compiere, e con meno sforzo, una più sana rivoluzione antropologica verso la Realtà, giacché è più facile essere semplici che essere complessi.

La resurrezione di Gesù

La risurrezione di Gesù dal sepolcro, la terza notte successiva alla sua morte, non ebbe osservatori diretti e pertanto non è descritta nei Vangeli, i quali riferiscono le testimonianze successive.
I punti essenziali su cui tutti e quattro gli evangelisti concordano sono i seguenti: Maria Maddalena e altre donne si recano al sepolcro, all’alba del quarto giorno, per completare l’imbalsamazione del corpo di Gesù; trovano che la pietra con cui i sommi sacerdoti e i farisei l’avevano fatta sigillare per evitare un eventuale trafugamento del cadavere (vedi Matteo 27,62-66) è stata rimossa e il sepolcro è vuoto; infine, Gesù risorto appare a varie riprese, prima alle donne e successivamente ai discepoli.
Ciascuno di questi punti è stato oggetto di una vastissima iconografia, la quale non ha tuttavia rinunciato a fissare la propria attenzione sul momento fondamentale, quello della risurrezione vera e propria, a causa del suo altissimo contenuto religioso e simbolico.
  Poiché, come abbiamo detto, nessuno dei quattro Vangeli descrive il momento preciso in cui Gesù risorto esce dal sepolcro, riportiamo in forma sintetica le versioni dei quattro Vangeli concernenti la rivelazione dell’avvenuta risurrezione.
  dal Vangelo di Matteo Passato il sabato, al sorgere dell’alba Maria Maddalena e «l’altra Maria» (Maria di Cleofa, madre di Giacomo e di Giuseppe) si recano al sepolcro (28,1).
Vi è «un gran terremoto» e appare un angelo dall’aspetto «come la folgore» che fa rotolare via la pietra.
Nel vederlo, la guardie, sconvolte, diventano «come morte» (28,2-4).
L’angelo annuncia alle donne: «So che cercate Gesù crocifisso; non è qui: è risorto», e le invita a comunicare la notizia ai discepoli (28,5-7).
Mentre le donne si recano dai discepoli, Gesù appare loro dicendo «Rallegratevi!» (28,8-10).
  dal Vangelo di Marco Trascorso il sabato, allo spuntar del sole Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Maria di Salome si recano al sepolcro per imbalsamare Gesù (16,1-2).
Trovano che la pietra è rotolata via e all’interno vi è un giovane «rivestito di una veste bianca» che annuncia loro la risurrezione di Gesù, invitandole a comunicarlo ai discepoli e «specialmente a Pietro».
Le donne però, prese dalla paura, «non dissero nulla a nessuno» (16,3-8).
Gesù risorto appare allora a Maria Maddalena, a due discepoli e infine a tutti gli Undici (16,9-14).
  dal Vangelo di Luca Il primo giorno della settimana, di buon mattino, Maria di Magdala (Maddalena), Giovanna (moglie di Chuza, amministratore di Erode, discepola di Gesù), Maria di Giacomo e altre donne si recano al sepolcro «portando gli aromi che avevano preparato» (24,1).
Trovano che la pietra è stata rimossa e il sepolcro è vuoto.
Appaiono due uomini «con vesti splendenti» che annunciano loro la resurrezione di Gesù (24,2-8).
Le donne riferiscono la notizia agli Undici, che però si mostrano increduli.
Pietro corre al sepolcro per verificare di persona, ma trova solo le bende che avvolgevano il corpo di Gesù (24,9-12).
  dal Vangelo di Giovanni Mentre è ancora buio, il primo giorno della settimana Maria Maddalena si reca al sepolcro e vede che la pietra è stata rimossa (20,1).
Va subito ad avvisare Pietro e «l’altro discepolo che Gesù amava» (lo stesso Giovanni evangelista), i quali corrono al sepolcro ove rinvengono le bende e il sudario, quindi ritornano a casa (20,2-10).
Maria invece rimane al sepolcro ove le appaiono due angeli e subito dopo lo stesso Gesù (episodio del «Noli me tangere» (20,11-17).

XV Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Hanno annunciato “Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza”.
(At 4,29) Hanno annunciato che un sapone fa primavera, hanno proclamato che un tipo di benzina t’assicura il coraggio e formidabile potenza.
Hanno gridato per le piazze e sui tetti le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.
Ma hanno taciuto il Verbo e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola: la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.
Hanno annunciato che la pace è fatta di tante uova di cioccolata, e della tredicesima, e di molte banconote, di frigoriferi colmi d’ogni bene, e di appartamenti in città con bagni di maiolica.
Ma la violenza è esplosa per le strade e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti che celano nella coda mitra e bombe molotov.
O uomini e donne del nostro tempo, noi manchiamo di vero annuncio, perché manchiamo di conoscenza contemplativa.
Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio perché abbiamo smarrito il silenzio, anzi ne abbiamo paura.
E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti a colpi di radioline e transistor.
Ma invano noi edifichiamo la città se non è il Signore a costruirla con noi.
Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia invano attendiamo la pace da noi e dai nostri fratelli.
(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).
Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca.
Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo.
Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi.
Ne manda dunque due.
«Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9).
Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà.
Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti.
[…] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi.
In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero.
[…] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13).
Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio.
Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14).
Così l’olio serve a confortare nella sofferenza.
Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.
(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).
Il mio sì Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato.
Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato.
Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome.
Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro.
Io ho la mia missione.
In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo.
Egli non ha creato me inutilmente.
Io farò del bene, farò il suo lavoro.
Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.
(John Henry Newman).
Portatrici dell’amore di Cristo Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.
Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche co-operatrici di Cristo, le portatrici del suo amore.
Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo.
Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace.
Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed.
San Paolo).
Una Chiesa missionaria «Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si apre al desiderio di con-dividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46).
«La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).
Preghiera Signore Gesù Cristo, parola del Padre a te ci rivolgiamo.
Custodisci i nostri propositi, ravviva il nostro servizio ecclesiale, sorreggi le nostre fatiche, guida i nostri passi nella ricerca delle vie più adatte per annunciare il tuo vangelo.
La nostra povertà è grande, noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te: incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.
Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo, vivi e regni in noi nella tua Chiesa, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
(Paolo VI).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Amos 7,12-15 In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».
Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un man-driano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge.
Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».
Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere.
Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena con-sapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.
Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.
vv.
12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa.
Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.
Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi.
Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svol-ge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese.
Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa.
Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vive-re; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.
vv.
14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica.
Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina.
Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.
È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf.
Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.
Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v.
14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini.
Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame.
Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.
Seconda lettura: Efesini 1,3-14 Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosid-dette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.
Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera.
È una benedizione, secondo la prassi litur-gica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.
Il v.
3 – la formula di benedizione — è introduttivo.
Il verbo benedire (euloghein) è ripetu-to due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio).
Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.
La prima parte – vv.
4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio: 1.
l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv.
4-6a) 2.
la grazia della redenzione (vv.
6b-7) 3.
la conoscenza del piano salvifico (vv.
8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio.
Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvez-za, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia.
«Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.
La seconda parte – vv.
11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi: 1.
il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv.
11-12).
2.
il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appro-priazione della salvezza (v.
13).
3.
il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti.
Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v.
14).
È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifi-ca di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.
Vangelo: Marco 6,7-13 In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri.
E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì.
Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascol-tassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Esegesi La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù.
Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplica-zione dei pani (cap.
6).
Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.
Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v.
12 si limita a un generico invito alla conversione.
L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.
v.
7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco.
Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf.
i discepoli del Battista e Paolo).
Il «potere sugli spiriti im-mondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorci-smo (9,18).
vv.
8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi.
Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.
Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fidu-cia in Dio.
Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quoti-diane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.
vv.
10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione.
Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele.
Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di acco-gliere il messaggio evangelico.
L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambia-mento del cuore, della mentalità: una conversione.
Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».
vv.
12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco.
Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i mala-ti, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.
Meditazione Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci nar-ra l’invio dei Dodici in missione.
La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e in-tensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evan-gelizzazione.
Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.
In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14).
Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi.
Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione.
«E prese (lett.
cominciò) a mandarli…» (v.
7).
Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici.
È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione sa-ranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v.
30).
Quando chiama (al v.
7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr.
3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per.
Così che la missione fa intrinsecamente parte della voca-zione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione.
Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio.
E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale.
Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15).
Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…
Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due».
Certa-mente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr.
At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr.
Dt 19,15).
Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare.
Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo.
Per questo è impor-tante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzi-tutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama.
Due persone formano già una piccola comunità (cfr.
Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco.
Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12).
E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…
Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come de-vono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un de-terminato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé.
I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male.
Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indi-spensabile.
Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, co-munque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore).
In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.
Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’.
Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quoti-diana della vita.
La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture.
«Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.
Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza.
«Se in qual-che luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero.
» (v.
11).
Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottoli-neato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione.
Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio.
Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato.
Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.

Apokàlypsis

L’Apocalisse è arrivata in ritardo a Spoleto, preceduta da un temporale che si sarebbe detto appunto superficialmente apocalittico se monsignor Gianfranco Ravasi non avesse spiegato dal palco del 52° Festival dei due mondi – diretto da Giorgio Ferrara con la consulenza di Ernesto Galli della Loggia, Alessandra Ferri e Alessio Vlad – che l’aggettivo non rende del tutto giustizia al testo di Giovanni.
Quello che ha cercato di fare Marcello Panni nella sua moderna sacra rappresentazione Apokàlypsis – eseguita la sera di venerdì 10 in piazza Duomo con lo stesso compositore sul podio – è stato proprio ricalcare il percorso di un libro biblico del quale spesso viene esaltata la parte più severa a scapito del resto.
La chiave del lavoro sembra potersi ritrovare principalmente nelle scelte timbriche.
La banda dell’Esercito italiano, a suo agio anche in un repertorio non consueto, è utilizzata come un gigantesco organo a canne, al quale si aggiunge il commento di quattro percussionisti, chiamati anche ad azionare a vista quattro meccanismi teatrali che riproducono i rumori naturali.
Le due voci recitanti si dividono il testo nella versione italiana, da una parte il visionario Giovanni, affidato all’austero Andrea Giordana, dall’altra la Sposa Celeste che sconfigge Satana e descrive la discesa della Gerusalemme Celeste, una Sonia Bergamasco lievemente sopra le righe.
Gli attori si alternano tra loro entrando anche in rapporto con le voci bianche del Piccolo coro romano, al quale sono risevati i momenti più eterei, e con il Coro da camera Goffredo Petrassi, preparato da Stefano Cucci, che, per fedeltà al testo originario, è diviso in 24 anziani e quattro esseri viventi.
L’attenzione alla componente numerologica appare costante, tanto che il compositore l’ha esplicitata anche nella scelta dell’organico strumentale, utilizzando in tutto 49 elementi (45 fiati e quattro percussionisti): evidente il richiamo al numero sette, evocato dal suo quadrato.
Una elaborazione asciutta e funzionale quella di Panni, che restituisce il testo con grande chiarezza e lancia un richiamo a una sacralità primitiva anche attraverso l’uso di strumenti legati al folklore, come la zampogna che simboleggia l’apparizione dell’Agnello, o il corno naturale di bue che evoca le trombe del giudizio.
Seppure con qualche scollatura nell’alternanza tra ensemble strumentale e parti vocali l’esecuzione ha evidenziato l’arco globale di una forma che, ricollegandosi strettamente al testo, trova nell’esaltazione finale della speranza un momento necessario di approdo.
(marcello filotei) (©L’Osservatore Romano – 12 luglio 2009)