Unità 3 Sperimentatori

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La conoscenza è sempre un avvenimento

«La conoscenza è sempre un avvenimento»: questo il tema che darà il titolo alla trentesima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli.
Lungi dal voler proporre un inaccessibile discorso per addetti ai lavori, parleremo innanzitutto dell’uomo e del suo rapporto con il mondo.
In un clima generale di preoccupante incertezza e diffusa sfiducia verso il futuro, avvertiamo l’urgenza di riporre al centro del dibattito la dinamica attraverso cui l’uomo conosce il reale.
Per fare questo occorre capire se la conoscenza sia riducibile ad un’interpretazione arbitraria, ad una “costruzione” del soggetto, se debba essere intesa nell’esclusivo senso della – presunta “obbiettiva” – conoscenza scientifica, oppure se essa non sia piuttosto «un incontro tra una energia umana e una presenza» e dunque sempre un avvenimento, che accade in modalità e figure diverse tra loro e comporta costitutivamente un elemento irriducibile di alterità.
Alain Finkielkraut afferma: «Un avvenimento è qualcosa che irrompe dall’esterno.
Un qualcosa di imprevisto.
È questo il metodo supremo della conoscenza.
Bisogna ridare all’avvenimento la sua dimensione ontologica di nuovo inizio.
È un’irruzione del nuovo che rompe gli ingranaggi, che mette in moto un processo».
Alla base di ogni percorso di conoscenza, anche o soprattutto scientifica, vi è l’imbattersi in qualcosa di nuovo, che prima non era entrato nel raggio dell’esperienza o semplicemente non veniva considerato.
Ciò fa sì che la conoscenza sia sempre in movimento e quindi sempre perfettibile.
Ma il nuovo che irrompe e innesca o rilancia la dinamica del conoscere non è solo qualcosa, è anche – e necessariamente – qualcuno: è ciò che chiamiamo testimone.
Senza la mediazione di testimoni non vi sarebbe sviluppo della conoscenza e non vi sarebbero civiltà e cultura, non vi sarebbe storia.
Più radicalmente: è la testimonianza dell’altro, quando si tratta di un’umanità diversa, pienamente corrispondente alle attese costitutive dell’uomo, che rende evidente, “conoscibile”, il senso del vivere.
Ragione e affettività sono profondamente unite nella dinamica della conoscenza: senza affezione, cioè senza un moto di adesione sincera e interessata verso il reale, la ragione non può conoscere.
Come afferma Jean-Luc Marion, «l’amore è una parte centrale della razionalità».
Gli appuntamenti del Meeting saranno l’occasione per incontrare testimoni per i quali la vita continua ad essere l’avventura di una conoscenza sempre nuova proprio perchè avvenimento.
http://www.meetingrimini.org/

Cultura e Religione: Unità 4

Schema   Per introdurci   1.
L’esperienza di riferimento               Elaborazione                 – Integrazioni degli autori       – Integrazioni dei collaboratori OF: Lo studente viene introdotto alla comprensione del come e del perché è nata la Bibbia ebraica e cristiana.      2.
L’interpretazione               Elaborazione             La Bibbia ebraico cristiana             Dalla vita al libro             Gli eventi fondanti             La formazione della Bibbia             La composizione della Bibbia dell’A.T.     – Integrazioni degli autori   – Integrazioni dei collaboratori     3.
Per un bilancio                   Elaborazione                                        – Integrazioni degli autori   – Integrazioni dei collaboratori     4.
Inserisci un tuo commento Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Per la consultazione dell’intera Unità            UdA 4          

Unità 4 Sperimentatori

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numeri e fede

articolo  «Come fece Pascal anche il matematico valuta i pro e i contro e arriva a credere per ‘convenienza’».
Parla Marco Andreatta.
«Con Ennio De Giorgi penso che il mistero sia più una condizione necessaria che un ostacolo alla verità della religione.
Chi crede accetta con facilità l’etica scientifica».
«È di pochi giorni la noti­zia che un giovane, laureato in fisica nella mia facoltà, è stato ordinato dia­cono dal vescovo di Trento.
Sono molti i colleghi e amici che, scien­ziati (anzi soprattutto matematici) di professione, hanno,come me, una fede.
Anche se – ovviamente – non per tutti è una fede cristiana».
Marco Andreatta, è professore or­dinario di geometria, e preside della Facoltà di Scienze all’ateneo tridentino.
Per lui, matematica e fede sono due aspetti del pensiero umano che operano in ambiti so­stanzialmente separati ma che al­le volte si intersecano con conse­guenze molto interessanti.
L’intervista  Intervista al Professor Marco Andreatta, Che cosa hanno in comune? «Il matematico è forse il ragiona­tore razionale per antonomasia; da Galileo in poi, di ogni nuova teoria si dice che è scientifica se si basa sulla matematica e sui suoi procedimenti logico-deduttivi.
Ma questo non impedisce a un matematico né, ad esempio, di in­namorarsi (attività non sempre ‘razionale’) né di provare senti­menti di solidarietà, passioni poli­tiche, nè di credere in una religio­ne e nei suoi dogmi di fede.
E, d’altro canto, come una donna può innamorarsi di un matemati­co, per il suo ‘sapere’, il suo mo­do di fare e di pensare, così la fede può entrare nell’ animo del mate­matico ».
Alcuni matematici, nel corso del­la storia, per spiegare il loro esse­re uomini di fede, hanno addotto argomentazioni provenienti dalla loro esperienza di scienziati.
«Personalmente non mi ha mai entusiasmato la prova ontologica di Anselmo (che un matematico come Cartesio sintetizza affer­mando che ‘l’esistenza di Dio è compresa nella sua essenza’ e che il logico-matematico Kurt Gödel ha formalizzato nel secolo scorso).
Mi ha sempre colpito inve­ce l’argomento di Pascal, riconducibile a quella che oggi si definisce ‘teoria dei giochi’: dopo un’accurata analisi dei pro e dei con­tro, il filosofo-matematico francese (inventore del calcolo delle probabilità) sostiene che la scelta di credere in Dio e in una vita eterna sia più ’conveniente’.
Non ho mai dato troppo peso all’aspet­to utilitaristico, ma ho sempre pensato che sotto questo ragiona­mento razionale ci fosse la spe­ranza che la fatica terrena avrà, per i più sfortunati e per gli ultimi, un senso superiore».
Per alcuni, accettare il mistero è la via migliore per arrivare a un approdo.
«Tra i tanti punti di vista, il mio preferito è sicuramente quello del matematico italiano Ennio De Giorgi, così espresso in un impor­tante intervento sull’Osservatore Romano del 18 novembre 1978: ‘operando come matematico mi sono forzato ad ammettere che: non solo le cose che esistono sono, come è ovvio, più di quelle che conosco, ma per poter parlare del­le cose conosciute sono costretto a fare riferimento a cose scono­sciute ed umanamente inconosci­bili; …perciò il fatto che la religio­ne preveda il mistero appare (al matematico) più come condizio­ne necessaria per la sua credibilità che non come ostacolo all’accet­tarla’.
Ma attenzione, ammonisce più avanti De Giorgi, ‘Dio non può essere ridotto al primo ente autocomprensivo’.
Abbiamo allo­ra la sensazione di non poter ap­plicare categorie puramente logi­che (pensiamo all’umiltà di ascol­to, al ‘beati i puri di cuore’…)».
Nella sua vita c’è un evento che l’ha spinto a credere? «Ho un ricordo personale, forse semplice, ma per me di intenso si­gnificato: a sette anni frequentavo la catechesi per la prima comunione, insegnata da un giovane e brillante sacerdote, don Giampao­lo.
Disegnò sulla lavagna non il so­lito triangolo con l’occhio al cen­tro ma un magnifico cerchio e dis­se: così come capite che il cerchio non ha un punto di inizio e uno di fine, così potete anche capire che Dio è tutto, è inizio e fine al tempo stesso.
Ho sempre pensato che questa lezione sia tra le cose che mi hanno spinto da grande ad oc­cuparmi di quella parte della ma­tematica che è la geometria».
Qui abbiamo il caso della fede che spinge verso la matematica.
«Penso che anche in questo caso De Giorgi avesse ragione quando affermava ‘che è più facile per chi crede accettare il principio fonda­mentale dell’etica scientifica, cioè la ricerca appassionata della ve­rità’, e quindi accettare muta­menti culturali in questa direzio­ne.
Con l’attenzione a tenere ben chiari i vincoli del ragionamento scientifico, perché, citando Gali­leo, ‘non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi co­me ogni effetto di natura’.
Lo scienziato ha obblighi-vincoli ri­gorosi nel ragionare: gli derivano dal comportamento della natura dal quale non può prescindere; la mela cade dall’albero, non vola in alto.
Richard.
Feynman, illustre fi­sico teorico, diceva che una cosa è pensare e discutere di un angelo custode, che ognuno può immagi­nare un po’ come vuole; altra cosa è pensare ad esempio al campo e­lettrico, che è soggetto a talmente tante specifiche…».
Oggi si può ancora dire che la matematica è l’anima delle scien­ze e che da essa dipende in gran parte il futuro dell’umanità? «Certo.
Si pensi ad esempio alla possibilità di controllare gli eventi provocati dai cambiamenti clima­tici e ai sofisticati modelli mate­matici necessari per questo, la matematica delle singolarità e del caos.
Proprio la centralità del futu­ro dell’uomo come argomento di fondo della ricerca matematica dovrebbe portare il credente a in­teressarsi della matematica, per­ché questa disciplina fornisce buona parte delle regole interne a tutta la ricerca scientifica.
Indub­biamente il vorticoso sviluppo tecnologico, più che la scienza stessa, ha in questi anni fatto na­scere un’enorme quantità di que­stioni.
Nel mio campo basti pen­sare ai formidabili e irrisolti pro­blemi legati alla complessità ma­tematica intrinseca nelle nuove tecnologie: dalla biologia alla rete mondiale dell’informazione, tutti oggi chiedono alla matematica paradigmi e strumenti concettuali nuovi ed efficienti per poter gesti­re, condividere e sviluppare le nuove scoperte.
Anche per questo la matematica odierna è una scienza ricchissima di nuovi svi­luppi e molti pensano che i pros­simi anni saranno prodigiosi in questo campo.
Problemi in ambiti diversi vengono posti all’umanità dalle nuove tecnologie: sono quel­li riguardanti la libertà e la respon­sabilità: questioni inedite, che an­che la Chiesa, con ragione, solle­va, e sulle quali è possibile e au­spicabile un dialogo aperto e co­struttivo, dato che, citiamo ancora Galileo, ’due verità non possono mai contrariarsi’.
Spero che la fede possa condividere con la scienza la fiducia nelle capacità razionali dell’uomo sulle quali, in buona parte, si fondano le nostre speran­ze di pace e di progresso».
Luigi Dell’Aglio Versione stampabile   Inserisci un tuo commento ·         Se desideri lasciare un commento, devi effettuare il Login ·         Se non sei ancora registrato clicca qui      Immagini collegate: 1/1

complementarità

Complementarità fra ricerca teologica e antropologica.
  La scuola in Italia prende naturalmente sul serio il fatto che gli studenti appartengono per lo più alla tradizione cattolica e molti di loro vivono la fede.
Riteniamo che proprio per loro sia importante la verifica e l’approfondimento che consente il riferimento alle acquisizione della ricerca religiosa richiamata che del resto offrono apporti singolarmente significativi al processo di apprendimento.
Si tratta inoltre di elaborare una corretta composizione fra i contributi delle scienze teologiche e quelli delle scienze della religione; anche per risvegliare la pedagogica cristiana odierna, e renderla consapevole della ricchezza incomparabile della propria tradizione, come d’altra parte farla avvertita dell’apporto irrinunciabile delle moderne ricerche attorno al dato religioso.
In un quadro di sintesi si può sottolineare la doppia traccia; la loro possibile, e in ambito educativo cristiano, indispensabile convergenza.
La religione  come fondamentale esperienza umana viene studiata  da scienze molteplici e complementari: – le scienze della religione che ne indagano le diverse manifestazioni privilegiano l’analisi   dell’esperienza umana nella sua dimensione religiosa.                                                      – la teologia  si avvale di una rivelazione esplicita – rivelazione biblica -; sulla base del testo biblico,   analizzato con consapevolezza credente, tende ad una comprensione razionalmente rigorosa di   quanto Dio stesso ha manifestato.
Comportano due percorsi con obiettivi e metodi diversi: tuttavia relazionati e complementari.
Il fervore delle ricerche in ambito strettamente razionale e fenomenologico ha spianato il campo ad una considerazione della religione a prescindere dal dato rivelato.
A livello educativo ha elaborato una gamma di suggestioni inedite che consentono di dare al fenomeno religioso un’interpretazione singolarmente preziosa e in tanta parte inedita.
Le annotazioni che proponiamo si portano precisamente sulla ricerca razionale: soprattutto valorizzano le indicazioni che sono pervenute dalla riflessione fenomenologica ed esistenziale.
Naturalmente resta importante il dato rivelato e la sua elaborazione teologica.
Tuttavia nell’ambito dell’educazione scolastica il confronto interdisciplinare si avvantaggia nella considerazione dell’orizzonte esplorativo comune.
Un grafico può evidenziare il doppio percorso che la ricerca religiosa può perseguire.
I richiami che proponiamo si pongono sul versante dell’uomo, del suo presagio, della sua preoccupazione interpretativa.
    

Le più belle vacanze del cinefilo

Tempo di vacanze, finalmente.
Tempo di mare e di giornate all’aria aperta.
Ma, anziché continuare a godere egoisticamente di cotanto idillio, immaginiamo, per qualche minuto, di trovarci nei panni dell’unico personaggio che al contrario non può che risentire, alla lunga, d’una tale riconciliazione bucolica – il cinefilo incallito – e di seguirlo nel filo un po’ frustrato dei suoi pensieri.
Sono il cinefilo modello.
L’astinenza da quel minimo di tecnologia che mi consente di dedicarmi alla mia passione, mi spinge ad arrovellarmi – anche qui, sotto l’ombrellone – attorno a un crogiolo di titoli e di nomi famosi.
Finché non mi passa per la testa che, per assomigliare un pochino di più agli altri villeggianti, ed evitare quindi di destare in loro preoccupazione, potrei trasformare il mio rovello in un passatempo.
Sì, insomma, in una specie di sudoku del grande schermo.
Scopo del mio giochino sarà allora trovare dieci film che parlano di vacanze.
Non è così facile come sembra, soprattutto se decido di prendere in considerazione soltanto grandi film.
Niente “cine-ombrelloni”, insomma, come li chiamano adesso.
Eh sì, perché se non si contano nemmeno i film che parlano di viaggi – soprattutto nell’ambito del cinema americano, essendo il concetto stesso di viaggio una fondamentale matrice storica e culturale degli Stati Uniti – non è così scontato trovare film importanti che abbiano come tema centrale proprio le vacanze.
L’unica regola sarà la semplice associazione di idee.
Il primo film che mi viene in mente, quindi, non può che contenere le vacanze già nel titolo:  più che Roman Holiday (“Vacanze romane”, 1953) lontano dal meritarsi di entrare nella mia top ten malgrado una Audrey Hepburn indimenticabile, direi Les vacances de M.
Hulot di Jacques Tati (1953); il grande comico francese nei panni del suo alter ego preferito trova nelle spiaggie assolate e nelle pensioncine affollate terreno fertile per aggiungere un fondamentale tassello alla sua commedia umana, riempiendo come al solito lo schermo di dettagli esilaranti e spesso quasi impercettibili, in una sfida lanciata allo sguardo dello spettatore che ricorda proprio i giochi enigmistici da fare sotto l’ombrellone.
Sempre nell’ambito del cinema francese mi sovviene lo splendido Une partie de campagne (“Una gita in campagna”, 1946) di Jean Renoir, cronaca agrodolce di una giornata all’aria aperta che la giovane protagonista, anni dopo, si ritroverà a dover rimpiangere; sulla tela di un montaggio libero di seguire gli stati d’animo dei personaggi, Renoir confeziona uno dei suoi film visivamente più belli e anarchici, probabilmente con un occhio alla sensibilità impressionista di suo padre Pierre-Auguste.
Scorrendo la lista degli altri grandi nomi del cinema d’autore, faccio fatica a trovare un omologo, finché non approdo al primo film che sarebbe dovuto venirmi in mente:  Tokyo monogatari (“Viaggio a Tokyo”, 1953) di Yasujiro Ozu; il maestro giapponese affronta ancora una volta il suo tema prediletto, le dolorose distanze generazionali, con la storia di una coppia di anziani coniugi che vanno a passare qualche giorno dai loro figli in città, salvo ricevere da questi una fredda accoglienza.
L’associazione stavolta è semplice:  anche se pochi lo sanno, infatti, il film di Ozu è quasi un remake di una pellicola americana ormai completamente dimenticata:  Make way for tomorrow (“Cupo tramonto”, 1937) di Leo McCarey, un regista specializzato in trame che si sviluppano sul delicato crinale fra dramma e commedia, e che qui dà il meglio di sé con una storia tanto commovente quanto lungi da ogni tentazione ricattatoria:  una coppia avanti con gli anni, costretta per motivi economici a lasciare la propria casa, si ritrova a passare un giorno a New York, e a rivivere i luoghi e i momenti della propria giovinezza come in un secondo viaggio di nozze.
Un giorno a New York…
è una frase che mi dice qualcosa:  sì, certo, l’omonimo titolo del film d’esordio di Stanley Donen (On the Town, 1949), l’opera con cui il regista rivoluzionò il musical portandolo sulle strade, per di più in esterni reali, attraverso la cronaca d’una giornata di libera uscita di tre marinai.
Non un capolavoro assoluto, ma comunque un film che ha fatto la storia del cinema.
E siamo già a metà strada.
Ma le vacanze come momento di bilancio della propria vita, e come occasione, spesso mancata, di riallacciare rapporti familiari, in fondo è anche alla base di un film apparentemente più scanzonato – almeno fino all’epilogo – come Il sorpasso di Dino Risi (1962); raro esempio di vicenda on the road italiana all’ombra del boom economico e di un’euforia collettiva spesso superficiale.
Sempre nell’Italia di quegli anni si svolge un altro film per il resto diversissimo:  L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960); l’ennesimo giallo decostruito del regista dell’incomunicabilità, in cui il mistero circa la scomparsa di una donna durante una vacanza fa da contrappunto al disorientamento esistenziale dei due protagonisti superstiti.
Anche in un bellissimo quanto misconosciuto film americano, Husbands di John Cassavetes (“Mariti”, 1970) , la vicenda si innesca con la scomparsa di un amico, sviluppandosi poi fra viaggi, ricordi, bevute e rimpianti, il tutto sorretto dalla recitazione come al solito semimprovvisata imposta dal regista-attore.
(©L’Osservatore Romano – 31 luglio 2009) La mia memoria comincia a pescare sempre più disordinatamente; sto quasi per gettare la spugna, quando comincio a riflettere sul fatto che i film che parlano di vacanze in fondo sono anche quelli in cui il protagonista rimane in città mentre gli altri vanno a divertirsi.  Dopo questa illuminante constatazione, mi viene subito in mente The Seven Year Itch (“Quando la moglie è in vacanza”, 1955); forse non il miglior Billy Wilder, però.
Allora opto per un film che a pensarci bene ha quasi lo stesso soggetto, anche se declinato nei toni cupi e angosciosi del noir anni quaranta:  The Woman in the Window (“La donna del ritratto, 1944) firmato da Fritz Lang durante la sua lunghissima trasferta hollywoodiana; lasciato solo da moglie e figli, un uomo viene tentato da una donna misteriosa.
Ma i suoi sogni di rispolverare la giovinezza perduta si trasformeranno presto in un incubo:  ancora una volta il maestro tedesco affronta il tema della doppiezza dell’individuo, tema caro ai suoi trascorsi espressionisti.
E siamo a nove.
A un solo passo dalla vittoria, quindi, ripenso mentalmente alla mia lista di film.
Mi accorgo di aver inserito soltanto titoli che risalgono a molti anni fa.
Sì, d’accordo, probabilmente il cinema non è più quello di una volta.
Tuttavia vorrei terminare con un messaggio di speranza, inserendo anche un titolo molto più recente, magari pure italiano.
E allora, rimanendo sul tema delle vacanze vissute da chi rimane a casa, penso a un piccolo film dello scorso anno, lontano di certo dal poter reggere il confronto con quelli citati finora, ma che in quanto a sincerità e poesia non ha nulla da invidiargli:  Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio (2008), esordiente alla regia dopo una lunga carriera nelle retrovie del nostro cinema, e anche protagonista assieme a uno stuolo di memorabili vecchine ansiose di compagnia.

Vacanze Romane

Per amore si può anche rinunciare a uno scoop giornalistico.
E se il cuore batte per la principessa Audrey Hepburn – simbolo di grazia, classe e femminilità – si può ben capire quanto sia dolorosa la successiva, forzata rinuncia a questo amore, sacrificato all’altare della ragion di Stato.
Gregory Peck, nei panni del reporter statunitense Joe Bradley, incarna in Roman Holiday il dramma di un amore impossibile a causa della differenza di ceto.
Del film, diretto da William Wyler nel 1953, e vincitore di tre Oscar (Hepburn quale miglior attrice, soggetto, costumi bianco e nero), generalmente si ricordano solo le scene più leggere e spensierate, come per esempio la mano dei due protagonisti nella Bocca della Verità, il radicale taglio di capelli della principessa Anna durante il suo allegro vagabondare – anche a bordo di una Vespa – per le vie di una Roma popolare e sorridente.
Ma c’è molto di più, e di più profondo nel film, comunicato con tocco leggiadro.
Vacanze Romane fa parte di quella ristretta élite di pellicole che, riviste più volte, si apprezzano ancora meglio, perché – parafrasando Italo Calvino a proposito dei capolavori letterari – non finiscono mai di dire quello che hanno da dire.
E più si rivede Vacanze Romane più ci si accorge di dettagli e sfumature che, a una prima pur attenta visione, potrebbero sfuggire.
Girato in un periodo in cui si stavano sempre più affermando pellicole sentimentali molto “parlate”, quello tra Audrey Hepburn e Gregory Peck è un amore fatto soprattutto di sguardi, di silenzi, di frasi solo accennate, ma quanto mai eloquenti.
Una lezione di cinema sempre valida dunque, considerando la mai domata tensione, nel mondo della celluloide, alla verbosità e al didascalico, alla quale, in questo film, si sottraggono anche le figure dei coprotagonisti, delineate con sapiente misura.
Dal film di Wyler si trae poi una lezione di discrezione.
Difficile infatti immaginare un rapporto più casto tra i due protagonisti: eppure che intensità e che ardore in quegli abbracci, a indicare un sentimento che nasce e a sancire l’addio a questo amore.
La fuga dalla realtà della principessa Anna, insofferente delle pastoie del protocollo, è destinata a fallire sin dall’inizio; come pure non ha scampo il sogno del giornalista americano di strappare, dal suo mondo, una testa coronata.
Lungo il solco di questo incolmabile divario si dipana il film, che sa unire sorriso e lacrima, spensieratezza e amara riflessione sui capricci della sorte.
Ai dignitari che le fanno notare che, con la fuga, era venuta meno ai suoi doveri, la principessa risponde, con esemplare fermezza, che se fosse stato veramente così, non sarebbe più tornata – “né ora, né mai” – al ruolo che il destino le aveva riservato.
E quando alla fine del film – durante l’incontro con la stampa estera – Anna capisce, tutto in un attimo, la nobile verità sul giornalista da lei amato, la sensazione è che questo colpo di scena già pone il film nel novero dei capolavori.
E la sensazione diventa certezza quando, dopo aver visto per l’ultima volta la principessa, il giornalista, tornando sui suoi passi, soffoca il suo grande amore in un tormentato singhiozzo: il gozzo di Gregory Peck, che impercettibilmente, ma quanto mai significativamente, va, per una frazione di secondo, su e giù, è tra le scene più semplici e rivelatrici della storia del cinema.
(©L’Osservatore Romano – 31 luglio 2009)