Women Without Men

Women Without Men Titolo originale: Zanan-e Bedun-e Mardan Nazione: Germania Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 95′ Regia: Shirin Neshat Sito ufficiale: www.bimfilm.com Cast: Pegah Feridon, Shabnam Tolouei, Orsi Tóth, Arita Shahrzad Produzione: Essential Filmproduktion Distribuzione: BimDistribuzione Data di uscita: Venezia 2009 DOMANDE & RISPOSTE “Women Without a Men”, la parola a Shirin Neshat L’artista iraniana esprime tutta la necessità di libertà e democrazia, tuttora assenti nel suo Paese, attraverso il suo primo film, presentato in concorso a Venezia 66.
Come è riuscita ad adattare un romanzo così complesso e delicato come “Women Without a Men”, scritto da Shahrnush Parsipur? Stiamo parlando di una figura di spicco della letteratura iraniana, che è stata costretta ad anni di carcere per le sue idee e che attualmente vive in esilio.
Appena uscito, il suo libro è stato bandito, e per me è un grande privilegio aver potuto rapportarmi alle sue pagine.
Leggo i suoi libri da quando sono piccola e ne sono sempre rimasta affascinata anche per il suo singolare stile visionario, che ho sempre pensato potesse adattarsi ad immagini di grande impatto.
Libertà e democrazia sono gli elementi portanti di una storia che si basa sulla forza delle tre protagoniste… Sono i temi centrali del film, ma anche della mia stessa vita.
Purtroppo si tratta di elementi assenti nella società iraniana di oggi.
Ne ho voluto parlare, a prescindere dalla contestualizzazione storica, che però dimostra come, in tanti anni, non si sia fatto alcun passo avanti da questo punto di vista.
I tre personaggi femminili del film provengono da classi sociali completamente diverse, ma sono tutte unite dagli stessi ideali di libertà e democrazia, appunto.
Anzi, la violenza sulle donne che lei racconta è estremamente attuale… Purtroppo, sì.
Sembra incredibile quanti elementi in comune ci siano tra le manifestazioni di protesta e gli scontri che racconto nel film e quelle avvenute pochi mesi fa nel nostro Paese.
La gente è cambiata in questi ultimi cinquant’anni, così come le ideologie, ma la lotta No.
Io ho voluto dare un chiaro messaggio: nessuno si deve arrendere anche se la vittoria sembra lontana, perché prima o poi arriverà.
Perché ha voluto a lavorare con lei il compositore musicale Ryuichi Sakamoto? Ho incontrato il maestro Sakamoto a New York e gli ho chiesto di lavorare alla partitura musicale del mio film perché volevo che gli conferisse un respiro internazionale come aveva già fatto in passato per grandi autori come Bertolucci.
Ero convinta che l’incontro della sua cultura con quella iraniana avrebbe dato dei risultati sorprendenti.
Così è stato.
A quale Cinema fa riferimento la sua espressione artistica? Ho amato molto il film “Persepolis” e la regista è una mia amica anche se il suo approccio autobiografico è differente rispetto al mio.
Ognuna delle mie tre protagoniste porta con sé una parte di me e dei miei dilemmi, come accade anche nel romanzo dove i tre personaggi principali sono il frutto dei desideri della signora Parsipur.
Perché, da artista affermata in un altro campo, ha sentito la necessità di fare Cinema? Per mettermi alla prova e verificare se le mie capacità espressive hanno valore anche in un campo differente.
Inoltre, il Cinema mi concede molte più potenzialità espressive di qualsiasi altra arte visiva, perché è la più completa.
».
La mezzaluna di miele, il sigheh.
L’Iran naviga tra crisi nucleare e minacce di sanzioni economiche, crisi interne e internazionali.
Eppure sulle prime pagine dei giornali di recente ha tenuto banco l’hojatoleslam Mostafa Pour Mohammadi, ministro dell’interno, quando ha dichiarato che il matrimonio temporaneo è la miglior soluzione per ridurre i problemi sociali.
«L’innalzamento dell’età del matrimonio ha creato numerosi problemi nella nostra società», ha spiegato il ministro durante un forum sul hejab (il copricapo femminile prescritto dall’islam) a Qom, la città delle maggiori scuole teologiche sciite dell’Iran.
«Può l’Islam restare indifferente verso la passione erotica che dio ha concesso a un ragazzo di 15 anni? Non si può ignorare le esigenze sessuali dei giovani.
Il matrimonio temporaneo è la soluzione».
Non è difficile comprendere perché il ministro si rivolga ai giovani: il 60% dei 70 milioni di iraniani ha meno di 30 anni.
Anche se fa un curioso effetto sentire parole simili, proprio mentre è in corso l’operazione di polizia più severa da anni contro le ragazze che si mostrano in pubblico con abiti «non-islamici», o i ragazzi vestiti in modo «disordinato»…
Il «matrimonio temporaneo» (in farsi sigheh) è una pratica propria dell’islam sciita duodecimano, benché non sia contemplata dal Corano (che anzi sembra escluderlo, ad esempio dove condanna il concubinaggio).
E’ un contratto di matrimonio di cui i contraenti definiscono la durata («da un minuto a 99 anni»).
Oggi gran parte dei saggi (mufti) sunniti lo vieta, mentre il clero sciita iraniano lo considera legittimo; afferma che è stato praticato sotto il profeta Maometto prima di essere vietato da Omar, il secondo califfo.
Alcuni citano Moussa Kazem, settimo Imam degli sciiti, che autorizzava il matrimonio temporaneo per celibi o uomini sposati lontani dalle loro spose…
Certo è che il matrimonio temporaneo era praticato in Iran anche prima della Rivoluzione islamica e oggi è previsto dal codice civile: un uomo ha diritto di stipulare fino a quattro matrimoni permanenti simultanei e un numero infinito di matrimoni temporanei successivi.
In un matrimonio temporaneo gli sposi devono accordarsi per non avere figli; se un figlio nasce però avrà tutti i diritti di un bambino nato da un matrimonio permanente, almeno in teoria.
Gli incontri sul web Non esistono statistiche precise sul matrimonio temporaneo oggi.
Non c’è dubbio però che sia diffuso, e l’uso di siti web per trovare partners lo testimonia.
Può capitare di trovare annunci come quello di Mina, 41 anni, rimasta vedova: si dichiara disponibile a un matrimonio temporaneo e invita l’interessato a prendere contatto via e-mail precisando le richieste, la dote (che secondo la sharia è un obbligo dello sposo) e la durata desiderata.
In un altro annuncio Mohsen, un ragazzo di diciotto anni, vorrebbe sperimentare un matrimonio temporaneo, vuole una moglie religiosa ed è pronto a offrirle in dote una moneta d’oro al mese.
Lo spazio virtuale è il luogo migliore per incontrare le offerte; i siti di matrimoni temporanei più frequentati hanno più di 1000 utenti al giorno.
Il discorso del ministro Pour Mohammadi ha scatenato polemiche (secondo il portavoce del governo però parlava «nella sua qualità di chierico ed esperto religioso, ma la questione non interessa l’esecutivo»).
Resta da chiedersi cosa significhi il matrimonio temporaneo nella società iraniana oggi, e perché un ministro trovi necessario incoraggiarlo.
Sembra che l’establishment iraniano veda nell’unione «a tempo determinato» un modo per rincorrere una società che cambia.
Il primo leader della repubblica islamica a parlarne pubblicamente in questi termini è stato Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, allora presidente della Repubblica, negli anni ’80: per lui era una soluzione sanzionata dalla sharia per proteggere la società dall’«inquinamento morale».
Riprendeva le argomentazioni dall’ayatollah Mottahari, uno dei «padri» ideologici della Rivoluzione islamica del ’79, defunto discepolo di Khomeini, il quale considerava il matrimonio temporaneo utile per evitare l’adulterio: «Oggi i giovani, maschi e femmine, raramente si sposano in giovane età.
Nei tempi moderni, il divario tra la pubertà naturale e la pubertà sociale non cessa di allargarsi.
Siccome l’istinto sessuale esiste, che fare? Proporre a ragazzi e ragazze di astenersi? Permettere loro di avere relazioni sessuali illegali? Il matrimonio temporaneo è una risposta».
E’ proprio il ragionamento del ministro Pour Mohammadi.
Assume tutt’altro aspetto, il matrimonio temporaneo, se si pensa che nel 1994 il governo aveva pensato di creare delle «Istituzioni di Castità», case dove contrarre un matrimonio temporaneo anche per poche ore: case chiuse con legittimazione islamica? Il progetto è stato archiviato tra le polemiche, ma era andato molto vicino a essere messo in pratica.
Forse mostrava il vero volto del matrimonio temporaneo.
Nella società reale infatti c’è un forte discriminazione culturale e di classe: in quelle medie e istruite il matrimonio temporaneo non esiste.
E’ praticato invece dai ceti più bassi, ultrareligiosi e tradizionalisti: da chi non può permettersi un matrimonio vero per ragioni economiche, ma non oserebbe una relazione libera per convinzioni religiose (o controllo sociale).
A volte poi maschera la prostituzione vera e propria: le formalità del contratto sono minime, tempo e compenso («dote») sono pattuiti in anticipo, una relazione commerciale con un’ipocrita copertura religiosa.
Una paradossale scappatoia Certo, negli anni cupi della rivoluzione, quando i Pasdaran arrestavano le coppie non sposate che si mostravano in pubblico, il matrimonio temporaneo è stato praticato anche da persone che non ci credono, per legittimare una relazione con un documento ufficiale che dà molti vantaggi pratici, tra cui poter viaggiare insieme: una coppia iraniana non può prendere una camera in nessun albergo in Iran senza un certificato di matrimonio.
Mercimonio, scappatoia, o valvola di sfogo degli impulsi sessuali giovanili con una copertura di legittimità: in ogni caso il matrimonio temporaneo suscita critiche molto dure tra i sostenitori dei diritti delle donne.
La giurista Shirin Ebadi, Nobel per la pace, si è sempre espressa in modo contrario.
La sociologa Fatemeh Sadeghi sottolinea quanto sia contraddittoria l’ideologia che sostiene il matrimonio part-time: «La struttura religiosa “santifica” la famiglia, ma poi predica il matrimonio temporaneo che in pratica indebolisce l’istituzione della famiglia».
Un religioso riformista, l’hojatoleslam Yousefi Ashkevari, fa notare che il matrimonio temporaneo «svaluta» la donna: in una società tradizionalista, dove la verginità della sposa è considerata indispensabile, una ragazza che sia stata sposata in via temporanea difficilmente troverà un matrimonio «vero».
E i giovani, obiettivo dichiarato del ministro Pour Mohammadi? Molti di loro respingono il matrimonio temporaneo, soluzione tradizionale che non risponde all’aspirazione più comune: frequentarsi liberamente e senza doversi sposare.
Ragazze e ragazzi non possono incontrarsi nei luoghi pubblici se non con molte limitazioni: e così il regime islamico li spinge (soprattutto nelle classi medie e occidentalizzate) a incontrarsi più spesso nella sfera privata, ormai l’unico spazio di libertà.
Paradossi di un sistema che impedisce ai giovani di frequentarsi e avere libere relazioni amicali e affettive: poi però offre loro un matrimonio part-time per sfogare le «esigenze sessuali».
Farian Sabati scrive : Può sembrare strano, ma a contrarre più facilmente il sigheh(il matrimonio temporaneo) sono sempre più spesso le giovani benestanti: non hanno voglia di impegnarsi in un’unione definitiva, coinvolgendo le famiglie.
E non considerano più la verginità fondamentale e in ogni caso hanno denaro a sufficienza per farsi ricucire l’imene in una clinica privata pagando l’equivalente di poche centinaia di euro.
Per loro il matrimonio temporaneo, contratto davanti a un mullah per avere un pezzo di carta da mostrare alla polizia religiosa, è un modo per andare a fare il fine settimana tranquilli.
Il sigheh è quindi diventato un business….
Il matrimonio in Iran L’età legale nella quale le ragazze possono sposarsi è di 9 anni lunari (8 anni e 9 mesi sul calendario solare).
La poligamia è legale: gli uomini possono avere fino a 4 mogli.
La Repubblica Islamica dell’Iran, un tempo conosciuta come Persia, è un paese mediorientale, situato nel sud-ovest asiatico.
La lingua ufficiale è il persiano (farsi) e la religione quella musulmana, di indirizzo sciita.
La forte religiosità è la caratteristica culturale che emerge maggiormente fra tutte e pervade tutti gli aspetti della vita quotidiana.
L’Iran è una teocrazia basata sulla teoria dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini di una dittatura religiosa chiamata velayat-e faqih, essa dà al Leader Supremo il ruolo di tutore della nazione, ed è stato stabilito che questo regime religioso debba prendere il posto di tutte le leggi religiose minori.
Secondo la concezione teocratica fondamentalista della natura della donna e dell’uomo e dei loro ruoli nella società, la donna è considerata fisicamente, intellettualmente e moralmente inferiore all’uomo.
E il risultato è che le donne non possono partecipare alla pari in nessun campo di azione sociale o politica.
L’età legale nella quale le ragazze possono sposarsi è di 9 anni lunari (8 anni e 9 mesi sul calendario solare).
La poligamia è legale: gli uomini possono avere fino a 4 mogli.
Gli uomini hanno il potere di prendere tutte le decisioni riguardanti la famiglia, inclusa la libertà di movimento delle donne e la custodia dei figli.
Nella maggior parte dei casi in Iran il matrimonio è combinato, infatti le madri scelgono le spose per i propri figli maschi: seguendo l’esempio della tradizione antica in alcuni casi si prediligeva cercare la futura sposa tra le bambine nate in famiglie di amici e parenti, in altri ci si recava nei bagni pubblici o alle feste.
Quando il ragazzo arriva all’età giusta per il matrimonio allora la famiglia del futuro sposo si reca a casa della fidanzata prescelta, portando con sé dolci e fiori.
In questa fase, detta “khastegari”, sono i padri dei futuri sposi che discutono sul matrimonio, se manca la figura maschile all’interno della famiglia, viene chiamato lo zio più anziano.
Questa stadio comprende anche il “mehrie” che è un regalo tradizionale che il ragazzo deve offrire alla donna e che comprende sempre il corano, il nabat (cristalli di zucchero che si sciolgono nel té) e le monete d’oro (o soldi, che vengono dati in caso di divorzio come risarcimento); e viene inoltre stabilita la data in cui avverrà il matrimonio.Due o tre giorni prima del vero e proprio fidanzamento viene celebrata attraverso una semplice festa a casa della sposa l’”hanabandun”, rituale durante il quale si balla, si mangia e gli sposi si prendono per le mani, le quali precedentemente sono state spalmate con la henna (un tipo di colorante spesso usato anche in India).
Questo gesto segna la definitiva e perenne unione dei due amanti.
Un altra usanza, però ormai desueta, che veniva svolta in questa festa è la depilazione del viso della futura sposa, che fino ad allora non era stata fatta.Successivamente si giunge al momento del fidanzamento ufficiale in cui vi è nuovamente una festa e i due ragazzi si scambiano gli anelli davanti ai parenti.
Nel frattempo la futura sposa porta la propria dote nella casa in cui andranno ad abitare dopo la celebrazione del matrimonio.
La fase del fidanzamento può durare un paio di mesi ma anche diversi anni.
In Iran il matrimonio si celebra davanti al mullah, il quale secondo la religione islamica è un notaio che fa parte del clero ed è il responsabile dei matrimoni e dei divorzi.
Si giunge quindi all’ “aghakonun”, che è il vero e proprio matrimonio: i ragazzi sono seduti di fronte ad uno specchio, con delle candele e il libro sacro islamico, il Corano.
La sposa, come nella tradizione occidentale, è vestita di bianco.
Durante questa fase il mullah recita per tre volte una preghiera, poi domanda una volta allo sposo se vuole prendere in moglie la ragazza, dopo il suo consenso chiede per tre volte alla donna, inserendo nella domanda tutte le condizioni stabilite precedentemente durante il “khastegari”, se acconsente al matrimonio.
Dopo l’assenso della sposa l’unione dei due ragazzi è ufficiale e consacrata.
La sera stessa si continua con festeggiamenti, in cui si mangia e soprattutto si balla.
Viene anche annunciato il giorno in cui i novelli sposi accoglieranno in casa gli amici e i parenti per ricevere i regali.
A Shahrnush Parsipur, autrice di: Women Without Men, è stato chiesto come vede l’attuale situazione delle donne Ha così risposto: “In Iran vi è l’assoluta mancanza di rispetto per i diritti umani.
Come negli anni Ottanta.
Oggi il popolo iraniano è ostaggio del governo”.
– Come vede la condizione attuale delle donne? «Le donne possono andare a scuola, prendere un dottorato di ricerca, ma poi magari devono subire il matrimonio combinato, un classico.
Conosco il caso di una donna vittima dei soprusi del marito, che veniva picchiata.
Ma quando si è rivolta ai giudici per ottenere il divorzio, le hanno risposto che questo accadeva perché non si comportava secondo i canoni.
Solo dopo molti anni, corrompendo i funzionari, è riuscita a ottenere il divorzio.
Se una ragazza viene violentata, la prima cosa che si dice è: qual è stato il tuo comportamento, cosa hai fatto per provocare l’uomo? Alla fine dunque la colpa è sempre della donna».
– Il suo libro è stato pubblicato in Iran? «Non ufficialmente, ma lo si trova nella cosiddetta borsa nera della letteratura ed esiste una versione in persiano Iran, 1953: sullo sfondo tumultuoso del colpo di stato, tramato dalla CIA, i destini di quattro donne convergono in un bellissimo giardino di orchidee dove troveranno indipendenza, conforto e amicizia.
La regista mostra un’incisiva riflessione di un momento cruciale della storia che ebbe come conseguenza la Rivoluzione islamica e che portò l’Iran a essere come oggi la conosciamo.
La regista iraniana Shirin Neshat, Leone d’argento per la migliore regia a Venezia ’66, sfilando sul red carpet, ha indossato la sciarpa verde del movimento a sostegno di Mussavi e ha dichiarato: ”Il mio Paese un giorno sarà libero.
Women Without Men, parla dei giorni cruciali del ’53 .
Vuole essere un messaggio per tutti gli iraniani che credono di perdere la speranza.
Non sentiamoci sconfitti, un giorno ce la faremo”.
Speriamo.
Intanto la violenza contro le donne non solo in Iran, dove sarà difficilissimo estirpare, ma anche in altre parti del mondo è diventata endemica.
Chi è Shirin Neshat Nata il 26 marzo 1957 a Qazvin, Iran, è un artista di arte visiva contemporanea, conosciuta soprattutto per il suo lavoro nei video, nella fotografia e nel cinema Vive attualmente tra il suo paese di origine e New York.
Attraverso il suo lavoro analizza le difficili condizioni sociali all’interno della cultura islamica,con particolare attenzione al ruolo della donna.
Il suo lavoro esplora il significato sociale, politico e psicologico dell’essere donna nelle società islamiche contemporanee.
Non ama le rappresentazioni stereotipate dell’ Islam, i suoi obiettivi artistici non sono esplicitamente polemici.
Piuttosto, il suo compito riconosce le forze intellettuali e religiose complesse che modellano l’identità delle donne musulmane nel mondo intero.
Come fotografa e video-artista, Shirin Neshat è famosa per i suoi ritratti di corpi di donne interamenti ricoperti da scritte in calligrafia persiana.
Inoltre ha diretto parecchi video, tra cui Anchorage (1996), proiettato su due pareti opposte: Shadow under the Web (1997), Turbulent (1998), Rapture (1999) e Soliloquy (1999) Nelle sue fotografie e nei suoi video ci mostra attraverso immagini piene di tensione dei corpi velati, dei martiri (uomini o donne), persone sottomesse, che ogni giorno devono fare i conti con la violenza ed il terrorismo.
Ha partecipato anche alla Biennale d’arte nel 1999, ricevendo un lusinghiero successo di critica.
Ora ha deciso fortissimamente, di esplorare il campo cinematografico.
E non si può dire che le sia andata male, visto il successo che ha riscosso il suo primo lungometraggio, così dolente e così simbolico.
Proprio come è l’Iran in questi tempi.
Non è da trascurare che la sua famiglia è benestante, segue uno stile di vita occidentale, il padre fisico e la madre casalinga hanno una ammirazione per lo Scia di Persia.
E’ cresciuta in un clima filo-occidentale ed educata in una scuola cattolica e poi a Los Angeles per completare gli studi.
Mentre è a Los Angeles avviene il colpo di stato in Iran e la situazione cambia radicalmente.
Si sposta a San Francisco e poi a New York dove lavora per un’organizzazione no profit.
Nel 1990 torna in Iran spinta anche dalla ricerca delle proprie origini, trova un paese completamente cambiato rispetto a quello che aveva lasciato.
Qui matura l’idea della serie di Women of Allah.
Tornando in Iran Shirin Neshat ha cercato di leggere profondamente dentro la cultura islamica e di andare oltre lo stereotipo della donna in secondo piano, per mostrare la forza, la personalità e il carattere delle donne.
Ecco come descrive il suo viaggio in Iran in un’intervista al TIME: Neshat: “Durante il regime dello Scia c’era un ambiente molto aperto.
C’era una specie di diluizione tra Occidente e Oriente – nel modo di vedere e nel modo di vivere.
Quando tornai ogni cosa sembrava cambiata.
Sembrava che ci fossero pochi colori.
Tutto era bianco o nero.
Tutte le donne indossavano il nero chador.
Fu uno shock immediato.
Il nome delle strade era cambiato dal vecchio nome persiano nel nuovo nome arabo islamico.
Questo slittamento dall’identità persiana verso una più islamica creò una sorta di crisi.
Penso che ora tutto ciò sia accompagnato da un grande senso di vuoto”.
Attualmente vive a New York e i suoi lavori recenti risentono della sofferenza per la separazione coatta dal suo paese di origine.
Nella stessa intervista, spiega chiaramente la sua situazione e il significato di Women of Allah.
I passaggi più interessanti sono: il contrasto tra il senso di indipendenza che sente in America e il senso di isolamento e la perdita di punti di riferimento: “Non posso chiamare casa nessun luogo”.
Il contrasto tra l’individualismo americano e l’appartenenza a una collettività.
Il suo lavoro rappresenta il desiderio di riconciliazione con il suo passato e la sua cultura.
Alla domanda sulla fascinazione dell’Islam in Occidente, risponde che guardare una cultura così diversa pone degli interrogativi e che la realtà non è quella che ci si immagina.
L’Islam è visto come una minaccia come lo era l’Unione Sovietica.
L’Islam non rientra nella mentalità razionale dell’Occidente.
La sua intenzione come artista è quella di cercare il dialogo e di sovvertire uno stereotipo.
La donna è sì vittima e sottomessa, ma anche forte e consapevole.
Le scritte sulle mani e sulla bocca sono il pensiero non detto di queste donne, che non possono parlare ma hanno un loro pensiero.
Alla domanda perché nelle sue fotografie le donne hanno le pistole, risponde perché non si può separare l’idea della religione dalla politica e dalla violenza.
In pratica cerca di rappresentare il paradosso del martirio.
Il martire è al confine tra l’amore per Dio, la fede e la devozione, e il crimine e la crudeltà dall’altro.
La storia dell’Islam è caratterizzata dall’ossessione della morte e dal rifiuto del mondo materiale così la morte è vista come premio.
Le ultime parole dell’intervista sono molto commoventi : “Mi piacciono le opere che mi tolgono il fiato o che mi fanno piangere quasi come un’esperienza mistico religiosa.
Sto creando una piccola esperienza per la gente in modo che la possa tenere con se non come una pesante liquidazione politica, ma come qualcosa che tocchi al massimo livello di emozione”( Neshat,TIME Aprile 2004, http://www.eruditiononline.com/04.04/shirin_neshat_interview.htm) Woman Without Men è un film intenso e dal carattere fortemente rivoluzionario.
Le immagini, nitide e piene di particolari, omaggiano l’arte pittorica, richiamano antiche iconografie, diventano simboliche.
Lo spettatore si ritrova davanti a un vero e proprio affresco eseguito con tanta luce e tante ombre.
Il tutto, inserito nel contesto storico del 1953, anno in cui il golpe ordito da Stati Uniti e Gran Bretagna riuscì a deporre il governo democratico di Mossadegh per restaurare il potere dello Scià.
Le donne ne sono protagoniste:c’è Fakhri, moglie insoddisfatta che riesce a scappare e a comprare una tenuta in cui rifugiarsi.
Poi Munis, interessata alle vicende politiche.
E infine Faezeh, incastrata dal rapporto col fratello.
Le tre donne si conosceranno e finiranno per imparare l’amarezza della vita.
Film storico, diviso tra sogno e realtà , con le musiche di Ryuichi Sakamoto si vivono i conflitti interiori e le ansie scatenate da una voglia di libertà che nessun governo può mettere a tacere.
Incredibili, poi, i momenti in cui assistiamo ai soprusi di una società maschilista e chiusa.
Ottusa e cieca.
Ossessivamente rinchiusa in ambiti culturali soffocanti.
Le donne, in questo universo stretto, devono nascondersi, sono obbligate ad abbassare lo sguardo, sono impossibilitate dal muoversi.
Le uniche ancore di salvezza sono la cultura, tenuta segreta come un peccato, e la propria immaginazione.
Un film che fa riflettere e sembra mostri l’attuale situazione di tante donne musulmane, l’ultima – in ordine di tempo- quella povera ragazza diciottenne, Sanaa, trucidata dal padre perché osteggiava il suo legame con un cattolico.
E poi parlataci dell’integrazione!

XXVII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Genesi 2,18-24 Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Allora il Signore Dio pla-smò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccel-li del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costo-le e richiuse la carne al suo posto.
Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica car-ne.
Il brano è stato scelto perché richiamato dal Vangelo odierno.
Esso è desunto dal cosi-detto racconto javista della creazione dell’uomo (Gen 2).
Si tratta di un racconto sulle origi-ni, che vuole cioè risalire alle condizioni fondamentali e originarie dell’esistenza umana.
Prima di dare inizio alla storia degli uomini, si parla delle condizioni stesse nelle quali si svolge tale storia.
1.
Annotazioni – Il brano mette in evidenza due dimensioni essenziali dell’esistenza u-mana: prima dimensione, i presupposti positivi di un’esistenza felice, che Dio stesso crea e mette sul cammino dell’uomo, associandoli al suo apparire nel mondo: una natura mera-vigliosa (il giardino), aiuto nel lavoro (gli animali), amicizia ed amore tra uomo e donna, ecc.
(Gen 2); seconda dimensione, condizioni negative, derivate dal peccato dell’uomo: ver-gogna davanti a Dio, rapporti conflittuali tra uomo e donna, tra fratello e fratello; spropor-zione tra gli sforzi investiti nel lavoro ed i risultati ottenuti (Gen 3-4).
— Dio parla di un male dell’uomo, che intende superare mediante la sua creazione, cioè il «male» della solitudine (v.
18).
Gli uomini giungono alla pienezza del loro essere soltanto nel vivere comune.
Vivere da soli è una sofferenza, è un male («non è bene che l’uomo sia so-lo»).
— Gli animali costituiscono un aiuto per l’uomo, ma non si trovano al suo stesso livello (vv.
19-20).
Non possono né porsi in dialogo paritetico con l’uomo, né tantomeno sostituir-lo.
—L’immagine della «costola», dalla quale è «costruita» la donna (v.
22) sta ad indicare che l’uomo e la donna sono formati dalla stessa sostanza e perciò si appartengono mutua-mente.
Sono parenti, non sono estranei tra loro.
—Adamo esprime questo rapporto parentale tra lui e la donna.
Le parole: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (v.
23) sono espressioni proverbiali, che significano appunto pa-rentela, appartenenza.
— L’unione tra uomo e donna, che fonda una nuova famiglia, è più forte del legame che unisce figli e genitori (v.
24).
— Da sottolineare infine l’assoluta parità tra uomo e donna messa in chiaro dal testo bi-blico.
L’espressione «un aiuto che gli corrisponda» non vuole significare un aiuto in senso strumentale, subordinato, bensì un completamento, senza del quale non sarebbe possibile alcuna attività umana; le parole che completano la frase «che gli corrisponda» stanno ad in-dicare, appunto, la corrispondenza e la parità tra i due.
Sarà il peccato a trasformare que-sta parità in disuguaglianza (Gen 3,16).
Si può dire: la parità corrisponde alla volontà ori-ginaria di Dio; la disuguaglianza è conseguenza del peccato.
Seconda lettura: Ebrei 2,9-11 Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli ange-li, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che condu-ce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratel-li.
Siamo all’interno dell’introduzione della Lettera agli Ebrei, che sviluppa tutta una cri-stologia: in primo luogo l’Autore paragona Gesù ai profeti (1,1-2) e in secondo luogo alla Sapienza personificata ed agli angeli (1,4-2,19).
Gli angeli sono certo esseri celesti, ma Ge-sù, come uomo, è superiore a loro.
Mediante questi confronti la Lettera agli Ebrei esprime la fede nella divinità di Gesù.
Siccome Gesù si è abbassato al di sotto degli angeli, benché superiore ad essi, è stato in-coronato di onore e di gloria (v.
9).
Ciò corrisponde all’interpretazione cristologica del salmo 8.
— C’è di più: Gesù non solo si è umiliato, abbassandosi al di sotto degli angeli.
È andato oltre, ha addirittura sofferto la morte per tutti, e anche per questo gli è stata data la gloria.
Si tratta dello stesso pensiero che troviamo nell’inno di Fil 2,6-10.
Il volontario abbassa-mento di Gesù affrontato con la morte diventa causa della sua speciale esaltazione divina.
— Si presenta un parallelo tra creazione e redenzione (v.
10): come il mondo creato è o-pera di un solo Dio («per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose»), così anche l’opera della salvezza deve essere un’opera unica.
— Tra Colui che santifica e coloro che vengono santificati esiste una (misteriosa) comu-nione.
La santità dell’uno si trasmette ai molti, sì che la santità abbraccia tutti.
In tal modo la santità costituisce una famiglia, un legame tra fratelli e parenti («non si vergogna di chia-marli fratelli»).
— In poche parole, la Lettera agli Ebrei mostra lo stretto rapporto di appartenenza che esiste tra Gesù Cristo, che si abbassò nella morte, e tutti gli uomini che possono aver parte alla sua gloria ed alla sua santità.
Vangelo: Marco 10,2-16 In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie.
Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordina-to Mosè?».
Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ri-pudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma.
Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola.
Così non sono più due, ma una sola carne.
Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento.
E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulte-rio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un al-tro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù, al vedere que-sto, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio.
In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso».
E, pren-dendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
Esegesi Il vangelo odierno si inserisce esattamente agli inizi del percorso compiuto da Gesù nel territorio della Giudea (10,1) verso Gerusalemme, e cioè verso l’ora della sua passione e morte, annunciata già due volte (8,31ss.; 9,30 ss.).
Le discussioni, come quella di oggi sul divorzio e poi sulla sua autorità, il tributo a Cesare, la risurrezione dei morti ed il primo comandamento segnano un crescendo, che prepara l’esplosione finale dell’ostilità contro di lui, con la decisione di metterlo a morte.
Il che conferisce una tensione drammatica ad ogni dettaglio delle controversie, che non sono puramente accademiche nel magistero di Ge-sù.
Inoltre l’aver egli varcato i confini della Giudea, sottoposta alla giurisdizione di Erode, aumenta il rischio cui vogliono esporlo i Farisei con la domanda sul divorzio.
Erode ha re-centemente ripudiato sua moglie, vivendo in relazione adultera con quella del fratello, per questo aspramente redarguito da Giovanni Battista (Mc 7,17-29).
Con la sua risposta, Gesù o avrebbe sconfessato il Battista, che il popolo teneva in grande considerazione, oppure sa-rebbe incorso nel furore del re e della vendicativa Erodiade.
«È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?» (vv.
2-4).
La legge di Mosè accordava al marito il diritto di rimandare la moglie se avesse trovato in lei «un fatto indecoroso» (Dt 24,1).
Al tempo di Gesù, questo era oggetto di discussione tra due scuole rabbiniche: quel-la rigorista di Shammai che riconosceva legittimo motivo solo il caso di adulterio da parte della moglie, quella lassista di Hillel che ammetteva come valido qualsiasi motivo, anche il più futile.
I farisei con la loro domanda «mettono alla prova» Gesù, volendo indurlo sub-dolamente a pronunciarsi a favore o dei rigoristi o dei lassisti, per poi accusarlo.
«Per la durezza del vostro cuore» (vv.
5-6).
Gesù non si lascia coinvolgere nelle dispute di scuola, ma si vale di due principi ermeneutici che risolvono l’apparente problema: il primo dichiara che la legge mosaica non ha valore di precetto, ma di «concessione» accordata alla «durezza di cuore» (in greco sklerokardìa), vale a dire all’incapacità umana di intendere e fare la volontà di Dio.
Il secondo principio risale alla volontà originaria di Dio («all’ini-zio»), che si esprime nel suo progetto creatore, anteriormente al peccato e alla ribellione dell’uomo, volontà divina che nessuna legge successiva può invalidare.
«Chi ripudia la propria moglie… e se lei, ripudiato il marito» (vv.
11-12).
Donna ed uomo so-no messi sullo stesso piano.
Non è solo la donna colpevole di adulterio verso il marito (come si riteneva al tempo di Gesù, stando a come viene enunciata la domanda dei Fari-sei), ma anche il marito si rende colpevole di adulterio se rimanda la propria moglie e prende una donna sposata.
I diritti sono uguali, in linea con quello che Gesù ha detto sulla volontà originaria di Dio.
Chiunque li lede, uomo o donna, commette peccato di adulterio.
«Gli presentavano dei bambini perché li toccasse» (vv.
13-16).
Posta ad immediato seguito delle dichiarazioni precedenti, la scena dei bambini e le parole che Gesù rivolge ai discepo-li (v.
15) assumono un significato particolare.
La «logica» su cui è fondato il vincolo ma-trimoniale è la stessa che si richiede per entrare nel regno di Dio: i bambini sono simbolo di questa logica, che non si ostina a far valere i propri diritti o a misurare i torti degli altri, che non persegue secondi fini, né avanza pretese, ma si affida a Dio con assoluta semplici-tà filiale.
Meditazione «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18).
Dopo averlo chiamato alla vita, il desiderio di Dio chiama l’uomo alla comunione.
Non nella solitudine, ma nell’incontro e nella relazione l’adam può essere davvero a immagine e somiglianza di Colui che lo ha creato e lo custodisce nell’esistenza.
«Voglio fargli un aiuto», afferma più precisamente Dio.
‘Aiuto’ in ebraico è detto con un termine (‘ezer) che solita-mente nel Primo Testamento ha per soggetto Dio.
Dio è infatti ‘aiuto’ per l’uomo, ma la sua prossimità e il suo sostegno si rendono presenti anche mediante le relazioni che gli uomini vivono tra loro.
Soprattutto in quella relazione singolare che si stabilisce tra l’uomo e la donna, dove l’alterità, non l’uguaglianza, diventa luogo di comunione.
Tra noi essere u-mani non possiamo vivere un’alterità maggiore di quella che sussiste tra l’uomo e la don-na, eppure è proprio questa differenza a essere chiamata a diventare una ‘sola carne’.
«Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’u-nica carne» (v.
24).
È questa unità nella differenza a divenire segno dell’alleanza, cioè di quel rapporto con Dio che all’uomo è donato di accogliere nella sua esistenza.
Dio è l’Al-tro, il Trascendente, il Creatore, eppure con l’uomo egli vuole stabilire la sua comunione, oltrepassando ogni distanza.
Vivendo in una relazione d’amore e di dono reciproco, fino a divenire una sola carne, l’uomo e la donna intuiscono che tale deve essere anche la loro re-lazione con Dio: persino la differenza che c’è tra il Creatore e la sua creatura può essere vissuta – questo Dio promette ad Adamo donandogli Eva – non come lontananza o separa-zione, ma come spazio di dono, di incontro, di comunione.
L’astuzia del serpente inganne-rà Adamo ed Eva; mentendo li indurrà a credere il contrario.
La distanza che c’è da Dio è incolmabile, Dio non la vuole riempire con il suo dono e la sua prossimità, e allora Adamo, questa è la terribile suggestione del peccato, dovrà conquistarla con le sue mani, anziché accoglierla da quelle di Dio.
E il peccato comprometterà non solo la buona relazione con Dio, ma anche quella tra Adamo ed Eva.
Tra loro, anziché la logica del dono, si insinuerà, a causa del peccato, quella del potere o del possesso.
La comunione, infatti, ha i suoi criteri.
Diventare una sola carne è possibile solo se si è disposti ad assumere in se stessi la logica di Dio.
Il racconto della Genesi ce lo ricorda, con un linguaggio simbolico, ma nello stesso tempo suggestivo ed eloquente.
Eva è creata ed è donata ad Adamo nel sonno, mentre costui dorme.
Adamo non ha nessun potere su di lei.
Non è lui a progettarla, a immaginarla, neppure a meritarla; la può solo accogliere come dono gratuito per la sua vita.
Se può imporre il nome a tutte le altre creature del giardino, non può farlo con Eva.
«La si chiamerà donna» (v.
23).
Più che imporre un nome, Adamo deve riconoscerlo e riceverlo da altri.
Nel simbolismo biblico dire il nome di una realtà si-gnifica poter esercitare il proprio dominio su di essa.
Ma non sarà così tra Adamo ed Eva.
Adamo non potrà dominare Eva né esserne dominato: sono l’uno davanti all’altra, nella loro reciproca uguaglianza, «osso delle mie ossa e carne della mia carne» (v.
23).
Diversi, ma eguali; diversi non per dominarsi o sottomettersi, ma per essere in comunione l’uno con l’altra.
Adamo dorme, ma Dio gli dona Eva togliendogli una delle costole e richiuden-do la carne al suo posto (cfr.
v.
21).
Questa ferita è come il simbolo della vita di Adamo che deve aprirsi a sua volta al dono.
Eva è un dono di Dio per Adamo, ma è un dono che passa attraverso la vita stessa di Adamo che nella ferita del suo costato viene dischiusa al dono.
Ricevendo il dono di Dio Adamo riceve se stesso in modo diverso, come un donatore.
La sua è una ferita aperta e richiusa, perché è entrando in questo spazio del dono che la vita di Adamo si compie pienamente.
Solo in questo momento egli diviene compiutamente uomo, in una sorta di seconda nascita.
«Così l’uomo nasce facendo nascere» (P.
Beau-champ).
La benedizione di Dio, il suo dono per la nostra vita, lo si accoglie sempre così: nello spazio di una ferita, di un’esistenza cioè che si lascia trasformare e aprire dall’azione di Dio non alla dinamica del possesso, ma a quella del dono.
Nell’evangelo Gesù ricorda che è per la durezza del nostro cuore che Mosè scrisse la norma sul ripudio, ma non è questo il disegno originario del Padre.
Un cuore duro è ap-punto un cuore che non sa vivere in questa logica di Dio, segnata dalla gratuità e dal dono, che consente la vera comunione tra Dio e tra di noi, e anche tra l’uomo e la donna.
Più che alla stregua di un mero precetto, le parole di Gesù sono da intendersi come una promessa.
A chi accoglie la logica del Regno, che è il compimento del disegno creaturale del Padre, liberato e riscattato dal peccato introdotto dalla durezza di cuore dell’uomo, è offerta una possibilità nuova.
Gesù lo dirà poco più avanti, sempre in questo capitolo, ai discepoli stupiti di fronte alle sue parole sulla ricchezza.
«”E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.
Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?”.
Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”» (Mc 10,25-27).
La radicalità richiesta al matrimonio è simile a quella richiesta alla povertà: c’è un’impossibilità che l’uomo spe-rimenta a motivo della durezza del proprio cuore, che però può aprirsi ad accogliere la possibilità che viene da Dio.
La Legge di Mosè si è fatta carico del peccato dell’uomo of-frendo un rimedio misericordioso alla durezza del suo cuore.
Ma Gesù è più grande di Mosè e della sua Legge, egli ci offre non solo un rimedio, ma una possibilità nuova dentro la nostra impossibilità.
L’indissolubilità del matrimonio è «l’espressione del mondo che viene: solo chi partecipa del Regno nella sequela del re (cioè Cristo) ne diventa capace» (D.
Attinger).
In questo modo la fedeltà dell’amore tra l’uomo e la donna diviene davvero se-gno trasparente di ciò che Dio congiunge (cfr.
v.
9).
A unire l’uomo e la donna in modo in-dissolubile non è tanto un atto estrinseco o giuridico di Dio, quanto la qualità del suo amo-re che nel Regno ci viene donata, un amore fedele, accogliente, fecondo.
Da questo amore niente, neppure il peccato o la durezza del nostro cuore può separarci, come ricorda Paolo in Rm 8,35-39, e questo amore, regnando su di noi, ci consente di superare ogni possibile lontananza o separazione, vivendole nei vincoli di una più forte comunione.
È allora significativo che, a queste parole sulla radicalità del matrimonio, Marco ag-giunga subito dopo ciò che Gesù dice benedicendo i bambini che vengono a lui: «a chi è come loro appartiene il regno di Dio.
In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (v.
14-15).
Negli evangeli il bambino è simbolo di chi è debole, piccolo, impotente.
Non può fare affidamento sulle proprie forze, ma su ciò che ancora deve attendere e ricevere da altri.
Si accoglie così il regno di Dio: co-me un dono da ricevere senza pretendere di conquistarlo confidando nelle nostre possibili-tà.
Gesù accoglie i bambini e nello stesso tempo sottolinea il loro bisogno di dover acco-gliere.
Tale è il regno di Dio: da un lato è la manifestazione di un amore che ci accoglie persino nelle nostre debolezze; dall’altro è la manifestazione di un amore che si dona gra-tuitamente alle nostre debolezze rendendoci capaci di ciò che altrimenti ci rimarrebbe im-possibile.
Di questo amore la Chiesa è chiamata a farsi segno anche verso i rapporti coniugali tra l’uomo e la donna.
Da un lato deve annunciare una radicalità, quale l’indissolubilità del matrimonio, che in Gesù Cristo diviene possibile perché egli guarisce e scioglie la durezza del cuore umano; dall’altro deve rimanere come Gesù accogliente delle debolezze e delle impossibilità che gli uomini sperimentano, come bambini.
Ma a chi è come loro appartiene il regno di Dio! Dio garante dell’indissolubilità Il matrimonio è più del vostro amore reciproco, ha maggiore dignità e maggiore potere.
Finché siete solo voi ad amarvi, il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia.
Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio fa andare e venire e chiama al suo regno.
Nel vostro sentimento godete solo il cielo privato della vostra felicità.
Nel matrimonio invece venite collocati attivamente nel mondo e ne diventate respon-sabili.
Il sentimento del vostro amore appartiene a voi soli.
Il matrimonio, invece, è una investitura, un ufficio.
Per fare un re non basta che lui ne abbia voglia.
Occorre che gli riconoscano l’incarico di regnare.
Così non è la voglia di amarvi che vi stabilisce come strumento di vita.
E’ il matrimonio che ve ne rende atti.
Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio.
E’ il matrimonio che, d’ora in poi, porta sulle spalle il vostro amore.
Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa.
Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte a ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno.
Dio è il garante dell’indissolubilità.
E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena, nessuna tentazione, nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito.
(Dietrich Bonhoeffer) Il diverso Il “diverso” originario è la donna nei confronti dell’uomo e l’uomo nei confronti della donna.
E pertanto se il riconoscimento della diversità non è in primo luogo riconoscimento della diversità della sessualità umana, il sociale umano resta sempre esposto al rischio di discriminazioni ingiuste.
Proprio perché il tutto dell’humanum è presente potenzialmente nella particolarità di ciascuna diversità, la pienezza della persona si realizza nella loro uni-tà.
L’uomo è per la donna e la donna è per l’uomo poiché solo uomo e donna dicono la ve-rità intera della persona umana.
L’intrinseca bontà o valore dell’istituto matrimoniale consiste precisamente in questo: esprime-realizza in radice nell’unità uomo-donna l’humanum nella sua interezza.
Bontà e preziosità che non si trova in nessun altra relazione sociale.
Tocchiamo un punto fonda-mentale della vicenda umana e della sua comprensione.
Provo a dirlo in modo breve e per quanto riesco semplice.
All’origine, al “principio” della vicenda umana non stanno tante unità chiuse in se stesse.
Sta una dualità; un rapporto: un uomo e una donna.
Il dato uma-no originario non è l’identità, ma la relazione; la “figura” dell’incontro non è il contratto di individui originariamente estranei, ma è l’incontro nell’amore fra due persone diverse: uomo e donna.
(Cardinale Carlo Caffarra, “Matrimonio e laicità dello Stato”, Congresso Telogico-Pastorale Internazionale di Valencia, 4 luglio 2006).
I cervi Si racconta che i cervi quando vogliono recarsi al pascolo, in certe isole lontane dalla costa, per attraversare la lingua di mare poggiano la testa sulla schiena altrui.
Succede così che uno soltanto, quello che apre la fila, tiene alta la propria testa senza appoggiarla sugli altri; quando però egli si è stancato, si toglie dal davanti e si mette per ultimo, sicché anche lui può appoggiarsi sul compagno.
In questo modo tutti insieme portano i loro pesi e giungono alla meta desiderata: non affondano perché l’amore fa loro da nave.
(S.
Agostino) Due in una sola carne Dove potrei trovare parole in grado di descrivere quel matrimonio che la chiesa unisce, che l’offerta eucaristica conferma e la benedizione sigilla, gli angeli proclamano e il Padre ratifica? Difatti nemmeno qui in terra i figli possono contrarre il matrimonio secondo le norme stabilite e secondo il diritto vigente senza il consenso paterno.
Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola disciplina, un solo servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio.
Niente li separa né nello spirito, né nella carne; al contrario, sono veramente due in una so-la carne (cfr.
Gen 2,24; Mt 19,6; 1Cor 6,16; Ef 5,31).
E dove vi è una sola carne, lì vi è pure un solo spirito.
Infatti insieme pregano, insieme si prostrano davanti a Dio, insieme osser-vano le prescrizioni del digiuno, a vicenda si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si riconfortano.
Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nella chiesa di Dio, in perfetta uguaglianza nel banchetto di Dio, in perfetta uguaglianza nelle prove, nelle perse-cuzioni, nelle consolazioni.
Nessuno dei due si nasconde all’altro, nessuno si sottrae all’al-tro, nessuno è di peso all’altro.
[…] Tra loro due risuonano salmi e inni, si sfidano recipro-camente a chi canta meglio al Signore.
Cristo gioisce al vedere e ascoltare queste cose e in-via loro la sua pace (cfr.
Gv 14,27).
Là dove due sono riuniti, egli è là, presente (cfr.
Mt 18,20) e là dove egli è presente, non c’è il Malvagio.
(TERTULLIANO, Alla consorte 2,8,6-8, SC 273, pp.
148-151).
La vita in due Grazie, Signore perché ci hai dato l’amore capace di cambiare le cose.
Quando un uomo e una donna diventano uno nel matrimonio non appaiono più come creature terrestri ma sono l’immagine stessa di Dio.
Così uniti non hanno paura di niente con la concordia, l’amore e la pace l’uomo e la donna sono padroni di tutte le bellezze del mondo.
Possono vivere tranquilli protetti dal bene che si vogliono secondo quanto Dio ha stabilito.
Grazie, Signore per l’amore che ci hai regalato.
(S.
Giovanni Crisostomo).

“In-finitum”

Recita la cartella stampa: “Un’opera d’arte può restare incompiuta per cause di ordine pratico, o intellettuali o filosofiche: si possono avere opere “inconsapevolmente incompiute” come accade, ad esempio, anche nei grandi del Rinascimento italiano, Michelangelo, Leonardo e Tiziano”.
Il sottotesto più plausibile di questa mostra veneziana a palazzo Fortuny, intitolata “In-finitum” (e aperta fino al 15 novembre)allude sia alle opere incompiute di artisti del passato o tutt’ora viventi, sia al rapporto con l’infinito che molti pittori e scultori hanno o hanno avuto.
Quando si dice una mostra sofisticata, snob fino al parossismo.
Per visitarla, rigorosamente in fila indiana e a piccoli gruppi, pare sia consigliabile non aver superato i cinquanta ed essere in ottime condizioni psicofisiche.
Ovvero bisogna vederci bene, non soffrire di claustrofobia, essere super aggiornati sulle novità dell’arte contemporanea.
Solo con tali accorgimenti si potranno evitare quei moti di spaesamento e di irritazione che hanno colpito molti visitatori, chiamati a confrontarsi con un eccesso di penombra e la totale assenza di didascalie.
Ma estrapoliamo ancora una citazione dalla cartella stampa.
“Molti sono gli artisti che si sono misurati con il tema dell’infinito, interpretandolo secondo concetti e rappresentazioni proprie della cultura di appartenenza”.
In effetti l’elenco di duecentoquattordici nomi non è solo nutrito, ma apparentemente senza logica.
Perché c’è il neoclassico Canova accanto al metafisico De Chirico? Non solo, ma Malevic con la Nevelson, Duchamp con Dubuffet.
E che dire di un Giulio Paolini con Piranesi e Rothko con Schifano? Più comprensibile Lucio Fontana con Mariano Fortuny, entrambi maghi dello spazio.
Questi, alcuni degli esempi più significativi dell'”improbabile-impossibile” tema svolto dalla rassegna.
Dunque una mostra complessa per non dire laboriosa.
Ma non certo da bocciare, ottima l’idea, eccellenti i nomi.
Inoltre, al termine del percorso, si ha il regalo aggiuntivo di godere di un attico recentemente recuperato ed aperto al pubblico per l’occasione.
Ogni singolo visitatore se lo conquista salendo lentamente le ripidissime ed impervie scale; inesprimibile l’emozione di chi, dopo tanta oscurità e percorsi accidentati, si ritrova all’improvviso al centro di un ambiente circondato di finestre affacciate, a trecentosessanta gradi, sui tetti, sulle altane, sui canali e su quell’indescrivibile riverbero di luce e mare che fanno del panorama di Venezia qualcosa di unico al mondo.
All’interno dell’open-space, Tatsuro Miki e Axel Vervoordt hanno realizzato un Santuario del Silenzio, installazione che recupera uno spazio realizzato con oggetti trovati, dipinti col fango della laguna.
L’ambizione degli artisti è quella di scoprire la bellezza in luoghi e cose apparentemente insignificanti e rispettare la natura così com’è.
In questa stanza, comunque, ci sono altre installazioni difficili da decodificare, come quella dei quattromila aquiloni in miniatura, in seta e bambù, dell’artista Hashimoto.
Forte, allusiva, spirituale, la presenza dei giapponesi, tanto da banalizzare quasi altri nomi altisonanti come Rothko, Picasso, Fontana, Mirò e Kounellis.
Comunque è proprio l’impatto altamente scenografico di questa “camera con vista” che ci spinge a porci un interrogativo.
Perché non ricordare al grande pubblico i meriti del poliedrico talento di Mariano Fortuny? Mariano, infatti, non ha solo dato il proprio nome all’antico palazzo gotico appartenuto alla famiglia Pesaro, ma è stato un grande innovatore nel campo della scenografia e della scenotecnica, della fotografia e della pittura, nonché della creazione di tessuti stampati ispirati all’antica arte veneziana.
Il palazzo doveva servire per poter lavorare a tutte queste discipline che, per la sperimentazione, avevano bisogno di molto spazio per contenere telai, presse e tamponi lignei, alambicchi, colori e solventi, nonché un’infinita varietà di antichi galloni, passamanerie, stoffe, pezze, vesti, provenienti da ogni angolo della terra.
Mariano Fortuny y Madrazo, nato a Granada nel 1871 era figlio d’arte.
A diciott’anni si stabilì a Venezia ove perfezionò i propri studi artistici tra circoli e accademie e dove frequentò amicizie illustri come Gabriele D’Annunzio, la marchesa Casati, Hugo von Hofmannsthal.
Si inserì molto presto anche nel gran mondo parigino, dove ebbe modo di lavorare ad alcune scenografie teatrali per le quali cominciò a studiare soluzioni innovative.
È sua l’idea della Cupola, un particolare sistema di illuminazione della scena che riesce a servirsi della luce indiretta e diffusa.
Anche se il mondo parigino gli presta ammirata attenzione – è l’epoca di Sarah Bernardt – è soltanto con l’entrata nella sua vita di una mecenate, la contessa di Bearn, che la rivoluzione scenotecnica firmata Fortuny trova la sua completa applicazione.
Tra il 1903 e il 1906, il teatro privato della contessa si avvale non solo di luce indiretta, ma di proiezioni di cieli colorati e nuvole.
La fama esplode subito e il sistema di Fortuny viene adottato dai maggiori teatri europei.
Mariano però non si sente ancora appagato e si dedica alla creazione di stoffe, tessuti stampati e non solo.
Infatti negli anni Trenta inventò la carta da stampa fotografica e gli speciali colori a tempera Fortuny.
Una via di mezzo tra un artista, un mago ed un alchimista, come amavano definirlo gli amici Proust e D’Annunzio, alla sua morte, nel 1949, venne sepolto nel cimitero romano del Verano accanto al padre Mariano Fortuny y Marsal (1838-1874).
Negli anni Cinquanta il fascinoso palazzo veneziano fu donato dalla vedova Henriette alla città di Venezia con un ricco fondo di opere che illustrano la ricerca dell’artista tra Otto e Novecento.
Oltre che per le periodiche mostre, Palazzo Fortuny resta un luogo da esplorare quale specchio del fare inesauribile del suo ispiratore.
Basti pensare all’affascinante salone del piano nobile, con la raccolta dei dipinti, dei tessuti preziosi che rivestono le pareti, delle celebri lampade, che diventa anche uno spazio in cui il vuoto riesce a parlare.
Attraverso i muri e le finestre, le luci e i volumi percepiamo sia la storia del palazzo, che quella dell’operosa attività del suo atelier.
L’itinerario all’interno di questo palazzo-opera d’arte si può concludere nella biblioteca ancora pressoché intatta, dove, volendo fermarsi, ci sarebbero nuovi percorsi da meditare.
All'”In-finito”, ovviamente…
(©L’Osservatore Romano – 26 settembre 2009)

La sfida educativa

COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (CEI), La sfida educativa, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, pagine 223, euro 14 In nome di una sterile ‘neutralità’, la nostra società ha abdicato al suo ruolo di formatrice delle nuove generazioni.
Nel rapporto del Comitato per il Progetto Culturale CEI, il tema centrale dell’educazione.
Stiamo vivendo una vera ‘emergenza educativa’.
Mentre per le società del passato l’educazione era un compito largamente condiviso, per la nostra sta diventando soprattutto una sfida.
Se fino a ieri sembrava quasi scontato che la generazione adulta dovesse farsi carico dell’educazione della nuova, ormai questo automatismo si sta dissolvendo.
Il rapporto curato dalla CEI vuole sollecitare una riflessione sullo stato dell’educazione e, più in generale, sulla realtà esistenziale e socioculturale dell’uomo d’oggi, alla luce dell’antropologia e dell’esperienza cristiane.
L’obiettivo è quello di promuovere una consapevolezza che possa dar luogo, nel nostro Paese, a una sorta di alleanza per l’educazione; un’alleanza che sia in grado di coinvolgere – con un raggio d’azione che vada ben oltre l’ambito del cosiddetto mondo cattolico – tutti i soggetti interessati al problema, dalla famiglia alla scuola, al mondo del lavoro, a quello dei media.
Attraverso l’individuazione di alcuni temi particolarmente sensibili allo stato di attuale ‘emergenza’ – dallo sviluppo affettivo e sessuale della persona al suo rapporto con le nuove forme di socialità, anche elettroniche, dall’educazione nell’ambito dello sport, della moda e dello spettacolo al vissuto scolastico delle giovani generazioni – il volume offre un quadro complessivo dei problemi più urgenti, e, anche sulla base di dati empirici, prospetta una serie di soluzioni operative.
Il Progetto Culturale promosso dalla Chiesa italiana viene costituito nel 1997 all’interno della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana, su iniziativa del cardinale Camillo Ruini, come centro di raccordo tra le diocesi, i centri culturali cattolici, le associazioni e i movimenti, gli ordini religiosi, le Facoltà teologiche, le riviste e gli intellettuali di matrice cattolica.
Il Servizio collabora con gli Uffici della CEI per sviluppare l’aspetto culturale dell’evangelizzazione nei diversi settori della vita della Chiesa; svolge un’azione di monitoraggio, di osservatorio e di documentazione sulle iniziative volte a coniugare fede e cultura; organizza incontri di studio a carattere nazionale su temi di rilievo per il progetto culturale; coordina il Centro Universitario Cattolico.

Chiesa e Stato in Italia.

PERTICI ROBERTO,  Chiesa e Stato in Italia dalla grande guerra al nuovo concordato (1914-1984), Il Mulino 2009 ISBN: 8815132805, pp. 891, € 55.00.
Roberto Pertici ripercorre la storia dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Italia del Novecento, attraverso un’analisi approfondita delle discussioni parlamentari, del dibattito politico-culturale e dei rapporti diplomatici fra Italia e Santa Sede.
Dopo una premessa sulle radici risorgimentali della questione romana, lo studioso analizza la svolta rappresentata dalla prima guerra mondiale, che crea i presupposti per il superamento dell’antica contrapposizione, e poi la lunga trattativa approdata alla Conciliazione del 1929.
La sopravvivenza dei patti lateranensi nella crisi e dopo la caduta del regime fascista e il complesso percorso che porta all’articolo 7 della Costituzione: questo il problema ulteriore affrontato dall’autore, che infine segue il contrastato iter della riforma del Concordato nei decenni dell’Italia repubblicana, fino alla sua conclusione con gli accordi di Villa Madama del febbraio 1984.

Confini

CAMILLO RUINI, ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, Confini.
Dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo, Mondadori.
Mialano  2009, pp.  204, ISBN: 978880458310, €  18.00.  Una delle domande di fondo poste dall’attuale dibattito sull’identità culturale dell’Europa è se il cristianesimo, storicamente radicato in un Occidente sempre più secolarizzato e sollecitato dal problematico incontro con altre fedi e civiltà, riuscirà a conservare la sua dimensione profetica, e se l’Occidente laico potrà ancora riconoscere nella parola di Gesù un punto di riferimento etico e spirituale privilegiato.
Sul futuro della democrazia e sul ruolo del cristianesimo – e, in Italia, della Chiesa cattolica – due acuti osservatori del nostro tempo, lo storico Ernesto Galli della Loggia, di formazione laica, e il teologo Camillo Ruini, si confrontano in un serrato contraddittorio ricco di spunti di riflessione e acute intuizioni.
Un sintetico excursus dall’illuminismo ai giorni nostri, necessario per individuare i momenti più significativi nell’evoluzione dei rapporti tra società civile e istituzione ecclesiastica, introduce all’analisi della situazione del nostro paese, dove il cattolicesimo ha trovato la sua massima espressione politica nei quarant’anni di governo della Democrazia cristiana e dove il Concordato rappresenta tuttora un motivo di scontro ideologico.
Nella discussione entrano inevitabilmente questioni decisive per la nostra epoca, e spesso oggetto di roventi polemiche, come i limiti da porre alla scienza e alla tecnologia nella manipolazione della natura, o le istanze etiche che discendono da concezioni della vita e della morte agli antipodi.
Ma l’attenzione dei due interlocutori si rivolge anche alle grandi civiltà di matrice non cristiana (in primo luogo quella islamica), rispetto alle quali la Chiesa, come sostiene Ruini, «deve riaffermare la specificità dell’identità cristiana, la sua singolarità, che forse nel tumulto dei tempi minaccia talvolta di appannarsi agli occhi degli stessi fedeli».
Se, dunque, la strada da percorrere per raggiungere reali punti d’incontro tra la cultura laica e quella cristiana appare ancora lunga e tortuosa, non mancano segnali positivi in questa direzione, a cominciare dal messaggio del Concilio Vaticano II e dalla sua interpretazione a opera di pontefici come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, entrambi strenui difensori del concetto di dignità della persona e delle sue attese di giustizia, libertà e pace.
Senza la presunzione di fornire risposte definitive, questo dialogo apre nuovi orizzonti per chiunque desideri approfondire la conoscenza della realtà in cui vive e sia davvero tentato di attraversare i propri «confini», un passo che, prima o poi, ciascuno sarà chiamato a compiere.

Baarìa

DOMANDE & RISPOSTE   Giuseppe Tornatore non ama particolarmente il termine kolossal per la sua nuova pellicola(ma lo è), Baarìa che ha aperto la 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il  film è imponente e si percepisce dietro ogni scena l’immenso lavoro, lo sforzo duro che c’è stato nel realizzarlo.
Si ride molto, ci si commuove, dramma e comicità si alternano.
Perché come dice il regista: “Questo è un film dove ho messo tutto quello che ho imparato crescendo a Bagheria.
E uno degli insegnamenti principali è stato proprio quello che si può ridere di tutto nella vita”.
  Qui a Venezia abbiamo avuto la fortuna di vederlo in stretto dialetto baarìota, sottotitolato in italiano, quando il film uscirà nelle sale il 25 settembre distribuito da Medusa, avrà una doppia versione: quella dialettale e quella doppiata in un italiano con inflessioni sicule.
Baarìa che ha un prologo ambientato negli anni ’10 per terminare con un epilogo ai giorni nostri è incentrato negli anni dai ’30 agli ’80.
Impossibile raccontare la trama se non che la storia gira intorno a Peppino (Francesco Scianna, un attore bravissimo) e Mannina (Margareth Madè, splendida modella al suo esordio nel cinema), del loro grande amore che dura tutta la vita e di tutto un paese che gli ruota intorno.
“Se vuoi raccontare il mondo, racconta il tuo paese”, affermava Stendhal e questo ha fatto Tornatore.
Cosa c’è nel film, Tornatore? C’è la passione per la politica intesa come strumento per migliorare la propria esistenza, gli ideali, la lotta alla mafia, alla miseria, il duro lavoro, l’amore per il cinema, per il teatro, la magia, la fede, il comunismo, le illusioni, le delusioni.Tre anni ci sono voluti per realizzare Baarìa –quindi tutte le mie intenzioni le avete viste nel film, ci ho messo l’anima.
E’ stato il mio lavoro più duro e difficile ma ne sono fiero”.( 25 milioni di euro di budget, e 500 copie in arrivo.
La Medusa di Berliusconi si è “sprecata” alla grande).
Tornatore nel film Peppino alla fine dice “Vogliamo abbracciare il mondo ma abbiamo le braccia troppo corte per farlo”.
Si riferisce a qualcosa in particolare o è un suo modo di vedere la vita? E’ una frase che amo moltissimo perché solo una persona onesta la può dire.
Perché è ammettere i propri limiti, è quello che vorremmo fare ma che forse non siamo riusciti a fare.
E’ la consapevolezza anche della nostra superbia.
Ha una marea di significati, però positivi, non è una frase su una sconfitta.
Cosa ha significato per lei raccontare il microcosmo di Bagheria che diventa metafora del mondo? Tutti quelli che vivono in provincia vedono il loro paese come il centro del mondo.
E io penso che in parte sia giusto e vero perché un mondo ridotto ai minimi termini ti aiuta meglio a capire le cose, le rende più chiare.
I sogni e il vederli svanire, il bene e il male, le sorprese che ti riserva continuamente la vita… tutto si può raccontare attraverso le esistenze delle persone cresciute in piccolo paesello della Sicilia.
Nel film ci sono molte scene drammatiche, dovute soprattutto alla povertà, allo sfruttamento, alla violenza e alla durezza della vita ma si ride anche tanto… Fin dall’inizio, dalla stesura della sceneggiatura ho sempre pensato che l’ironia che a volte sfocia proprio nella comicità dovesse essere mischiata al dramma.
Un tempo i produttori dicevano:-Se vuoi che un film riesca bene devi sapere fare ridere e piangere-.
Ora, io non ho voluto applicare alla lettera questa massima ma l’ho trovata da sempre adatta alla storia che volevo raccontare.
Lo stile è quello, la filosofia è quella: per riuscire a superare, a sopravvivere alle ingiustizie e alla durezza dell’esistenza occorre essere capaci di riderci sopra.
Altrimenti è finita.
Peppino è un personaggio umile, di estrazione povera ma ha una eleganza nel vestire e nel portamento che lo identifica e lo distingue dagli altri.
E’ il simbolo della sua dignità come uomo? Assolutamente sì.
Per una persona con pochi mezzi, povera, la dignità arriva anche attraverso la sua eleganza, il suo amor proprio.
Peppino è una figura bellissima.
Un comunista che crede nella politica e nei suoi ideali, che viene deluso da questi, strapazzato dalla vita ma che continuerà come suo padre e il padre di suo padre a comportarsi da persona onesta.
Onestà nell’amore e in quello in cui si crede.
Ecco sotto questo aspetto il film è molto nostalgico perché oggigiorno è difficile trovare persone così limpide e la politica non rappresenta più un ideale, un modo per cambiare la propria vita.
E’ vista in tutt’altro modo e non c’è bisogno che ve lo spieghi io.
Alcune ore fa il  Presidente Silvio Berlusconi  ha definito il suo film un capolavoro.
Sottolineando il fatto che gli è piaciuto molto il momento in cui questo comunista va nell’allora Unione Sovietica e ne torna disgustato… Come commenta tutto ciò? Non sapevo che Berlusconi fosse anche un critico cinematografico… scherzi a parte, non ho letto queste dichiarazioni anche se mi sono state riportate.
Non nego che ogni volta che vengono fatti degli apprezzamenti al mio lavoro ne sono lusingato, quindi anche in questo caso.
Il film non è la storia di un comunista che va in URSS e torna deluso è molto di più, e tutto è molto più complicato di una lettura del genere.
Detto questo ho anche da ridire sul fatto che alcuni giornali abbiano insinuato che Berlusconi ha parlato bene del film perché è il mio produttore.
Non l’ho mai visto, mai incontrato in vita mia, quindi se è il produttore del film è un produttore davvero anomalo.
A cominciare dal fatto che raramente, davvero raramente i produttori parlano bene del film che hanno prodotto.(Ahi, ahi, Peppuccio, guidato da un ufficio stampa che è cresciuto sugli scandali cinematografici , non è che possiamo crederti molto!!!).
 Chi è  Regista famoso nel mondo, si è caratterizzato per il suo impegno civile e per alcune pellicole assai poetiche che hanno anche avuto notevole successo di pubblico.
Nato nel 1956 a Bagheria, un paesello nei pressi di Palermo, Tornatore si è sempre dimostrato attratto dalla recitazione e dalla regia.
All’età di soli sedici anni, cura la messa in scena, a teatro, di opere di giganti come Pirandello e De Filippo.
Si accosta invece al cinema, diversi anni dopo, attraverso alcune esperienze nell’ambito della produzione documentaristica e televisiva.
In questi campo ha esordito con opere assai significative.
Il suo documentario “Le minoranze etniche in Sicilia”, fra l’altro, ha vinto un premio al Festival di Salerno, mentre per la Rai ha realizzato una produzione importante come “Diario di Guttuso”.
A lui si devono inoltre, sempre per la Rai, programmi come “Ritratto di un rapinatore – Incontro con Francesco Rosi” o esplorazioni impegnate delle diverse realtà narrative italiane come “Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia”.
Nel 1984 collabora con Giuseppe Ferrara nella realizzazione di “Cento giorni a Palermo”, assumendosi anche i costi e responsabilità della produzione.
Infatti è presidente della cooperativa che produce il film nonché co- sceneggiatore e regista della seconda unità.
Due anni dopo debutta con  “Il camorrista”, in cui viene tratteggiata la losca figura di un della malavita napoletana (liberamente ispirata alla vita di Cutolo).
Il successo, sia di pubblico che di critica, è incoraggiante.
Il film si aggiudica oltretutto il Nastro d’Argento per la categoria regista esordiente.
Sulla sua strada capita Franco Cristaldi, il famoso produttore, che decide di affidargli la regia di un film a sua scelta.
Nasce in questo modo “Nuovo cinema Paradiso”, un clamoroso successo che proietterà Tornatore nello star system internazionale, tanto che gli verrà attribuito un premio a Cannes e l’Oscar per il miglior film straniero.
Inoltre, diventa il film estero più visto sul mercato americano degli ultimi anni.
Nel 1990 è quindi la volta di un’altro commovente lungometraggio quel “Stanno tutti bene” (viaggio di un padre siciliano alla volta dei suoi figli sparsi per la penisola), interpretato da un Mastroianni in una delle sue ultime interpretazioni.
L’anno successivo, invece, prende parte al film collettivo “La domenica specialmente”, per il quale gira l’episodio “Il cane blu”.
Del 1995 è “L’uomo delle stelle”, forse il film che maggiormente è stato apprezzato tra i suoi lavori.
Sergio Castellitto interpreta un singolare “ladro di sogni” mentre il film vince il David di Donatello per la regia ed il Nastro d’Argento per la stessa categoria.
Dopo questi successi, è la volta di una altro titolo da botteghino.
“La leggenda del pianista sull’oceano”.
Il protagonista è l’attore americano Tim Roth mentre come sempre Ennio Morricone compone delle bellissime musiche per la colonna sonora.
Una produzione che sfiora la dimensione del kolossal….
Anche questo titolo fa incetta di premi vincendo il Ciak d’Oro per la regia, il David di Donatello per la regia e due Nastri d’Argento uno per la regia ed uno per la sceneggiatura.
Esattamente dell’anno 2000 è invece la sua opera più recente “Maléna”, una coproduzione italo-americana con Monica Bellucci protagonista.
Nel 2000 ha anche prodotto un film del regista Roberto Andò dal titolo “Il manoscritto del principe”.
Filmografia essenziale: Camorrista, Il (1986) Nuovo cinema Paradiso (1987) Stanno tutti bene (1990) Domenica specialmente, La (1991) Pura formalità, Una (1994) Uomo delle stelle, L’ (1995) Leggenda del pianista sull’oceano, La (1998) Malèna (2000) La sconosciuta (2006)   Aforismi di Giuseppe Tornatore «I film che facciamo risentono del nostro percorso di formazione.» «Oggi deleghiamo tutto agli altri, anche la gestione degli affetti.» «Tra regista e attore protagonista, quando si cerca di dare il massimo, sono normali i momenti di confronto.
Questo nel gran cortile della comunicazione, della stampa, viene talvolta ingigantito.
Così nasce la leggenda dei rapporti difficili.» Una storia, divertente e malinconica, di grandi passioni e travolgenti utopie.
Una leggenda affollata di eroi…
Una famiglia siciliana raccontata attraverso tre generazioni: da Cicco al figlio Peppino al nipote Pietro…
Sfiorando le vicende private di questi personaggi e dei loro familiari, il film evoca gli amori, i sogni, le delusioni di un’intera comunità vissuta tra gli anni trenta e gli anni ottanta del secolo scorso nella provincia di Palermo.
Negli anni del fascismo Cicco è un modesto pecoraio che trova, però, il tempo di dedicarsi al proprio mito: i libri, i poemi cavallereschi, i grandi romanzi popolari.
Nelle stagioni della fame e della seconda guerra mondiale, suo figlio Peppino s’imbatte nell’ingiustizia e scopre la passione per la politica.
E poi… Il film “Baarìa” del  regista Giuseppe Tornatore è il nome siciliano di Bagheria, cittadina della provincia di Palermo, ha subito diviso la critica così come il pubblico per il tipo di struttura narrativa in cui la linea del tempo sembra improvvisamente piegarsi per cui il presente e il futuro si confondono fra loro attraverso la dimensione onirica e fantastica.
Ecco che ciò che era presente diviene futuro e il futuro diventa passato, un passato ricco di emozioni, sentimenti, sensazioni e, soprattutto, cambiamenti sociali.
Grazie ad un budget piuttosto elevato e alla possibilità di disporre a piacimento di circa 150 minuti il cineasta riesce a dar vita, anima e respiro ad un’epopea italiana in cui mescola immagini di fantasia con quelle di repertorio e autobiografiche che rendono la pellicola suggestiva e realistica.
“Baarìa” è come l’enciclopedia della storia della Sicilia e dell’Italia e, quindi, dello stesso autore che riversa nel film tutto l’amore per la sua terra natia, assolata, calda, spazzata dal vento i cui abitanti sono ancora oggi molto legati alla tradizione.
E’ un piccolo mondo fatto di speranze, sogni, disillusioni, ideali, è la vita stessa con la sua bellezza e la sua bruttura rappresentata dal regista con ridondanza ed arte.
Quello che colpisce fin da subito è la tecnica del cineasta che mostra la sua abilità e capacità di colpire lo spettatore/trice e di accompagnarlo/a attraverso la storia d’Italia utilizzando come punto di riferimento una famiglia di Bagheria.
La ricostruzione storica è perfetta nonostante le difficoltà legate al dover rappresentare un periodo così complesso costellato di grandi eventi e cambiamenti.
La cittadina di “Baarìa” lentamente si trasforma e cambia così come i suoi abitanti che vivono i grandi eventi della storia italiana.
Sono narrate le vicende di tre generazioni di una famiglia di Bagheria: l’occhio indiscreto della telecamera segue la vita di Peppino, interpretato da Francesco Scianna al suo esordio come attore, dalla sua infanzia fino al matrimonio con Mannina (l’esordiente Margareth Madé), e il suo impegno politico oltre che il rapporto con i figli.
Attraverso la vita del protagonista il regista cerca di raccontare quasi un secolo di storia italiana dalle due Guerre Mondiali, allo sbarco degli alleati, quindi il Fascismo che lascia il posto al Comunismo, alla Democrazia Cristiana e al Socialismo”Tutto scorre”(Eraclito, filosofo greco presocratico), è l’idea motrice del film che racconta e descrive, che cerca di guidare lo spettatore a rivivere quel periodo, le emozioni e la vita di quegli uomini e quelle donne.
 E’ un film corale che tocca diversi temi ed elementi: dal rapporto con i genitori, la morte, il lavoro, l’amore, la passione politica, la mafia, la corruzione ed altri sentimenti.
Titolo originale: Baarìa Nazione: Italia, Francia   Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 1.50 Regia: Giuseppe Tornatore Cast:  Monica Bellucci( che fa la solita bellona di passaggio), Raoul Bova, Ángela Molina, Enrico Lo Verso, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti, Nicole Grimaudo, Nino Frassica, Aldo, Leo Gullotta, Beppe Fiorello, Vincenzo Salemme, Lina Sastri, Giorgio Faletti, Nino Frassica, Salvatore Ficarra, Valentino Picone Produzione: Medusa Film, Quinta Communications, Ministero per i Beni e le Attività Culturali Distribuzione: Medusa Data di uscita: Venezia 2009 25 Settembre 2009 (cinema)

«Guerra alla guerra»

Il mondo è lacerato.
Le ferite sembrano insanabili.
La speranza è crollata sotto i bombardamenti, che non hanno risparmiato nazioni, persone e cose.
La ricostruzione latita.
Un tale orrore non deve ripetersi.
Ora è necessario iniziare una nuova guerra che faccia guerra a se stessa, perché troppo fragile è l’animo umano, troppo volubile il suo cuore.
Nel clima di propaganda, all’indomani della fine dei combattimenti, il cinema si inserisce come uno degli strumenti meno vulnerabili e capaci di penetrare maggiormente una società in bilico, spaesata, avvilita.
Riconoscono questa grande opportunità anche i cattolici, soprattutto la riconosce Pio XII.
Nasce in questo contesto, nel 1948, uno dei documenti cinematografici più interessanti nella storia del Novecento e certamente meno visti dal pubblico di ieri e di oggi:  Guerra alla guerra.
Prodotto dalla Orbis con il sostegno del Centro Cattolico Cinematografico, diretto da due registi italiani piuttosto sconosciuti, Romolo Marcellini – già autore del precedente e più famoso Pastor Angelicus girato nel 1942 – e Giorgio Simonelli, il film è stato proiettato a Venezia per la sezione “Questi Fantasmi” curata da Sergio Toffetti.
“Di Guerra alla guerra si è parlato tanto – precisa il curatore – ma quasi nessuno ebbe la possibilità di vederlo perché la sua distribuzione fu quasi inesistente.
Si è deciso il restauro, in collaborazione con la Filmoteca Vaticana, lavorando sul positivo e sul controtipo conservati nell’archivio della Cineteca Nazionale, cercando di recuperare quei materiali in grado di farci ottenere la copia migliore possibile”.
La sceneggiatura si deve a Diego Fabbri, Turi Vasile e Cesare Zavattini.
“Fabbri e Vasile furono le teste pensanti alla base della fondazione della casa di produzione Orbis.
Era un tentativo di competere nell’ambito del cinema d’autore, del cinema di regia, con gli altri nascenti poli cinematografici italiani, facendo sì che il cattolicesimo potesse avere in questo settore della comunicazione e dell’arte una sua voce di riferimento, un suo strumento.
In questo clima e con queste finalità nasce Guerra alla guerra, che indirettamente ebbe l’approvazione di Papa Pacelli”.
Il film è costruito incastrando abilmente documenti visivi dell’epoca entro una narrazione molto chiara, appositamente girata e dal sapore neorealista.
Una famiglia felice soffre la perdita di un figlio a causa di un bombardamento, che distrugge completamente anche la loro casa.
Le scene di guerra, quelle di morte, violenza, orrore sono, invece, tutte reali e più che mai esplicite e impressionanti per l’epoca, quando la guerra forse la si voleva dimenticare più che rivedere sullo schermo. La fase bellica è preparata contrapponendo alla natura pacifica e idilliaca nella quale l’uomo lavora quotidianamente per la sua necessaria sussistenza, la realtà delle fabbriche nelle quali, come fucine di morte, si costruiscono armi.
In questo modo si degrada, si snatura il lavoro umano che cambia la sua finalità, che crea morte anziché vita.
“In qualche modo direi che il film è animato da un pensiero fichtiano – precisa Toffetti.
Come all'”io” si contrappone un “non-io”, così nel film l’uomo crea manufatti e oggetti che servono alla sua vita quotidiana e per il bene, ma anche strumenti per la sua morte e per il male.
Inoltre, siamo in quella particolare stagione della storia italiana in cui il Paese, uscito dalla guerra, sta per passare da un’economia prevalentemente agricola a una industriale e proprio l’industria deve convertirsi definitivamente al bene dell’umanità, contrapponendosi alla stagione precedente in cui era dedita alla distruzione”.
Nel film, chiunque tiene in mano un’arma o manovri una macchina da guerra o sganci una bomba sulla popolazione innocente e inerme – vediamo anche l’esplosione dell’atomica – è additato come nemico dell’umanità.
Per questo non ci sono divise ed eserciti identificabili, non si fa distinzione tra Paesi, né tra vincitori e vinti.
Nel moltiplicarsi delle distruzioni e degli orrori, mentre nel film ci si domanda:  “mansueti e pacifici, dove sono?”, si leva una voce che assomiglia a quella di colui che “grida nel deserto”.
È la voce di Pio XII, che vediamo ripreso in momenti famosi – l’arrivo al quartiere di San Lorenzo a Roma dopo il bombardamento, quando il Papa è descritto come “la bianca colomba che vola per portare a termine la sua opera di carità” – e in atteggiamenti pastorali meno noti.
L’invocazione alla pace, a mano a mano che le atrocità crescono, si fa più insistente:  “Venga la pace”, “Servire la pace” e Pio XII diventa il protagonista.
Lo scorgiamo in profonda preghiera, mentre conforta e benedice.
Quando la logica delle armi prevale sulla ragione, quando il “veleno” circola ovunque e la stessa Roma è in pericolo, la voce fuori campo esclama:  “Vogliono far tacere Cristo”.
Ma il Padre – così è chiamato il Papa – non tace:  riceve in udienza i potenti del mondo, quelli che ne detengono le sorti prima e dopo la guerra; organizza l’allestimento dei campi di raccolta e di soccorso, ordina di aprire la residenza di Castel Gandolfo e i conventi di Roma per dare rifugio ai dispersi; accoglie, benedice, esorta alla pace e al perdono.
“Non sappiamo se Pio XII sia stato direttamente coinvolto nella produzione e fino a che punto l’abbia sostenuta personalmente – spiega Toffetti – ma l’aver concesso l’uso copioso della sua immagine è un implicito avallo del film”.
“Per questo motivo era importante acquisire la pellicola – aggiunge Claudia Di Giovanni, direttore della Filmoteca Vaticana – e la collaborazione con la Cineteca Nazionale l’ha reso possibile.
Ora è nostro desiderio organizzare una speciale proiezione da offrire alla Curia romana, per l’importanza che nel film occupa la figura di Papa Pacelli, per come sono descritti i suoi sforzi per la pace”.
La proiezione veneziana è stata introdotta dal breve I figli delle macerie commissionato ad Amedeo Castellazzi, sempre nel 1948, dall’Associazione nazionale combattenti e reduci, squarcio intenso di vita nel quale la voce di una mamma morta invoca la protezione del suo bambino rimasto orfano e abbandonato.
Molti dei suoi piccoli compagni abbrutiti e soli si aggirano nei paesi distrutti mentre le bambine sono fortunatamente accolte nei madrinati provinciali gestiti da alcune Congregazioni di religiose.
La speranza rinasce da qui e il cinema se ne fa interprete.
(©L’Osservatore Romano – 7-8 settembre 2009)

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