La sfida educativa

COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (CEI), La sfida educativa, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, pagine 223, euro 14 In nome di una sterile ‘neutralità’, la nostra società ha abdicato al suo ruolo di formatrice delle nuove generazioni.
Nel rapporto del Comitato per il Progetto Culturale CEI, il tema centrale dell’educazione.
Stiamo vivendo una vera ‘emergenza educativa’.
Mentre per le società del passato l’educazione era un compito largamente condiviso, per la nostra sta diventando soprattutto una sfida.
Se fino a ieri sembrava quasi scontato che la generazione adulta dovesse farsi carico dell’educazione della nuova, ormai questo automatismo si sta dissolvendo.
Il rapporto curato dalla CEI vuole sollecitare una riflessione sullo stato dell’educazione e, più in generale, sulla realtà esistenziale e socioculturale dell’uomo d’oggi, alla luce dell’antropologia e dell’esperienza cristiane.
L’obiettivo è quello di promuovere una consapevolezza che possa dar luogo, nel nostro Paese, a una sorta di alleanza per l’educazione; un’alleanza che sia in grado di coinvolgere – con un raggio d’azione che vada ben oltre l’ambito del cosiddetto mondo cattolico – tutti i soggetti interessati al problema, dalla famiglia alla scuola, al mondo del lavoro, a quello dei media.
Attraverso l’individuazione di alcuni temi particolarmente sensibili allo stato di attuale ‘emergenza’ – dallo sviluppo affettivo e sessuale della persona al suo rapporto con le nuove forme di socialità, anche elettroniche, dall’educazione nell’ambito dello sport, della moda e dello spettacolo al vissuto scolastico delle giovani generazioni – il volume offre un quadro complessivo dei problemi più urgenti, e, anche sulla base di dati empirici, prospetta una serie di soluzioni operative.
Il Progetto Culturale promosso dalla Chiesa italiana viene costituito nel 1997 all’interno della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana, su iniziativa del cardinale Camillo Ruini, come centro di raccordo tra le diocesi, i centri culturali cattolici, le associazioni e i movimenti, gli ordini religiosi, le Facoltà teologiche, le riviste e gli intellettuali di matrice cattolica.
Il Servizio collabora con gli Uffici della CEI per sviluppare l’aspetto culturale dell’evangelizzazione nei diversi settori della vita della Chiesa; svolge un’azione di monitoraggio, di osservatorio e di documentazione sulle iniziative volte a coniugare fede e cultura; organizza incontri di studio a carattere nazionale su temi di rilievo per il progetto culturale; coordina il Centro Universitario Cattolico.

Chiesa e Stato in Italia.

PERTICI ROBERTO,  Chiesa e Stato in Italia dalla grande guerra al nuovo concordato (1914-1984), Il Mulino 2009 ISBN: 8815132805, pp. 891, € 55.00.
Roberto Pertici ripercorre la storia dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Italia del Novecento, attraverso un’analisi approfondita delle discussioni parlamentari, del dibattito politico-culturale e dei rapporti diplomatici fra Italia e Santa Sede.
Dopo una premessa sulle radici risorgimentali della questione romana, lo studioso analizza la svolta rappresentata dalla prima guerra mondiale, che crea i presupposti per il superamento dell’antica contrapposizione, e poi la lunga trattativa approdata alla Conciliazione del 1929.
La sopravvivenza dei patti lateranensi nella crisi e dopo la caduta del regime fascista e il complesso percorso che porta all’articolo 7 della Costituzione: questo il problema ulteriore affrontato dall’autore, che infine segue il contrastato iter della riforma del Concordato nei decenni dell’Italia repubblicana, fino alla sua conclusione con gli accordi di Villa Madama del febbraio 1984.

Confini

CAMILLO RUINI, ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, Confini.
Dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo, Mondadori.
Mialano  2009, pp.  204, ISBN: 978880458310, €  18.00.  Una delle domande di fondo poste dall’attuale dibattito sull’identità culturale dell’Europa è se il cristianesimo, storicamente radicato in un Occidente sempre più secolarizzato e sollecitato dal problematico incontro con altre fedi e civiltà, riuscirà a conservare la sua dimensione profetica, e se l’Occidente laico potrà ancora riconoscere nella parola di Gesù un punto di riferimento etico e spirituale privilegiato.
Sul futuro della democrazia e sul ruolo del cristianesimo – e, in Italia, della Chiesa cattolica – due acuti osservatori del nostro tempo, lo storico Ernesto Galli della Loggia, di formazione laica, e il teologo Camillo Ruini, si confrontano in un serrato contraddittorio ricco di spunti di riflessione e acute intuizioni.
Un sintetico excursus dall’illuminismo ai giorni nostri, necessario per individuare i momenti più significativi nell’evoluzione dei rapporti tra società civile e istituzione ecclesiastica, introduce all’analisi della situazione del nostro paese, dove il cattolicesimo ha trovato la sua massima espressione politica nei quarant’anni di governo della Democrazia cristiana e dove il Concordato rappresenta tuttora un motivo di scontro ideologico.
Nella discussione entrano inevitabilmente questioni decisive per la nostra epoca, e spesso oggetto di roventi polemiche, come i limiti da porre alla scienza e alla tecnologia nella manipolazione della natura, o le istanze etiche che discendono da concezioni della vita e della morte agli antipodi.
Ma l’attenzione dei due interlocutori si rivolge anche alle grandi civiltà di matrice non cristiana (in primo luogo quella islamica), rispetto alle quali la Chiesa, come sostiene Ruini, «deve riaffermare la specificità dell’identità cristiana, la sua singolarità, che forse nel tumulto dei tempi minaccia talvolta di appannarsi agli occhi degli stessi fedeli».
Se, dunque, la strada da percorrere per raggiungere reali punti d’incontro tra la cultura laica e quella cristiana appare ancora lunga e tortuosa, non mancano segnali positivi in questa direzione, a cominciare dal messaggio del Concilio Vaticano II e dalla sua interpretazione a opera di pontefici come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, entrambi strenui difensori del concetto di dignità della persona e delle sue attese di giustizia, libertà e pace.
Senza la presunzione di fornire risposte definitive, questo dialogo apre nuovi orizzonti per chiunque desideri approfondire la conoscenza della realtà in cui vive e sia davvero tentato di attraversare i propri «confini», un passo che, prima o poi, ciascuno sarà chiamato a compiere.

Baarìa

DOMANDE & RISPOSTE   Giuseppe Tornatore non ama particolarmente il termine kolossal per la sua nuova pellicola(ma lo è), Baarìa che ha aperto la 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il  film è imponente e si percepisce dietro ogni scena l’immenso lavoro, lo sforzo duro che c’è stato nel realizzarlo.
Si ride molto, ci si commuove, dramma e comicità si alternano.
Perché come dice il regista: “Questo è un film dove ho messo tutto quello che ho imparato crescendo a Bagheria.
E uno degli insegnamenti principali è stato proprio quello che si può ridere di tutto nella vita”.
  Qui a Venezia abbiamo avuto la fortuna di vederlo in stretto dialetto baarìota, sottotitolato in italiano, quando il film uscirà nelle sale il 25 settembre distribuito da Medusa, avrà una doppia versione: quella dialettale e quella doppiata in un italiano con inflessioni sicule.
Baarìa che ha un prologo ambientato negli anni ’10 per terminare con un epilogo ai giorni nostri è incentrato negli anni dai ’30 agli ’80.
Impossibile raccontare la trama se non che la storia gira intorno a Peppino (Francesco Scianna, un attore bravissimo) e Mannina (Margareth Madè, splendida modella al suo esordio nel cinema), del loro grande amore che dura tutta la vita e di tutto un paese che gli ruota intorno.
“Se vuoi raccontare il mondo, racconta il tuo paese”, affermava Stendhal e questo ha fatto Tornatore.
Cosa c’è nel film, Tornatore? C’è la passione per la politica intesa come strumento per migliorare la propria esistenza, gli ideali, la lotta alla mafia, alla miseria, il duro lavoro, l’amore per il cinema, per il teatro, la magia, la fede, il comunismo, le illusioni, le delusioni.Tre anni ci sono voluti per realizzare Baarìa –quindi tutte le mie intenzioni le avete viste nel film, ci ho messo l’anima.
E’ stato il mio lavoro più duro e difficile ma ne sono fiero”.( 25 milioni di euro di budget, e 500 copie in arrivo.
La Medusa di Berliusconi si è “sprecata” alla grande).
Tornatore nel film Peppino alla fine dice “Vogliamo abbracciare il mondo ma abbiamo le braccia troppo corte per farlo”.
Si riferisce a qualcosa in particolare o è un suo modo di vedere la vita? E’ una frase che amo moltissimo perché solo una persona onesta la può dire.
Perché è ammettere i propri limiti, è quello che vorremmo fare ma che forse non siamo riusciti a fare.
E’ la consapevolezza anche della nostra superbia.
Ha una marea di significati, però positivi, non è una frase su una sconfitta.
Cosa ha significato per lei raccontare il microcosmo di Bagheria che diventa metafora del mondo? Tutti quelli che vivono in provincia vedono il loro paese come il centro del mondo.
E io penso che in parte sia giusto e vero perché un mondo ridotto ai minimi termini ti aiuta meglio a capire le cose, le rende più chiare.
I sogni e il vederli svanire, il bene e il male, le sorprese che ti riserva continuamente la vita… tutto si può raccontare attraverso le esistenze delle persone cresciute in piccolo paesello della Sicilia.
Nel film ci sono molte scene drammatiche, dovute soprattutto alla povertà, allo sfruttamento, alla violenza e alla durezza della vita ma si ride anche tanto… Fin dall’inizio, dalla stesura della sceneggiatura ho sempre pensato che l’ironia che a volte sfocia proprio nella comicità dovesse essere mischiata al dramma.
Un tempo i produttori dicevano:-Se vuoi che un film riesca bene devi sapere fare ridere e piangere-.
Ora, io non ho voluto applicare alla lettera questa massima ma l’ho trovata da sempre adatta alla storia che volevo raccontare.
Lo stile è quello, la filosofia è quella: per riuscire a superare, a sopravvivere alle ingiustizie e alla durezza dell’esistenza occorre essere capaci di riderci sopra.
Altrimenti è finita.
Peppino è un personaggio umile, di estrazione povera ma ha una eleganza nel vestire e nel portamento che lo identifica e lo distingue dagli altri.
E’ il simbolo della sua dignità come uomo? Assolutamente sì.
Per una persona con pochi mezzi, povera, la dignità arriva anche attraverso la sua eleganza, il suo amor proprio.
Peppino è una figura bellissima.
Un comunista che crede nella politica e nei suoi ideali, che viene deluso da questi, strapazzato dalla vita ma che continuerà come suo padre e il padre di suo padre a comportarsi da persona onesta.
Onestà nell’amore e in quello in cui si crede.
Ecco sotto questo aspetto il film è molto nostalgico perché oggigiorno è difficile trovare persone così limpide e la politica non rappresenta più un ideale, un modo per cambiare la propria vita.
E’ vista in tutt’altro modo e non c’è bisogno che ve lo spieghi io.
Alcune ore fa il  Presidente Silvio Berlusconi  ha definito il suo film un capolavoro.
Sottolineando il fatto che gli è piaciuto molto il momento in cui questo comunista va nell’allora Unione Sovietica e ne torna disgustato… Come commenta tutto ciò? Non sapevo che Berlusconi fosse anche un critico cinematografico… scherzi a parte, non ho letto queste dichiarazioni anche se mi sono state riportate.
Non nego che ogni volta che vengono fatti degli apprezzamenti al mio lavoro ne sono lusingato, quindi anche in questo caso.
Il film non è la storia di un comunista che va in URSS e torna deluso è molto di più, e tutto è molto più complicato di una lettura del genere.
Detto questo ho anche da ridire sul fatto che alcuni giornali abbiano insinuato che Berlusconi ha parlato bene del film perché è il mio produttore.
Non l’ho mai visto, mai incontrato in vita mia, quindi se è il produttore del film è un produttore davvero anomalo.
A cominciare dal fatto che raramente, davvero raramente i produttori parlano bene del film che hanno prodotto.(Ahi, ahi, Peppuccio, guidato da un ufficio stampa che è cresciuto sugli scandali cinematografici , non è che possiamo crederti molto!!!).
 Chi è  Regista famoso nel mondo, si è caratterizzato per il suo impegno civile e per alcune pellicole assai poetiche che hanno anche avuto notevole successo di pubblico.
Nato nel 1956 a Bagheria, un paesello nei pressi di Palermo, Tornatore si è sempre dimostrato attratto dalla recitazione e dalla regia.
All’età di soli sedici anni, cura la messa in scena, a teatro, di opere di giganti come Pirandello e De Filippo.
Si accosta invece al cinema, diversi anni dopo, attraverso alcune esperienze nell’ambito della produzione documentaristica e televisiva.
In questi campo ha esordito con opere assai significative.
Il suo documentario “Le minoranze etniche in Sicilia”, fra l’altro, ha vinto un premio al Festival di Salerno, mentre per la Rai ha realizzato una produzione importante come “Diario di Guttuso”.
A lui si devono inoltre, sempre per la Rai, programmi come “Ritratto di un rapinatore – Incontro con Francesco Rosi” o esplorazioni impegnate delle diverse realtà narrative italiane come “Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia”.
Nel 1984 collabora con Giuseppe Ferrara nella realizzazione di “Cento giorni a Palermo”, assumendosi anche i costi e responsabilità della produzione.
Infatti è presidente della cooperativa che produce il film nonché co- sceneggiatore e regista della seconda unità.
Due anni dopo debutta con  “Il camorrista”, in cui viene tratteggiata la losca figura di un della malavita napoletana (liberamente ispirata alla vita di Cutolo).
Il successo, sia di pubblico che di critica, è incoraggiante.
Il film si aggiudica oltretutto il Nastro d’Argento per la categoria regista esordiente.
Sulla sua strada capita Franco Cristaldi, il famoso produttore, che decide di affidargli la regia di un film a sua scelta.
Nasce in questo modo “Nuovo cinema Paradiso”, un clamoroso successo che proietterà Tornatore nello star system internazionale, tanto che gli verrà attribuito un premio a Cannes e l’Oscar per il miglior film straniero.
Inoltre, diventa il film estero più visto sul mercato americano degli ultimi anni.
Nel 1990 è quindi la volta di un’altro commovente lungometraggio quel “Stanno tutti bene” (viaggio di un padre siciliano alla volta dei suoi figli sparsi per la penisola), interpretato da un Mastroianni in una delle sue ultime interpretazioni.
L’anno successivo, invece, prende parte al film collettivo “La domenica specialmente”, per il quale gira l’episodio “Il cane blu”.
Del 1995 è “L’uomo delle stelle”, forse il film che maggiormente è stato apprezzato tra i suoi lavori.
Sergio Castellitto interpreta un singolare “ladro di sogni” mentre il film vince il David di Donatello per la regia ed il Nastro d’Argento per la stessa categoria.
Dopo questi successi, è la volta di una altro titolo da botteghino.
“La leggenda del pianista sull’oceano”.
Il protagonista è l’attore americano Tim Roth mentre come sempre Ennio Morricone compone delle bellissime musiche per la colonna sonora.
Una produzione che sfiora la dimensione del kolossal….
Anche questo titolo fa incetta di premi vincendo il Ciak d’Oro per la regia, il David di Donatello per la regia e due Nastri d’Argento uno per la regia ed uno per la sceneggiatura.
Esattamente dell’anno 2000 è invece la sua opera più recente “Maléna”, una coproduzione italo-americana con Monica Bellucci protagonista.
Nel 2000 ha anche prodotto un film del regista Roberto Andò dal titolo “Il manoscritto del principe”.
Filmografia essenziale: Camorrista, Il (1986) Nuovo cinema Paradiso (1987) Stanno tutti bene (1990) Domenica specialmente, La (1991) Pura formalità, Una (1994) Uomo delle stelle, L’ (1995) Leggenda del pianista sull’oceano, La (1998) Malèna (2000) La sconosciuta (2006)   Aforismi di Giuseppe Tornatore «I film che facciamo risentono del nostro percorso di formazione.» «Oggi deleghiamo tutto agli altri, anche la gestione degli affetti.» «Tra regista e attore protagonista, quando si cerca di dare il massimo, sono normali i momenti di confronto.
Questo nel gran cortile della comunicazione, della stampa, viene talvolta ingigantito.
Così nasce la leggenda dei rapporti difficili.» Una storia, divertente e malinconica, di grandi passioni e travolgenti utopie.
Una leggenda affollata di eroi…
Una famiglia siciliana raccontata attraverso tre generazioni: da Cicco al figlio Peppino al nipote Pietro…
Sfiorando le vicende private di questi personaggi e dei loro familiari, il film evoca gli amori, i sogni, le delusioni di un’intera comunità vissuta tra gli anni trenta e gli anni ottanta del secolo scorso nella provincia di Palermo.
Negli anni del fascismo Cicco è un modesto pecoraio che trova, però, il tempo di dedicarsi al proprio mito: i libri, i poemi cavallereschi, i grandi romanzi popolari.
Nelle stagioni della fame e della seconda guerra mondiale, suo figlio Peppino s’imbatte nell’ingiustizia e scopre la passione per la politica.
E poi… Il film “Baarìa” del  regista Giuseppe Tornatore è il nome siciliano di Bagheria, cittadina della provincia di Palermo, ha subito diviso la critica così come il pubblico per il tipo di struttura narrativa in cui la linea del tempo sembra improvvisamente piegarsi per cui il presente e il futuro si confondono fra loro attraverso la dimensione onirica e fantastica.
Ecco che ciò che era presente diviene futuro e il futuro diventa passato, un passato ricco di emozioni, sentimenti, sensazioni e, soprattutto, cambiamenti sociali.
Grazie ad un budget piuttosto elevato e alla possibilità di disporre a piacimento di circa 150 minuti il cineasta riesce a dar vita, anima e respiro ad un’epopea italiana in cui mescola immagini di fantasia con quelle di repertorio e autobiografiche che rendono la pellicola suggestiva e realistica.
“Baarìa” è come l’enciclopedia della storia della Sicilia e dell’Italia e, quindi, dello stesso autore che riversa nel film tutto l’amore per la sua terra natia, assolata, calda, spazzata dal vento i cui abitanti sono ancora oggi molto legati alla tradizione.
E’ un piccolo mondo fatto di speranze, sogni, disillusioni, ideali, è la vita stessa con la sua bellezza e la sua bruttura rappresentata dal regista con ridondanza ed arte.
Quello che colpisce fin da subito è la tecnica del cineasta che mostra la sua abilità e capacità di colpire lo spettatore/trice e di accompagnarlo/a attraverso la storia d’Italia utilizzando come punto di riferimento una famiglia di Bagheria.
La ricostruzione storica è perfetta nonostante le difficoltà legate al dover rappresentare un periodo così complesso costellato di grandi eventi e cambiamenti.
La cittadina di “Baarìa” lentamente si trasforma e cambia così come i suoi abitanti che vivono i grandi eventi della storia italiana.
Sono narrate le vicende di tre generazioni di una famiglia di Bagheria: l’occhio indiscreto della telecamera segue la vita di Peppino, interpretato da Francesco Scianna al suo esordio come attore, dalla sua infanzia fino al matrimonio con Mannina (l’esordiente Margareth Madé), e il suo impegno politico oltre che il rapporto con i figli.
Attraverso la vita del protagonista il regista cerca di raccontare quasi un secolo di storia italiana dalle due Guerre Mondiali, allo sbarco degli alleati, quindi il Fascismo che lascia il posto al Comunismo, alla Democrazia Cristiana e al Socialismo”Tutto scorre”(Eraclito, filosofo greco presocratico), è l’idea motrice del film che racconta e descrive, che cerca di guidare lo spettatore a rivivere quel periodo, le emozioni e la vita di quegli uomini e quelle donne.
 E’ un film corale che tocca diversi temi ed elementi: dal rapporto con i genitori, la morte, il lavoro, l’amore, la passione politica, la mafia, la corruzione ed altri sentimenti.
Titolo originale: Baarìa Nazione: Italia, Francia   Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 1.50 Regia: Giuseppe Tornatore Cast:  Monica Bellucci( che fa la solita bellona di passaggio), Raoul Bova, Ángela Molina, Enrico Lo Verso, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti, Nicole Grimaudo, Nino Frassica, Aldo, Leo Gullotta, Beppe Fiorello, Vincenzo Salemme, Lina Sastri, Giorgio Faletti, Nino Frassica, Salvatore Ficarra, Valentino Picone Produzione: Medusa Film, Quinta Communications, Ministero per i Beni e le Attività Culturali Distribuzione: Medusa Data di uscita: Venezia 2009 25 Settembre 2009 (cinema)

«Guerra alla guerra»

Il mondo è lacerato.
Le ferite sembrano insanabili.
La speranza è crollata sotto i bombardamenti, che non hanno risparmiato nazioni, persone e cose.
La ricostruzione latita.
Un tale orrore non deve ripetersi.
Ora è necessario iniziare una nuova guerra che faccia guerra a se stessa, perché troppo fragile è l’animo umano, troppo volubile il suo cuore.
Nel clima di propaganda, all’indomani della fine dei combattimenti, il cinema si inserisce come uno degli strumenti meno vulnerabili e capaci di penetrare maggiormente una società in bilico, spaesata, avvilita.
Riconoscono questa grande opportunità anche i cattolici, soprattutto la riconosce Pio XII.
Nasce in questo contesto, nel 1948, uno dei documenti cinematografici più interessanti nella storia del Novecento e certamente meno visti dal pubblico di ieri e di oggi:  Guerra alla guerra.
Prodotto dalla Orbis con il sostegno del Centro Cattolico Cinematografico, diretto da due registi italiani piuttosto sconosciuti, Romolo Marcellini – già autore del precedente e più famoso Pastor Angelicus girato nel 1942 – e Giorgio Simonelli, il film è stato proiettato a Venezia per la sezione “Questi Fantasmi” curata da Sergio Toffetti.
“Di Guerra alla guerra si è parlato tanto – precisa il curatore – ma quasi nessuno ebbe la possibilità di vederlo perché la sua distribuzione fu quasi inesistente.
Si è deciso il restauro, in collaborazione con la Filmoteca Vaticana, lavorando sul positivo e sul controtipo conservati nell’archivio della Cineteca Nazionale, cercando di recuperare quei materiali in grado di farci ottenere la copia migliore possibile”.
La sceneggiatura si deve a Diego Fabbri, Turi Vasile e Cesare Zavattini.
“Fabbri e Vasile furono le teste pensanti alla base della fondazione della casa di produzione Orbis.
Era un tentativo di competere nell’ambito del cinema d’autore, del cinema di regia, con gli altri nascenti poli cinematografici italiani, facendo sì che il cattolicesimo potesse avere in questo settore della comunicazione e dell’arte una sua voce di riferimento, un suo strumento.
In questo clima e con queste finalità nasce Guerra alla guerra, che indirettamente ebbe l’approvazione di Papa Pacelli”.
Il film è costruito incastrando abilmente documenti visivi dell’epoca entro una narrazione molto chiara, appositamente girata e dal sapore neorealista.
Una famiglia felice soffre la perdita di un figlio a causa di un bombardamento, che distrugge completamente anche la loro casa.
Le scene di guerra, quelle di morte, violenza, orrore sono, invece, tutte reali e più che mai esplicite e impressionanti per l’epoca, quando la guerra forse la si voleva dimenticare più che rivedere sullo schermo. La fase bellica è preparata contrapponendo alla natura pacifica e idilliaca nella quale l’uomo lavora quotidianamente per la sua necessaria sussistenza, la realtà delle fabbriche nelle quali, come fucine di morte, si costruiscono armi.
In questo modo si degrada, si snatura il lavoro umano che cambia la sua finalità, che crea morte anziché vita.
“In qualche modo direi che il film è animato da un pensiero fichtiano – precisa Toffetti.
Come all'”io” si contrappone un “non-io”, così nel film l’uomo crea manufatti e oggetti che servono alla sua vita quotidiana e per il bene, ma anche strumenti per la sua morte e per il male.
Inoltre, siamo in quella particolare stagione della storia italiana in cui il Paese, uscito dalla guerra, sta per passare da un’economia prevalentemente agricola a una industriale e proprio l’industria deve convertirsi definitivamente al bene dell’umanità, contrapponendosi alla stagione precedente in cui era dedita alla distruzione”.
Nel film, chiunque tiene in mano un’arma o manovri una macchina da guerra o sganci una bomba sulla popolazione innocente e inerme – vediamo anche l’esplosione dell’atomica – è additato come nemico dell’umanità.
Per questo non ci sono divise ed eserciti identificabili, non si fa distinzione tra Paesi, né tra vincitori e vinti.
Nel moltiplicarsi delle distruzioni e degli orrori, mentre nel film ci si domanda:  “mansueti e pacifici, dove sono?”, si leva una voce che assomiglia a quella di colui che “grida nel deserto”.
È la voce di Pio XII, che vediamo ripreso in momenti famosi – l’arrivo al quartiere di San Lorenzo a Roma dopo il bombardamento, quando il Papa è descritto come “la bianca colomba che vola per portare a termine la sua opera di carità” – e in atteggiamenti pastorali meno noti.
L’invocazione alla pace, a mano a mano che le atrocità crescono, si fa più insistente:  “Venga la pace”, “Servire la pace” e Pio XII diventa il protagonista.
Lo scorgiamo in profonda preghiera, mentre conforta e benedice.
Quando la logica delle armi prevale sulla ragione, quando il “veleno” circola ovunque e la stessa Roma è in pericolo, la voce fuori campo esclama:  “Vogliono far tacere Cristo”.
Ma il Padre – così è chiamato il Papa – non tace:  riceve in udienza i potenti del mondo, quelli che ne detengono le sorti prima e dopo la guerra; organizza l’allestimento dei campi di raccolta e di soccorso, ordina di aprire la residenza di Castel Gandolfo e i conventi di Roma per dare rifugio ai dispersi; accoglie, benedice, esorta alla pace e al perdono.
“Non sappiamo se Pio XII sia stato direttamente coinvolto nella produzione e fino a che punto l’abbia sostenuta personalmente – spiega Toffetti – ma l’aver concesso l’uso copioso della sua immagine è un implicito avallo del film”.
“Per questo motivo era importante acquisire la pellicola – aggiunge Claudia Di Giovanni, direttore della Filmoteca Vaticana – e la collaborazione con la Cineteca Nazionale l’ha reso possibile.
Ora è nostro desiderio organizzare una speciale proiezione da offrire alla Curia romana, per l’importanza che nel film occupa la figura di Papa Pacelli, per come sono descritti i suoi sforzi per la pace”.
La proiezione veneziana è stata introdotta dal breve I figli delle macerie commissionato ad Amedeo Castellazzi, sempre nel 1948, dall’Associazione nazionale combattenti e reduci, squarcio intenso di vita nel quale la voce di una mamma morta invoca la protezione del suo bambino rimasto orfano e abbandonato.
Molti dei suoi piccoli compagni abbrutiti e soli si aggirano nei paesi distrutti mentre le bambine sono fortunatamente accolte nei madrinati provinciali gestiti da alcune Congregazioni di religiose.
La speranza rinasce da qui e il cinema se ne fa interprete.
(©L’Osservatore Romano – 7-8 settembre 2009)

Unità 2 Sperimentatori

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l’Agorà dei giovani del Mediterraneo

Anche quest’anno si svolgerà presso il Centro Giovanni Paolo II di Loreto (AN) l’Agorà dei giovani del Mediterraneo, organizzata anche dal Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile e dal Movimento Giovanile Missionario.
“Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio, perché Dio darà loro il suo regno” è il tema di quest’anno, particolarmente attuale nel contesto sociale e globalizzato nel quale viviamo.
Il martirio, segno vivo del sì dell’uomo alla chiamata di Dio e testimonianza ai fratelli, è la luce che illumina il cammino di ciascun cristiano dal giorno del Battesimo e in particolare i giovani sono chiamati ad essere testimoni autentici dell’incontro con Cristo che trasforma radicalmente l’esistenza riempiendola di senso.
L’iniziativa, giunta ormai all’ottava edizione, non rappresenta soltanto un momento di confronto, scambio e conoscenza tra giovani; ciascun partecipante rappresenta, infatti, la Chiesa locale che lo invia e, soprattutto, lo attende al termine dell’Agorà per valorizzare insieme i frutti dell’esperienza vissuta.
In particolare la comunità diocesana è chiamata ad allargare gli orizzonti dell’azione pastorale attraverso gesti concreti di conoscenza, testimonianza, solidarietà e scambio tra nazioni.
Sono molte le chiese locali italiane che hanno progetti di cooperazione in Europa, in Medio Oriente e nel bacino del Mediterraneo, i quali non di rado prevedono il coinvolgimento di giovani volontari e gruppi giovanili: l’Agorà del Mediterraneo è un’opportunità per stimolare i giovani e le comunità italiane a far nascere iniziative di cooperazione anche lì dove ancora non esistono.
Il carattere internazionale dell’evento, l’apertura al Mediterraneo e all’Europa e alle problematiche che attraversiamo, rende l’iniziativa particolarmente adatta a giovani che abbiano fatto un anno di studio all’estero (adolescenti del quarto anno delle Superiori), abbiano fatto o stiano per fare l’Erasmus o il progetto Leonardo, abbiano vissuto una o più esperienze in terra di missione (in gruppo o singolarmente), abbiano maturato una o più esperienze lavorative all’estero.
È importante che l’invito sia pensato, inserito in un progetto pastorale diocesano sempre più capace di aprirsi alle altre culture e al mondo, un progetto che sappia inviare i giovani all’Agorà e coinvolgerli al loro rientro con iniziative che li vedano operatori di pace verso i loro coetanei.
Sarebbe bello se ogni diocesi italiana riuscisse ad inviare due giovani all’Agorà dei giovani del Mediterraneo per continuare un percorso di pastorale giovanile diocesana sempre più aperto all’accoglienza dello straniero e alla comunione tra giovani cristiani.
L’invito può essere esteso anche a giovani stranieri che risiedano stabilmente in Italia (per lavoro o studio) e siano in qualche modo inseriti nella vita della comunità cristiana.
Vitto e alloggio al Centro Giovanni Paolo II di Loreto sono gratuiti; il viaggio è a carico dei partecipanti.
  AGORÀ DEI GIOVANI DEL MEDITERRANEO VIII EDIZIONE 1-8 settembre 2009 Centro Giovanni Paolo II 8 – 12 settembre accoglienza in alcune diocesi italiane « Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la  volontà di Dio: perché Dio darà loro il suo regno » Anche quest’anno, presso il Centro Giovanni Paolo II, si svolgerà l’Agorà dei giovani del Mediterraneo.
Il tema: Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio: perché Dio darà loro il suo regno, è particolarmente attuale nel contesto sociale e globalizzato nel quale viviamo. Il martirio, segno vivo del si dell’uomo alla chiamata di Dio e testimonianza ai fratelli, è la luce che illumina il cammino di ciascun cristiano dal giorno delBattesimo, in particolare i giovani sono chiamati ad essere testimoni autentici dell’incontro con Cristo che trasforma radicalmente l’esistenza riempiendola di senso.
L’iniziativa, giunta ormai all’ottava edizione, non rappresenta soltanto un momento di confronto, scambio e conoscenza tra giovani; ciascun partecipante rappresenta, infatti, la Chiesa locale che lo invia e, soprattutto, lo attende al termine dell’Agorà per valorizzare insieme i frutti dell’esperienza vissuta.
In particolare la Comunità Diocesana è chiamata ad allargare gli orizzonti dell’azione pastorale attraverso gesti concreti di conoscenza, testimonianza, solidarietà e scambio tra nazioni.
Sono molte le chiese locali italiane che hanno progetti di cooperazione in Europa, in Medio Oriente e nel bacino del Mediterraneo, i quali non di rado prevedono il coinvolgimento di giovani volontari e gruppi giovanili, l’Agorà del Mediterraneo è un’opportunità per stimolare i giovani e le comunità italiane a far nascere iniziative di cooperazione anche lì dove ancora non esistono.
Il carattere internazionale dell’evento, l’apertura al mediterraneo e all’Europa e alle problematiche che attraversiamo, rende l’iniziativa particolarmente adatta a giovani che: abbiano fatto un anno di studio all’estero (adolescenti del quarto anno delle Superiori); abbiano fatto o hanno in mente l’Erasmus o il progetto Leonardo; abbiano vissuto una o più esperienze in terra di missione (in gruppo o singolarmente); abbiano maturato una o più esperienze lavorative all’estero.
È importante che l’invito sia pensato, inserito in un progetto pastorale diocesano sempre più capace di aprirsi alle altre culture e al mondo, un progetto che sappia inviare i giovani all’Agorà e coinvolgerli al loro rientro con iniziative che li vedano operatori di pace verso i loro coetanei.
Sarebbe bello se ogni Diocesi italiana riuscisse ad inviare due giovani all’Agorà dei giovani del Mediterraneo per continuare un percorso di pastorale giovanile diocesana sempre più aperto all’accoglienza dello straniero e alla comunione tra giovani cristiani.
Se presenti, ti proponiamo di invitare anche giovani stranieri che risiedono stabilmente in Italia (per lavoro o studio) e sono in qualche modo inseriti nella vita della comunità cristiana.
Vitto alloggio al Centro Giovanni Paolo II di Loreto sono è GRATUITI; il viaggio è a carico dei partecipanti.
Programma dell’iniziativa Scheda di Iscrizione

Qui e ora (1984-1985)

LUIGI GIUSSANI, Qui e ora (1984-1985),  Editore: BUR Biblioteca Univ.
Rizzoli, Milano 2009,  EAN: 9788817028684, pp. 484, € 12,00 II quarto volume della serie “L’equipe”, in cui si riproducono le lezioni e i dialoghi di don Giussani con i responsabili degli universitari di Comunione e Liberazione.
“lo sono la resurrezione e la vita: credi tu questo?” Come si può rispondere alla domanda che Cristo rivolge a Marta, davanti a Lazzaro, il fratello morto? In altre parole, com’è possibile la fede oggi? L’uomo che ha detto: “lo sono la via, la verità e la vita” è risorto, cioè è contemporaneo alla storia.
“Sarò con voi fino alla fine dei secoli.” Dove lo si vede? Dove lo si tocca? Dove lo si ascolta? Ora, duemila anni fa come adesso, è l’appartenenza a Cristo presente e reale, che ci tocca attraverso determinate circostanze umane, a rendere possibile l’esperienza di una nuova consistenza, di una resurrezione dell’umano, in qualunque condizione.
Quella di metà anni Ottanta fu segnata dal rapido estendersi di un nichilismo gaio, sulle macerie di progetti e ideologie.
In quello scenario, che non fu solo universitario, spiccava ancor più la tenuta e la crescita di una presenza non determinata dalla volontà di un esito sociale e politico, ma dal riconoscimento di Cristo risorto e da una passione di testimonianza

Katyn

Quanti vedranno la pellicola, sappiano che quelle che li dividono dall’Agnus Dei composto da Krzysztof Penderecki – sconvolgente chiusura, su schermo nero, del film – sono poco meno di due ore di grande cinema.
E non è per un modo di dire.
«Meditate che questo è stato»: davanti all’opera di Wajda viene alla mente un passo dell’epigrafe che apre Se questo è un uomo di Primo Levi, anche perché questo racconto per immagini emerge – letteralmente – dalla nebbia, che non è solo quella dei libri di Storia.
Eppure, nonostante la palese bestialità, atrocità della vicenda che sta alla sua base, Katyn non è il prodotto partorito con spirito vendicativo o astio ideologico dal figlio di una delle vittime.
È tutt’altro, è sorprendentemente tutt’altro: Katyn è un’opera corale sull’accadere, sul porsi di un fatto, sulla verità di questo fatto e sul rapporto di ciascuno (e della sua libertà) con la verità di questo fatto.
Verità che durante il film vedremo negata, distorta o sminuita dal Potere, Potere inteso come affermazione di un’idea sulla realtà, cioè su quel che è accaduto.
Come ogni forma d’arte che valga questo nome, la pellicola è una forma di incontro: dietro quei 113 minuti c’è – ultimamente – qualcuno che chiede la nostra attenzione, la nostra pazienza.
Meglio, la carità della nostra attenzione e della nostra pazienza.
Per stare ad ascoltare quello che ha da dire, per stare a vedere quello che ha da mostrare.
E, come sempre, c’è più di un modo di “entrare” nel racconto: l’immedesimazione con uno dei personaggi, l’emozione per una certa sequenza, il moto d’animo per una delle figure di contorno…
Va detto che – almeno come esposizione temporale, cronologica dei fatti – il film è costruito in modo non immediato: Katyn abbraccia più storie personali e più personaggi lungo un periodo di circa sei anni che va dal settembre/novembre 1939 al 1945.
Non ci si faccia dunque spaventare dalle frequenti didascalie che lo scandiscono (17 settembre 1939, novembre 1939, primavera 1940, 13 aprile 1943, 1945, …) così come dalla presenza dei non pochi personaggi che lo animano (il capitano, il sott’ufficiale, il generale, l’ingegnere che progetta aerei, la moglie del capitano, la moglie e la figlia del generale, la sorella – anzi le sorelle – dell’ingegnere, …).
Nel fare presente questo eventuale elemento di fatica, invitiamo quanti vorranno accostarsi alla visione del film a chiedere innanzitutto per sé la libertà, il coraggio di lasciarsi sfidare dal suo contenuto, il coraggio di lasciar emergere una domanda – anzi la domanda – sull’origine, sull’identità, sulla consistenza della speranza che anima i personaggi – donne e uomini; mogli, mariti e figli; fratelli e sorelle; civili e soldati (già, i “soldati”…) – che vedranno raccontati sul grande schermo.
Pensiamo soprattutto ai quindici minuti finali, chiusi dall’Agnus Dei di cui già si diceva.
Fosse solo per il balenare, l’emergere dei contorni di questa domanda, avremmo già di che ringraziare l’ottantatreenne regista.
E nel provare a rispondere, “meditiamo che questo è stato”.
Buona visione.
(Leonardo Locatelli) Katyn – Basati sul romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, i rigorosi, potenti, “magistrali” 113 minuti di Katyn (2007) sono stati realizzati dal prolifico sceneggiatore e regista polacco Andrzej Wajda (classe 1926, premio Oscar 2000 e Orso d’Oro 2006, entrambi alla carriera) attingendo a diari, lettere, confessioni e analizzando anche i documenti ufficiali conservati negli archivi polacchi, statunitensi, inglesi e relativi a quello che in patria è tutt’ora considerato il più tragico lutto nazionale.
Non stupiscano quindi la lucidità e la pulizia non solo formali che caratterizzano questo film, nel quale è la Storia a fare capolino.
La pellicola ruota infatti attorno al massacro – avvenuto nella primavera del 1940 nel tentativo di cancellare l’intellighenzia di un intero Paese – di oltre 22.000 ufficiali, riservisti, medici, avvocati, professori e guardie di confine polacchi (tra i quali anche Jakub Wajda, il padre di Andrzej) fatti prigionieri dall’Armata Rossa al momento dell’invasione russa della Polonia, scattata sedici giorni dopo quella della Wehrmacht.
Decine di migliaia di persone eliminate con un colpo alla nuca per mano degli uomini della NKVD, la polizia politica di Stalin guidata da Lavrentij Berija, e sepolti in fosse comuni nelle foreste di Katyn (una collina coperta di abeti che domina il fiume Dnepr, nei pressi di Smolensk), Tver, Char’kov e Bykownia.