“Il futuro dei bambini è nel presente”

“Il Futuro dei Bambini è nel Presente” Napoli 18-19-20 novembre 2009 Con questo slogan si inaugura il 18 novembre, a Napoli, la Conferenza Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, organizzata dal Ministero del Lavoro, della Salute  e delle Politiche sociali insieme alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed in collaborazione con la Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza.
La Conferenza rappresenta un’occasione per trarre un bilancio dei risultati raggiunti negli ultimi anni nonché proporre nuovi obiettivi, non solo alle istituzioni, ma a tutto il mondo impegnato nella promozione dei diritti dell’infanzia.
  Lo svolgimento dei lavori è previsto secondo il seguente calendario: mercoledì 18 novembre -apertura della conferenza e tavola rotonda per un confronto sul bilancio dell’attuazione della Convenzione sui diritti del fanciullo giovedì 19 novembre – giornata delle sessioni e dei gruppi di lavoro venerdì 20 novembre – restituzione dei lavori di gruppo, tavola rotonda e conclusioni.
Questa iniziativa rappresenta un grande momento istituzionale di ascolto, elaborazione e partecipazione su temi che interessano non soltanto gli “addetti ai lavori”, ma anche bambini, ragazzi e famiglie.
Si tratta di un’occasione importante di incontro tra saperi e poteri, conoscenze professionali e responsabilita’ politico-istituzionali, esperienze associative e rappresentanze sociali, aperta alla partecipazione di tutti.
Saranno tre giorni di intenso lavoro, di approfondimenti culturali, di momenti per conoscersi e confrontare esperienze e progetti.
E’ una sfida organizzativa molto impegnativa che, attraverso l’impegno, la creativita’ e la disponibilita’ di tutti, contribuirà ad indicare il cammino per costruire un sistema di welfare che riconosca e che promuova realmente i diritti dell’infanzia, dell’adolescenza e del suo principale contesto di crescita e sviluppo: la famiglia.

XXXIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Daniele 7,13-14 Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, glo-ria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.
La visione del Figlio dell’uomo in Dn 7,13ss chiude la prima visione apocalittica del no-stro libro.
La si trova al centro del c.
7 e poi alla fine della spiegazione dei simboli (7,26s).
Nella prima parte, sotto lo sguardo profetico del veggente, si svolge la paurosa attività del-le 4 bestie simboliche, che salgono dalle acque del mare mosse dai 4 venti.
Esse rappresen-tano 4 famosi re, che dalle descrizioni sembrano identificarsi con l’impero babilonese («ter-ribile leone dal cuore d’oro»), con l’impero medo («orso che divora Babilonia»), con il per-siano («leopardo» dalle 4 teste di reganti), con il greco («mostro dai denti di ferro, che tutto stritola» assieme al tiranno che combatte contro i Santi di Dio, probabilmente l’empio An-tioco IV del 168 a.C.
persecutore dei pii Giudei).
Si trattava di eventi del passato collegati alla situazione contemporanea, visti secondo la nota concezione apocalittica: l’agitarsi delle acque primordiali, da cui provengono le forze del male, sotto il vigile controllo della ruah, lo spirito di JHWH, come in Genesi 1,1-2; go-vernanti e imperi si muovono quali strumenti dell’onnipotente Dio d’Israele.
Lo dimostra l’improvvisa apparizione di un Vegliardo che, circondato da miriadi di es-seri celesti, siede sul trono a giudicare le 4 bestie, togliendo loro ogni potere e condannan-dole alla morte.
A questo punto irrompe la scena del nuovo sovrano dei popoli.
v.
13: «ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo».
Il personaggio viene dall’alto, e non più dagli abissi dell’oceano; è un essere dalle sembianze umane, non ben definite, superiori a quelle di un semplice mortale; non più sotto il simbolo di bestie mo-struose e feroci…
Egli è come l’angelo-principe di una grande nazione (10,13).
v.
14: «Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano».
A lui sono affidati i poteri regali su tutte le nazioni della terra: un regno che non vedrà mai il tramonto.
Nella prospettiva del messianismo escatologico reale rappresenta l’intervento definitivo del Dio d’Israele sulle vicende della storia, proiettato in un futuro indeterminato (l’escaton), l’’ahar, il seguito degli anni nella forma di un governo collettivo, consegnato al «resto santo» del popolo prediletto, i Santi dell’Altissimo.
Non si esplicita se esso sarà di tipo terreno o spirituale.
Si dichiara però che sia il rappresentante ideale (il figlio dell’uo-mo), sia la sua sovranità vengono dall’alto, proprio come la piccola pietra che si stacca dal monte e annienta le potenze del male (Dn 2,45).
Vi si intravede la figura personale di un Inviato dal Signore Onnipotente, già delineato negli scritti dell’epoca giudaico-maccabeica (Parabole di Enoc, del 95 circa a.C.): considera-to come «Re celeste, assise presso la gloria divina, che dovrà un giorno rendersi manifesto, quale giudice del cielo e della terra, dei vivi e dei morti».
È il Messia del giudizio universa-le, che in Mt 25,31 ss assegnerà a ogni uomo la sorte eterna in base al comandamento del sincero amore fraterno, e dirà l’ultima parola su tutta la storia dell’umanità: «gli rispose Gesù: Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64).
Seconda lettura: Apocalisse 1,5-8 Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli.
Amen.
Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto.
Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente! Siamo all’inizio della grande rivelazione profetico-apocalittica di Giovanni.
Dopo il bre-ve prologo (1,1-3) in cui si presenta il tema di tutta l’opera: — esposizione dei mirabili e-venti prossimi ad accadere, così come l’autore li ha appresi da Cristo, a utilità di chi legge e ascolta —, si entra immediatamente in dialogo con le 7 chiese della cristianità d’Asia, a cui saranno indirizzate le 7 epistole (cc.
2-3), dettate dal Figlio dell’uomo, il Vivente in eterno, apparso a Giovanni in estasi (1,9-17).
Il veggente si introduce con un saluto ai destinatari e con l’augurio di «grazia e pace» da parte di Colui che è, era e viene (il Padre divino), dei 7 Spiriti che stanno davanti al suo trono (Lo Spirito, cioè, con i suoi 7 doni, che da Lui proviene), e di Cristo Gesù.
Di questi in particolare vengono esaltate le eccelse prerogative in 3a persona (vv.
6-7) e più diretta-mente in 1a persona (v.
8).
v.
5a: «Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra».
Son i titoli della grandezza di Gesù, visto nel suo ruolo di rivelatore supremo delle realtà divine («testimone fedele»), protagonista della storia salvifica (il «primo» a risorgere), do-minatore delle vicende umane (signore dei signori).
vv.
5b-6: «A Colui che ci ama e ci ha liberati…
a lui la gloria e la potenza».
Al richiamo di quei titoli sgorga dal cuore del profeta una elevata dossologia: — egli è colui che per amore ci ha lavati nel suo sangue, purificandoci dai nostri peccati e facendo di noi (ormai uniti vi-talmente a Lui) una comunità sacerdotale di fronte al resto dell’umanità, per la lode di Dio suo Padre; a Lui si renda ogni onore e gloria per sempre…
v.
7: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà».
Egli è il maestoso Personaggio, già contemplato da Daniele e annunziato dallo stesso Maestro divino nel processo di Caifa (MC 14,62), a cui è conferito ogni potere in cielo e in terra, dinanzi al quale compariranno un giorno tutte le genti, anche coloro che lo hanno trafitto, perché ne siano giudicati (Zc 12,9).
v.
8: «Io sono l’Alga e l’Omega…
Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!».
Ora parla lo stesso Gesù: — Egli non è il trasumanato eroe esaltato dalle mitologie orientali, ma Colui che è Principio e Fine di tutte le cose, Alfa e Omega cioè Colui che comprende e supera tutto ciò che esiste o è pensabile, che è (JHWH), che era ab aeterno, che viene in ogni epoca e si presenta sempre a nuovo nelle sue manifestazioni e nelle sue gesta, mai pienamente definibile dalla mente umana; centro e ragione d’essere di tutti gli avvenimenti che segui-ranno, meta gloriosa dell’umanità e dell’universo! —.
Vangelo: Giovanni 18,33b-37 In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono forse io Giu-deo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fat-to?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono ve-nuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Esegesi Il tratto di Gv 18,33-38a è la parte centrale del processo di Gesù dinanzi a Pilato (18,28-19,16).
I capi dei Giudei che hanno deciso per conto loro di mandare a morte Gesù lo han-no condotto presso il tribunale del procuratore romano, perché sia lui a pronunziare la sentenza definitiva, quale detentore supremo del jus gladii (il diritto di vita e di morte sui sudditi di Roma).
Dopo aver essi dichiarato che il Rabbì di Galilea, secondo il loro giudi-zio, era un trasgressore della legge e reo di morte.
Pilato rientra nel pretorio per interroga-re Gesù e rendersi personalmente conto della colpevolezza di Gesù (18,28-33): era nel suo diritto.
Qui l’evangelista Giovanni riporta il luminoso dialogo tra il Maestro divino e il rappre-sentante della potenza pagana.
Il discepolo vi ha impresso qualche barlume della sua in-tima comprensione del Cristo: ne ha fatto l’epifania della sua Regalità divina.
v.
33: «Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» L’interrogatorio comincia con la chiara accusa dei capi giudei: Gesù avrebbe preteso di essere uno dei seducenti Messia, preten-dente alla guida del suo popolo (Lc 23,3).
«Gesù il nazareno, il re dei Giudei»: sarà il titolo posto sulla croce per ordine dello stesso Pilato (19,19).
v.
34: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» Gesù, prima di rispondere, vuole chiarificare in che senso il governante di Roma intendeva quel titolo: nel senso del popolo giudaico che aspettava la venuta di un Messia, leader religioso inviato dall’alto, ovvero nel senso di un condottiero politico liberatore dal giogo straniero, come poteva immaginarlo un romano? Pilato parlava secondo la concezione degli ebrei, o secondo la propria mentalità?…
Il procuratore respinge quasi con sdegno la prima ipotesi.
Non gli in-teressava proprio nulla delle credenze di quella gente: «Sono forse io Giudeo?».
A lui preme sapere se davvero quell’imputato ha commesso le gravi trasgressioni per cui i suoi conna-zionali lo hanno sottoposto al suo giudizio! E conclude: «che cosa hai fatto»? (v.
35).
v.
36: «Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo».
Il divin Maestro ora può parlare liberamente e illustrare la sua reale posizione di fronte al tribunale di Roma.
Egli poteva rassicurare il rappresentante dell’impero, dicendo di non aver fatto nulla, né contro l’ordi-ne sociale, né contro l’autorità dei Cesari accettata dal suo popolo (Lc 20,20-26), ma ha pre-ferito attirare l’attenzione di quell’uomo a qualcosa di più profondo e convincente: la carat-teristica incontrovertibile della sua Persona, quella che Giovanni ha già molte volte sotto-lineato nel suo racconto: la trascendenza del messaggio di Cristo.
Egli promuove un regno che non appartiene all’ordinamento di questo mondo visibile (8,23), poggiato sulla forza delle armi e del consenso popolare.
Il governatore lo può ben constatare: non c’è alcun suo fautore che lo difenda contro le ingiuste accuse dei suoi av-versari (18,8.11).
v.
37: «Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re».
Al-l’insinuazione, sembra un po’ ironica di Pilato: «e allora saresti Re, tu?» «tu così solo e im-provviso?» (trad.
ad litt.
dal greco), il divino accusato prosegue: — Io sono realmente Re, nel senso che ti ho indicato, e sono venuto al mondo per testimoniare quel che ho visto e conosco (3,13; 8,23; 19,35): la realtà di un altro mondo, una realtà soprasensibile, che supe-ra tutte le cose e le concezioni di quaggiù; realtà percepibile da chi è pronto ad accettare la Verità.
Chi infatti è aperto alla verità riconosce la mia voce (10,3) e mi segue (3,31-36; 1 Gv 19,18-20).
Il mio sarà così un regno nuovo, senza violenza e soprusi di alcun genere, basato solo sulla libera accoglienza del Trascendente, che è presso di ognuno e si rivela attraverso la mia parola (8,26).
Siamo al centro di tutta la Rivelazione del Verbo divino fattosi uomo, così come si pre-senta nel quarto Vangelo: il Verbo che risplende tra le tenebre e manifesta a tutti la verità dell’Amore infinito del Creatore, e aggrega, chiunque vi aderisce, alla sua stessa vitalità e-terna e consostanziale col Padre; si rimane nel mondo, ma non si è più di questo mondo (17,11.16).
Pilato, tuttavia, è ancora lontano da quella verità, e se ne esce con una battuta: «ma co-s’è la verità?» (18,38a).
Meditazione L’anno liturgico si conclude ponendo davanti ai nostri occhi la visione di Gesù Cristo nelle vesti di un re.
Un re certamente singolare: che possiede sì un regno, ma tanto disso-migliante dai regni di questo mondo (vangelo) ; che esercita la sua regalità su tutti i popoli (prima lettura), ma nella forma di un «Agnello immolato» (Ap 5,12: antifona d’ingresso) che dall’alto del suo trono regale (la croce!) attira misteriosamente a sé ogni uomo, «anche quelli che lo trafissero» (Ap 1,7: seconda lettura).
Forse la festa di Cristo Re rischia oggi di venire mal compresa e mal interpretata: è facile infatti immaginare la regalità di Cristo alla stregua di quella che esibiscono i potenti del mondo.
Ma se ci atteniamo a ciò che i testi biblici ci dicono, ecco allora che essa assume tutta un’altra luce e un altro colore.
Non dimentichiamo poi che Gesù è apparso davanti agli uomini in vesti regali proprio alla vigilia della sua morte, appunto per togliere ogni fraintendimento sul modo in cui intendeva la sua regalità su questa terra.
L’ampio spazio dato al racconto del processo di Gesù davanti a Pilato nel quarto evan-gelo (da solo occupa più di un terzo dell’intera narrazione della passione) e la cura, lettera-ria e teologica, con cui è costruito, sono già un segno evidente dell’importanza che l’evan-gelista vi attribuisce.
Sette piccole scene compongono il racconto, che si snoda in un’alter-nanza continua tra spazi interni (pretorio) e spazi esterni (cortile), con Pilato che entra ed esce senza posa per parlare rispettivamente con Gesù e con i Giudei.
Tra Gesù e i Giudei c’è ormai una separazione definitiva, non c’è più comunicazione, non c’è più dialogo, il si-lenzio si fa totale.
Sembra quasi che Gesù non abbia più nulla da dire al suo popolo (e so-prattutto ai suoi capi religiosi): ha già detto tutto quello che doveva.
Ora non gli resta che presentarsi davanti a loro nelle vesti di un «re da burla» (B.
Maggioni), deriso, oltraggiato, umiliato e – apparentemente – sconfitto (cfr.
19,1-3: la scena degli oltraggi).
Ma proprio in questa umiliazione e in questa sconfitta risplende ancor più luminosa quella verità che non ha bisogno di ragioni per farsi valere: chiede solo di essere riconosciuta e accolta da un cuore libero da ogni falsità e ipocrisia…
Il testo di Gv 18,33-37 costituisce la seconda delle sette scene che scandiscono il processo romano nella visione giovannea.
Abbiamo qui il primo colloquio tra Pilato e Gesù.
Dopo essere stato fuori a discutere con i Giudei, Pilato rientra nel pretorio, chiama Gesù e, senza troppi preamboli, comincia l’interrogatorio: «Sei tu il re dei Giudei?» (v.
33).
La tematica della regalità è così posta subito al centro del dialogo e tutto si gioca sulla comprensione della vera natura della regalità rivendicata da Gesù.
Pilato formula la sua prima domanda in un tono di ironia mista a disprezzo e incredulità (come se dicesse: «E questo qui sarebbe un re?!»).
Ma Gesù, con una controdomanda, obbliga in qualche modo Pilato a uscire allo scoperto, a non nascondersi dietro opinioni altrui, a rivelare le sue vere intenzioni: «Dici questo da te…» (v.
34).
Pilato rifiuta di prendere posizione nei riguardi di Gesù, non vuole lasciarsi coinvolgere personalmente in una questione che ritiene non rilevante per lui,e cerca di venire subito al sodo: «Che cosa hai fatto?» (v.
35).
Poco prima i Giudei, conse-gnando Gesù, avevano riferito a Pilato che era un «malfattore» (v.
30), cioè «uno che fa il male».
Dovremmo lasciarci interrogare a lungo intorno a questa semplice – ma fondamen-tale – domanda: cosa mai ha fatto Gesù durante la sua breve esistenza terrena? La legge giudica i ‘fatti’, ma i fatti sono passibili di travisamenti o, se non altro, possono essere letti almeno secondo due prospettive: secondo le apparenze o secondo la fede.
Se letta dal punto di vista di Dio, la storia di Gesù rivela significati inediti e abissali che l’uomo non è in grado di comprendere se non accetta di «rinascere dall’alto» (Gv 3,3).
Che cosa «ha fatto» preci-samente, Gesù lo confessa poco più avanti, sul finire del colloquio: egli è venuto nel mon-do «per dare testimonianza alla verità» (v.
37).
Tutta la sua missione è riassunta in questa testimonianza data alla verità.
Gesù è re (lui stesso lo dichiara al v.
37: «Io sono re») in quanto testimone e servitore della verità.
La sua regalità è completamente a servizio della verità, di quella verità di Dio che viene prima di ogni altra cosa, anche prima della propria perso-na.
Tutto il contrario di ciò che fanno i sovrani del mondo, che non esitano a fare della re-galità un baluardo a difesa del proprio potere, dei propri interessi, a fare della menzogna uno strumento ordinario del proprio governo, sottomettendo spesso la verità (che è il bene supremo) alle esigenze della cosiddetta ‘ragion di stato’.
Ma il regno di Gesù ‘funziona’ secondo altri criteri, secondo criteri che vengono da al-trove, da un mondo ‘altro’, non da questo (cfr.
v.
36).
La verità che questo regno vuol cu-stodire e servire non ha bisogno di essere difesa con la forza: essa sa ‘difendersi’ da sola con la forza stessa della sua luce che illumina tutti, sia coloro che da essa si lasciano rag-giungere che coloro che da essa rifuggono.
Certamente, quello di Gesù è un regno sconcer-tante, che non ha bisogno di guardie che combattono per il suo re ma solo di due braccia che sanno distendersi sulla croce, in un vulnerabile abbraccio che mostra la verità di un amore che accoglie tutti.
La parola conclusiva del dialogo («chiunque è dalla verità ascolta la mia voce»), oltre che sottolineare la condizione necessaria per entrare nella logica di questa originale regali-tà (stare dalla parte della verità), getta una luce anche sul modo concreto con cui Gesù eser-cita il suo potere regale.
Il Signore infatti regna su di noi unicamente attraverso l’ascolto della sua voce: nessun altro strumento di ‘potere’ egli vuole utilizzare se non quello della sua parola.
Nel rispetto pieno della nostra libertà, perché una «voce» non si impone e vive in ogni istante la fragilità e il rischio di essere accolta o rifiutata…
La Verità e le verità «Credo che la nostra maturità umana dipende dalla capacità di unificare noi stessi e il nostro sguardo sulla realtà.
Altrimenti rischiamo di rimanere preda di un molteplice illu-sorio, di verità, libertà, parole…» Esercizio non facile in una società multiculturale come quella in cui viviamo, dove si incrociano esperienze, tradizioni e religioni diverse e dove chi parla di una sola verità ri-schia di essere o di apparire un integralista.
«Senza dubbio questo rischio c’è – ammette don Ignazio -, ma la verità di cui parlo io è la verità dell’indicibile.
Quando la verità è dici-bile c’è molta difficoltà a definirla come l’unica verità.
La verità unica è quella che parla a tutti e quando non riesce a farlo bisogna essere prudenti a definirla l’unica vera verità.
Quando diciamo che la parola è una noi siamo convinti di appartenere a questa verità, ma questa verità non ci appartiene, perché è molto più grande di noi e non possiamo gestirla né possiamo avere con essa un rapporto ideologico.
Noi apparteniamo alla verità e all’infinito, ma l’infinito non ci appartiene».
(Dal libro di Enzo Romeo, I solitari di Dio.
Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 10).
Dio-verità Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori.
Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita.
Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care.
Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità.
La verità non si può sacrificare per nessuna ragione.
La verità è come un grande albero, che più lo si colti-va, più da frutti.
Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.
Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la cono-scenza perfetta della verità è possedere Dio.
Poiché la verità è Dio.
Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e que-sto è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.
Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano.
Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei er-rori.
Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità.
Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli.
Volete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio? Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore.
Voi ed io siamo una cosa sola.
Non posso farvi del male senza ferirmi.
Io sono il servo di musulmani, cri-stiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù.
E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore.
L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.
(Mahatma Gandhi).
Ho cercato la verità, amando Ho cercato la verità, con l’Innominato di Manzoni.
Ho cercato la verità tra le lettere di don Milani.
Ho cercato la verità, curiosando nella vita di Gandhi.
Ho cercato la verità, nelle Confessioni di sant’Agostino.
Ho cercato la verità nelle prediche di don Mazzolari.
Ho cercato la verità, piangendo con Giobbe sul letamaio.
Ho cercato la verità, fuggendo da casa, con la mia parte di eredità, come il Figliol Prodigo.
Ho cercato la verità, nelle poesie di Tagore.
Ho cercato la verità, nei pensieri di Pascal.
Ho cercato la verità, nei fioretti di san Francesco.
Ho cercato la verità, nell’Allegretto della settima di Beethoven.
Ho cercato la verità, vagando stralunato.
Ho cercato la verità, negli occhi incavati e ormai vitrei di Brambilla, morto di Aids tra le mie braccia.
Ho cercato la verità, nei rosari che la mia santa madre recitava per me, prete molto diverso dal prete che teneva nella sua testa.
Ho cercato la verità, nel Parco Lambro, negli anni ottanta, assistendo giovani in overdose.
Ho cercato la verità, nei commenti biblici, stupendi, del mio cardinale di Milano.
Ho cercato la verità, nei viaggi del pellegrino Wojtyla.
Ho cercato la verità, nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.
Ho cercato la verità, nelle storie degli ultimi e dei diseredati.
Ho cercato… talvolta nell’affanno, tal’altra nella pazienza; talvolta nella confusione, tal’altra nel silenzio.
Una notte inginocchiato nella mia cameretta, recitavo Compieta.
Ho sentito battere al mio cuore.
Ho detto: avanti.
Ero assonnato e stanco.
Solo dopo qualche minuto mi sono accorto chi era.
«Sono la fede! So che mi hai cercato per tanto tempo…lo sai bene anche tu, che la fede non si cerca dove non è…perché la fede è LUI…e LUI è… l’irruzione, la gratuità, la meraviglia… Lui è quello che ha detto: «Cercate la verità, amando».
Smetti di cercare.
Aspetta perché arriverà.
Sono venuto a dirtelo.
Accendi la lampada e spegni i ragionamenti nella tua testa.
Perché LUI entra dal cuore.
È l’unica porta che può riceverlo».
(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).
Imparare a riconoscere Gesù Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manife-sta in maniera chiara, che non ci dice come fare.
Adagio adagio, però, si capisce che il Si-gnore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca.
Noi diventiamo veri ricer-catori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.
Così cresciamo.
Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col pro-gramma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema.
Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca.
Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è cre-scita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).
Il mio Regno non è di questo mondo Ascoltate, giudei e gentili; ascoltate circoncisi, ascoltate incirconcisi; ascoltate, regni tut-ti della terra: «Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo.
Il mio Regno non è di questo mondo (Gv 18,36)».
Non lasciatevi prendere dal vano timore da cui fu colto Erode il Grande, quando gli fu annunciato che era nato Cristo e, nell’intento di far morire Gesù, uccise così tanti bambini (cfr.
Mt 2,3.16).
«Il mio Regno non è di questo mondo», dice Gesù.
Che volete di più? Venite nel Regno che non è di questo mondo; venite con fede e non vo-gliate diventare crudeli per la paura! È vero che in una profezia Cristo, parlando di Dio suo Padre, dice: «Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo» (Sal 2,6), ma quella Sion e quel monte non sono di questo mondo.
Che cos’è il Regno di Cristo? Sono quelli che credono in lui, a proposito dei quali egli dice: «Voi non siete del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,16), anche se egli voleva che rimanessero nel mondo, e per questo prega il Padre per essi: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodi-sca dal male» (Gv 17,15).
Per questo anche qui non dice: «Il mio Regno non è in questo mondo», ma dice: «II mio Regno non è di questo mondo».
E dopo aver dimostrato questo dicendo: «Se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, af-finché non fossi consegnato ai giudei» (Gv 18,36), non dice: «Ora il mio Regno non si trova in questa terra», ma dice: «Il mio Regno non è di questa terra».
Il suo regno, infatti, è in questa terra fino alla fine dei secoli, e porta in sé la zizzania mescolata con il grano fino al momento della mietitura, che avverrà alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo Regno tutti gli scandali (cfr.
Mt 13,38-41).
E questo non po-trebbe avvenire se il regno non fosse qui, sulla terra.
Tuttavia, non è di questa terra, poiché è in esilio in questo mondo.
A quelli che fanno parte del suo Regno egli dice: «Voi non sie-te del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo» (Gv 15,19).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 115,2,NBA XXIV, pp.
1520-1522).
La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della cre-scita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.
Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di ac-cettazione da parte del genere umano.
L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita.
C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fis-sa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio.
Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui.
[…] Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).
Preghiera Troppe volte, Signore Gesù, abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani, ai vari dominatori del mondo.
Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro e dall’angoscia del pericolo, ci rivolgiamo ad altri «re».
Solo l’amore e la fiducia che ne deriva liberano l’uomo dalla fobia e dalla tirannia della sua presunzione.
Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo e a guardare nel tuo futuro.
Tu, Re di misericordia, ricordati di noi nel tuo Regno, facci percepire il palpito del tuo cuore.
Un mondo disgregato dalla diffidenza, dal dubbio e dallo scetticismo trova solo in te la salvezza.
Il tuo Regno non è fatto di splendido isolamento, ma di profonda solidarietà con l’umanità redenta.
Il tuo Regno non impone diffidenza, ma libera, salva, assicura speranza.

XXXIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Lectio – Anno B   Prima lettura: Daniele 12,1-3          In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.
          La struttura dei 14 capitoli del libro di Daniele, a cui appartiene il brano della prima lettura, è molto semplice.
Si tratta infatti di un libro nel quale prevale l’elemento narrativo, composto dal racconto delle vicende di Daniele alla corte del re Nabucodonosor (cap.
1-6), dalla descrizione delle sue visioni (capp.
7-12) e da tre episodi molto noti (il caso di Susanna, la confutazione dei sacerdoti del Dio Bel e l’uccisione del Drago-idolo: capp.
13-14).
Più complesso è invece il modo con cui questo libro biblico trasmette il suo messaggio.
Gli esegeti infatti collocano il libro di Daniele al culmine di quella produzione letteraria che nel Giudaismo è conosciuta come letteratura apocalittica.
Questo genere letterario è stato molto utilizzato dagli autori dei testi apocrifici (quelli non accettati nel canone biblico): le loro immagini, le loro speculazioni sui numeri, le descrizioni di grandi bestie e di angeli, i segni premonitori della fine del mondo sono stati utilizzati (ma molto più sobriamente) anche dagli autori di alcuni libri biblici o di parti di essi (Daniele, parti di Is, Ez, Zc, Apocalisse).
     Il contenuto dell’apocalittica è racchiuso nel significato stesso di questo termine, che in greco significa «rivelazione».
Al popolo biblico (e nel NT alla comunità cristiana) che si sente sfiduciato e che sta per cedere alla tentazione di sentirsi definitivamente abbandonato dal suo Dio, l’autore sacro assicura la «rivelazione» di Dio attraverso visioni, sogni, immagini e simboli che il destinatario sa comprendere e interpretare (a differenza della difficoltà che incontriamo noi oggi).
L’angoscia dei tempi di persecuzione (sia per il popolo biblico che per i cristiani) favoriva l’utilizzazione del genere letterario dell’apocalittica; esso solo permetteva di proiettare l’attuale situazione di sofferenza nella vittoria definitiva che Dio avrebbe saputo riportare sul male e sui persecutori del suo popolo.
Il momento dell’angoscia e della persecuzione veniva così considerato come via alla definitiva vittoria di Dio e dei buoni.
     In questo contesto va letto anche il brano della prima lettura.
«Il tempo di angoscia» va compreso alla luce della riflessione che l’apocalittica fa sul momento presente della persecuzione: esso è preludio alla vittoria di Dio e del bene, non alla sconfitta e all’annullamento del suo popolo.
«Si troverà scritto nel libro» è l’immagine biblica che rasserena l’uomo: egli fa parte del progetto di Dio («il libro»), un progetto buono e destinato a realizzarsi nel bene; perciò l’uomo non deve temere né il fallimento né l’abbandono.
«Michele» è uno degli angeli che l’apocalittica colloca a protezione delle nazioni.
Secondo l’angelologia giudaica ogni nazione ha un angelo protettore, descritto spesso come «capo» o «principe» o «comandante» di eserciti celesti (cf.
Dan 10,13).
     «Vita eterna e l’infamia eterna» esplicitano la condizione dell’uomo davanti a Dio, dopo la risurrezione, a seconda del ruolo che ciascuno ha rivestito nella vita presente.
Il momento della persecuzione sembra dar ragione ai più forti e alle potenze del male e sembra porre fine a tutto ciò in cui il popolo biblico ha sempre creduto.
La «rivoluzione» che Dio fa al suo popolo è che la vera sorte e il vero destino dell’uomo sono definiti da Lui nell’aldilà e non nell’alternarsi continuo delle vicende di questo mondo.
  Seconda lettura: Ebrei 10,11-14.18          Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati.
Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi.
Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.
       La lettera agli Ebrei propone il tema del sacerdozio di Cristo, un tema che non viene trattato esplicitamente nei Vangeli.
Nell’esporre la sua riflessione, l’autore di questa lunga «omelia» (come viene definita la Lettera agli Ebrei) si sofferma ora sul confronto tra il sacerdozio dell’AT e quello di Gesù, evidenziandone le differenze.
Il primo era ereditario nell’ebraismo, infatti, la carica di sommo sacerdote (almeno fino ai tempi di Erode il Grande) era a vita e veniva trasmessa ai discendenti.
Inoltre ad esso poteva accedere solo chi apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi.
Nel NT, invece, il sacerdozio costituisce uno speciale rapporto tra il credente e Gesù, una particolare chiamata, una risposta radicale alla sua sequela, cioè una vocazione.
     I sacerdoti dell’AT ripetevano ogni giorno e ogni anno gli stessi sacrifici e le stesse feste, senza tuttavia ottenere la salvezza e il perdono definitivo («Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati»).
Il sacrificio di Gesù, invece, è definitivo ed esaustivo: con l’offerta di se stesso al Padre sulla croce ha ottenuto «una volta per sempre» la salvezza per tutta l’umanità.
     L’espressione «si è assiso per sempre alla destra di Dio» (che ricalca il Salmo 110 messianico-sacerdotale) sottolinea l’unicità («una volta per sempre») e la definitività del sacerdozio di Cristo; l’intronizzazione di Cristo alla destra di Dio dice eloquentemente che la sua opera «sacerdotale» è stata perfetta e non ha bisogno di essere ulteriormente completata con ripetizioni di riti e sacrifici, come invece avveniva nel sacerdozio levitico.
     Fondamentalmente il sacerdozio di Cristo consiste nell’aver egli sempre compiuto la volontà del Padre e nell’essersi offerto a lui nella totale disponibilità del suo essere (come le vittime sacrificate), fino ad accogliere docilmente la croce per la salvezza definitiva dell’umanità.
  Vangelo: Marco 13,24-32          In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria.
Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
     Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina.
Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.  In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga.
Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
    Esegesi      Il brano evangelico contiene la conclusione del «discorso escatologico» di Gesù.
In questo discorso sugli «ultimi avvenimenti» (come significa in greco il termine éscathon) si intrecciano e si sovrappongono vari elementi: la descrizione della distruzione del tempio di Gerusalemme la descrizione della fine del mondo, l’esortazione alla vigilanza e il ricorso ad alcuni temi cari al genere letterario dell’apocalittica.
Gli studiosi hanno cercato di collocare in un certo ordine tutto questo complesso materiale e di interpretarlo per una migliore comprensione del messaggio che l’evangelista vuole comunicare al lettore (cf.
J.
Dupont, La distruzione del tempio e la fine del mondo.
Studi sul discorso di Mc 13, Ed.
Paoline, Roma 1979, pp.
44-54).
     Questo messaggio è profondamente radicato nella Bibbia e nella persona di Gesù.
La Bibbia annuncia in ogni sua pagina l’avvento del Regno di Dio e Gesù realizza nella sua persona e nella sua vita questa promessa.
Il nostro brano utilizza le immagini del genere letterario dell’apocalittica («in quel giorno», «quella tribolazione», «il Figlio dell’uomo venire sulle nubi», «il sole si oscurerà»), ma il contenuto e totalmente aperto alla salvezza portata da Gesù e alla sua presenza nel mondo, da Lui amato e salvato (a differenza delle immagini apocalittiche che lo vedono destinato alla catastrofe).                                 Questa salvezza è stata possibile grazie all’incarnazione di Gesù e alla sua obbedienza al Padre, accettata fino alle estreme conseguenze, compresa l’esclusione dalla sua rivelazione di quanto in essa non rientrava (la conoscenza e la divulgazione del momento preciso della fine del mondo).
Anche il cristiano deve rinunciare a calcoli cronologici, ma deve spendere ogni giorno della sua vita aderendo alle parole e al vangelo di Gesù, che realizzano la promessa biblica del Regno di Dio, «vicino» ad ogni generazione che si succede.
     Meditazione      La liturgia della Parola di questa penultima domenica del tempo ordinario ci pone di fronte ad alcuni interrogativi essenziali che orientano ad una interpretazione del tempo e della storia in rapporto con Dio.
Il frammento tratto dal libro di Daniele e la pericope del racconto di Marco, che fa parte del più lungo discorso di Gesù riportato in questo vangelo, aprono il nostro sguardo sugli eventi riguardanti gli ultimi tempi (ta eschata, le ‘cose ultime’): hanno come orizzonte il limite estremo del tempo storico, cioè il momento in cui quest’ultimo cadrà per fare posto al mondo futuro.
Questi testi sono accomunati dall’uso dello stesso linguaggio apocalittico, ricco di simboli e immagini, che si presentano non tanto come una descrizione anticipata, puntuale e cronologica di eventi futuri, quanto piuttosto come un simbolo (che deve perciò essere decifrato) di una realtà di giudizio (salvezza o condanna) che riguarda un compimento il cui risultato non dipende da una iniziativa umana, ma è puro dono di Dio.
Se il mezzo espressivo di questo genere letterario utilizza immagini che richiamano tempi di guerre e di divisioni, di catastrofi cosmiche, sotto il segno di una grande subitaneità che crea angoscia e smarrimento, il messaggio da ricercare dietro questi simboli riguarda realtà esistenziali che mettono in relazione la nostra storia con il disegno esso di Dio su di essa.
Dunque, come collocarsi di fronte a questi testi? Che cosa è impor-tante in questa visione della storia e del suo fine? Quale è il punto focale di questa Parola? Certamente, ad una prima lettura di questi testi, viene spontaneo un paragone tra le immagini utilizzate da Mc 13,24-25 e dal profeta Daniele (Dn 12,1: «Sarà un tempo di angoscia come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni…») e gli eventi che viviamo.
E, inevitabilmente, rimaniamo inquietati da un confronto tra queste parole piene di morte e di devastazione e ciò che oggi vediamo nel mondo.
«In quei giorni…
le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» (Mc 13,25).
Non è quello che scorre sotto i nostri occhi? Una creazione che sembra ripiombare nel caos iniziale, che si rifiuta di obbedire all’uomo, e una umanità disorientata e lacerata da tante divisioni, incapace di guardare con speranza la storia.
Si percepisce un senso di fine e, sicuramente, un mondo sta per terminare.
Ma è veramente questa la prospettiva di Dio? È questo ciò che, in particolare, Gesù vuole comunicarci?      Un primo messaggio che possiamo cogliere, soprattutto a partire dalle parole di Gesù riportate dall’evangelista Marco, riguarda il senso della storia, il suo orientamento.
Al di là degli eventi tragici che costellano il tempo dell’uomo, la creazione stessa, la nostra storia cammina verso una pienezza, verso un fine (e non verso la fine) che è l’incontro definitivo con Cristo, kyrios della storia; incontro che è nello stesso tempo salvezza e giudizio.
È Colui che viene (o erchomenos) il punto focale che deve catturare il nostro sguardo interiore: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria…» (Mc 13,26).
Gli eventi drammatici non sono altro che una sorta di chiaroscuro che annuncia questa luce sfolgorante, questo evangelo di salvezza; c’è come un passaggio da una creazione privata della sua potenza, ridotta al nulla, ad una nuova potenza che rinnova tutto, la potenza del Kyrios, del Veniente, colui che «viene sulle nubi con grande potenza e gloria».
È questo l’evangelo che illumina tutta la storia e la orienta al compimento.
Ecco il primo messaggio pieno di speranza che ci comunica questa parola di Gesù, così difficile e carica di angoscia: in un mondo che finisce (o meglio, che giorno dopo giorno si incammina alla fine), si avvicina sempre di più il momento in cui l’umanità è chiamata a vedere in volto Colui che dà il senso a tutta la storia, Colui che la guida in ogni suo passo, Colui che la riempie di bellezza e di pace.
La speranza matura proprio nel momento in cui le possibilità umane sembrano essere giunte ad un vicolo cieco, sembrano esaurirsi; proprio lì, inaspettatamente, ma in una fedeltà mai venuta meno, si apre un orizzonte infinito e si comprende che c’è qualcuno al di là degli avvenimenti, anche quando questi sono segnati dal male e dalla morte.
     L’arrivo e l’incontro con il Veniente ha come frutto, nella storia, il compimento di essa.
È questo il secondo messaggio offerto dal testo di Marco.
E la parola compimento è una parola che apre al futuro, che lascia intravedere un nuovo inizio, che è carica di novità, di bellezza, di perfezione.
Ciò che all’uomo appare come conclusione e dunque morte definitiva di un mondo, di una storia, di una umanità, nello sguardo di Dio diventa occasione di creazione rinnovata, di amore ridonato, di novità di vita.
Anche se a noi pare strana, la logica di Dio è però la logica pasquale: dalla morte alla vita, e non viceversa.
E il testo di Marco descrive questo compimento non come giudizio sull’umanità (anche se questo è un tema fondamentale nei discorsi escatologici), ma come comunione e unità: «Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti…» (13,27.
Cfr.
anche Dn 12,2-3).
Il movimento è, dunque, dalla dispersione del popolo di Dio su tutta la terra, alla riunione nel regno alla fine dei tempi; il punto di arrivo è così la comunione in un incontro.
Ciò che segna la fine di questo mondo non è la distruzione, la morte, il caos: questi sono solamente una sorta di dolori del parto che preannunciano qualcosa di nuovo.
La novità sta nella nascita di una umanità che entra definitivamente nell’incontro con il suo Signore, quell’umanità che ha saputo attendere con pazienza «quei giorni» e che nel momento scelto da Dio «vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con gloria e potenza grande» e che «riunirà i suoi eletti» da tutti i luoghi in cui erano dispersi.
     Ma nel ‘frat-tempo’ il discepolo come deve comportarsi? Rimandato alla storia, che è attesa di questo incontro, che cosa deve fare il credente? Nella risposta a questi interrogativi sta un terzo messaggio che questa parola di Gesù ci offre.
Il discepolo deve imparare a discernere, a guardare per comprendere e per conoscere ciò che avviene.
Il discepolo deve abituare lo sguardo a cogliere i segni di questo incontro sempre rinnovato.
Bisogna saper leggere tutti quei segni, piccoli o grandi, di cui è disseminata la nostra storia e che ci aprono alla speranza.
E una umile pianta, il fico, ci ricorda Gesù, può aiutarci a comprendere questo: «Dalla pianta del fico imparate la parabola» (13,28).
Quando il fico incomincia a produrre le gemme e sui suoi rami crescono le prime foglie, ecco che si avvicina il tempo del raccolto, il tempo della gioia.
La nostra storia è paragonabile a quella pianta di fico: in essa, per chi sa guardare con occhi di novità, sono disseminate tante gemme, piccoli annunci di vita.
Essi ci dicono che il tempo della salvezza è già operante in mezzo a noi, che questo mondo è stato salvato dall’amore di Dio e che tocca a ciascuno di noi essere attenti per cogliere quella parola di salvezza che il Signore stesso vuole donarci.
     E infine Gesù ci dona anche un punto di appoggio saldo per poter discernere: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (13,31).
La parola di Gesù è, in fondo, ciò che ci permette di camminare in questa storia, attendendo l’incontro con Lui, senza perdere il cammino, ma imparando a leggere ogni segno che incontriamo su di esso.
Anche se la strada a volte è buia, anche se la nostra storia non sembra andare verso una meta, ma verso una fine, anche se spesso i cammini che incontriamo ci disorientano, abbiamo ricevuto dal Signore un appoggio sicuro: la sua parola che non passa, che non perde la sua forza, che contiene tutto il suo amore fedele, che è speranza.
Nella sua parola la vita continua, anche quando attorno a noi sembra finire (il cielo e la terra passeranno).
In questo tempo di attesa, veramente il Signore ci chiede una sola cosa: appoggiare tutta la nostra vita sulla sua parola e con pazienza, come la sentinella nella notte, attendere l’albeggiare della sua venuta.
    Preghiere e Racconti Cambiare la storia Chi spera cammina, non fugge! Si incarna nella storia! Costruisce il futuro, non lo attende soltanto! Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma! Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare.
Cambia la storia, non la subisce! (don Tonino Bello) Dopo l’11 settembre Il paradosso del nostro tempo nella storia è che abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse, autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.
  Spendiamo di più, ma abbiamo meno, comperiamo di più, ma godiamo meno.
Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole, più comodità, ma meno tempo.
  Più conoscenza, ma meno giudizio, più esperti, e ancor più problemi, più medicine, ma meno benessere.
  Beviamo troppo, fumiamo troppo, spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco, guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo, facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi, vediamo troppa TV, e preghiamo di rado.
  Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà, ma ridotto i nostri valori.
Parliamo troppo, amiamo troppo poco e odiamo troppo spesso.
  Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere, ma non come vivere.
Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.
  Siamo andati e tornati dalla Luna, ma non riusciamo ad attraversare la strada per incontrare un nuovo vicino di casa.
Abbiamo conquistato lo spazio esterno, ma non lo spazio interno.
  Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori.
Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima.
Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.
Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.
Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.
  Costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni, per produrre più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.
Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta, grandi uomini e piccoli caratteri, ricchi profitti e povere relazioni.
  Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi, case più belle ma famiglie distrutte.
Questi sono i tempi dei viaggi veloci, dei pannolini usa e getta, della moralità a perdere, delle relazioni di una notte, dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto, dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.
  E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina e niente in magazzino.
Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera, e in cui puoi scegliere di condividere queste considerazioni con altri, o di cancellarle.
  Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora, perché non saranno con te per sempre.
Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno che ti guarda dal basso in soggezione, perché quella piccola persona presto crescerà e lascerà il tuo fianco.
  Ricordati di dare un caloroso abbraccio alla persona che ti sta a fianco, perché è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore e non costa nulla.
  Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari, ma soprattutto pensalo.
Un bacio e un abbraccio possono curare ferite che vengono dal profondo dell’anima.
Ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti, perché un giorno quella persona non sarà più lì.
  Dedica tempo all’amore, dedica tempo alla conversazione, e dedica tempo per condividerei pensieri preziosi della tua mente.
  E ricorda sempre: la vita non si misura da quanti respiri facciamo, ma dai momenti che ci tolgono il respiro.
(George Carlin).
Le due venute Noi annunciamo non solo una, ma due venute di Cristo, la seconda molto più risplendente della prima.
La prima si compì sotto il segno della pazienza, la seconda porta la corona del regno regale.
Per lo più, infatti, il Signore nostro Gesù Cristo si manifesta in duplice modo: in due nascite, una da Dio prima dei secoli e una dalla Vergine al compimento dei secoli; in due discese, una nel nascondimento come pioggia sul vello (cfr.
Sal 71 [72] ,6) e una che alla fine sarà manifesta; in due venute: nella prima, avvolto in fasce dentro la stalla e, nella seconda, avvolto da un manto di luce (cfr.
Lc 2,7; Sal 103 [104] ,2); nella prima, sottoposto all’umiliazione della croce che non giudicò vergognosa e, nella seconda, scortato da schiere angeliche nella gloria.
Crediamo fermamente, dunque, non solo alla prima venuta, ma attendiamo anche la seconda.
Se nella prima abbiamo detto: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21,9), nella seconda ripeteremo di nuovo le stesse parole e così correndo incontro al Signore insieme agli angeli, prostrandoci diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23,39).
Il Salvatore verrà di nuovo non per essere giudicato, ma per giudicare quelli che l’hanno giudicato.
[…] Viene il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli, viene nella gloria nell’ultimo giorno; vi sarà infatti la fine di questo mondo e sarà creato un mondo nuovo.
Sarà rinnovata la terra sommersa da corru-zioni, furti, adulteri e ogni genere di peccati, il mondo bagnato di sangue misto a sangue (cfr.
Os 4,1), perché questa meravigliosa dimora dell’uomo non resti colma di iniquità.
Questo mondo possa perché ne appaia uno migliore.
[…] Passeranno le cose che ora vediamo e verranno quelle migliori che attendiamo, ma nessuno pretenda di sapere quando.
Sta scritto: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At 1,7).
Non devi temerariamente pretendere di sapere che cosa accadrà dopo, né supinamente adagiarti nel sonno.
Sta scritto: «Vegliate perché nell’ora in cui non l’aspettate verrà il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42.44).
(CIRILLO DI GERUSALEMME, Le catechesi 15,1.3-4, PG 33.869A-B; 872C-873; 876A).
La biblioteca di Dio Credo che in qualche punto dell’universo debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di sacrificio dell’uomo.
Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio.
(Isaac Bashevis Singer).
Trova il tempo Trova il tempo di pensare; trova il tempo di pregare; trova il tempo di ridere.
  È la fonte del potere; è il più grande potere sulla terra; è la musica dell’anima.
  Trova il tempo per giocare; trova il tempo per amare ed essere amato; trova il tempo di dare.
  È il segreto dell’eterna giovinezza; è il privilegio dato da Dio; la giornata è troppo corta per essere egoisti.
  Trova il tempo di leggere; trova il tempo di essere amico; trova il tempo di lavorare.
  È la fonte della saggezza; è la strada della felicità; è il prezzo del successo.
  Trova il tempo di fare la carità; è la chiave del Paradiso.
(poesia scritta sul muro della Casa dei bambini di Calcutta).
  Insegnami ad usare bene il tempo Dio mio, insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai e ad impiegarlo bene, senza sciuparne.
Insegnami a prevedere senza tormentarmi, insegnami a trarre profitto dagli errori passati, senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.
Insegnami ad immaginare l’avvenire senza disperarmi che non possa essere quale io l’immagino.
Insegnami a piangere sulle mie colpe senza cadere nell’inquietudine.
Insegnami ad agire senza fretta, e ad affrettarmi senza precipitazione.
Insegnami ad unire la fretta alla lentezza, la serenita’ al fervore, lo zelo alla pace.
Aiutami quando comincio, perche’ e’ proprio allora che io sono debole.
Veglia sulla mia attenzione quando lavoro, e soprattutto riempi Tu i vuoti delle mie opere.
Fa’ che io ami il tempo che tanto assomiglia alla Tua grazia perche’ esso porta tutte le opere alla loro fine e alla loro perfezione senza che noi abbiamo l’impressione di parteciparvi in qualche modo.
(Jean Guitton)      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
 

Annale 2009

Presentazione   L’Annale è fedele al suo appuntamento annuale, grazie all’impegno dell’équipe dell’Istituto di Catechetica, con il valido contributo di J.
Gevaert, E.
Alberich e F.
Pajer.
La Rassegna documenta un’ampia parte della riflessione catechetica dell’anno 2008.
Sono state prese in considerazione 46 riviste per un totale di 204 articoli recensiti (5564-5768).
Le Riviste sono di 8 lingue diverse: 6 di lingua inglese, 7 di lingua tedesca-neerlandese, 17 di lingua italiana, 12 di lingua spagnola e portoghese, 3 di lingua francese e 1 di lingua slava.
Di queste riviste: 11 sono di catechesi, 12 di pedagogia religiosa, le altre 23 di diversi ambiti di teologia e pastorale.
Per quanto riguarda gli articoli presentati: 43 sono di lingua inglese (5564-5607), 32 di lingua tedesca-neerlandese (5608-5640), 76 di lingua italiana (5641-5717), 14 di lingua francese (5718- 5732), 31 di lingua spagnola e portoghese (5733-5764), 4 di lingua slava (5765-5768).
Le riviste da cui proviene il maggior numero di recensioni sono: Catechesi (22), Katechetische Blätter (16), Religious Education e Via, Verità e Vita (13), Lumen Vitae (12), Journal of Religious Education (11), British Journal of Religious Education (10), Revista de Catequese (8), Note di Pastorale giovanile (6), Notiziario UCN, Orientamenti Pedagogici, Rivista Lasalliana, Sinite, Didascalia, The Sower, Tijdschrift voor liturgie (5), Evangelizzare, Insegnare Religione, Misión Joven, Teología y Catequesis, Mission Today, Zeitschrift  für Pädagogik und Teologie, Kateheza (4), Rivista di Scienze dell’Educazione (3), Actualidad Catequética, Perspectiva Teológica, Religionsunterricht an hoeheren Schulen (RHS), Zeitschrift für Religionspädagogik, Erwachsenenbildung, Christlich-pädagogische Blätter (2).
La Rassegna è completata da 26 presentazioni di libri e documenti (9276-9302).
Il numero totale di recensioni risulta così di 230.
La scelta degli articoli realizzata dai collaboratori, interessa il pensiero e la ricerca catechetica, la formazione e la pedagogia religiosa.
Si estende, come ogni anno, su una gamma molto ampia di tematiche che vanno da temi generali sulla catechesi a temi specifici come l’iniziazione cristiana, il primo annuncio del Vangelo, l’educazione religiosa nella scuola, la pastorale dei giovani.
Per orientare la lettura indichiamo i principali nuclei tematici.
1.
L’area principale è quella dell’evangelizzazione e la catechesi.
Alcuni articoli trattano dell’evangelizzazione, altri, più di 20, affrontano temi generali di catechesi, una trentina aspetti più specifici come nuovo paradigma, catechesi e liturgia, catechesi familiare, catechesi mistagogica, la catechesi in relazione alla comunità.
Altri articoli, una ventina, si interessano della trasmissione della fede, la prima evangelizzazione, il primo annuncio del vangelo e i ricomincianti.
Molti contributi, più di 20, toccano il tema dell’iniziazione cristiana, si valorizza la catechesi degli adulti e il catecumenato, vengono proposti itinerari di educazione alla fede e itinerari catecumenali.
Diversi presentano la dimensione pedagogica: pedagogia della fede, pedagogia catechistica, pedagogia generativa, pedagogia iniziatica.
Alcuni contributi, non molto numerosi, si interessano della formazione dei catechisti.
Un numero monografico della Rivista Sinite studia il tema nel contesto della Spagna e dell’America latina:  Argentina, Brasile e Cile.
Non mancano diversi studi sulla storia della catechesi.
Sono invece pochi quelli che riguardano la storia dei catechismi.
Diversi articoli trattano dei Direttori per la catechesi, in modo speciale il Direttorio Generale nel X Anniversario della sua pubblicazione e il Direttorio per la catechesi del Brasile.
Nelle riviste latinoamericane sono numerosi gli articoli che riguardano la Conferenza di Aparecida e la preparazione della Missione continentale, trattano in modo particolare il tema del discepolato e la sequela di Gesù.
2.
La seconda grande area riguarda l’educazione religiosa, la pedagogia religiosa, la didattica della religione (35 articoli).
Alcuni articoli trattano dell’educazione in generale, altri invece temi più specifici: scuola cattolica, educazione e cittadinanza, educazione e valori.
Sono numerose le ricerche empiriche nel campo della pedagogia religiosa, soprattutto nel mondo anglosassone.
Non mancano gli studi sul tema del pluralismo religioso e l’educazione interreligiosa (11 articoli).
Viene studiato il tema del pluralismo religioso, viene proposto il dialogo interreligioso e interculturale, l’educazione interculturale e interreligiosa.  3.
L’anno 2008 ha visto la celebrazione del Sinodo su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa e l’inizio della celebrazione dell’Anno Paolino, questo si riflette in un certo numero di articoli.
Sono più di 40 gli articoli che riguardano la Bibbia, che spaziano tra diversi temi, da quelli più culturali: la Bibbia nella Scuola, il “grande codice”,  Bibbia e cultura; a quelli più teologici e pastorali: Parola di Dio, Bibbia e catechesi, Bibbia e liturgia, Bibbia e giovani, la Bibbia nella parrocchia e in famiglia, la pastorale biblica.
4.
Un altro ambito che è stato preso in considerazione è quello che riguarda i giovani (20 articoli).
Diversi articoli trattano della realtà giovanile, altri più specificamente la pastorale dei giovani, soprattutto nel contesto di Italia e Spagna: giovani ed educazione, giovani e fede, giovani e dottrina sociale della chiesa, associazionismo giovanile.
5.
Annale raccoglie anche quest’anno alcuni Documenti pubblicati nel 2008: La misión continental para una Iglesia Misionera, promosso dal Celam per la chiesa latinoamericana, e Orientaciones para la animación bíblica de la pastoral della Conferenza Episcopale del Cile.
L’Annale chiude con la lista delle riviste recensite, l’indice onomastico e quello tematico-contenutistico.
Siamo certi che la presentazione di tanti articoli presi da Riviste specializzate permette di farsi un’idea, anche se approssimativa, di ciò che si muove nel campo della catechesi e della pedagogia religiosa in ambito cattolico e presso altre confessioni cristiane, in tante zone diverse del mondo.
L’Istituto di Catechetica sa di prestare un servizio utile all’offrire un ricco materiale altrimenti difficilmente accessibile o del tutto precluso.
  Corrado Pastore

“2012”

Il sole inquieto, qualche anno prima del 2012, comincia a sfornare neutrini che surriscaldano e smuovono il centro molle della Terra.
Sarà la causa della nostra estinzione.
Piace in questi anni l’apocalisse al cinema, anche se abbiamo già sorpassato indenni il fatidico millennio.
Nel recente Knowing di Alex Proyas la terra brucia completamente e spetterà a due bambini, in un tripudio di fiori e messaggi new-age, ricominciare la successione delle generazioni dopo essere stati trasportati in un pianeta nuovo di zecca scelto da creature aliene buone e intelligenti.
C’è poi 9, prodotto da Tim Burton, già uscito in gran parte del mondo ma non in Italia, che sembra essere il primo cartone animato apocalittico in cui sulla Terra del tutto abbandonata dall’umanità rimangono soltanto nove creature viventi e senza nome impegnate a combattere le macchine assassine che hanno preso il sopravvento.
Venature spirituali si troveranno, forse, ne Il libro di Eli, in sala dal prossimo gennaio:  qui un eroe solitario – il suo nome è ricavato da tre lettere del verbo inglese to believe (“credere”) – protegge a tutti i costi, in un mondo devastato e violento, un libro che ha una croce impressa sulla copertina e sembra essere decisivo per il futuro dell’umanità.
Ora, molto semplicemente, archeologia e storia si alleano per suscitare nuove paure e manipolarne di antiche.
Il pretesto iniziale è fornito dal calendario dell’antica ed evoluta civiltà Maya:  lì il computo del tempo, con il termine dell’ultimo ciclo, arriva al 20 dicembre del 2012 (20-12-2012), poi si interrompe.
Fine del mondo e dell’umanità? Cieli nuovi e Terra nuova? Rigenerazione o annientamento totale? Dopo aver messo in catalogo la nostra distruzione (e risicata salvezza) prima con formidabile attacco alieno (Independence Day), poi con spaventosa glaciazione (L’alba del giorno dopo), il regista tedesco Roland Emmerich, di stanza ormai a Hollywood e specializzato in film di enormi proporzioni, chiude la sua “trilogia della catastrofe” con la più terribile e spettacolare di tutte:  in 2012, che esce venerdì 13 in Italia, città intere scompaiono, terremoti sfaldano la crosta terrestre, vulcani enormi eruttano vere e proprie bombe incendiarie, onde di oltre 1.500 metri devastano continenti e l’Himalaya, la Casa Bianca viene schiacciata da una portaerei, crolla il Cristo di Rio de Janeiro, si sbriciolano la Sistina e San Pietro travolgendo cardinali e fedeli in preghiera nella piazza.
Povero pianeta e povera umanità.
Uno spettacolo senza freni e senza misure, costato la cifra enorme di 260 milioni di dollari, con uno schema semplicissimo e accattivante:  pochi sanno della fine imminente, il segreto non deve trapelare per tutelare così l’ordine sociale – accadeva, però, anche in Deep impact, mentre si attendeva il meteorite definitivo – pochissimi potranno salvarsi pagando un contributo ingentissimo che serve alla costruzione di mastodontiche “arche”.
Un eroe sfiduciato e depresso (l’attore John Cusack) s’intromette nel piano dei malvagi egoisti, salva la famiglia divisa e la sua anima buona disturba i progetti senza scrupoli dei potenti che almeno cercano, prima della fine, di redimersi dalle loro ipocrisie.
È questa la coscienza dell’umanità di fronte al disastro imminente? Emmerich, oltre che bravo nel gestire distruzioni ed effetti speciali, combina furbescamente aspetti di natura mitologica, tormenti millenaristici, attualità politica, disagio sociale, senso dell’avventura e prodezze della tecnologia, seminando la più terribile delle inquietudini:  davanti alla fine dell’umanità, spogliata completamente del trascendente e del soprannaturale, non è vero che tutti siamo uguali, perché riesce a sopravvivere soltanto chi la salvezza non se l’è guadagnata con la fede e le buone opere, ma letteralmente comprata a carissimo prezzo disponendo di mezzi economici ingenti.
Dunque, milionari americani, oligarchi russi e principi arabi in prima fila.
Come spesso è accaduto nel cinema americano di fantascienza e fantasy, anche questa volta fanno sommessamente capolino le teorie di Joseph Campbell, filosofo e storico americano di miti e religioni comparate, morto nel 1987, regolarmente saccheggiato da sceneggiatori e registi che a lui hanno confessato di ispirarsi più o meno apertamente.
Tra questi, emblematico fu il caso di George Lucas per le sue Guerre stellari.
La Bibbia – che per Campbell non ha nulla di sacro e di divinamente ispirato, ma è una mera antologia di racconti mitologici che dimostrano quello che lui chiama sanctified chauvinism (“sciovinismo santificato”) – è il testo che offre lo schema archetipico più suggestivo e facilmente declinabile dal cinema:  quello dell’eroe salvifico dalla paternità complicata.
Caso spudorato fu la trilogia cinematografica di Matrix nella quale Neo era completamente assimilato alla figura di Cristo, ma in un contesto risibile.
Le variazioni, poi, sul sacrificio non sono mancate:  dal Re leone a Braveheart, da Batman al Signore degli anelli.
Con Emmerich inizia una nuova era per Hollywood:  si va più indietro, dal Nuovo al Vecchio Testamento e addirittura a Noè, il diluvio, l’arca e l’Ararat, che nel film si è trasferito, causa movimenti tellurici sproporzionati, addirittura in Africa, dove approderà quel briciolo di umanità, ancora con tutti i suoi peccati, costretta a ricominciare.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2009)

Guglielmo Massaja. e Abuna Messias

Ago e filo, si rattoppa da solo lo zucchetto.
È ospite alla corte del ribelle e ambizioso Menelik, nell’Etiopia lontanissima e sconosciuta.
In mezzo a tanto lusso indigeno, spicca la sua bella croce pettorale.
È vescovo.
Ma prima di tutto, è cappuccino e indomito missionario.
Scrive, infatti, nelle sue memorie: “Sono un povero cappuccino, un missionario di Gesù Cristo.
Qualunque altra dignità e supposto merito non sono per me che maggiori debiti presso Dio e presso gli uomini”.
Guglielmo Massaja, ovvero Abuna Messias: nel 1939 forse pochi lo ricordano, ugualmente oggi.
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e settanta da quando Goffredo Alessandrini realizzò questo kolossal del cosiddetto cinema coloniale italiano, vincendo l’1 settembre di quell’anno la Coppa Mussolini come miglior film alla vii Esposizione d’Arte Cinematografica di Venezia.
Si celebrava, indirettamente, la fragile Africa Orientale Italiana, proprio nel giorno in cui la Germania nazista invadeva la Polonia, la guerra iniziava e l’Impero italiano ipotecava definitivamente il suo crollo.
Al Lido, proiettarono più volte Abuna Messias nel corso della giornata vittoriosa e terribile.
Argomenti per stupire e commuovere ce n’erano assai: costato oltre cinque milioni di lire dell’epoca (circa venti milioni di euro attuali), con 250.000 comparse, 500 metri cubi di legname per le costruzioni, 50.000 metri di negativo di pellicola impressionata, interni nella nascente Cinecittà romana ed esterni tra le montagne del Ch’erch’er e a K’obo, nella regione dell’Amhara, attraversate in modo piuttosto fantasioso da miriadi di cavalieri, sacerdoti, schiavi e contadini, con grande sfarzo di costumi, copricapi, armi e chincaglie.
Si trattava di una storia di ispirazione “cattolica” inserita, però, nella propaganda di regime che vedeva necessaria la giustificazione della missione civilizzatrice italiana in terre povere dedite a schiavitù, scorribande, superstizioni e stregoneria, rafforzata da curiosità anche “antropologica” ed etnica per gli usi e i costumi di quella gente e i riti della chiesa copta, ricostruiti da Alessandrini con fedeltà, come ad esempio l’ordinazione sacerdotale presieduta dal metropolita copto Abuna Attanasio, acerrimo nemico di Messias, o il vivace concilio della medesima Chiesa in lingua locale.
C’era anche il peso della nuova società di produzione, la Romana Editrice Film, fondata un anno prima, braccio operativo del progetto della Società San Paolo e di don Alberione, di entrare direttamente nel mondo del cinema producendo film di chiara matrice cattolica: “deporre le forbici della censura e prendere in mano la macchina da presa” era la finalità di tale impegno, che in Abuna Messias riponeva altissime attese.
Ma il film non ebbe lunga vita, i problemi erano ben altri in quel frangente storico, tali da offuscare il successo iniziale (riapparve curiosamente in Francia nell’agosto 1948 con il titolo L’apôtre du désert) e quello del protagonista, il bravo e longevo Carmine Pilotto, già attore di lavori ben noti firmati, durante il fascismo, da Carmine Gallone, Aldo Vergano, Enrico Guazzoni e, dopo il conflitto, da Fernando Cerchio, Luigi Chiarini e Raffaello Materazzo.
Quest’anno le celebrazioni del bicentenario del vescovo missionario, con interessi nella medicina (il suo secondo soprannome era “Padre del Fantatà”, ossia “Signore del vaiolo”, per le migliaia di vaccinazioni somministrate, una delle sequenze più autentiche e commoventi del film), nell’ingegneria e nella politica, stimato da Leone xiii e creato cardinale nel 1884, hanno giustamente coinvolto la Cineteca Nazionale di Roma che ha portato a termine, grazie al coordinamento di Sergio Toffetti, suo Conservatore fino allo scorso mese di settembre, il delicato restauro della pellicola, della quale ora si possono apprezzare la qualità e l’audio, con una stravagante e solenne colonna sonora composta per l’occasione da Mauro Gaudiosi e don Licinio Refice (anche se quest’ultimo non compare nei crediti).
Il nome di Goffredo Alessandrini non era nuovo a operazioni di cinema gradite al regime e applaudite dal pubblico: nel 1934 aveva già vinto a Venezia un Premio speciale per Seconda B, nel 1938 la sua prima Coppa Mussolini (ex-aequo con Olympia di Leni Riefenstahl, miglior film straniero) per uno dei titoli più importanti e ricordati del cinema di quegli anni, Luciano Serra pilota interpretato dalla star di casa Amedeo Nazzari; infine nel 1942, ancora alla Biennale, un ultimo riconoscimento con Noi vivi.
Il filone del cinema coloniale italiano, pur contando su un elenco assai esiguo di titoli, non più di una decina, rappresenta però uno spaccato importante della cultura e dell’arte cinematografica dell’epoca, sospesa tra esigenze di mercato e obblighi di partito, e Abuna Messias rispecchia perfettamente queste tensioni, nelle quali la glorificazione della potenza e della civilizzazione italiana in Africa si accompagna a un curioso approccio etnico-antropologico che non dimentica le necessità e le logiche narrative del cinema.
Prima di tutto, avventura e mistero: l’esempio più bello, anche sul piano figurativo, è Lo squadrone bianco di Augusto Genina (Coppa Mussolini a Venezia nel 1936) con Fosco Giachetti, che riprende lo stile del cinema coloniale francese.
Qui meharisti coi bianchi burnus scorazzano sulla cresta delle dune, capeggiati da un comandante duro, ma giusto.
Cinema obbligatoriamente anche “ideologico”, che presenta la conquista italiana come fonte di civiltà per popolazioni oppresse da primitive leggi e consuetudini.
Abuna Messias, però, non rientra in alcuna di queste categorie e in questo risiede tutto il suo fascino e il suo interesse.
Non manca certo la volontà di assecondare gli obblighi della propaganda, coniugandoli a quelli del buon cristiano.
Nel film la prima azione di Massaja, proprio all’inizio della sua ultima missione etiopica iniziata nel 1868 e che si concluderà con l’esilio decretato dall’imperatore Johannes iv nel 1879 (in tutto, il missionario trascorse trentacinque anni di vita in Africa), è quella di liberare uno schiavo che poi diverrà sacerdote e al quale lascerà il compito di evangelizzare quelle terre e di creare, in prospettiva, un clero cattolico indigeno.
Ma non mancano dialoghi dichiaratamente piegati alle esigenze “esterne”.
Ecco quello che segue un banchetto di Menelik.
Il re: “Lasciamo il posto ai poveri, servite la carne cruda.
Vedi, senza l’aiuto della vostra civiltà non potrò mai arrivare a farne degli uomini.
Io ho bisogno della vostra civiltà: che intenzione ha l’Italia nei miei riguardi?”.
La risposta del missionario: “Cavour intuì, come sempre del resto, l’utilità di questo intervento, ma governare in parlamento fra partiti diversi non è facile.
Se dipendesse da lui la cosa sarebbe già avvenuta, ma la spedizione Antinori è già in viaggio per conoscere la situazione geografica del paese e chissà, da cosa può nascere cosa”.
Massaja, però, aggiunge in modo coerente alla sua fede: “Ti devo ringraziare di una cosa: tu hai visto poco fa quella folla di infelici, la mia vita è fra di loro, nessuna altra cosa ha importanza per me”.
Per quella folla Abuna Messias – che nel film, incarnando il puro spirito francescano di affidamento alla provvidenza divina, non cerca la difesa dei potenti perché, confessa allo stesso Menelik, toccandosi la croce che ha sul petto, “per difendermi mi basta questa” – spenderà davvero la sua vita e consumerà le sue forze, provate da interminabili viaggi: otto traversate del Mediterraneo, dodici del Mar Rosso, quattro pellegrinaggi in Terra Santa, quattro esili, innumerevoli prigionie, rischi di morte e malattie.
Il film di Alessandrini coglie qualche risvolto di questa vita avventurosa, lo fa con il minor peso di retorica possibile, anche se la recitazione degli attori italiani è piuttosto statica rispetto agli americani coevi.
E meno legata alle esigenze di veridicità: tutti, anche gli etiopi, sono italiani opportunamente truccati, tranne la bella principessa Alem, il capo indigeno Abd-el-Uad e il giovane schiavo Morka al quale, prima dell’ordinazione, Massaja insegnerà a non odiare il nemico, anche se è la cosa più difficile che bisogna imporsi per essere un bravo missionario.
Mario Ferrari, poi, nel ruolo dell’Abuna Attanasio, cerca di scolpire un mefistofelico avversario del Massaja che aizza il popolo con toni roboanti, molto simili a quelli che in Italia stavano infiammando le piazze.
Il vecchio e sapiente francescano nel film di Alessandrini sta in equilibrio tra esigenze missionarie e imposizioni politiche.
“Mi guardano, desidero capirli, entrare nella loro cultura, rispettare le loro origini, la loro storia.
Un missionario non può dimenticarlo” scrive di suo pugno a proposito dei popoli etiopi con i quali entra in contatto per portare a termine la sua missione evangelizzatrice.
Rifiutando la logica della contrapposizione e dell’imposizione, sensibile alle molteplici identità e culture africane, rispettoso dei costumi e degli usi che non deturpano la morale cattolica e difendono l’uomo nella sua totalità, cercando con tutti un dialogo, Massaja diventa così l’antieroe coloniale che i gerarchi d’allora mai avrebbero voluto assoldare e vedere raccontato in un film da loro ispirato, profeta di un mondo giusto, equo, libero, in pace.
Per quei tempi, quasi un’utopia.
(©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009) L’antieroe coloniale che il fascismo mal sopportava In occasione dei duecento anni dalla nascita del cardinale Guglielmo Massaja, il 10 novembre vengono presentati al Museo del cinema di Torino la copia restaurata dalla Cineteca Nazionale del film Abuna Messias di Goffredo Alessandrini (1939) e il nuovo documentario Guglielmo Massaja.
Un illustre conosciuto del regista Paolo Damosso, realizzato dalla Nova-t della Provincia dei frati cappuccini di Torino.

Sovranità, decentramento, regole.

V.
CAMPIONE, A.POGGI, Sovranità, decentramento, regole.
I livelli essenziali delle prestazioni e l’autonomia delle istituzioni scolastiche,  Il Mulino, Bologna 2009,ISBN: 8815130799,Pagine: 217, € 18.00 Fra i problemi che il nostro paese deve affrontare nella riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione, raramente viene citato quello relativo all’individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Eppure la costruzione di una cittadinanza unitaria “sociale” come limite al potere “politico” di differenziazione costituisce uno dei problemi cardine di ogni sistema realmente decentrato.
Le formule utilizzate in alcune costituzioni europee per legittimare una competenza dello Stato finalizzata a soddisfare i LEP sono il frutto dell’espansione dell’idea saldamente radicata nelle costituzioni democratiche di eguaglianza sostanziale, che implica non solo interventi dei pubblici poteri ma ancor più esige che gli stessi interventi siano finalizzati a rimuovere le disuguaglianze di fatto.
In questo volume si cerca di mettere in evidenza come l’introduzione di norme federalistiche renda non più rinviabile la precisa individuazione dei LEP.
In altri termini non è possibile sviluppare la forma federalista dello Stato e decidere di conseguenza di assicurare il mantenimento di standard adeguati in alcuni campi fondamentali (sanità, assistenza e, appunto, istruzione) senza definire preliminarmente i LEP.
Il punto di equilibrio va individuato nei contenuti con cui riempire quanto prescritto dalla Costituzione, da leggere in termini di difesa dei diritti e di adempimento degli obblighi di prestazione, piuttosto che come la semplice definizione di competenze dello Stato.

XXXII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Preghiere e Racconti   L’offerta della vedova Nell’attesa dell’ora, il Figlio dell’uomo non agisce quasi più.
Si limita a guardar passare la gente: gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro interminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte.
Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Farisei, e al tempo stesso s’intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa indigenza.
Che vale un’elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.
(E.
MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 123-124).
Essere dono Ognuno è chiamato ad essere dio.
Ma essere dio non vuol dire  avere tutto, servirsi di ogni cosa  e di ogni uomo; non vuol dire essere un “potente” per opprimere gli altri.
Essere dio vuol dire  essere un potente che dona agli altri il suo potere; vuol dire dare un senso di eternità a ciò che ci circonda, dare speranza ai disperati, gioia a chi piange, luce a chi non vede…Vuol dire indicare Dio a chi crede che Dio non esista.
(O.
OLIVIERO, L’amore ha già vinto.
Pensieri e lettere spirituali (1977-2005), Milano 2005, 22).
Il mendicante e il re Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto.
In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.
Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato.
Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina.
Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare.
Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro.
Si rammaricò.
Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.
Si privò di tutto quanto aveva per vivere «Chi usa misericordia verso il povero, presta a interesse al Signore» (Pr 19,17).
[…] Colui che presta denaro ai poveri del Signore, attende dal Signore la ricompensa della vita eterna.
Del resto, anche il beato apostolo Paolo nel suo insegnamento attesta che, tra le preoccupazioni di tutte le chiese, quella che lui ha per i poveri non è di certo la più piccola.
Dice infatti: «Soltanto ricordiamoci dei poveri, cosa che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10); e in un altro passo esclama: «Niente abbiamo portato venendo in questo mondo, e niente possiamo portar via» (1Tm 6,7); e ancora: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (2Cor4,7).
[…] Ricordiamoci anche di quella vedova che, nella sua sollecitudine per i poveri, trascurando se stessa, si privò di tutto quello che aveva per vivere, memore soltanto della vita futura, come attesta il Giudice stesso, il quale dice che altri danno del loro superfluo, essa invece, che forse era più bisognosa di molti anche tra i poveri, pur possedendo solo due monete, fu in verità più ricca nell’animo di tutti quanti i ricchi, e rivolta ai soli doni della bontà divina, avara del solo tesoro celeste, donò tutto quello che possedeva, perché tutto ciò che si raccoglie sulla terra alla terra deve tornare.
Essa gettò nel tesoro del tempio quello che aveva per possedere ciò che non aveva ancora visto; vi gettò i beni destinati alla corruzione per procurarsi quelli immortali.
Quella povera donna non disprezzò il giudizio disposto e ordinato da Dio per essere accolti da lui quando ritornerà.
Per questo colui che tutto dispone e il Giudice del mondo anticipò la sua sentenza e lodò nel Vangelo la donna che avrebbe incoronata nel giudizio.
[…] Rendiamo dunque al Signore i suoi doni; restituiamoli a lui che li riceve nella persona di ogni povero; diamoli, dico, con gioia per riceverli di nuovo da lui con esultanza, come egli stesso afferma.
(PAOLINO DA NOLA, Lettere 34,2-4, PL 61,345C.346A-C).
La pietra preziosa «Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.  Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese.
Il monaco gliela diede immediatamente.
Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l’inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.
Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore.
Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”» (Anthony de Mello).
Le persone sono doni Qualche tempo fa, ho ricevuto un articolo non firmato intitolato Le persone sono doni.
Vorrei parafrasarne alcuni passi come segue: «Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti.
Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente.
Alcuni vengono strapazzati durante l’invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.
Ma il dono non è l’involucro ed è importante rendersene conto.
È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall’involucro esteriore.
Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c’è bisogno dell’aiuto altrui.
Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati.
Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.
Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono.
Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia.
E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.
Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni.
Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu.
Siamo doni vicendevoli».
(J.
POWELL, Parlami di te.
So ascoltare il tuo Cuore, Milano, Gribaudi, 2005, 24-25).
I valorosi sono sempre tenaci? “I valorosi sono sempre tenaci?”.
Dal cielo, il Signore sorride contento, perché era ciò che Egli voleva: che ciascuno avesse nelle proprie mani la responsabilità della propria vita.
In fin dei conti aveva dato ai propri figli il più grande di tutti i doni: la capacità di scegliere e di decidere i propri atti.
Soltanto gli uomini e le donne segnati nel cuore dalla fiamma sacra avevano coraggio di affrontarLo.
E soltanto questi conoscevano il cammino per tornare al Suo amore, giacché capivano finalmente che la tragedia non era una punizione, ma una sfida.
Elia rivide a uno a uno tutti i suoi passi: dal momento in cui aveva lasciato la falegnameria, aveva accettato la propria missione senza discutere.
Anche se fosse stata vera, e lui pensava che lo fosse, Elia non aveva mai avuto l’opportunità di vedere che cosa accadeva nei cammini che aveva rifiutato di percorrere.
Perché aveva paura di perdere la fede, la dedizione, la volontà.
Riteneva che fosse molto rischioso sperimentare il cammino delle persone comuni: alla fine avrebbe potuto anche abituarsi e amare ciò che vedeva.
Non capiva che anche lui era una persona come tutte le altre, anche se udiva gli angeli e riceveva di tanto in tanto qualche ordine da Dio: era talmente convinto di sapere ciò che voleva da essersi comportato proprio come coloro che non avevano mai preso una decisione importante nella vita.
Era sfuggito al dubbio.
Alla sconfitta.
Ai momenti di indecisione.
Ma il Signore era generoso, e lo aveva condotto nell’abisso dell’inevitabile per dimostrargli che l’uomo deve scegliere, e non accettare, il proprio destino.
(Paulo COELHO, Monte Cinque, Bompiani, Milano, 1998, 206-207).
Preghiera Signore Gesù, che da ricco che eri ti sei fatto povero per arricchirci con la tua povertà, aumenta la nostra fede! È sempre molto poco ciò che abbiamo da offrirti, ma tu aiutaci a consegnarlo senza esitazione nelle tue mani.
Tu sei il Tesoro del Padre e il Tesoro dell’umanità: in te si riversa la pienezza della divinità, eppure tu attendi ancora, da noi, l’obolo di ciò che siamo, perfino del nostro peccato.
Crediamo che tu puoi trasformare la nostra miseria in beatitudine per molti, ma tu insegnaci la generosità e l’abbandono confidente dei poveri in spirito! Vogliamo accettare la sfida della tua parola e donarti tutto, anche il necessario per l’oggi e il domani: tu stesso fin d’ora sei la Vita per noi.
              * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
    Lectio – Anno B   Prima lettura: 1Re 17,10-16          In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta.
Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna.
La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane».
Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto.
Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”».
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni.
La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.
           Dopo l’annuncio della siccità (v.
1) e la chiamata da parte di Dio con il ritiro al torrente Cherit (vv.
2-7), ora Elia deve spostarsi a Sarepta, circa 15 km a sud di Sidone, sulla costa fenicia, terra dalla quale proveniva Gezabele, nemica dichiarata di JHWH e dunque di Elia stesso.
In quel territorio Elia non si trova più sotto la giurisdizione di Acab.
L’ordine può essere stato dato da Dio a motivo della persecuzione, che ormai potrebbe essere aperta (cf.
18,10).
Proprio una vedova, che già per il suo stato sociale era condannata agli stenti, viene individuata come sostegno del profeta.
Umanamente questo è paradossale, ma è sempre Dio a garantire la vita al di là delle umane risorse e aspettative.
     Nell’antico vicino oriente le vedove erano riconoscibili per l’abito da lutto che esse indossavano, segno permanente della loro incompletezza dopo la perdita dello sposo (cf.
Gn 38,13; Gdt 10,3).
Entrato in città, Elia ne scorge una che raccoglie la legna destinata a cuocere le ultime poche risorse che sono rimaste per lei e suo figlio: un pugno di farina e una goccia d’olio.
La vedova a cui Elia è inviato è sul lastrico, rassegnata ormai alla morte e alla cui alternativa non vede esonerato neanche il proprio figlio.
     La donna esaudisce prontamente il desiderio di Elia in merito alla sete, come del resto prevede il grande senso di ospitalità orientale, ma recrimina per la richiesta di cibo.
Il fatto che la donna invochi JHWH nella sua risposta ad Elia può dipendere dal fatto di avere riconosciuto in lui un ebreo sia per l’abbigliamento che per la pronuncia.
Secondo l’uso orientale la donna giura per la divinità dell’ospite.
Il giuramento rivela che quanto viene asserito dalla donna è vero ed importante.
     Alla comprensibile protesta della donna Elia risponde non trascurando i suoi legittimi bisogni, ma invitandola a farli precedere da un atto di fede attraverso l’oracolo che egli pronuncia.
Il contenuto delle parole di Elia non sono semplicemente un rovesciamento di prospettiva di futuro che aveva la vedova, la quale si sentiva ormai alla fine, ma anche una indicazione chiara di colui che offrirà la soluzione.
L’oracolo profetico è chiaramente forgiato sulla fede monoteista israelitica secondo la quale JHWH è l’unico Signore del creato dal quale la pioggia dipende.
Vi è qui un chiaro atteggiamento polemico verso il culto forestiero di cui Gezabele era promotrice e che riconosceva in Baal il dio della fecondità, manifestata appunto nei riguardi della terra con la pioggia.
     Colui che regola i cicli naturali, che detiene il controllo delle riserve celesti (Gb 38,22-30) ha certamente potere anche sulla dispensa della vedova.
Essa si fida della parola di Elia e il miracolo si compie.
Attraverso il suo profeta Dio stesso si è presentato a quella diseredata non per toglierle il poco che le era rimasto, ma per aggiungere vita e speranza.
     A causa di questo episodio Elia viene considerato nella pietà giudaica il patrono dei casi impossibili.
  Seconda lettura: Ebrei 9,24-28          Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.
E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
       Già il v.
11 del nostro capitolo aveva parlato del santuario non fatto da mani di uomo.
Ora, riprendendo la liturgia del giorno dell’espiazione, si parla ancora del rapporto simbolico che intercorre tra il tempio di Gerusalemme, imponente costruzione umana, e il santuario celeste.
In 8,2 l’autore aveva già trattato di questo simbolo molto lontano dalla realtà che esso rappresenta, dal momento che il vero santuario in cui Cristo è entrato è il cielo stesso.
Lì Gesù si trova direttamente di fronte al Padre e diventa il nostro avvocato, come veniva ricordato nel passaggio della scorsa domenica in 7,25.
     Ritornando alla liturgia dello jom kippur, cioè del giorno della espiazione, Gesù viene paragonato al sommo sacerdote, ma per istituire un contrasto.
Mentre il primo doveva annualmente «comparire», in modo solenne per indicare l’entrata del gran sacerdote nella parte più sacra del tempio, il santo dei santi, per Gesù non è così.
Egli non ha bisogno di reiterare la sua offerta, perché per la purificazione dal peccato non si serve del sangue di terzi, che nel caso del sommo sacerdote era addirittura di animale, sangue di cui idealmente veniva rivestito e dal quale veniva protetto nel suo accesso al Santo dei santi; sangue che non era in grado di purificare dai peccati.
Per questo il sacrificio, anche se svolto con la maggiore solennità, aveva una scadenza annuale che già in se stessa era dichiarazione di limitatezza.
     Il v.
26 si apre con un ragionamento che procede per assurdo, per condurre alla comprensione della efficacia di quanto è stato compiuto da Cristo.
Se fossero valsi per Lui i criteri che regolavano l’espiazione nell’antico culto, egli avrebbe dovuto accompagnare tutta la storia umana, fin dalle sue origini, con il sacrificio.
Infatti la storia degli uomini è storia di peccatori e di miserie.
Al contrario, una sola volta, nella pienezza dei tempi, cioè nel momento stabilito dal Padre, Gesù è «apparso» prima nel tempo, dimensione in cui si commettono i peccati, e, dopo aver consumato in esso il sacrificio di se stesso, è «apparso» nel santuario celeste rivestito del proprio sangue che lo qualifica come efficace espiatore ed intercessore.
È pertanto sul sangue stesso di Gesù che si basa l’assoluta validità del suo sacrificio e dunque la sua non reiterabilità.
     Nei vv.
27-28 vi è un nuovo confronto tra Gesù e l’esperienza umana.
Per l’uomo dopo la morte viene il giudizio, per Gesù invece vi sarà una seconda «apparizione».
Il tratto più interessante di questi versetti è il modo in cui viene presentata la parusia, perché certamente di essa parla l’autore quando dice che Cristo «apparirà una seconda volta».
Il ritorno finale viene descritto rifacendosi ancora alla liturgia del giorno della espiazione.
Quando il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi tutto il popolo rimaneva fuori in attesa di lui che uscendo avrebbe portato il perdono divino.
Così nel suo ritorno finale Cristo uscirà come vero sommo ed eterno sacerdote dal santuario celeste per portare la salvezza a coloro che lo attendono.
Prevale qui un aspetto positivo della venuta finale descritta come il compimento dell’attesa della sospirata, completa assoluzione.
        Vangelo: Marco 12,38-44          In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti.
Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere.
Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete.
Tanti ricchi ne gettavano molte.
Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
    Esegesi      Il brano evangelico è diviso in due sezioni.
La prima è costituita dai vv.
38-40 che contengono l’ultimo insegnamento impartito da Gesù nel capitolo 12 di Marco.
La seconda, introdotta da un cambiamento di luogo, occupa i vv.
41-44 con la vedova additata ad esempio di vera pietà.
     Uno sguardo d’insieme alla tradizione sinottica ci avvertirebbe che l’atteggiamento polemico di Gesù verso gli scribi fu forte e non raro; basterebbe ricordare il capitolo 23 di Matteo.
La comunità primitiva si preoccupò subito di conservare memoria degli insegnamenti di Gesù in questa materia per ricavare anche da essi uno stile nuovo di vita al suo interno.
Il vangelo di Marco ha conservato poco materiale a questo proposito, e la parte che ci tocca leggere in questa domenica è la più polemica.
Gli scribi vengono presi di mira a causa della loro preoccupazione per l’esteriorità.
Probabilmente la loro condizione di studiosi e di esperti del testo sacro era manifestata nell’abbigliamento da un mantello apposito che essi si ponevano sulle spalle.
Altri segni di distinzione ai quali erano particolarmente attaccati erano gli atti di omaggio e di riguardo che venivano loro riservati in pubblico, innanzitutto nelle piazze, dove un gran numero di persone potevano assistere agli atti di deferenza che ricevevano.
Anche nelle case private, in occasione di banchetti, e persino nei luoghi di culto, le sinagoghe, desideravano essere in rilievo occupando i primi posti.
L’ultima apostrofe che Gesù riserva loro riguarda la vita di pietà vissuta in pubblico come atto di esibizionismo religioso.
     Staccata dal piano esteriore è la loro avidità che prende di mira le persone meno tutelate: le vedove.
Professionalmente gli scribi offrivano la loro consulenza in materia legale, il che equivaleva in una società e cultura come quella giudaica, ad una competenza religiosa perché tutto veniva regolato alla luce della Thorà.
Essi però erano esosi per le loro prestazioni persino con i meno abbienti.
Le parole con le quali Gesù conclude le considerazioni a loro riguardo sono assai dure.
All’affermazione alla quale essi tanto tengono per il presente farà seguito una condanna più pesante di quella riservata al popolo.
Forse si può notare qui una fine ironia: a queste persone esasperatamente preoccupate di primeggiare sarà data loro la possibilità di farlo persino nella dimensione definitiva, ma in un modo negativo.
     La seconda sessione del nostro brano (vv.
41-44) narra un episodio che si svolge in un ambiente specifico del grande complesso del tempio.
Si tratta di un corridoio dell’atrio, luogo in cui anche le donne potevano recarsi.
In questo corridoio vi erano tredici urne nelle quali venivano deposte le offerte dei devoti.
Ad introdurre il denaro nel contenitore era un sacerdote al quale l’offerente indicava lo scopo di quanto consegnava.
Le urne si distinguevano proprio anche per la speciale destinazione data all’offerta e dunque all’uso che ne sarebbe stato fatto.
Anche in questo ambiente non manca l’ostentazione che fa da legame narrativo con la sezione precedente: i ricchi gettano molto danaro.
Proprio questo filo conduttore ci porta a scoprire che la pericope liturgica si gioca sul contrasto.
     All’esteriorità e all’avidità di cui si è parlato si contrappone la generosità e la pochezza della vedova.
Di proposito viene detto che la somma in suo possesso è cost

Vita e cosmo a rapporto

Inizia  il 6 novembre presso la Casina Pio iv la settimana di studi “Astrobiology” promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze.
Pubblichiamo l’introduzione al programma dei lavori del presidente del comitato scientifico organizzativo e del direttore della Specola Vaticana.
  L’astrobiologia è lo studio del rapporto della vita con il resto del cosmo:  i suoi temi principali includono l’origine della vita e la materia che l’ha preceduta, l’evoluzione della vita sulla Terra, le sue prospettive future sulla Terra e al di fuori di essa e l’eventualità che ci sia vita altrove.
Dietro a ognuno di questi temi vi è un insieme multidisciplinare di questioni che coinvolgono la fisica, la chimica, la biologia, la geologia, l’astronomia, la planetologia e altre discipline, ognuna delle quali si collega più o meno strettamente alle questioni centrali dell’astrobiologia.
Spinta da nuove possibilità di esplorazione scientifica sulla Terra e al di fuori di essa, l’astrobiologia sembra assurgere a disciplina scientifica a sé stante.
Lo studio dell’astrobiologia è piuttosto appropriato per la Pontificia Accademia delle Scienze che si basa su una collaborazione pluridisciplinare.
 La settimana di studio promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze ha un programma ambizioso:  riunire scienziati illustri nei diversi campi, condividere i risultati più recenti delle loro ricerche e offrire una prospettiva più ampia del modo in cui questi risultati incidono su altre aree dell’astrobiologia.
Raggiungere questi obiettivi non sarà facile perché il linguaggio di ognuna delle discipline rappresentate dai relatori non è completamente comprensibile.
Come spiegare a un astronomo la complessità dei marker chimici dell’attività biologica in antichi sedimenti della Terra? Oppure, come illustrare con l’accuratezza necessaria a un biologo molecolare le più recenti tecniche astronomiche per l’individuazione dei pianeti? Il paradosso dell’astrobiologia sta nel fatto che, sebbene la si possa considerare una disciplina circoscritta e specializzata, non si può sperare di comprendere adeguatamente la vastità delle discipline tradizionali che ne costituiscono la spina dorsale.
La settimana di studio, dunque, è veramente un corso interdisciplinare per esperti di una determinata materia per acquisire conoscenza e comprensione in altre materie più distanti, ma sempre sotto la giusta e ragionevole denominazione di astrobiologia.
In effetti non si tratta di nulla di nuovo:  sono 13 anni che l’astrobiologia è riconosciuta come una nascente disciplina autonoma.
Gli scienziati sono stati educati a comprendere gli uni le materie degli altri.
Tuttavia, a volte, ciò avviene nell’ambiente della frenetica “conferenza annuale”, quel fenomeno del sapere moderno in cui il massimo numero di interventi viene compresso nel tempo di pochi giorni e si crea una specie di bazar intellettuale dove gli scienziati acquistano frammenti preziosi di informazioni – generalmente, per facilità, nella propria disciplina – cercando di assicurarsi che i concorrenti non stiano vendendo proprio la merce che vogliono vendere loro, o dove (raramente) si avventurano in sessioni estranee alla propria competenza per scervellarsi su quanto viene detto.
Ovviamente si svolgono anche seminari di astrobiologia e di altre scienze, più concentrati, ma spesso riguardano una sottodisciplina.
In un qualsiasi mese dell’anno, geologi possono incontrarsi a Vancouver per approfondire i risultati più recenti sulla studio della comparsa più antica dei fossili sulla Terra, mentre a Rio de Janeiro astronomi presentano nuovi dati sull’abbondanza di elementi che formano la vita in vicine regioni in cui si formano stelle, a Potsdam intanto studiosi dei pianeti discutono dell’ultima prova dell’esistenza della vita sotto la superficie ossidante di Marte.
Questa settimana di studio non è un evento unico, ma è relativamente raro.
Una settimana intensiva in cui astrobiologi in relativo isolamento confrontano i propri campi di ricerca e cercano di comprenderli è un’impresa difficile, ma entusiasmante.
Per fare tutto ciò in un lasso di tempo determinato, abbiamo selezionato accuratamente i relatori che possono rendere i loro specifici campi di ricerca comprensibili a astrobiologi di altri campi, a laici intelligenti e a chi può collegare quelle ricerche ai più ampi problemi dell’astrofisica.
Il programma è suddiviso in otto sessioni.
La prima, “L’origine della vita”, riguarda il difficile quesito sui meccanismi che hanno permesso alle molecole di organizzarsi in modo da consentire l’inizio della vita.
La vita, come la conosciamo sulla Terra, è basata su una struttura di proteine e di polimeri acidi nucleici che trasportano le informazioni per costruire proteine dai loro aminoacidi costitutivi.
Seppur complessa, la vita è una chimica organica molto specifica e selettiva.
Infatti, dell’ampia gamma di possibili acidi organici che i sistemi abiotici possono produrre, la vita ne utilizza solo un manipolo.
Parimenti, utilizza ampiamente solo aminoacidi “di sinistra” e zuccheri “di destra”.
Nella biochimica della vita c’è molto di più, ma questo è un esempio della sfida che chimici e biochimici affrontano nel cercare di comprendere in che modo la cacofonia della chimica organica abiotica si è evoluta nella sinfonia strutturata della vita.
Nello stesso modo ricavare dallo scarso materiale geologico delle prime fasi della Terra qualche indicazione sulle condizioni ambientali nelle quali si è formata la vita è un compito estremamente difficile, perché l’attività geologica, ossia le forze della tettonica, l’erosione, gli impatti del materiale asteroidale, ha cancellato del tutto le prove dell’ambiente terrestre nel mezzo miliardo di anni successivo alla sua formazione.
La seconda sessione, “Abitabilità nel tempo”, riguarda il problema di come la Terra sia riuscita a sostenere la vita per tutta la sua lunga storia geologica.
Qui il materiale geologico è maggiore di quello risalente al periodo in cui si presume la vita abbia avuto inizio (e dovrebbe essere chiarito che non abbiamo un’idea precisa di quando questo sia accaduto).
Tuttavia, ora i processi sono molto complessi:  una varietà di gradazioni spaziali, temporali ed energetiche entrano in gioco.
Il Sole stesso, che spesso è tacitamente considerato come il sostenitore stabile dell’acqua allo stato liquido, che è essenziale per la vita come la conosciamo, era circa il 30 per cento meno luminoso di oggi all’inizio della storia della Terra.
Tuttavia la prova geologica dell’esistenza di acqua allo stato liquido sulla superficie della Terra quando il Sole era così pallido suggerisce che la nostra atmosfera deve aver causato un effetto serra molto più forte di quello odierno e anche piuttosto diverso.
Episodi di seria glaciazione nelle testimonianze geologiche suggeriscono che, di quando in quando, il “termostato” atmosferico non ha funzionato.
In che modo la vita, perfino a livello molecolare, e l’ambiente abbiano interagito nel corso del tempo geologico è il tema della terza sessione, “Ambiente e genomi”.
I tracciati molecolari delle reazioni biochimiche che sostengono la vita restano nella testimonianza geologica, suggerendoci i cambiamenti avvenuti nel corso di lunghi periodi di tempo.
Lezioni da forme di vita che vivono in ambienti estremi, come i venti sottomarini e i deserti più aridi della Terra, contribuiscono all’interpretazione di queste testimonianze.
La comparsa relativamente improvvisa di vita animale, tarda nella storia della Terra, resta un mistero la cui soluzione si potrebbe trovare sia nell’ambiente sia nei meccanismi del genoma.
La Terra sembra essere unica nel nostro sistema solare in quanto ad abbondanza di vita e, ciononostante, non possiamo essere sicuri che non ci sia vita su Marte o altrove nel sistema solare.
La quarta sessione, “Individuare la vita altrove”, si occupa delle prospettive e delle tecniche per individuare la vita in una varietà di ambienti altrove nel sistema solare, al di là di Marte fino agli asteroidi e ai satelliti di Giove e di Saturno.
Indipendentemente dall’esistenza di vita altrove nel nostro sistema solare, la vasta galassia della Via Lattea di cui siamo parte contiene più di cento miliardi di stelle.
Se i pianeti sono una caratteristica comune di tali stelle, non potrebbe esserlo anche la vita? Le tre sessioni successive studiano in modo sistematico l’individuazione, la formazione e le proprietà dei pianeti intorno ad altre stelle:  “pianeti extrasolari”.
La quinta sessione, “Strategie di ricerca di pianeti extrasolari”, spiega le varie tecniche utilizzate per individuare pianeti intorno ad altre stelle e determinare le loro proprietà.
Conosciamo già 380 pianeti extrasolari e gli studi suggeriscono che il 10 per cento di stelle con proprietà simili a quelle del nostro Sole ha almeno un pianeta.
La sesta sessione, “Formazione di pianeti extrasolari”, descrive dettagliatamente in che modo si formano i pianeti come parte del processo di formazione delle stelle.
Occorre domandarsi cosa determina il momento in cui un pianeta roccioso come la Terra si forma in opposizione a un gigante gassoso come Giove e se il processo di formazione del pianeta è materialmente differente intorno a stelle molto più piccole del nostro Sole.
La settima sessione, “Proprietà dei pianeti extrasolari”, riguarda modelli computerizzati, dati astronomici e alcune ipotesi sulla questione delle proprietà dei pianeti extrasolari come funzione delle proprietà delle stelle originarie e delle distanze da esse.
Molto del fascino dell’astrobiologia deriva dal chiedersi se forme di vita senziente esistono in altri mondi e se forme di vita diverse dalla nostra di fatto coesistono con noi, oggi, nel nostro mondo.
L’ottava sessione, “Intelligenza altrove e vita ombra”, studia entrambe le questioni.
La ricerca di vita intelligente altrove è condotta ascoltando il cosmo con radiotelescopi nello sforzo di cogliere un segnale di origine indiscutibilmente artificiale.
La ricerca sul nostro pianeta di una vita con una biochimica diversa da quella nota, la cosiddetta  “vita  ombra”,  è  una possibilità affascinante, ma piena di difficoltà.
L’astrobiologia si sforza di utilizzare una vasta gamma di tecniche scientifiche, focalizzate su obiettivi che vanno dalle molecole nelle cellule al vasto mondo intorno a noi, affinché il posto dell’umanità nel cosmo possa essere maggiormente apprezzato.
È il riconoscimento della notevole complessità di tutto ciò che è in e intorno a noi ed è il modo in cui il XXI secolo realizza l’esortazione del salmista di ricercare (Salmi, 111, 2).
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2009)

La preghiera fragile dei vecchi vicini a Dio

Pubblichiamo un’anticipazione di “Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera” del cardinale Martini Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell’età si fanno sentire.
Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado.
Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo.
So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni.
Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’argomento.
Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’anziano.
Si può considerare l’anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto.
/ Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4.
Ma anche fino al verso 8).
In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.
La salute e l’età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola.
Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre.
Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento.
Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario.
Tuttavia questo accorciare i tempi dell’orazione potrebbe essere molto pericoloso.
Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata.
Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.
Ma la preghiera dell’anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità.
Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani.
Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca.
Anzitutto nella Bibbia.
In molti Salmi si parla apertamente dell’anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive.
Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25).
Si veda anche l’esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore».
La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano.
La più nota è la preghiera dell’anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).
La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli.
Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me.
Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano.
Mi pare che possano emergere tre aspetti: un’insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.
Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia – ho 85 anni – si distingue la preghiera di ringraziamento.
Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire “a tempo pieno”) a prepararmi alla morte.
E ciò non è dato a tutti.
In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».
Là dove invece non c’è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14).
Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze.
Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto.
E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati! La terza caratteristica della preghiera dell’anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore.
Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano.
Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale.
Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente.
Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre.
Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore.
A noi non resterà che seguirlo docilmente.
in “la Repubblica” del 31 ottobre 2009