Comunità alternativa «La Chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modelli e relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa.
Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, espri-ma la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementante dalla mutua accettazio-ne e dal perdono reciproco».
(Card.
C.M.
Martini) Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date Ti offro, Signore, il mio servizio lo affronto serenamente con il Tuo aiuto, per la Tua gloria, come collaborazione all’opera creatrice del Padre per il benessere di tutti.
Cristo, insegnami a pensare al mio servizio, non soltanto come una fatica, ma come occasione per servire amando il mio prossimo e così incontrare Te, che mi hai redento e vegli su di me.
Spirito Santo, aiutami a rendere l’ambiente del servizio più umano e cristiano perché aiuti tutti a ritrovarci fratelli.
(Card.
Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).
Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Rinascere dalle ceneri del tuo dolore Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vi-vere la vita che volevi.
La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale.
Il vero suc-cesso, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato.
Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti ca-pita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione.
Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore.
Non sentirti sopraf-fatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza.
Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande de-gli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino.
Dentro di te c’è un es-sere capace di ogni cosa.
Guardati allo specchio.
Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune.
Se impari a co-noscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.
Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti.
Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisio-ni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua.
Sei parte della forza della vita stessa.
Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano.
Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il ser-vizio”.
(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).
Non sapevano che cosa chiedevano Marco afferma che soltanto Giacomo e Giovanni si avvicinarono al Signore e lo prega-rono, perché vede che erano soprattutto loro che volevano porre quella domanda al Signo-re e sa che essi avevano spinto la madre a chiedere.
Bisogna credere che l’affetto femminile della madre e l’animo ancora carnale dei discepoli siano stati spinti a domandare, soprat-tutto perché essi ricordavano le parole del Signore: «Quando il Figlio dell’uomo sederà nel luogo della sua maestà, anche voi sederete sui dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28) e sapevano di essere amati in modo speciale dal Signore a confronto con gli altri discepoli, e più volte, insieme con Pietro, erano stati fatti partecipi di misteri che agli altri rimanevano nascosti, come ricorda il vangelo.
Per questo, infatti, anche a loro, come a Pietro, era stato imposto un nome nuovo; come Pietro, che prima si chiamava Si-mone, per la fortezza e la stabilità della fede inespugnabile meritò il nome di Pietro, così essi furono chiamati Boanerghés, cioè figli del tuono (cfr.
Mc 3,16-17), perché avevano u-dito insieme con Pietro la voce gloriosa del Padre che scendeva sul Signore (cfr.
Mt 17,5), conoscevano i segreti dei misteri più che gli altri discepoli e, cosa più essenziale, sentiva-no di aderire con cuore integro al Signore e di amarlo col più grande affetto.
Perciò crede-vano che sarebbe stato possibile per loro sedergli più da vicino nel Regno, soprattutto per-ché vedevano che Giovanni per la singolare purezza di cuore e di corpo era tanto amato da lui da posare il capo sul suo petto durante la cena (cfr.
Gv 13,23).
[…] Non sapevano che cosa chiedevano perché pensavano che ciascuno potesse sce-gliere a proprio arbitrio quale posto e quale ricompensa avrebbe ottenuto in dono nella vi-ta futura e non pregavano invece il Signore di condurre a buon fine, ben meritandolo, la fiducia e la speranza che avevano, consapevoli che qualsiasi cosa di buono avessero fatto, egli li avrebbe ricompensati in misura infinitamente più grande.
Certo è lodevole la loro semplicità, per cui con devota fiducia chiedevano di sedere nel Regno vicino al Signore, ma molto sarà lodata la sapiente umiltà di chi, consapevole della propria fragilità, diceva: «Ho scelto di essere disprezzato nella casa di Dio piuttosto che abitare sotto le tende dei peccatori» (Sal 83 [84],11).
Non sapevano quel che chiedevano essi che domandavano al Signore i pre-mi sublimi piuttosto che la perfezione delle opere.
Ma il maestro celeste, in-dicando che cosa anzitutto dovevano chiedere, li richiama alla via della fatica con la quale avrebbero conseguito il premio della ricompensa.
Dice: «Potete voi bere il calice che io sto per bere?» (Mc 10,38).
[…] Che tutti i fedeli debbano seguire quest’ordine nella vita lo inse-gna l’Apostolo quando dice: «Se siamo diventati come una medesima pianta con lui in conformità alla sua morte, così lo saremo anche per conformità alla sua resurrezione» (Rm 6,5).
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sui vangeli 2,21, CCL 122, pp.
336-338).
Preghiera Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quel-lo che ti chiediamo».
Non siamo infatti migliori dei due discepoli.
Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.
Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte e-terna noi, peccatori.
Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.
Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita.
Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa.
Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti! Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 53,10-11 Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la vo-lontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la lu-ce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Il presente brano dell’A.T.
è stato scelto come prima lettura in considerazione del Van-gelo di oggi, nel quale i figli di Zebedeo vogliono mettersi al di sopra degli altri, a diffe-renza del Figlio dell’uomo che si abbassa volontariamente.
Is 53 costituisce il quarto carme del Servo sofferente di JHWH, e fa parte della seconda parte del Libro di Isaia (il cosiddet-to Deuteroisaia, capitoli 40-55, databili attorno agli anni 550-530 a.C.).
Dal carme sono stati scelti quei versi che esprimono la libera e volontaria umiliazione del Servo di JHWH.
Il v.
2, letto per intero, contiene questa parte, omessa nel brano liturgico: «Non ha né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui dilet-to».
In linea con questa descrizione, il Servo del Signore è paragonato ad una pianta che a motivo dell’aridità del suolo presenta l’aspetto non bello di un arbusto spuntato in mezzo al deserto.
—Ecco perché è «reietto», tenuto lontano e in poco conto da parte degli uomini (v.
3), e lui stesso è «uomo dei dolori», soffrendo in mezzo al disprezzo, all’aridità, alla solitudine.
— I vv.
10-11 formano una strofa del carme, nella quale vengono evidenziate due di-mensioni: da una parte l’espiazione, nel senso che il Servo soffre per gli altri, per i loro peccati (v.
110); dall’altra l’esaltazione, nel senso che Dio gli darà gloria perché ha preso su di sé tale sofferenza per gli altri.
I due versi costituiscono un prezioso commento o spiega-zione della parola sul riscatto pagato dal Figlio dell’uomo, alla fine del Vangelo di oggi (Mc 10,15).
Seconda lettura: Ebrei 4,14-16 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non ab-biamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
In questo brano la Lettera agli Ebrei introduce il paragone di Gesù col sommo sacerdote dell’Antica Alleanza.
Paragone molto importante per i destinatari e lettori della lettera, perché a quell’epoca c’era ancora il tempio, nel quale il sommo sacerdote celebrava i riti.
Del resto il sommo sacerdote era chiamato anche «Christos», unto (Lev 1,3).
Sua funzione liturgica è principalmente quella del perdono dei peccati di Israele nel giorno dell’espia-zione (yom hakippourim).
La Lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra Cristo ed il som-mo sacerdote alla luce del giorno di espiazione e del perdono dei peccati, che in esso veni-va accordato a tutto il popolo.
Gesù, attraverso la risurrezione e la glorificazione «è passato attraverso i cieli» (v.
14), vale a dire è entrato nel tempio celeste, come il sommo sacerdote entra in quello terreno nel giorno dell’espiazione.
Questa è la nostra confessione (homologia), corrisponde cioè alla so-stanza di quello che decidiamo di credere.
— «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze…» (v.
15).
A questo punto la Lett.
agli Ebrei tocca il mysterium compassionis: l’incarnazione è, fon-damentalmente, la com-passione, il soffrire di Dio con noi.
Il nostro sommo sacerdote ha voluto soffrire con noi ed essere messo alla prova insieme a noi.
— «Accostiamoci…al trono della grazia» (v.
16).
Il Santo dei santi nasconde il «trono della grazia», chiamato in ebraico kapporet (cf.
Rm 3,25: «hilasterion», propiziatorio), vale a dire il coperchio di oro che si trova sull’arca dell’Alleanza con i Cherubini, sui quali Dio è presen-te come re assiso sul trono.
La presenza di Dio è soprattutto presenza di grazia.
Per questo noi possiamo avvicinarci a tale trono pieni di gioia.
Vangelo: Marco 10,35-45 In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Gio-vanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».
Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?».
Gli rispo-sero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete.
Pote-te bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel bat-tesimo in cui io sono battezzato?».
Gli risposero: «Lo pos-siamo».
E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati.
Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni.
Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i go-vernanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.
Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.
Anche il Figlio del-l’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per ser-vire e dare la propria vita in riscatto per molti».] Esegesi Gesù ha annunziato per la terza volta la sua passione e morte ai Dodici in disparte (Mc 10,32-34), usando toni molto duri e realistici: lo condanneranno a morte, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo uccideranno.
Nel vangelo odierno, ad immediato seguito di quelle dichiarazioni, i due figli di Zebedeo avanzano a Gesù un’ambiziosa domanda (vv.
35 ss): questa gli dà l’occasione di approfondire ed esplicitare il tema della passione, asso-ciando ad essa la sorte dei suoi discepoli.
«Nella tua gloria» (v.
37).
Giacomo e Giovanni, che furono tra i primi ad accettare la chiamata del Maestro, sono persuasi di avere un titolo in più per occupare i primi posti in quel regno messianico glorioso che, secondo la comune convinzione dei discepoli, Gesù va ad inaugurare a Gerusalemme.
Nonostante i ripetuti annunci di Gesù, coltivano ancora questa aspettativa terrena di gloria e vogliono accaparrarsene i posti di onore (a destra e a sinistra del re).
Non è da escludere che nell’atteggiamento dei figli di Zebedeo si riflettano anche tensioni della chiesa nascente.
— Il calice, il battesimo (v.
38).
In molti testi dell’Antico Testamento e del giudaismo il «calice» era metafora delle «vertigini» e sofferenze che Dio faceva provare ai peccatori (cf.
Ger 25,15; Sal 11,6: 65,9 ecc.): Nella sua preghiera al Getsemani Gesù userà la medesima immagine (14,36).
Lo stesso senso evoca la parola «battesimo», ossia immersione nelle on-de della sofferenza (cf.
Le 12,50).
Gesù coinvolge i discepoli nella sua missione di sofferen-za.
— «Per coloro per i quali è stato preparato» (v.
40).
Alla risposta affermativa dei due disce-poli (dovuta sempre alla loro intenzione di partecipare alla gloria, anche se attraverso le prove), il Maestro replica che essi sono sì chiamati a partecipare alla sua intronizzazione messianica, ma non in base a diritti di umana precedenza, bensì per libera e gratuita inizia-tiva del Padre: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla so-vrana volontà di Dio.
— «Dare la propria vita in riscatto per molti» (v.
45).
Gesù prende spunto dalla «indigna-zione» umana degli altri discepoli (v.
41), per dichiarare lo statuto fondamentale che deve regolare i rapporti della comunità ecclesiale.
Egli contesta radicalmente il modello di auto-rità dispotico che vige tra le genti, nel mondo pagano; e propone paradossalmente come modello di autorità due figure che sono agli antipodi: il servitore e lo schiavo.
Queste due immagini, però, non sono generiche.
Rappresentano concretamente la scelta di Gesù: per lui «servire» vuol dire essere fino in fondo obbediente e fedele alla volontà del Padre, sulla stessa linea del «servo del Signore» di Isaia (vedi I Lett.), che si fa solidale col peccato degli uomini.
Dicendo che è venuto «per dare la sua vita in riscatto» per molti, il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte: la parola «riscatto» (in greco lytron, «mezzo per sciogliere») indicava, tra le altre realtà, il prezzo pagato per liberare uno schiavo.
Accet-tando la sua morte come atto di amore e liberazione degli uomini dalla schiavitù del pec-cato, Gesù consegna alla comunità dei discepoli un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella vita.
Meditazione Tra le resistenze che il discepolo incontra nel suo cammino di sequela del Signore Gesù, una in particolare emerge con forza nei capitoli centrali del racconto di Marco: è la resi-stenza alla logica della diakonia, logica che anima in profondità la via di Gesù e attraverso la quale il Figlio rivela la sua obbedienza al Padre e il suo amore senza limiti per gli uomi-ni.
Per ben due volte Gesù deve ritornare sul tema del servizio per educare i discepoli ri-luttanti a questa prospettiva e affascinati maggiormente dalla ricerca e dalla conquista di un primo posto da cui poter emergere e dominare sugli altri (cfr.
Mc 9,33.35 e 10,42-45).
E questo intervento di Gesù sul servizio, che mira a correggere la tentazione in cui i discepoli si lasciano facilmente coinvolgere avviene significativamente dopo il secondo e il terzo annuncio della passione, morte e risurrezione (cfr.
Mc 9,30-32 e 10 32-34); il discepolo fati-ca ad accogliere questa parola dura, fatica ad andare al di là di un paradosso che tuttavia apre lo sguardo sul mistero del dono del Figlio dell’uomo, sul mistero di Colui che «non e venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (10, 45).
In fondo il discepolo rimane estraneo alla stessa Scrittura che già aveva tratteggiato il volto di questo umile Servo che attraversa l’esperienza della sofferenza e del disprezzo per apri-re agli uomini il cammino della vita.
Questo «uomo dei dolori», come dice il Deutero-Isaia (prima lettura), la cui esistenza assurda e segnata dalla sofferenza sembra una contraddi-zione di una umanità amata da Dio è in realtà il cammino che Dio stesso sceglie per rivela-re tutta la sua solidarietà con l’uomo; anzi attraverso questa umiliante via crucis questo mi-sterioso servo, in cui «si compie la volontà del Signore», diventa offerta «in sacrificio di ri-parazione».
Ecco perché il Deutero-Isaia, con quello sguardo profetico che va al di là di una drammatica vicenda di dolore, può annunciare: «dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza…
il giusto mio servo giustificherà molti, egli si ad-dosserà le loro iniquità» (Is 53,11).
Non è forse questo il cammino che Gesù prospetta ai di-scepoli nel secondo annuncio della passione? Ma il cuore del discepolo è altrove; non può accogliere questa parola, chiuso nella sua incomprensione e nella sua paura.
Ecco perché Marco nota: «Camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti» (10,32).
Proprio in questo contesto di ‘lontananza’ tra Gesù e i discepoli, che pur stanno cammi-nando con lui, si colloca la sorprendente domanda dei figli di Zebedeo.
Essa rivela quale è la logica che stanno inseguendo questi due discepoli: essi vogliono (è la pretesa del potere) che Gesù favorisca la loro sete di carriera: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (10,37).
Dunque, con una disinvoltura che irrita gli altri dieci discepoli, Giacomo e Giovanni domandano di avere i primi posti, di essere i primi ministri nel regno istaurato dal Messia glorioso.
Nella loro richiesta emerge ancora una volta il rifiuto alla sequela della croce: vi è la paura di guardare in faccia quella realtà u-manamente scandalosa e incomprensibile che segna il passaggio attraverso cui Gesù rea-lizza il dono della sua vita.
E proprio su questo passaggio Gesù insiste nella sua risposta ai discepoli: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete e nel battesimo in cui io sono battezza-to anche voi sarete battezzati…» (10,39).
Prendere parte alla gloria di questo Messia umilia-to è possibile solo condividendo come lui l’esperienza della pasqua, rimanendo come lui solidale all’uomo peccatore nell’obbedienza al Padre che ha scelto questa via per rivelare la sua misericordia e per liberare l’uomo dalla morte.
E con forza, le due immagini del calice che deve essere bevuto (immagine che ritorna al Getsèmani: cfr.
Mc 14,36) e delle acque in cui è necessario immergersi esprimono sia il cammino di umiliazione e di morte che Gesù sta percorrendo, sia la piena condivisione della realtà umana che il Figlio di Dio si assume totalmente in comunione con il volere del Padre.
Questa è la tensione che anima la via di Gesù e questo è ciò che deve importare al discepolo, scelto «per stare con lui» (Mc 3,15).
Tutto il resto è libera azione del Padre: sarà lui a scegliere chi far sedere alla destra e alla sinistra di questo Messia umanamente poco glorioso: «Con lui crocefissero anche due la-droni, uno a destra e uno alla sua sinistra» (15,27).
Ciò che Gesù dice ai figli di Zebedeo, si trasforma in una parola rivolta a tutta la comu-nità.
In fondo, la tentazione di questi due discepoli è la tentazione di tutta la comunità dei discepoli.
La logica del potere (espressa da questa smaccata richiesta) fa scattare una ten-sione tra gli altri, i quali «avendo sentito, cominciarono ad indignarsi» (10,41); una indi-gnazione che, purtroppo, maschera lo stesso desiderio di un primo posto.
Nella comunità dei discepoli (la Chiesa) c’è il rischio che si instauri la stessa logica di dominio che caratte-rizza le relazioni in prospettiva ‘mondana’ (siano esse politiche, economiche, sociali e an-che religiose).
La comunità dei discepoli non ha altre vie da seguire se non quella di Gesù.
E qui Gesù ripropone nuovamente il suo cammino e il suo esser in mezzo ai discepoli at-traverso l’icona del servo: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servi-re e dare la propria vita in riscatto per molti» (10, 45).
La comunità dei discepoli si trova sempre di fronte a queste due possibilità: o seguire la logica del mondo o seguire con umil-tà il cammino della diakonia, il cammino del dono di sé, la via di Gesù (quel Messia che po-co dopo entrerà in Gerusalemme a dorso di un puledro d’asina: cfr.
Mc 11,1-10).
La prima strada è chiara («voi sapete…»): è quella percorsa da chi domina, da chi esercita un potere, illudendosi di avere così l’autorità e il diritto di farsi chiamare capo.
Ma è una via di op-pressione e non di reale dono e servizio, poiché non libera, non fa maturare e crescere l’al-tro (non è una reale auctoritas).
Il cammino di Gesù permette di realizzare autenticamente il desiderio che il discepolo, e ogni uomo custodisce nel cuore: ‘esser grande’ cioè realizza-re pienamente la propria umanità.
La via che Gesù propone è l’anti-potere per eccellenza: «Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (10,44).
Colui che è senza ruolo e senza prestigio, lo schiavo, colui che ha il coraggio di mettersi ai piedi dei fratelli e di di-minuire perché l’altro possa crescere, colui che veramente serve i fratelli donando sé stesso e la sua vita, questi è veramente grande, è il primo, esercita una reale autorità.
E in questa prospettiva l’autorità nella comunità dei discepoli diventa luogo di rivelazione in cui deve trasparire maggiormente la logica della Croce e solo in questa logica l’autorità trova giusti-ficazione.
La parola di Gesù non può essere ridotta ad un vaga esortazione all’umiltà; essa è, di fatto, criterio di discernimento per lo stile di ogni comunità cristiana, della Chiesa di ogni tempo.
Relazioni tra discepoli, strutture e ministeri, stili di vita e di annuncio, tutto nella comunità deve confrontarsi con questa parola.
Perché Gesù lo dice chiaramente: «Tra voi non è così…» (10,43).
Tra i discepoli non ci può essere spazio per la logica del potere; la vita di una comunità cristiana deve essere l’alternativa vivificante a questo cammino di morte a cui conduce la sete del potere, il luogo in cui al centro c’è la vita e la persona di Gesù (è la misteriosa forza dei due sacramenti che fanno la Chiesa, il battesimo e l’eucaristia), il luogo in cui si rivela il dono che conduce alla salvezza.
Questo è il cuore della sequela che ogni discepolo deve vivere e, in primo luogo, colui che tra i fratelli è chiamato ad esser servo della comunione.
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
La mostra «Astrum 2009»
Nella mattinata di martedì 13 ottobre, nella Sala Stampa della Santa Sede, è stata presentata la mostra “Astrum 2009: astronomia e strumenti.
Il patrimonio storico italiano quattrocento anni dopo Galileo” che sarà aperta presso i Musei Vaticani dal 16 ottobre al 16 gennaio.
Oltre al direttore della Specola Vaticana, il gesuita José Gabriel Funes, al presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Tommaso Maccacaro, e alla curatrice della mostra, Ileana Chinnici, alla conferenza stampa sono intervenuti il direttore dei Musei Vaticani e il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, nell’occasione, hanno scritto per il nostro giornale.
Come ci ricorda in apertura di catalogo padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, gli indiani del Keat Peak nella riserva dell’Arizona dove sono installati i telescopi più potenti del mondo, chiamano the people with long eyes (“la gente dagli occhi lunghi”) gli scienziati e i tecnici che di notte si ritirano nei loro misteriosi avamposti ipertecnologici a scrutare i limpidi cieli stellati del deserto di altura.
Ci vogliono occhi lunghi per guardare le stelle, per penetrare la profondità dei cieli.
Però, non bastano gli occhi che Dio ci ha dato.
Ci vogliono strumenti assai più efficaci, ausili conoscitivi e tecnici molto più elaborati e affidabili perché lo sguardo diventi davvero lungo.
Gli indiani del Keat Peak lo hanno capito, gli uomini di ogni epoca e di ogni cultura lo hanno sempre saputo.
La mostra che i nostri Musei ospitano nella sala polifunzionale – dal 16 ottobre al 16 gennaio – voluta e promossa dall’Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e dalla Specola Vaticana, intende offrire alla ammirazione e alla riflessione del pubblico una vasta selezione dell’imponente patrimonio di strumentazione astronomica di interesse storico posseduta dagli istituti italiani.
Nell’Anno internazionale dell’astronomia, celebrativo di Galileo e del suo Sidereus nuncius, a quattro secoli dalla scoperta e prima applicazione del telescopio, la mostra curata da Ileana Chinnici con la cooperazione dei Musei Vaticani e, in particolare, di Andrea Carignani, ci racconta la straordinaria avventura.
Come, seguendo quali percorsi conoscitivi e servendosi di quali strumenti – dall’astrolabio arabo di Ibn Sahid el Ibrahim del 1096 al telescopio di ultimissima generazione che la Specola Vaticana utilizza e che è situato a 3200 metri di altezza sul monte Graham in Arizona – la comunità scientifica internazionale, prima e soprattutto dopo Galileo, ha saputo allungare lo sguardo verso cieli sempre più remoti e sempre più incogniti.
Fino ad arrivare un giorno – l’augurio è di Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica – a risolvere il mistero della nostra apparente solitudine cosmica.
Questo è l’argomento della mostra che, nell’anno di Galileo, i Musei Vaticani ospitano.
Non c’è chi non veda la straordinaria rilevanza culturale e anche “politica” dell’evento.
Si spiegano così l’alto patronato concesso dal segretario di Stato vaticano e dal presidente della Repubblica italiana, le prestigiose presentazioni in catalogo (Città del Vaticano – Livorno, Musei Vaticani – Sillabe) del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, e del cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, e l’indirizzo di saluto del ministro italiano dell’Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini.
Due cose hanno mosso gli uomini a scrutare i cieli: la curiosità e lo stupore.
Non si può vivere sulla Terra senza cercare di capire l’infinito incognito che ci circonda e ci sovrasta.
Come spiegare le fasi della Luna e i movimenti degli astri? Perché il Sole sale e discende, stagione dopo stagione, i gradini del cielo? Perché la caduta dei meteoriti che incendiano le notti d’estate e perché l’apparizione delle comete portatrici di prodigi e di presagi? Quanto è grande il firmamento, quanto distano dalla Terra le stelle a noi più vicine? Quali leggi governano – forse immutabili ed eterne, forse in continua evoluzione – l’universo di cui facciamo parte? Sono domande che gli uomini si sono posti da sempre.
Ne abbiamo una rappresentazione splendida nel mosaico del Museo nazionale di Napoli proveniente da Pompei e databile al I secolo prima dell’era cristiana, che ci presenta una pensosa raccolta di filosofi e di scienziati intenti a riflettere e a disputare di fronte a un globo celeste.
Sono domande che per trovare parziali e provvisorie risposte hanno avuto bisogno degli strumenti rari e sofisticati che la mostra ci offre.
Eppure la curiosità o per meglio dire l’ansia di conoscenza è sempre preceduta dalla emozione e l’emozione produce “stupore” che è sentimento profondamente umano, di segno evocativo e fantastico.
Il cuore poetico di una mostra gremita di strumenti che hanno permesso agli uomini di scrutare la infinitudine dei cieli è rappresentato, per me storico dell’arte, dalle otto tele di Donato Creti, gioiello della Pinacoteca Vaticana.
Osservazioni astronomiche si intitola la celebre serie, perché ogni tela raffigura fenomeni celesti: il Sole, le mutazioni della Luna, la cometa, i pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno.
La cosa per me straordinaria è che protagonista di ogni dipinto è il corpo celeste oggetto di astronomica osservazione ma è anche la persona (o le persone) che lo guardano.
Donato Creti, l’artista che dipinse le otto tele nel 1711 su commissione del conte bolognese Luigi Marsili, il quale volle farne dono a Papa Clemente xi, viene dalla tradizione stilistica di Guido Reni.
Governano la sua pittura gli ideali classici della venustà, della amabilità e della grazia.
Questa volta, di fronte a un soggetto iconografico così inusuale, è lo stupore a guidare il suo pennello.
Noi entriamo con Donato Creti nel blu profondo, nel nero luminoso di una grande notte italiana, entriamo nei tramonti infuocati dell’estate, nella luce grigio-azzurra di un’alba serena e proviamo gioia e stupore di fronte ai prodigi che il cielo ci regala.
Dietro gli strumenti astronomici allineati dalla mostra – cannocchiali e telescopi, sfere armillari e globi celesti – in molti casi veri e propri capolavori di saperi scientifici e di talenti tecnologici, ci sono la curiosità e lo stupore.
Sono i sentimenti che Donato Creti ha messo in figura nelle sue tele.
Grazie a lui possiamo meglio capire le ragioni profonde che sempre hanno guidato l’uomo sulle strade impervie e tuttavia affascinanti e in ogni caso non contrastabili, della conoscenza.
di Antonio Paolucci (©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2009)
XXVIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).
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LECTIO – ANNO B Prima lettura: Sapienza 7,7-11 Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
Il brano appartiene alla seconda parte del libro della Sapienza, là dove viene presentato Salomone, il saggio per antonomasia e la sua ricerca per la sapienza.
Dopo una prima parte che metteva in luce la piccolezza di Salomone (cf.
7,1-6), il nostro brano mette in luce il valore della sapienza.
L’idea madre sta qui: la sapienza è superiore a tutte le ricchezze.
— Il v.
7 da l’intonazione perché qualifica la sapienza come dono di Dio, un bene che si chiede a Lui.
Si tratta quindi di una realtà qualitativamente diversa da tutte quelle che l’uomo può acquisire da sé.
— I vv.
8-10 fanno l’inventario dei beni solitamente ricercati: potere (v.
8), ricchezza (v.
9), salute e bellezza (v.
10).
Viene utilizzata la tecnica del contrasto e della sproporzione: non è neppure ipotizzabile un raffronto tra questi beni e la sapienza, tanto questa li supe-ra di gran lunga.
— Il v.
11 recupera tutti i beni, come corredo della sapienza.
Quindi, sembra suggerire l’autore, non viene snobbato nulla di quanto l’uomo incontra sulla terra.
L’implicita raccomandazione – sull’esempio di Salomone che sceglie e preferisce la sa-pienza – è di ricercare i beni del cielo (tale è appunto la sapienza), sapendo che «tutte que-ste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 7,33).
Seconda lettura: Ebrei 4,12-13 La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
Tra le ricchezze che il cristiano deve ricercare e possedere, va senz’altro annoverata la Parola di Dio.
Il testo è un minuscolo ma prezioso trattato sul suo valore.
La Parola di Dio, presentata sotto la metafora della spada (cf.
Ef 6,17; Ap 1,16), è detta viva (in greco posto enfaticamente all’inizio), forse perché compie azioni importanti, vitali.
È attribuita alla Parola una specie di personificazione (cf.
Is 55,10ss.), che si manifesta anche nella caratteristica dell’essere efficace e tagliente.
Ad esso viene attribuito un potere di discernimento che spesso la coscienza non possiede, perché intrappolata nei meandri di false rappresentazioni.
La Parola di Dio svolge quindi la preziosa funzione di indagare, illuminare, orientare.
Una vera bussola che il Signore pone sul cammino del credente e della comunità, per rendere più sicuro il suo cammino.
Dono di Dio, è una ricchezza offerta agli uomini.
Vangelo: Marco 10,17-30 [In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?».
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».
Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!».
I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?».
Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».] Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito».
Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
Esegesi La professione di fede di Pietro divide in due parti il Vangelo secondo Marco: se prima Gesù era impegnato ad annunciare la Buona Novella a tutti, ora, senza rinunciare ad istru-ire la folla, coagula il suo interesse sul gruppo dei Dodici che ha fatto l’opzione per Lui.
Troviamo materiale eterogeneo quanto a genere letterario, perché composto da un rac-conto di vocazione, da un ammonimento e da una risposta all’implicita richiesta di Pietro; però comune è la tematica, quella della ricchezza, una specie di filo conduttore che rinsal-da le diverse parti.
In dettaglio: — Gesù incontra un ricco e lo chiama alla sua sequela, vv.
17-22; il racconto è animato dal movimento iniziale di correre incontro a Gesù in contrasto con quello finale di allonta-namento; il primo movimento sottintende una gioia della ricerca, il secondo è accompa-gnato da tristezza.
— Colloquio di Gesù con i discepoli sulla ricchezza come ostacolo per l’ingresso nel re-gno dei cieli; la difficoltà viene superata dalla potenza divina, vv.
23-27.
— Problema di Pietro circa la ricompensa alla sequela e la conseguente risposta di Gesù; esiste una ricompensa immediata e una futura, vv.
28-31.
L’insegnamento rimbalza dai discepoli a tutti gli uomini che vogliono mettersi alla se-quela di Cristo; esso porta luce e orientamento e, per il cristiano, diventa norma di vita.
Notiamo un inizio elettrizzante di uno che corre incontro a Gesù: si presagisce qualcosa di interessante.
Al movimento spaziale l’evangelista Matteo aggiunge anche un movimen-to temporale: secondo lui si tratta di un giovane: per Marco è chiaramente un adulto per-ché dirà «fin dalla mia giovinezza».
Oltre alla corsa, il mettersi in ginocchio davanti a Gesù, denota la stima verso il maestro di Nazaret.
C’è grande aspettativa.
— «Maestro buono…
Nessuno è buono, se non Dio solo».
L’appellativo, di uso raro e insolito, sembra rifiutato da Gesù.
In realtà, egli aiuta a capire dove sta la vera e unica sorgente della bontà, alla quale tutti devono attingere: il Padre; ce lo rammenta sempre la liturgia: «Padre santo, fonte di ogni santità…» (Prece eucaristica II).
Chi ricerca la vita eterna, deve orientarsi verso quel Dio che ha espresso la sua volontà di santità nel decalogo.
— «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare…».
Gesù cita la quintessenza dell’al-leanza al Sinai: si allinea con la migliore tradizione biblica di cui afferma l’autenticità e di cui conferma la continuità.
La proposta della ‘seconda tavola’, quella che contiene i doveri verso il prossimo, dimostra che qui si gioca la veridicità dell’amore a Dio.
— La risposta piace ma non propone nulla di nuovo: «Maestro, tutte queste cose le ho os-servate fin dalla mia giovinezza».
L’uomo che sta davanti a Gesù sente il bisogno di qualcosa che vada oltre; a lui il merito di aver intuito che Gesù può indicare quel qualcosa.
— Il salto di qualità arriva negli atteggiamenti e nei sentimenti prima ancora che nelle parole.
L’evangelista Marco ha regalato all’umanità il particolare stupendo dello sguardo e dei sentimenti di Gesù: «fissò lo sguardo su di lui, lo amò».
È un dettaglio di toccante tenerez-za, esclusivo del secondo vangelo.
La forza di quello sguardo e la carica di quell’amore spingono ad accogliere il novum che l’uomo aveva vagamente percepito in Gesù e che ora si sente proporre: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un te-soro in cielo; e vieni! Seguimi!».
— Tutto gravita attorno a due poli che bilanciano la risposta: «Va’, vendi» e «Vieni! Se-guimi!».
Sono due coppie di imperativi che vivono un drammatico contrasto: movimento di allontanamento il primo, di avvicinamento il secondo.
L’originalità sta nel prospettare la povertà evangelica e la sequela di Cristo, l’una come condizione dell’altra: «Il vero modo di tesorizzare presso Dio è quello di dare.
Uno non ha quanto ha accumulato, bensì quanto ha donato» (S.
Fausti).
In ogni caso ci si deve allontanare da qualcosa per incamminarsi dietro a Qualcuno.
Idee e progetti che prima si realizzavano in proprio, ora si realizzano in società, meglio, in comunione.
— Gesù chiama quell’uomo a diventare suo discepolo; gli propone l’ideale suggestivo e arduo della sequela.
Scrive Kirkegaard: «Diventare discepolo consiste nell’essere intima-mente coinvolto in un drammatico e salutare confronto di contemporaneità con Cristo, in-vece di mantenersi nello stato di ammiratore disimpegnato».
La vocazione a seguire Gesù esige un legame con la sua persona, perché Gesù non promette altro che se stesso e una rottura con il presente.
Al di fuori di questa comunione saranno solo idee e progetti avventizi e sterili, destinati a vita breve e senza seguito.
Il Cristo non chiede di essere sradicati o isolati, propone invece il legame e la comunione con Lui.
Praticamente Gesù dice al ricco: «Seguimi!».
Lui e Lui solo è la meta dei comandamenti, la loro pienezza Gesù riprende la domanda del suo interlocutore che voleva qualcosa di più.
La risposta è Gesù stesso: è Lui che fa la differenza con la risposta tradizionale, pur valida, ma insufficiente.
— Quell’uomo ha paura dell’ignoto e preferisce l’ancoraggio al presente; perde il suo entusiasmo iniziale, smorzandosi in una tristezza che lo incupisce e lo allontana.
La con-clusione dell’episodio è quanto mai laconica: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni».
Con il «se ne andò rattristato» si registra prima la tristezza che si e dipinta sul volto, all’esterno, seguita dalla motivazione «a queste parole»; si dà poi l’analisi psicologica dello stato d’animo con quel «scuro in volto» seguito dalla seconda motivazione «possedeva infatti molti beni».
La tristezza esteriore è più immediata ed è causata dalle parole di Gesù ha valore più transitorio.
L’afflizione invece pesca nel profondo, intacca tutta l’esistenza e proviene dalla ricchezza alla quale l’uomo è schiavisticamente legato.
Dalla corsa iniziale all’allontanamento finale: qui sta la miserevole vicenda di chi si ar-ricchisce davanti agli uomini e non davanti a Dio.
— Sussiste per tutti il pericolo della ricchezza (vv.
23-27).
L’accaduto diventa occasione per un salutare monito a tutta la comunità ecclesiale.
Le parole di Gesù «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» ghiacciano l’uditorio e gettano nella costernazione i discepoli.
Va ricordato che i discepoli erano cresciuti alla teologia dell’Antico Testamento che considerava la prosperità materiale come il sacramento della benedizione divina.
Non si sa fin dove la predicazione profetica e la teologia dei salmi fossero riuscite a intaccare lo zoccolo duro dell’opinione popolare, del resto ampiamente accolta e propagandata dalla classe dei sadducei.
Di fatto coesistevano l’ideale dei poveri di JHWH che ponevano la loro fiducia esclusivamente in Dio e la prassi dei ricchi che si ritenevano depositari della benevolenza divina perché potevano disporre di beni materiali.
A Gesù spetta il non facile compito di ribaltare un pensiero comune e di profilarne un altro.
Quasi incurante dello shock provocato, rincara la dose: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!».
Gesù non fa sconti.
Secondo lo stile orientale, l’idea viene sostenuta da un paragone: « È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
È una iperbole cioè una voluta esagerazione per far capire il messaggio (fallaci i tentativi di trasformare kamelos ‘cammello’ in kamilos ‘gomena corda di nave’, oppure di pensare ad una porticina delle mura di Gerusalemme denominata ‘cruna dell’ago’).
Davanti ad una reale e consistente difficoltà, la soluzione viene dal Signore: «tutto è possibile presso Dio»; la frase, presa da Gn 18,14 (Sara e Abramo) ricorda il potere di Dio.
— Se quell’uomo ha fallito, i discepoli hanno lasciato tutto e seguito il Maestro, implicitamente viene chiesto che cosa toccherà loro (cf vv.
28-31).
La risposta di Gesù è inaspettata e, come sempre, profonda: viene promessa una ricompensa futura, definitiva e una immediata, provvisoria.
La prima è la «vita eterna», quella vita che il ricco aveva ricercato ma pure rifiutato, quella nella quale è impossibile entrare se si è ricchi.
Quella provvisoria sta nel fatto che i discepoli di Cristo, rinunciando alla casa, alla famiglia e alla proprietà, ritrovano una nuova famiglia ed una casa nella comunità cristiana.
Il pensiero è ben illustrato da Mc 3,34-35 dove Gesù aiuta a superare i legami familiari giuridici per ritrovare i legami della fede.
Meditazione La sezione centrale del vangelo di Marco (i capitoli 8-10) presenta un tema dominante, quello della sequela, plasticamente raffigurato dalla via che sale a Gerusalemme percorsa da Gesù con i suoi discepoli.
Su questa strada avviene un incontro: un uomo ricco si avvi-cina a Gesù e lo interroga.
E proprio attraverso il dialogo che si intesse tra quest’uomo e Gesù, attraverso la desolante conclusione a cui giunge il cammino di ricerca di quel ricco, attraverso le reazioni dei discepoli, spettatori attoniti di questo episodio, Marco ci offre alcune sfumature che caratterizzano le esigenze della sequela: le condizioni per «avere in eredità la vita eterna» (10,17); la scoperta di quel ‘Maestro buono’ che può insegnare e fare dono della vita; la scelta di seguire questo maestro e le condizioni per essere suo discepolo; il discernimento sui beni terreni e il rapporto tra ricchezza e sequela.
E certamente quest’ultimo aspetto sembra catturare l’attenzione di quell’uomo ricco che, con tanto entusiasmo, era corso da Gesù ponendogli quell’interrogativo esistenziale, l’interrogativo sulla vita vera, la vita ‘senza fine’.
A partire da questa domanda rivolta a quel ‘Maestro buono’ (cfr.
10,17-18) e dalle successive risposte, l’uomo ricco è posto di fronte ad alcune scelte: dove sta la vera vita? I beni terreni possono assicurare la vita? Scegliere la vita o scegliere i beni? Possedere ricchezze o lasciarle per seguire quel ‘Maestro buono’? È dunque necessario un discernimento e questo deve illuminare il rapporto con le ricchezze materiali e la loro relazione con ciò che veramente può dare valore a una esistenza.
In sé la ricchezza non è un male; anzi, nel linguaggio biblico, è segno di benedizione di Dio.
Ma resta pur sempre una realtà ambigua, soprattutto quando cattura il cuore dell’uomo, rendendolo estraneo a Dio, in quanto crea una sorta di dimenticanza nei suoi riguardi e provoca attorno a sé ingiustizia sociale e avidità (si pensi alle parabole del ricco stolto e del ricco gaudente in Lc 12,13.21 e 16,19-31).
Soprattutto di fronte alla vita elargita da Dio, ogni ricchezza materiale assume un valore diverso.
Come suggerisce il testo del libro della Sapienza (prima lettura), una vita illuminata dalla saggezza che viene da Dio non può essere paragonata con nessun bene materiale: «tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento» (Sap 7,9).
Il discernimento per giungere a una scelta ‘sapienziale’ della vita può esser illuminato solo dall’incontro con la parola di Dio, quella parola che – come dice la lettera agli Ebrei (seconda lettura) – «è viva, efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio» e «che discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
E proprio sulla strada che conduce a Gerusalemme, quell’uomo ricco è chiamato a fare questa scelta, in un confronto con la parola di Dio, con quel maestro buono che dona la vita.
Soffermiamoci su alcuni elementi che caratterizzano la dinamica di questo incontro.
Notiamo anzitutto come all’incontro con Gesù, quell’uomo è condotto a partire da una ricerca personale, una ricerca sincera e motivata: «gli corse incontro…e gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità al vita eterna?”» (Mc 10,17).
La risposta di Gesù rimanda il ricco semplicemente alla parola di Dio, alla via dei comandamenti (e in particolare quelli che evidenziano le relazioni con il prossimo).
Ed è appunto il cammino a cui quest’uomo ha cercato di essere fedele «fin dalla giovinezza» (10,20).
Ma attraverso la risposta di Gesù, la ricerca di quest’uomo deve aprirsi a un salto di qualità, a un incontro.
Si è rivolto a Gesù, l’ha chiamato ‘Maestro buono’ e ora deve prendere coscienza di ciò che cerca veramente e chi è colui al quale ha rivolto la sua domanda: «perché mi chiami buono?» (10,18).
Per avere «in eredità la vita eterna» (10,17, questo è ciò che aveva chiesto l’uomo ricco a Gesù), è necessario compiere una scelta.
E la scelta per quell’uomo è essere discepolo del ‘Maestro buono’, seguire colui che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
«Una cosa sola ti manca…» (10,21): a quell’uomo non basta essere un giusto (osservare i comandamenti) per avere la vita; deve diventare un discepolo di colui che dona la vita.
Questa è la radicalità della chiamata che Gesù rivolge a quel ricco.
E la radicalità dell’appello è caratterizzata anzitutto dallo sguardo che Gesù rivolge a quell’uomo: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò…» (10,21).
Prima di chiamare alla sequela, Gesù ama colui che invita ad essere suo discepolo.
E per quell’uomo, desideroso di fare qualcosa per possedere la vita, anzitutto è richiesto di accogliere un amore gratuito.
Sta qui la radicalità: nella sequela non si è protagonisti, ma si accoglie la gratuità di un dono, l’amore di Cristo.
Ma la scelta di seguire Gesù è radicale anche perché richiede un abbandono di ciò che fino a quel momento ha catturato la vita di quell’uomo, le ricchezze: «Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (10,21).
Per seguire Gesù è ri-chiesta una libertà da ciò che ostacola questo cammino; è necessario fare un vuoto, ma che deve esser però riempito da un tesoro vero, l’amore di Cristo e l’amore per Cristo.
A questo punto per quell’uomo si pone il discernimento: che cosa è più importante? Che cosa o chi preferire? E la risposta data dall’uomo ricco è purtroppo un fallimento.
L’incontro si conclude con una scelta mancata, una ricerca e un desiderio di vita frustrati.
Dalla gioia iniziale che aveva portato quell’uomo a correre incontro a Gesù, alla tristezza finale di un cuore incapace di scegliere tra la Vita e le cose che compongono la vita, ma che di fatto non la contengono.
E Marco sembra insistere su questa tristezza: «A queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato…» (10,22).
È la tristezza di un cuore che non riesce a liberarsi e che la parola di Gesù ha fatto emergere (cfr.
Eb 4,12-13); è la tristezza di una ricerca fallita.
«Se ne andò»: è proprio il contrario della sequela.
Ma lo sguardo e la parola che Gesù rivolge ai discepoli sconcertati da ciò che avevano visto, è come un’ultima apertura per comprendere cosa significa seguire Gesù.
In fondo, ricorda Gesù ai discepoli, un ricco non può entrare nel regno di Dio: «Quanto è difficile entrare nel regno di Dio!» (10,24).
E subito aggiunge: è «impossibile agli uomini» (10,27).
Nella prospettiva umana, seguire Gesù, accettare le condizioni di questa sequela, lasciare ciò che ostacola la sequela, è assurdo e impossibile (l’immagine della cruna dell’ago e del cammello).
A meno che l’uomo si affidi radicalmente alla potenza dell’amore di Dio, si af-fidi, in qualche modo, allo sguardo di amore di Gesù.
Allora essere discepolo è possibile per ogni uomo, anche per un ricco (come è capitato a Zaccheo: cfr.
Lc 19,1-10), perché «tut-to è possibile a Dio» (10,27).
Diventare discepoli o entrare nel Regno, non è frutto dell’abilità e degli sforzi umani: è un dono della potenza salvifica di Dio.
A Lui è necessario affidarsi ed accogliere quella parola e quello sguardo di amore (cfr.
10,21) che rendono libero l’uomo e lo cambiano.
Ti mancava una cosa sola Non sappiamo il tuo nome, ma meglio così, sei tutti noi.
Eri ancor giovane, dice qual-cuno, ma avevi già un passato da raccontare e una posizione ce l’avevi, economica e non solo.
Eri anche una persona perbene, un bravo ragazzo, come si dice.
Vorremmo tornare a quel tuo incontro straordinario con Gesù, il giorno che passò dal tuo paese.
Chissà anche tu quante volte ci sarai ritornato su, col pensiero, nella tua vita di poi, nelle notti insonni o nelle pause del giorno.
Dovevi esserne rimasto affascinato.
Dovevi aver detto anche tu: “Nessuno parla come costui!”.
Quel giorno, mentre stava andandosene, non hai voluto perdere l’occasione di incontrarlo.
Ti sei slanciato verso di lui senza ch’egli ti cercasse (o non era forse lui quella nostalgia d’infinito che già bruciava in te?), gli sei caduto alle ginocchia, come i tuoi servi davanti a te, gli ha posto la domanda cui solo lui, ne eri certo, poteva rispondere: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”.
Forse ne avevi sentito parlare da lui, fatto sta che tu ci credevi, che la tua storia non sarebbe finita su questa terra.
Il Maestro t’aveva rimesso, al di là di ogni infatuazione, davanti all’Unico buono.
Lui dunque da amare anzitutto.
E t’aveva snocciolato i comandamenti delle relazioni umane secondo Dio.
Non era facile per te esservi fedele, ma ce l’avevi fatta.
Non avevi ammazza-to nessuno, lasciavi ad ognuno la sua donna e i suoi beni, e mai nessuno avevi danneggia-to con la menzogna e l’inganno.
Tuo padre e tua madre li avevi rispettati, ci mancherebbe altro.
Con che gioia hai detto a Gesù: “Ho sempre obbedito a questi comandamenti”.
Gesù non ti ha guardato, semplicemente, come si guarda uno che parla; ti fissò, dice Marco, che, benché di poche parole, precisa: ti amò.
Era come se volesse per primo offrirti quel più d’amore che stava per chiederti.
“Una sola cosa ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.
Non avresti mai pensato che ti chiedesse tanto.
Forse un’elemosina più consistente, pensavi, una preghiera più lunga, una penitenza.
Ti è mancato il fiato.
In un istante hai ri-visto tutto quello che avevi e quello che speravi di avere.
Il frutto delle fatiche dei tuoi pa-dri e tue a chi non ne aveva diritto? e poi… seguire Gesù: dove? con che prospettive? Inutile chiederti com’è stato che hai scelto liberamente eppure sei rimasto triste.
La co-nosciamo questa tristezza, questa falsa libertà.
Il dramma di non volare alto per godere a bassa quota eppure rimanere infelici.
L’impotenza di vedere il bene, di volerlo anche, sen-za riuscire a sceglierlo.
Eccome, se ti capiamo.
Vorremmo però capire che cosa non ha funzionato nella tua storia, cioè nella nostra.
Anche Simone e Andrea non avevano ancora capito niente di Gesù, anzi, non gli avevano neppure fatto la tua bella domanda, e forse non erano neppure osservanti come te.
Eppu-re, subito, l’hanno seguito.
Perché loro sì e tu no? “Perché aveva molti beni”, sembra aiutarci Marco.
Il mistero della ricchezza! S’attacca al cuore, alla mente, alla volontà come una zavorra.
Uno apre le ali e non sa più volare.
Uno prova ad amare e non dà che qualche battito.
Uno prova a camminare, ma non ce la fa a trascinare tutto.
Ad ascoltare, ma le orecchie sono tappate.
A vedere, ma è come se non vedesse.
Esigenze, esigenze, esigenze.
Guai se manca una cosa, guai se non c’è l’altra.
A differenza di te che almeno te ne sei andato triste e hai misurato l’enorme nostalgia che, chissà, forse un giorno avrebbe potuto spingerti a tornare, noi invece crediamo che si può mettere insieme l’avere molto e la vita eterna, l’accumulo dei beni e la fede in Gesù Cristo.
Credici, amico lontano, siamo ben più disgraziati noi.
Fa’ una cosa, regalaci un po’ della tua tristezza, anzi tutta.
La conoscenza di sé e conoscenza di Dio La tradizione islamica ha conservato un hadît secondo il quale chi conosce se stesso co-nosce il suo Signore.
Un passo neotestamentario è significativo di questa ricerca concomi-tante di sé e di Dio.
In Mc 10,17-22, «un tale», un personaggio anonimo, dunque in cerca della propria identità, corre da Gesù e si getta ai suoi piedi interrogandolo su come ottenere la vita eterna (v.
17).
In questa persona (che non è «un giovane» come in Mt 19,20 e neppure «un capo» come in Lc 18,18, ma appunto solo «un tale») si coniugano dunque ricerca di Dio e ricerca di identità personale.
E questa ricerca si esprime in una domanda: «Che cosa devo fare?» (v.
17).
La risposta di Gesù non è estrinseca, non è rivolta verso l’esterno, non è sbilanciata sul piano del «fare», ma propone un itinerario interiore.
Gesù pone una contro-domanda che conduce il suo interlocutore a interrogarsi sul movente profondo, sul perché di quella ricerca.
Gesù lo fa andare al fondo di se stesso.
L’itinerario che Gesù propone comprende infatti, anzitutto, la conoscenza di sé, l’ordinamento delle relazioni umane con gli altri, con le realtà esterne, con la propria storia famigliare (i comandi etici del decalogo ricordati nel v.
19).
Quindi, la rivelazione della povertà profonda, della mancanza che abita il suo interlocutore («una cosa ti manca»: v.
21), non dopo però avergli apprestato lo spazio di amore al cui interno accogliere tale rivelazione e superarla grazie alla relazione con Gesù stesso (v.
21: «Gesù fissatelo lo amò e gli disse: “…
vieni e seguimi”»).
Conoscenza di Dio e conoscenza di sé, dice questo testo, passano attraverso l’adesione alla persona di Gesù Cristo.
L’anonimo interlocutore di Gesù però rifiuta il rischio del farsi amare e di ricevere la propria identità nella relazione con un altro, e così resta senza nome, senza volto, definito solamente da ciò che ha, da ciò che possiede: «Se ne andò afflitto perché aveva molti beni» (v.
22).
(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi.
Emergenza di un tema e sue ambiguità, Ma-gnano, Qiqajon, 1999, 12-13).
Quello che non abbiamo cercato “Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato.
Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui.
La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato.
A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.
(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).
Incontrare Cristo «Incontrare Cristo significa mettervi sulla strada dell’esperienza dell’amore, della gioia, della bellezza, della verità.
Decidere di non custodire e di non approfondire il segreto dell’incontro con lui equivarrebbe a condannarsi a una vita senza senso e senza amore.
Vorrei soprattutto dirvi, non abbiate paura, non abbiate timore di aprirvi a Cristo, di entrare nel suo mistero».
(Card.
C.M.
Martini).
«Non potete servire a Dio e a mammona» Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26).
La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli».
Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» ( 16,1 -13).
In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo.
Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.
La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona».
Eppure questo non significa un masochismo pauperista.
Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola.
La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).
(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).
Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro? Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi.
Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro.
È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria.
Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.
Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria.
Ci sono persone che non ne han-no mai abbastanza.
Vogliono averne sempre di più.
Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia.
In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro.
Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso.
Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri.
Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri.
Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità.
Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri.
O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano.
Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.
Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro.
Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo.
Uno accetta più rischi, l’altro me-no, perché preferisce dormire sonni tranquilli.
Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente.
Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avi-dità.
E sono necessari criteri etici.
Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici.
Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia.
Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità.
È necessaria soprattutto la libertà interiore.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).
Che cosa è tuo? «A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro.
Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso po-sto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riser-vato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti.
Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi.
Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.
Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti.
Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno? Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente.
Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno.
E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.
Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur po-tendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra.
Così commetti ingiustizia contro al-trettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.
(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).
Preghiera Sono io, Signore, Maestro buono, quel tale che tu guardi negli occhi con intensità di amore.
Sono io, lo so, quel tale che tu chiami a un distacco totale da se stesso.
È una sfida.
Ecco, anch’io ogni giorno mi trovo davanti a questo dramma: alla possibilità di rifiutare l’amore.
Se talvolta mi ritrovo stanco e solo, non è forse perché non ti so dare quanto tu mi chiedi? Se talvolta sono triste, non è forse perché tu non sei il tutto per me, non sei veramente il mio unico tesoro, il mio grande amore? Quali sono le ricchezze che mi impediscono di seguirti e di gustare con te e in te la vera sapienza che dona pace al cuore? Tu ogni giorno mi vieni incontro sulla strada per fissarmi negli occhi, per darmi un’al-tra possibilità di risponderti radicalmente e di entrare nella tua gioia.
Se a me questo passo da compiere sembra impossibile, donami l’umile certezza di credere che la tua mano sempre mi sorreggerà e mi guiderà là, oltre ogni confine, oltre ogni misura, dove tu mi attendi per donarmi null’altro che te stesso, unico sommo Bene.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Lebanon
Il regista israeliano ha descritto con assoluta precisione l’orrore della guerra, raffigurando in modo sconvolgente la paura., facendo emergere sentimenti, angosce, amarezze, tensioni di quattro giovani attori in uno spazio ristrettissimo, quello di un carro armato Lebanon è un’opera estremamente dolorosa, densa di una devastante inquietudine, come raramente si può vedere nel cinema contemporaneo.
Le vicende narrate da Maoz evocano palesemente le disavventure militari vissute dallo stesso regista durante la prima Guerra del Libano nel 1982.
Egli era un carrista israeliano e a 20 anni si trovò al centro di una battaglia sanguinosa durante la quale gli capitò anche di uccidere.
Questo evento ha segnato la sua vita e solo dopo due decenni dai fatti ha trovato la forza di scrivere la sceneggiatura e di girare il film.
Ma a parte le questioni contenutistiche, l’elemento che fornisce grande forza a questo lungometraggio è il concept registico/espressivo che si trova alla base della sua realizzazione.
Maoz ha infatti ricostruito in studio l’abitacolo di un carro armato.
I quattro interpreti si muovo sempre in questo spazio microscopico, buio e sporco.
Olio che cola dalle pareti, acqua per terra, sangue sulle mani e sugli strumenti, rumori fortissimi, vibrazioni terribili, fumo.
Questo luogo minuscolo comprime e fa scontrare le psicologie dei personaggi, i quali esplodono in crisi di rabbia, di pianto, di angoscia.
L’unico contatto con l’esterno è rappresentato da un “mirino” che permette di rimanere in relazione con la realtà, una realtà fatta di devastazione e morte.
Il regista si concentra soprattutto sull’uso del primo e del primissimo piano e insiste per gran parte del film nell’utilizzazione di, un occhio impazzito che scruta il mondo alla ricerca della salvezza.
L’autore elabora una struttura visiva claustrofobica, opprimente e tragicamente intollerabile.
La macchina da presa isola gli occhi spiritati dei soldati israeliani, i quali non vengono dipinti come mostri cattivi ma come ragazzi giovanissimi impauriti, gettati in maniera irresponsabile nella mischia agghiacciante della guerra.
Lebanon è allo stesso tempo un film catartico, una seduta di psicoanalisi pubblica/privata e un’opera di denuncia.
Il regista si è liberato evidentemente dai suoi personali ed opprimenti ricordi e ha raccontato al mondo le atrocità della guerra da un punto di vista che pochi erano stati in grado di mostrare in precedenza.
Il film non risparmia accuse al sistema militare israeliano, mostrando addirittura l’uso di armi illegali.
C’è da dire che tra gli enti promotori del film c’è l’Israel Film Fund, cioè l’istituzione che gestisce i soldi pubblici destinati al sostegno del cinema israeliano che non ha rifiutato i fondi ad un’opera che non mette di certo in buona luce Israele e questo è una seria lezione di democrazia impartita a quei paesi occidentali/europei che spesso sentenziano sul conflitto israelo/palestinese senza conoscere nulla né della società israeliana né di quella palestinese.
DOMANDE & RISPOSTE Affiancato dal produttore David Silber e dall’attore protagonista Michael Moshonov, il regista Maoz Shmulik ha presentato alla stampa “Lebanon”, suo primo film di finzione, realizzato a nove anni dal documentario “Total eclipse”.
Questo film è nato dal suo ricordo del primo giorno di guerra in Libano? Mi sono reso conto del fatto che, per raccontare una storia attraverso una struttura cinematografica classica, occorreva dare al pubblico una sensazione di sperimentazione, in modo che potesse capire nella maniera migliore cosa intendevo dire.
Che fase sta attraversando oggi il cinema israeliano? Israele è un paese democratico e non crea alcun problema ai suoi cineasti.
Quindi, come un po’ in tutti i paesi, dal punto di vista finanziario è difficile fare un film, ma non dal punto di vista della censura.
Come mai ha impiegato così tanto tempo per realizzare il film? Perché avevo bisogno di prendere le distanze dagli eventi reali, di fare il film come regista, non come qualcuno che sapeva.
La visione dei soldati israeliani riportata dal film è quella di persone che sembrano pensare tutt’altro che alla guerra… Ho posto gli attori in un determinato stato mentale, in modo da rendere la realtà della situazione raccontata.
Gli attori si sono preparati moltissimo, in modo che formassero un insieme con i cameraman e la troupe.
Lei ha un ricordo spaventoso di quel conflitto, vero? Ho combattuto in quella guerra, ed ho ancora ricordi sensoriali, come l’odore di carne bruciata dalle bombe al fosforo, e dell’anima, come quello del 6 giugno alle 6.15 del mattino, quando allora 20enne uccisi un uomo, per la prima volta nella mia vita.
La realtà è che in ogni conflitto devi sopravvivere di fronte alla tua stessa morte: la tua anima è lacerata dal dissidio tra l’istinto di sopravvivenza e la morale.
Lei ha girato Lebanon dopo vent’anni, perché? Per prendere la giusta distanza dagli eventi.
La sequenza delle scene, l’abbinamento tra immagini iperrealistiche e scorci surreali sono stati frutto di un processo lungo e calcolato, per portare il pubblico ad un viaggio consapevole.
Chi venderà il suo film? La francese Celluloid Dreams venderà il film sul mercato internazionale.
L’inglese Metrodome in partenariato con Rialto Distribution ha già acquisito i diritti del film per il Regno Unito, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda ed intende distribuirlo nella primavera 2010.
E per finire, desideriamo informare che fra le molte storie di confine che il cinema odierno ci narra, quella del film “Le cerf-volant” (L’aquilone) della libanese Randa Chahal Sabbag, ebbe Il Leone d’argento per il Gran Premio della Giuria a Venezia 60.
Alla regista chiedemmo: Crede nel processo di pace in Medio Oriente? Mi spiace dirlo, ma penso che non ci sia nessun processo di pace.
Gli animi di tutti sono sempre inquinati da un modo di comportarsi ideologico che vuole la guerra, la violenza, la separazione.
Israele rifiuta uno stato ai palestinesi e questi rispondono con i kamikaze.
Ma la cosa più preoccupante è che in questo momento tutto il mondo è posseduto da un’ideologia guerresca.
Mai parole furono più profetiche.
Trama: Prima guerra del Libano, giugno 1982.
Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile bombardata dall’aviazione israeliana.
Ma i militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale.
Quando scende la notte i soldati feriti restano rinchiusi nel centro della città, senza poter comunicare con il comando centrale e circondati dalle truppe d’assalto siriane che avanzano da ogni lato.
Gli eroi del film sono una squadra di carristi – Shmulik, l’artigliere, Assi, il comandante, Herzl, l’addetto al caricamento dei fucili, e Yigal, l’autista – quattro ragazzi di vent’anni che azionano una macchina assassina.
Non sono coraggiosi eroi di guerra ansiosi di combattere e di sacrificarsi.
Il carro armato è una macchina di morte e di distruzione la cui natura corazzata protegge chi è all’interno dagli attacchi dal mondo esterno.
Questo mezzo potente è però dotato di un occhio non indifferente che scruta la realtà che lo circonda, uno sguardo che osserva, ma non a senso unico.
La guerra, con la sua crudeltà, scruta nel profondo dell’animo dei carristi, offrendo loro scenari di morte, violenza e desolazione.
Spesso le vittime del carro armato sembrano osservare direttamente i loro carnefici.
E’ un illusione naturalmente, eppure la forza di penetrazione di quello sguardo così lontano e così apparentemente innocuo ha effetti devastanti in cui si rifugia nella falsa protezione di quel ventre di metallo.
Grazie a un montaggio sonoro di rara potenza, che da allo spettatore la sensazione di trovarsi davvero nel carro armato, nell’assordante sferragliare di meccanismi, fuoco e vapore, la pellicola di Maoz diventa, nella sua claustrofobia soffocante, una sorta di esperienza totale.
Lebanon è anche un impressionante spaccato dei risvolti psicologici che caratterizzano la violenza imperante da decenni in medio oriente.
Un film duro, nelle immagini, nei dialoghi e nei suoni, tecnicamente inesorabile ed estremamente scorrevole, pur nel suo orrore.
Il film Lebanon Titolo originale: Lebanon Nazione:Israele Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 92′ Regia: Maoz Shmulik Cast: Oshri Cohen, Zohar Shtrauss, Michael Moshonov, Itay Tiran, Yoav Donat, Reymond Amsalem, Dudu Tassa Sceneggiatura: Samuel Maoz Fotografia: Giora Bejach Montaggio: Arik Lahav-Leibovich Scenografia: Ariel Roshko / Musica: Nicolas Becker Produzione: United King Films, Metro Comunications, Paralite Films, Ariel Films, Arsam International / Israele, 2009 Durata 93 minuti Data di uscita: Venezia 2009 Lebanon, il film di Samuel Maoz ,è Leone d’Oro della 66a Mostra del Cinema di Venezia Il film di Maoz è ambientato, appunto, nella prima guerra del Libano, nel giugno 1982.
Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile bombardata dall’aviazione israeliana ma i militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale.
Gli eroi sono quattro ragazzi di vent’anni ansiosi di combattere e sacrificarsi.
E’ una storia che il regista ha vissuto anche nella realtà: arruolato ventenne, Maoz fu tra i primi soldati israeliani a varcare la frontiera con il Libano nel giugno del 1982.
Coinvolto nei primi scontri, ferito superficialmente a una gamba, il futuro regista avrebbe rimosso quell’episodio fino a quando, due anni fa, non si sarebbe risolto ad affrontare di petto la sua memoria personale e quella collettiva della sua generazione.
Maoz, ritirando il premio, ha detto di voler dedicare la sua vittoria «alle migliaia di persone nel mondo che tornano dalla guerra come me sani e salvi», persone che «si sposano, hanno figli, ma dentro i ricordi rimangono stampati nel cuore».
“Don Luigi Sturzo uomo dello Spirito”
“Don Luigi Sturzo uomo dello Spirito” è il tema del convegno internazionale che si tiene dal 2 al 4 ottobre a Catania e a Caltagirone per i cinquant’anni dalla morte del sacerdote calatino fondatore del Partito popolare italiano.
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento del vescovo Mariano Crociata segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Sono stato colpito dall’opportunità che ci viene data di riflettere sulla figura di don Luigi Sturzo, sulla sua vita, il suo pensiero, le sue opere, mentre è in pieno svolgimento l’Anno sacerdotale voluto dal Santo Padre Benedetto XVI, a 150 anni dalla morte di san Giovanni Maria Vianney.
A uno sguardo non superficiale, infatti, appare un numero imprevisto di analogie tra il cammino del prete di Caltagirone e quello del curato d’Ars.
Davvero una sorpresa: l’amore indefesso per il sacerdozio, la completa dedizione all’eucarestia come sacramento vivificante, l’obbedienza alla Chiesa e ai superiori, la fortezza umana sposata a una infinita umiltà, una salute che faceva penare, il coraggio d’intraprendere cose nuove, il non fermare il proprio ministero sul sagrato dell’edificio di culto…
Ma forse stiamo parlando della verità più profonda del ministero ordinato, la stessa verità che troveremmo in ogni prete vero, che dovremmo poter trovare in ogni prete.
Una verità, quella del servizio presbiterale, che don Sturzo ha illustrato e che in parte non piccola ha contribuito con la sua vita a scoprire, o almeno a rivelare a una porzione significativa di popolo di Dio.
Ci accorgiamo di ciò facilmente se proviamo a guardare al prete con l’aiuto dei documenti del Concilio.
Fin dall’inizio della Presbyterorum Ordinis il prete è definito per il suo dedicarsi al servizio della celebrazione, all’annuncio della parola di Dio, al servizio per l’edificazione del popolo santo.
Tutto quello che sappiamo della vita di don Luigi Sturzo si snoda come una trama dal principio alla fine unificata dal costante primato accordato alla celebrazione della messa.
Egli la visse con una intensità resa possibile da un costante lavoro di distinzione del valore di questa azione sacramentale dal resto delle pratiche di devozione, che non disprezzò ma che seppe dimensionare orientando la propria vita di credente e di prete su ciò che noi oggi, grazie al Concilio, professiamo con rinnovata certezza quale fonte e culmine della vita cristiana.
Quando fu posto di fronte all’alternativa tra servizio ministeriale e altri pur meritevoli e preziosi impegni, don Luigi Sturzo fece ciò che richiedeva il restare ciò che era divenuto: un prete.
Ci insegnò una strada per far crescere la Chiesa e la fede attraverso il provvidenziale crogiolo della modernità e ci insegnò un sentiero di testimonianza della fede nella polis fino ad allora ignorato, se non ritenuto impossibile o addirittura sbagliato.
Se la nostra fede e la nostra Chiesa respirano, se sanno respirare a pieni polmoni della libertà che questi tempi ci consentono e a cui quasi ci obbligano, se la fede non è impaurita dalla coscienza, questo è ancora merito suo.
Come Rosmini, come Manzoni, come Montini, don Luigi ci ha aiutato a sondare nuove dimensioni di quella misura alta di umanità che è la santità, come spesso ci ha ricordato Giovanni Paolo II.
Ed in più, don Luigi ci ha insegnato quanto sia vero che nella Chiesa si può edificare senza primeggiare, si può fare molto con poco potere.
Di quale magistero e di quale edificante testimonianza è stato capace permanendo nel servizio, quello vero e pesante, quello spesso incompreso, non quello che si menziona solo come fosse un soprannome dato a cariche, prestigio, o visibilità! Possiamo chiederci se don Sturzo è stato un modello di prete.
È difficile dirlo.
Certo non credo sia immaginabile né tanto meno auspicabile nelle odierne circostanze un prete segretario di partito.
Ma forse questa domanda non è di particolare utilità.
Posto che fu testimone credibile, e che è ancora, e forse più di allora, testimone credibile, che importa se possa essere o meno anche un modello? Non abbiamo, forse oggi più che mai, bisogno di credenti, e di preti, che sappiano vivere la fedeltà nell’immaginazione, nella scelta, piuttosto che nella mera ripetizione? E se ci poniamo in questa prospettiva, ecco che la memoria di don Luigi si rivela feconda per la vita; ecco che l’istanza di fedeltà al vangelo e alla Chiesa, che sta di fronte a ogni battezzato e a ogni prete, si fa più bella.
Quella di don Luigi è una testimonianza feconda e di grande ammaestramento non per il grado di ripetibilità della sua esperienza, ma per l’intensità che essa raggiunse in alcune dimensioni, e che raggiunse sempre cercando nella vita soprannaturale la verità e la radice di ogni trama e di ogni istante della nostra vita terrena.
Don Luigi ci dà misure d’intensità che ci spronano e ci confortano insieme.
Pensiamo alla intensità della sua vita interiore.
Soprattutto i giovani dovrebbero essere informati sul regime, sul realismo e sulla qualità evangelica della sua vita di preghiera, per la maggior parte nascosta, non spettacolarizzata.
A noi può a volte persino spaventare la durata e la profondità dell’immergersi di don Luigi nel mistero di Dio a partire dalla parola di Dio.
Ma non solo a partire dalle Scritture.
Come potremmo infatti comprendere don Sturzo se separassimo la sua passione militante per lo studio dalla sua vita di preghiera? Forse proprio questa è una delle grandi sfide che ci troviamo dinanzi nell’atto d’accingerci ad affrontare l’emergenza educativa.
Giova alla preghiera cristiana una contrapposizione allo studio? Giova forse allo studio dei credenti una sua contrapposizione alla preghiera? Come per san Tommaso, anche per don Luigi questa contrapposizione non aveva alcuna legittimità, mentre noi, tante volte, ci ostiniamo a costruire tanto devozionalismo e anti-intellettualismo su questa nefasta e fuorviante opposizione! Pensiamo all’intensità con cui don Luigi ha saputo vivere l’obbedienza.
Quante carriere, quanta mondanità d’ogni genere don Sturzo ha saputo evitare o lasciare anche per obbedienza! Un’obbedienza non cieca, un’obbedienza non passiva, un’obbedienza forte, un’obbedienza senza adulazione o abiure.
Quanto conflitto gli ha generato dentro quella obbedienza.
Con la sua vita di libertà mai rinnegata, don Sturzo ci offre una misura d’obbedienza che ci aiuta rendendoci innanzitutto molto, molto umili.
Pensiamo ancora alla intensità con cui don Luigi ha vissuto la lotta, l’agonia del sano agonismo.
Una lotta interiore e pubblica.
Quanta poca ricerca di pace e di consenso a ogni costo nella sua vita spirituale, quale altissima e non infantile idea della comunione ecclesiale, comunione tra persone diverse e libere.
Pensiamo – ed è l’ultimo cenno, che però non posso non fare – alla intensità con cui don Luigi ha sempre cercato la via del rinnovamento, personale, ecclesiale, civile.
Pensiamo a come è riuscito a farsi aprire la mente e il cuore dagli studi romani, a come è riuscito a farsi mutare dall’esperienza pastorale e socio-politica dei primi anni dopo il ritorno in Sicilia, infine a come ha saputo farsi cambiare dall’esperienza durissima dell’esilio – come non attenerci ancora oggi saldamente alla sua dura denuncia delle tre “male bestie”: statalismo assistenzialista, cultura della spesa pubblica, partitocrazia? Forse don Luigi non sarà un modello ripetibile, ma di certo è testimone e sprone a una misura elevatissima d’intensità nella vita interiore, d’intensità nell’obbedienza ecclesiale, di intensità nel coraggio dell’agonismo, e d’intensità nel coraggio del rinnovamento.
(©L’Osservatore Romano – 4 ottobre 2009)
Uomovivo
Come il gran vento arrivò a casa Beacon Il vento si levò alto ad occidente come un’onda d’irragionevole felicità, e si slanciò verso oriente sull’Inghilterra, portando seco il nevoso aroma delle foreste e la gelida ubbriachezza del mare.
In mille buchi e cantucci ristorò la gente come un boccale di vin fresco e la sorprese come una percossa.
Nelle stanze più riposte di case labirintiche e recondite, suscitò come un’esplosione domestica; seminò l’impiantito di fogli professorali, tanto più preziosi quanto più fuggitivi; e spense la candela al lume della quale un ragazzo leggeva l’Isola del Tesoro, avvolgendolo in un’oscurità piena di rombo.
E dappertutto suscitò drammi in esistenze senza dramma, e suonò le trombe della crisi sul mondo.
Più d’una madre meschina, in qualche povero cortile, aveva guardato cinque camicine tese ad asciugare come si guarderebbe una tragedia miseranda; quasi ella avesse impiccato i suoi piccini.
Arrivò il vento: le camicine si gonfiarono e balzarono, come se vi fossero saltati dentro cinque grassi folletti; e nella stanca subcoscienza ella ricordò confusamente le rozze commedie de’ padri, a’ tempi che gli elfi abitavano ancora le case degli uomini.
Più d’una fanciulla derelitta, in un giardino murato e umidiccio, s’era buttata sull’amaca con lo stesso gesto di non poterne più col quale avrebbe potuto buttarsi nel Tamigi; e il vento le squarciò intorno l’ondeggiante muraglia di fogliame, e sollevò l’amaca a guisa di pallone, rivelando strane forme di nuvole in alto, e lontane visioni di villaggi splendenti, quasi che ora ella viaggiasse pel cielo in una magica barca.
Più d’un impiegato o d’un curato scarpinava tutto polveroso per una strada telescopica fiancheggiata di pioppi, rassomigliandoli per la centesima volta a pennacchi d’un carro funebre: quando cotesta forza invisibile li curvò a diadema intorno alla sua testa, e li fece rombare come un saluto d’ali angeliche.
E v’era in tutto ciò qualcosa d’ancor più ispirato e imperativo che non nel vecchio vento del proverbio; perché questo era il buon vento che non fa male a nessuno.
La folata s’abbatté nel punto ove Londra si inerpica sulle alture settentrionali, di terrazza in terrazza, scoscesa come Edimburgo.
Fu press’a poco in cotesto punto che qualche poeta, probabilmente ubriaco, guardò stupefatto tutte quelle strade che salivano verso il cielo, e (pensando vagamente a’ ghiacciai e agli alpinisti legati alle corde) dette alla località quel nome di Villaggio Svizzero che non le è più riuscito di levarsi d’addosso.
A una certa altezza, una fila di case alte e grige, vuote la maggior parte e desolate come i Grampiani, piegava ad arco verso occidente; e l’ultimo edificio, una pensione chiamata “Casa Beacon”, presentava al tramonto uno spigolo tagliente e torreggiante, come la prua d’una nave abbandonata.
Ma la nave non era abbandonata del tutto.
La proprietaria della pensione, certa signora Duke, era di quelle creature imbelli contro le quali il destino s’accanisce invano; ella sorrideva vagamente, avanti e dopo le sue sciagure, troppo molle per restarne colpita.
Con l’aiuto (o piuttosto sotto gli ordini) d’una nergica nipote, tratteneva i resti d’una clientela per la maggior parte giovane e bighellona.
Appunto cinque ospiti stavano ad annoiarsi in giardino, quando la raffica venne a rompere alla base del bastione retrostante, come il mare contro una scogliera.
Tutto il giorno quella collina di case sopra Londra era rimasta sigillata dentro una cupola di fredde nubi.
Malgrado ciò, tre uomini e due ragazze avevano finito per trovar preferibile il giardino, grigio e freddo, alle stanze nere e piene di malinconia.
Il vento giunse, spaccò il cielo, scaricò a destra e a sinistra la nuvolaglia, e spalancò le grandi fornaci radiose dell’oro serotino.
E l’irrompere della luce liberata e l’irrompere del vento, parvero avvenire quasi allo stesso istante; e il vento travolse ogni cosa in una violenza convulsiva.
L’erba corta e lucente si piegò tutta per un verso, come i capelli sotto la spazzola.
storica traduzione di Emilio Cecchi.
GILBERT KEITH CHESTERTON, Uomovivo, Morganti Editori, 2009, Codice EAN: 9788895916019, pg.
256, € 15,00 Continua la primavera italiana di Gilbert Keith Chesterton.
Dopo la riedizione di L’uomo eterno (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008) – era stata fuori commercio per oltre settant’anni – le doppie nuove traduzioni del San Francesco d’Assisi (Mursia e Lindau) e del San Tommaso d’Aquino (Fede&Cultura e Lindau), è tornato anche il suo capolavoro: Uomovivo (Sona, Morganti, 2009, pagine 256, euro 15).
Era riapparso nel 1997 per Piemme nella memorabile traduzione (1933) di Emilio Cecchi.
In questa nuova versione di Paolo Morganti viene ripristinato il titolo originale Manalive, splendidamente tradotto con Le avventure di un uomo vivo.
E dire che lo stesso Chesterton dava grande importanza al soprannome del suo protagonista, tanto da precisare: “Dovete scriverlo tutto attaccato, oppure lui si arrabbia davvero”.
Ma chi è, dunque, questo “uomovivo”? È Innocenzo Smith, vitale come una scimmia, fisico colossale e testa piccola, che compare d’improvviso in una locanda dove un pugno di giovani inquilini spreca la propria esistenza nell’indecisione.
Smith è bufera umana.
Al suo passaggio, folle e smisurato, avvengono episodi inspiegabili: improvvise proposte di matrimonio, furti, rapimenti e pistolettate a chi non festeggia il proprio compleanno.
L’onda di avvenimenti anomali preoccupa le autorità e viene improvvisato un processo surreale per capire chi è Innocenzo Smith.
Un rivoluzionario, uno “che ha spezzato le consuetudini, ma ha conservato i comandamenti”, come vuole la difesa? Oppure – come sostiene l’accusa – uno che “ha lasciato nel mondo, dietro di sé, una lunga scia di sangue e di lacrime”, un “grande diavolo fantastico” da rinchiudere in una fortezza protetta da cannoni? Due posizioni inconciliabili, assolute.
Da teodicea.
E in effetti viene da chiedersi se Innocenzo Smith non sia in una certa misura una figura tipologica di Cristo, l’innocente che non apre bocca mentre lo processano. D’altra parte la metafora del processo metafisico – tanto cara a Dostoevskij, Kafka, Lagerkvist o Wiesel – torna spesso nella narrativa di Chesterton (L’uomo che fu giovedì, la conclusione di Il club dei mestieri stravaganti, Quattro candide canaglie, e così via).
Ma i suoi romanzi finiscono con improvvisi proscioglimenti da ogni accusa.
Allegre assoluzioni.
Chi è, allora, Innocenzo Smith? Certamente non la versione maschile di Mary Poppins in salsa dolciastra.
Perché Smith è innocente, ma non ingenuo.
Anzi, è genuino proprio perché non è ingenuo.
Cani e bimbi – invocati dal suo avvocato nel finale – sono ingenui, perché non possono scegliere il male; mentre Smith è innocente perché ha conosciuto la malattia nichilista, però ha optato coraggiosamente per un’altra strada.
Nelle pagine che raccontano la disputa dell’ancora giovane Smith con il suo professore universitario, il pessimista Emerson Eames, si percepisce un’impellenza straordinaria, palesemente autobiografica.
Perché Smith prende sul serio la filosofia del suo professore: o, come egli sostiene, la vita è orribile nonsenso, e allora morire è un dono da regalarsi subito; oppure è la filosofia pessimistica a essere un orribile nonsenso, e allora bisogna estirparla con acribia.
Provato che, nonostante i suoi roboanti proclami, il professor Eames si aggrappa alla vita quando gli viene puntata addosso una pistola, Innocenzo si dedicherà con zelo alla seconda alternativa.
Ma le parole che suggellano la sua scelta sono, letteralmente, lapidarie: “Io dovevo provare che lei aveva torto o dovevo morire”.
L’innocenza di Smith è stata comprata a caro prezzo.
Egli non è irragionevolmente felice perché non ha mai conosciuto la disperazione, ma ragionevolmente entusiasta perché l’ha attraversata a nuoto, guadagnandosi la gioia di vivere bracciata dopo bracciata.
“Fino a che non vediamo lo sfondo di tenebra – scriverà Chesterton in Eretici – non possiamo ammirare la luce anche di una sola cosa creata”.
Solo nel momento in cui ci si rende conto che le cose potrebbero benissimo non esserci, si smette di dare per scontata l’esistenza, nonostante la scandalosa costanza del suo ripetersi.
Il percorso di Smith altro non è che quello dello stesso Chesterton, il quale in gioventù si occupò “superficialmente d’infinite cose”; perfino di spiritismo.
Aveva mille strumenti sparsi attorno a sé, ma inutilizzati; e la sua volontà era paralizzata nello stallo di un’equidistanza intellettualista.
L’iconografia classica del melanconico.
Anche Chesterton, come Smith, affrontò un duello mortale con la disperazione, ma sconfisse la sua novecentesca “malattia dell’infinito” nel momento stesso in cui incontrò il volto dell’Infinito.
E scoprì che esso aveva una faccia umana, naso bocca e due gambe, proprio come l’amabile gente comune, creata a Sua immagine.
Chesterton riconobbe l’Innocente negli occhi dell’uomo comune e volle essere il suo difensore.
(©L’Osservatore Romano – 4 ottobre 2009)
Io sono un sogno di Dio
Don Giò e il desiderio del vero Il desiderio del vero.
Non c’è passo o azione umana che non siano dettati ultimamente da un insopprimibile desiderio di bene, di felicità, di compimento.
Eppure non è frequente oggi incontrare un giovane che viva di questo desiderio: “Voglio diventare sacerdote ed essere santo”.
Altri sono i modelli sociali di riferimento, altre le aspirazioni inculcate e che difficilmente fanno coincidere il sogno della propria realizzazione umana con l’appagamento dei desideri più profondi e veri.
O, almeno, questa è la realtà dipinta e ingigantita dai mass media.
Perché il mondo dei giovani non è poi così piatto e uniforme e, guardando bene, c’è anche chi, come Giò, è “lieto di giocarsi unicamente per il Signore”.
Giò è il nomignolo che gli amici hanno familiarmente affibbiato a Giovanni Bertocchi.
Un ragazzo come tanti, nato nel 1975 in una famiglia cattolica della provincia di Bergamo.
E che a 14 anni entra in seminario per conseguire la maturità classica e vi rimane fino all’ordinazione sacerdotale – il 3 giugno 2000 – divenendo così per tutti don Giò.
Un prete giovane, dedito al proprio ministero, plasmato dalla misericordia del Signore.
Una presenza cristiana tra le famiglie e i giovani della parrocchia.
Senza gesti eclatanti, ma nell’ordinarietà e nella semplicità del lavoro pastorale.
Fino al 30 aprile 2004, quando fatalmente cade sotto gli occhi attoniti dei suoi ragazzi, nella palestra dell’oratorio San Giovanni Bosco di Verdello, centro di settemila anime in provincia di Bergamo.
A cinque anni dalla morte e nel clima dell’Anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI, i genitori hanno acconsentito ad aprire una finestra sul mondo interiore di questo giovanissimo sacerdote.
È nato così, grazie al lavoro di Arturo Bellini – sacerdote e giornalista bergamasco – un libro che ne raccoglie il diario spirituale (Giovanni Bertocchi, Io sono un sogno di Dio, Padova, Edizioni Messaggero Padova, 2009, pagine 240, euro 13).
Don Bellini ha conosciuto don Giò nel 1998, due anni prima dell’ordinazione sacerdotale, quando il giovane seminarista – allora ancora senza il don – per la prima volta arrivò a Verdello con i compagni di teologia per la “Missione giovani”.
E lo ricorda così: “Mi colpì per la sua sensibilità e la sua capacità di dare volto alla figura di Gesù e di parlare di Gesù”.
E quando poi, dopo l’ordinazione, don Giò fu destinato proprio all’oratorio di Verdello, “trovai un giovane presbitero preparato e intelligente, creativo e appassionato di Gesù e del Vangelo, contento di essere prete”.
Un sacerdote “attento ai segni di Dio” nella propria storia e nella vita dei ragazzi che gli erano stati affidati, “sensibile al nuovo, ma rispettoso sempre di quel che altri avevano costruito”, un “paziente e fedele lavoratore nel campo di Dio”.
Quella di don Giò è dunque la piccola grande storia di un seminarista e poi di un sacerdote che – spiega don Bellini – “non ha fatto cose straordinarie, ma ha vissuto in modo appassionato l’ordinario della sua vita, la sua relazione con Dio e la relazione con le persone affidate al suo ministero”.
Un itinerario umano fatto di tante piccole tappe, dubbi, indecisioni, entusiasmi e scoperte.
Scrive infatti sulla sua agenda Giò appena diciassettenne: “Oggi ho capito che non c’è bisogno che io faccia grandi cose.
La santità devo costruirla con l’aiuto di Dio nelle piccole cose di ogni giorno.
Le grandezze che il Signore mi darà la grazia di vivere saranno frutto dei miei piccoli passi quotidiani”.
Il diario spirituale di Giò abbraccia un periodo di quindici anni: dall’entrata in seminario nel settembre 1989 – “per me è l’inizio di una nuova bellissima esperienza” – all’improvvisa morte nella primavera del 2004.
Contiene riflessioni tracciate con grafia minuta su agende e quadernetti insieme ad appunti di scuola, disegni e note musicali, impegni da ricordare.
Linguaggio e stile sono espressione di un figlio dell’epoca moderna, di una cultura dell'”io” sempre più invadente.
E anche se non sembra esserci stata la precisa volontà di tenere un diario, di fatto egli scrive in modo rapido ed essenziale i suoi pensieri e le sue domande sulla vocazione, sulla preghiera, sul senso della vita, dell’amore e della sofferenza umana.
Senza nulla censurare.
Talvolta, di fronte alla vocazione che lo chiama a vivere nella verginità, scoprendosi a “rincorrere il proprio cuore che corre più veloce di un motore”.
Altre, denunciando il proprio disimpegno: “Non prego molto, soprattutto non mi confesso…”.
Altre, ancora, manifestando il desiderio di abbandono a Dio: “Voglio essere un libro aperto (aperto come le braccia e le mani di Cristo sulla Croce!).
Voglio migliaia di pagine bianche su cui sia Tu a scrivere il resto della mia storia”.
Don Giò non idealizza e non teorizza la figura del prete.
Sa che il “successo” del sacerdote sta nella fedeltà a ciò che è indispensabile per essere segno della misericordia di Dio.
E dono e gratuità – lo ricorda in primo luogo a se stesso – sono gli unici tratti caratteristici: “La mia scelta di vita come sacerdote implica per se stessa il dono di te all’altro.
Devi essere tutto a tutti.
Tutto per i ragazzi, per i loro bisogni.
Tutto per i genitori, con la fatica dell’educare.
Tutto per la comunità che a volte ha sete di Dio, altre no…
Tutto per i baristi dell’oratorio, per le signore delle pulizie, per i catechisti, per gli anziani, per i malati, per la scuola…”.
Una vocazione vissuta nella consapevolezza e nell’esperienza dell’abbraccio misericordioso di Dio.
Come quella volta che in seminario, confuso e in cerca di conferme, d’improvviso notò sopra la propria testa il volo di una rondine che aveva fatto il nido proprio sopra una finestra del cortile.
Per circa un quarto d’ora rimase a guardare l’andirivieni della rondine che portava il cibo ai suoi piccoli che allungavano il collo con il becco aperto e l’accoglievano con garriti di gioia.
“Uno spettacolo troppo bello per vederlo da solo e così corsi a chiamare alcuni miei compagni per guardarlo insieme.
Rimasi nel cortile con due o tre di loro per una decina di minuti, ma della rondine nessuna traccia e il nido era diventato silenzioso.
I miei compagni rientrarono a studiare e io rimasi ancora lì fuori incantato da quella visione e stranamente sereno e felice: avevo capito che il Signore aveva preparato quello spettacolo apposta per me e per nessun altro.
Anch’io dovevo preparare qualcosa per Lui.
La mia vita doveva essere il mio regalo per Lui”.
di Fabrizio Contessa GIOVANNI BERTOCCHI, Io sono un sogno di Dio, Diario spirituale 1989-2004, Edizioni Messaggero Padova, 2009, ISBN: 978-88-250-2399-2 , pagine 240, € 13,00 Contenuto Il diario spirituale di don Giò abbraccia un periodo di 15 anni: dal tempo del seminario che culmina con l’ordinazione sacerdotale il 3 giugno 2000, alla morte nel 2004.
Nel diario c’è la «piccola» storia di un giovane che si è ritrovato a pensare di essere un sogno di Dio; vi è la traccia della sua anima che si racconta con sincerità e libertà e che lo ha portato a comunicare con giovanile entusiasmo la speranza che gli bruciava in cuore.
Destinatari Tutti, in particolare i giovani Autore Giovanni Bertocchi nasce nel 1975 e a 14 anni entra in seminario a Bergamo dove consegue il diploma di maturità classica.
Nel 2000 completa gli studi e ottiene il bacellierato in teologia; a giugno dello stesso anno viene ordinato sacerdote.
Il 30 aprile 2004, cadendo nella palestra dell’oratorio parrocchiale, muore sotto gli occhi dei suoi ragazzi.
Women Without Men
Women Without Men Titolo originale: Zanan-e Bedun-e Mardan Nazione: Germania Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 95′ Regia: Shirin Neshat Sito ufficiale: www.bimfilm.com Cast: Pegah Feridon, Shabnam Tolouei, Orsi Tóth, Arita Shahrzad Produzione: Essential Filmproduktion Distribuzione: BimDistribuzione Data di uscita: Venezia 2009 DOMANDE & RISPOSTE “Women Without a Men”, la parola a Shirin Neshat L’artista iraniana esprime tutta la necessità di libertà e democrazia, tuttora assenti nel suo Paese, attraverso il suo primo film, presentato in concorso a Venezia 66.
Come è riuscita ad adattare un romanzo così complesso e delicato come “Women Without a Men”, scritto da Shahrnush Parsipur? Stiamo parlando di una figura di spicco della letteratura iraniana, che è stata costretta ad anni di carcere per le sue idee e che attualmente vive in esilio.
Appena uscito, il suo libro è stato bandito, e per me è un grande privilegio aver potuto rapportarmi alle sue pagine.
Leggo i suoi libri da quando sono piccola e ne sono sempre rimasta affascinata anche per il suo singolare stile visionario, che ho sempre pensato potesse adattarsi ad immagini di grande impatto.
Libertà e democrazia sono gli elementi portanti di una storia che si basa sulla forza delle tre protagoniste… Sono i temi centrali del film, ma anche della mia stessa vita.
Purtroppo si tratta di elementi assenti nella società iraniana di oggi.
Ne ho voluto parlare, a prescindere dalla contestualizzazione storica, che però dimostra come, in tanti anni, non si sia fatto alcun passo avanti da questo punto di vista.
I tre personaggi femminili del film provengono da classi sociali completamente diverse, ma sono tutte unite dagli stessi ideali di libertà e democrazia, appunto.
Anzi, la violenza sulle donne che lei racconta è estremamente attuale… Purtroppo, sì.
Sembra incredibile quanti elementi in comune ci siano tra le manifestazioni di protesta e gli scontri che racconto nel film e quelle avvenute pochi mesi fa nel nostro Paese.
La gente è cambiata in questi ultimi cinquant’anni, così come le ideologie, ma la lotta No.
Io ho voluto dare un chiaro messaggio: nessuno si deve arrendere anche se la vittoria sembra lontana, perché prima o poi arriverà.
Perché ha voluto a lavorare con lei il compositore musicale Ryuichi Sakamoto? Ho incontrato il maestro Sakamoto a New York e gli ho chiesto di lavorare alla partitura musicale del mio film perché volevo che gli conferisse un respiro internazionale come aveva già fatto in passato per grandi autori come Bertolucci.
Ero convinta che l’incontro della sua cultura con quella iraniana avrebbe dato dei risultati sorprendenti.
Così è stato.
A quale Cinema fa riferimento la sua espressione artistica? Ho amato molto il film “Persepolis” e la regista è una mia amica anche se il suo approccio autobiografico è differente rispetto al mio.
Ognuna delle mie tre protagoniste porta con sé una parte di me e dei miei dilemmi, come accade anche nel romanzo dove i tre personaggi principali sono il frutto dei desideri della signora Parsipur.
Perché, da artista affermata in un altro campo, ha sentito la necessità di fare Cinema? Per mettermi alla prova e verificare se le mie capacità espressive hanno valore anche in un campo differente.
Inoltre, il Cinema mi concede molte più potenzialità espressive di qualsiasi altra arte visiva, perché è la più completa.
».
La mezzaluna di miele, il sigheh.
L’Iran naviga tra crisi nucleare e minacce di sanzioni economiche, crisi interne e internazionali.
Eppure sulle prime pagine dei giornali di recente ha tenuto banco l’hojatoleslam Mostafa Pour Mohammadi, ministro dell’interno, quando ha dichiarato che il matrimonio temporaneo è la miglior soluzione per ridurre i problemi sociali.
«L’innalzamento dell’età del matrimonio ha creato numerosi problemi nella nostra società», ha spiegato il ministro durante un forum sul hejab (il copricapo femminile prescritto dall’islam) a Qom, la città delle maggiori scuole teologiche sciite dell’Iran.
«Può l’Islam restare indifferente verso la passione erotica che dio ha concesso a un ragazzo di 15 anni? Non si può ignorare le esigenze sessuali dei giovani.
Il matrimonio temporaneo è la soluzione».
Non è difficile comprendere perché il ministro si rivolga ai giovani: il 60% dei 70 milioni di iraniani ha meno di 30 anni.
Anche se fa un curioso effetto sentire parole simili, proprio mentre è in corso l’operazione di polizia più severa da anni contro le ragazze che si mostrano in pubblico con abiti «non-islamici», o i ragazzi vestiti in modo «disordinato»…
Il «matrimonio temporaneo» (in farsi sigheh) è una pratica propria dell’islam sciita duodecimano, benché non sia contemplata dal Corano (che anzi sembra escluderlo, ad esempio dove condanna il concubinaggio).
E’ un contratto di matrimonio di cui i contraenti definiscono la durata («da un minuto a 99 anni»).
Oggi gran parte dei saggi (mufti) sunniti lo vieta, mentre il clero sciita iraniano lo considera legittimo; afferma che è stato praticato sotto il profeta Maometto prima di essere vietato da Omar, il secondo califfo.
Alcuni citano Moussa Kazem, settimo Imam degli sciiti, che autorizzava il matrimonio temporaneo per celibi o uomini sposati lontani dalle loro spose…
Certo è che il matrimonio temporaneo era praticato in Iran anche prima della Rivoluzione islamica e oggi è previsto dal codice civile: un uomo ha diritto di stipulare fino a quattro matrimoni permanenti simultanei e un numero infinito di matrimoni temporanei successivi.
In un matrimonio temporaneo gli sposi devono accordarsi per non avere figli; se un figlio nasce però avrà tutti i diritti di un bambino nato da un matrimonio permanente, almeno in teoria.
Gli incontri sul web Non esistono statistiche precise sul matrimonio temporaneo oggi.
Non c’è dubbio però che sia diffuso, e l’uso di siti web per trovare partners lo testimonia.
Può capitare di trovare annunci come quello di Mina, 41 anni, rimasta vedova: si dichiara disponibile a un matrimonio temporaneo e invita l’interessato a prendere contatto via e-mail precisando le richieste, la dote (che secondo la sharia è un obbligo dello sposo) e la durata desiderata.
In un altro annuncio Mohsen, un ragazzo di diciotto anni, vorrebbe sperimentare un matrimonio temporaneo, vuole una moglie religiosa ed è pronto a offrirle in dote una moneta d’oro al mese.
Lo spazio virtuale è il luogo migliore per incontrare le offerte; i siti di matrimoni temporanei più frequentati hanno più di 1000 utenti al giorno.
Il discorso del ministro Pour Mohammadi ha scatenato polemiche (secondo il portavoce del governo però parlava «nella sua qualità di chierico ed esperto religioso, ma la questione non interessa l’esecutivo»).
Resta da chiedersi cosa significhi il matrimonio temporaneo nella società iraniana oggi, e perché un ministro trovi necessario incoraggiarlo.
Sembra che l’establishment iraniano veda nell’unione «a tempo determinato» un modo per rincorrere una società che cambia.
Il primo leader della repubblica islamica a parlarne pubblicamente in questi termini è stato Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, allora presidente della Repubblica, negli anni ’80: per lui era una soluzione sanzionata dalla sharia per proteggere la società dall’«inquinamento morale».
Riprendeva le argomentazioni dall’ayatollah Mottahari, uno dei «padri» ideologici della Rivoluzione islamica del ’79, defunto discepolo di Khomeini, il quale considerava il matrimonio temporaneo utile per evitare l’adulterio: «Oggi i giovani, maschi e femmine, raramente si sposano in giovane età.
Nei tempi moderni, il divario tra la pubertà naturale e la pubertà sociale non cessa di allargarsi.
Siccome l’istinto sessuale esiste, che fare? Proporre a ragazzi e ragazze di astenersi? Permettere loro di avere relazioni sessuali illegali? Il matrimonio temporaneo è una risposta».
E’ proprio il ragionamento del ministro Pour Mohammadi.
Assume tutt’altro aspetto, il matrimonio temporaneo, se si pensa che nel 1994 il governo aveva pensato di creare delle «Istituzioni di Castità», case dove contrarre un matrimonio temporaneo anche per poche ore: case chiuse con legittimazione islamica? Il progetto è stato archiviato tra le polemiche, ma era andato molto vicino a essere messo in pratica.
Forse mostrava il vero volto del matrimonio temporaneo.
Nella società reale infatti c’è un forte discriminazione culturale e di classe: in quelle medie e istruite il matrimonio temporaneo non esiste.
E’ praticato invece dai ceti più bassi, ultrareligiosi e tradizionalisti: da chi non può permettersi un matrimonio vero per ragioni economiche, ma non oserebbe una relazione libera per convinzioni religiose (o controllo sociale).
A volte poi maschera la prostituzione vera e propria: le formalità del contratto sono minime, tempo e compenso («dote») sono pattuiti in anticipo, una relazione commerciale con un’ipocrita copertura religiosa.
Una paradossale scappatoia Certo, negli anni cupi della rivoluzione, quando i Pasdaran arrestavano le coppie non sposate che si mostravano in pubblico, il matrimonio temporaneo è stato praticato anche da persone che non ci credono, per legittimare una relazione con un documento ufficiale che dà molti vantaggi pratici, tra cui poter viaggiare insieme: una coppia iraniana non può prendere una camera in nessun albergo in Iran senza un certificato di matrimonio.
Mercimonio, scappatoia, o valvola di sfogo degli impulsi sessuali giovanili con una copertura di legittimità: in ogni caso il matrimonio temporaneo suscita critiche molto dure tra i sostenitori dei diritti delle donne.
La giurista Shirin Ebadi, Nobel per la pace, si è sempre espressa in modo contrario.
La sociologa Fatemeh Sadeghi sottolinea quanto sia contraddittoria l’ideologia che sostiene il matrimonio part-time: «La struttura religiosa “santifica” la famiglia, ma poi predica il matrimonio temporaneo che in pratica indebolisce l’istituzione della famiglia».
Un religioso riformista, l’hojatoleslam Yousefi Ashkevari, fa notare che il matrimonio temporaneo «svaluta» la donna: in una società tradizionalista, dove la verginità della sposa è considerata indispensabile, una ragazza che sia stata sposata in via temporanea difficilmente troverà un matrimonio «vero».
E i giovani, obiettivo dichiarato del ministro Pour Mohammadi? Molti di loro respingono il matrimonio temporaneo, soluzione tradizionale che non risponde all’aspirazione più comune: frequentarsi liberamente e senza doversi sposare.
Ragazze e ragazzi non possono incontrarsi nei luoghi pubblici se non con molte limitazioni: e così il regime islamico li spinge (soprattutto nelle classi medie e occidentalizzate) a incontrarsi più spesso nella sfera privata, ormai l’unico spazio di libertà.
Paradossi di un sistema che impedisce ai giovani di frequentarsi e avere libere relazioni amicali e affettive: poi però offre loro un matrimonio part-time per sfogare le «esigenze sessuali».
Farian Sabati scrive : Può sembrare strano, ma a contrarre più facilmente il sigheh(il matrimonio temporaneo) sono sempre più spesso le giovani benestanti: non hanno voglia di impegnarsi in un’unione definitiva, coinvolgendo le famiglie.
E non considerano più la verginità fondamentale e in ogni caso hanno denaro a sufficienza per farsi ricucire l’imene in una clinica privata pagando l’equivalente di poche centinaia di euro.
Per loro il matrimonio temporaneo, contratto davanti a un mullah per avere un pezzo di carta da mostrare alla polizia religiosa, è un modo per andare a fare il fine settimana tranquilli.
Il sigheh è quindi diventato un business….
Il matrimonio in Iran L’età legale nella quale le ragazze possono sposarsi è di 9 anni lunari (8 anni e 9 mesi sul calendario solare).
La poligamia è legale: gli uomini possono avere fino a 4 mogli.
La Repubblica Islamica dell’Iran, un tempo conosciuta come Persia, è un paese mediorientale, situato nel sud-ovest asiatico.
La lingua ufficiale è il persiano (farsi) e la religione quella musulmana, di indirizzo sciita.
La forte religiosità è la caratteristica culturale che emerge maggiormente fra tutte e pervade tutti gli aspetti della vita quotidiana.
L’Iran è una teocrazia basata sulla teoria dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini di una dittatura religiosa chiamata velayat-e faqih, essa dà al Leader Supremo il ruolo di tutore della nazione, ed è stato stabilito che questo regime religioso debba prendere il posto di tutte le leggi religiose minori.
Secondo la concezione teocratica fondamentalista della natura della donna e dell’uomo e dei loro ruoli nella società, la donna è considerata fisicamente, intellettualmente e moralmente inferiore all’uomo.
E il risultato è che le donne non possono partecipare alla pari in nessun campo di azione sociale o politica.
L’età legale nella quale le ragazze possono sposarsi è di 9 anni lunari (8 anni e 9 mesi sul calendario solare).
La poligamia è legale: gli uomini possono avere fino a 4 mogli.
Gli uomini hanno il potere di prendere tutte le decisioni riguardanti la famiglia, inclusa la libertà di movimento delle donne e la custodia dei figli.
Nella maggior parte dei casi in Iran il matrimonio è combinato, infatti le madri scelgono le spose per i propri figli maschi: seguendo l’esempio della tradizione antica in alcuni casi si prediligeva cercare la futura sposa tra le bambine nate in famiglie di amici e parenti, in altri ci si recava nei bagni pubblici o alle feste.
Quando il ragazzo arriva all’età giusta per il matrimonio allora la famiglia del futuro sposo si reca a casa della fidanzata prescelta, portando con sé dolci e fiori.
In questa fase, detta “khastegari”, sono i padri dei futuri sposi che discutono sul matrimonio, se manca la figura maschile all’interno della famiglia, viene chiamato lo zio più anziano.
Questa stadio comprende anche il “mehrie” che è un regalo tradizionale che il ragazzo deve offrire alla donna e che comprende sempre il corano, il nabat (cristalli di zucchero che si sciolgono nel té) e le monete d’oro (o soldi, che vengono dati in caso di divorzio come risarcimento); e viene inoltre stabilita la data in cui avverrà il matrimonio.Due o tre giorni prima del vero e proprio fidanzamento viene celebrata attraverso una semplice festa a casa della sposa l’”hanabandun”, rituale durante il quale si balla, si mangia e gli sposi si prendono per le mani, le quali precedentemente sono state spalmate con la henna (un tipo di colorante spesso usato anche in India).
Questo gesto segna la definitiva e perenne unione dei due amanti.
Un altra usanza, però ormai desueta, che veniva svolta in questa festa è la depilazione del viso della futura sposa, che fino ad allora non era stata fatta.Successivamente si giunge al momento del fidanzamento ufficiale in cui vi è nuovamente una festa e i due ragazzi si scambiano gli anelli davanti ai parenti.
Nel frattempo la futura sposa porta la propria dote nella casa in cui andranno ad abitare dopo la celebrazione del matrimonio.
La fase del fidanzamento può durare un paio di mesi ma anche diversi anni.
In Iran il matrimonio si celebra davanti al mullah, il quale secondo la religione islamica è un notaio che fa parte del clero ed è il responsabile dei matrimoni e dei divorzi.
Si giunge quindi all’ “aghakonun”, che è il vero e proprio matrimonio: i ragazzi sono seduti di fronte ad uno specchio, con delle candele e il libro sacro islamico, il Corano.
La sposa, come nella tradizione occidentale, è vestita di bianco.
Durante questa fase il mullah recita per tre volte una preghiera, poi domanda una volta allo sposo se vuole prendere in moglie la ragazza, dopo il suo consenso chiede per tre volte alla donna, inserendo nella domanda tutte le condizioni stabilite precedentemente durante il “khastegari”, se acconsente al matrimonio.
Dopo l’assenso della sposa l’unione dei due ragazzi è ufficiale e consacrata.
La sera stessa si continua con festeggiamenti, in cui si mangia e soprattutto si balla.
Viene anche annunciato il giorno in cui i novelli sposi accoglieranno in casa gli amici e i parenti per ricevere i regali.
A Shahrnush Parsipur, autrice di: Women Without Men, è stato chiesto come vede l’attuale situazione delle donne Ha così risposto: “In Iran vi è l’assoluta mancanza di rispetto per i diritti umani.
Come negli anni Ottanta.
Oggi il popolo iraniano è ostaggio del governo”.
– Come vede la condizione attuale delle donne? «Le donne possono andare a scuola, prendere un dottorato di ricerca, ma poi magari devono subire il matrimonio combinato, un classico.
Conosco il caso di una donna vittima dei soprusi del marito, che veniva picchiata.
Ma quando si è rivolta ai giudici per ottenere il divorzio, le hanno risposto che questo accadeva perché non si comportava secondo i canoni.
Solo dopo molti anni, corrompendo i funzionari, è riuscita a ottenere il divorzio.
Se una ragazza viene violentata, la prima cosa che si dice è: qual è stato il tuo comportamento, cosa hai fatto per provocare l’uomo? Alla fine dunque la colpa è sempre della donna».
– Il suo libro è stato pubblicato in Iran? «Non ufficialmente, ma lo si trova nella cosiddetta borsa nera della letteratura ed esiste una versione in persiano Iran, 1953: sullo sfondo tumultuoso del colpo di stato, tramato dalla CIA, i destini di quattro donne convergono in un bellissimo giardino di orchidee dove troveranno indipendenza, conforto e amicizia.
La regista mostra un’incisiva riflessione di un momento cruciale della storia che ebbe come conseguenza la Rivoluzione islamica e che portò l’Iran a essere come oggi la conosciamo.
La regista iraniana Shirin Neshat, Leone d’argento per la migliore regia a Venezia ’66, sfilando sul red carpet, ha indossato la sciarpa verde del movimento a sostegno di Mussavi e ha dichiarato: ”Il mio Paese un giorno sarà libero.
Women Without Men, parla dei giorni cruciali del ’53 .
Vuole essere un messaggio per tutti gli iraniani che credono di perdere la speranza.
Non sentiamoci sconfitti, un giorno ce la faremo”.
Speriamo.
Intanto la violenza contro le donne non solo in Iran, dove sarà difficilissimo estirpare, ma anche in altre parti del mondo è diventata endemica.
Chi è Shirin Neshat Nata il 26 marzo 1957 a Qazvin, Iran, è un artista di arte visiva contemporanea, conosciuta soprattutto per il suo lavoro nei video, nella fotografia e nel cinema Vive attualmente tra il suo paese di origine e New York.
Attraverso il suo lavoro analizza le difficili condizioni sociali all’interno della cultura islamica,con particolare attenzione al ruolo della donna.
Il suo lavoro esplora il significato sociale, politico e psicologico dell’essere donna nelle società islamiche contemporanee.
Non ama le rappresentazioni stereotipate dell’ Islam, i suoi obiettivi artistici non sono esplicitamente polemici.
Piuttosto, il suo compito riconosce le forze intellettuali e religiose complesse che modellano l’identità delle donne musulmane nel mondo intero.
Come fotografa e video-artista, Shirin Neshat è famosa per i suoi ritratti di corpi di donne interamenti ricoperti da scritte in calligrafia persiana.
Inoltre ha diretto parecchi video, tra cui Anchorage (1996), proiettato su due pareti opposte: Shadow under the Web (1997), Turbulent (1998), Rapture (1999) e Soliloquy (1999) Nelle sue fotografie e nei suoi video ci mostra attraverso immagini piene di tensione dei corpi velati, dei martiri (uomini o donne), persone sottomesse, che ogni giorno devono fare i conti con la violenza ed il terrorismo.
Ha partecipato anche alla Biennale d’arte nel 1999, ricevendo un lusinghiero successo di critica.
Ora ha deciso fortissimamente, di esplorare il campo cinematografico.
E non si può dire che le sia andata male, visto il successo che ha riscosso il suo primo lungometraggio, così dolente e così simbolico.
Proprio come è l’Iran in questi tempi.
Non è da trascurare che la sua famiglia è benestante, segue uno stile di vita occidentale, il padre fisico e la madre casalinga hanno una ammirazione per lo Scia di Persia.
E’ cresciuta in un clima filo-occidentale ed educata in una scuola cattolica e poi a Los Angeles per completare gli studi.
Mentre è a Los Angeles avviene il colpo di stato in Iran e la situazione cambia radicalmente.
Si sposta a San Francisco e poi a New York dove lavora per un’organizzazione no profit.
Nel 1990 torna in Iran spinta anche dalla ricerca delle proprie origini, trova un paese completamente cambiato rispetto a quello che aveva lasciato.
Qui matura l’idea della serie di Women of Allah.
Tornando in Iran Shirin Neshat ha cercato di leggere profondamente dentro la cultura islamica e di andare oltre lo stereotipo della donna in secondo piano, per mostrare la forza, la personalità e il carattere delle donne.
Ecco come descrive il suo viaggio in Iran in un’intervista al TIME: Neshat: “Durante il regime dello Scia c’era un ambiente molto aperto.
C’era una specie di diluizione tra Occidente e Oriente – nel modo di vedere e nel modo di vivere.
Quando tornai ogni cosa sembrava cambiata.
Sembrava che ci fossero pochi colori.
Tutto era bianco o nero.
Tutte le donne indossavano il nero chador.
Fu uno shock immediato.
Il nome delle strade era cambiato dal vecchio nome persiano nel nuovo nome arabo islamico.
Questo slittamento dall’identità persiana verso una più islamica creò una sorta di crisi.
Penso che ora tutto ciò sia accompagnato da un grande senso di vuoto”.
Attualmente vive a New York e i suoi lavori recenti risentono della sofferenza per la separazione coatta dal suo paese di origine.
Nella stessa intervista, spiega chiaramente la sua situazione e il significato di Women of Allah.
I passaggi più interessanti sono: il contrasto tra il senso di indipendenza che sente in America e il senso di isolamento e la perdita di punti di riferimento: “Non posso chiamare casa nessun luogo”.
Il contrasto tra l’individualismo americano e l’appartenenza a una collettività.
Il suo lavoro rappresenta il desiderio di riconciliazione con il suo passato e la sua cultura.
Alla domanda sulla fascinazione dell’Islam in Occidente, risponde che guardare una cultura così diversa pone degli interrogativi e che la realtà non è quella che ci si immagina.
L’Islam è visto come una minaccia come lo era l’Unione Sovietica.
L’Islam non rientra nella mentalità razionale dell’Occidente.
La sua intenzione come artista è quella di cercare il dialogo e di sovvertire uno stereotipo.
La donna è sì vittima e sottomessa, ma anche forte e consapevole.
Le scritte sulle mani e sulla bocca sono il pensiero non detto di queste donne, che non possono parlare ma hanno un loro pensiero.
Alla domanda perché nelle sue fotografie le donne hanno le pistole, risponde perché non si può separare l’idea della religione dalla politica e dalla violenza.
In pratica cerca di rappresentare il paradosso del martirio.
Il martire è al confine tra l’amore per Dio, la fede e la devozione, e il crimine e la crudeltà dall’altro.
La storia dell’Islam è caratterizzata dall’ossessione della morte e dal rifiuto del mondo materiale così la morte è vista come premio.
Le ultime parole dell’intervista sono molto commoventi : “Mi piacciono le opere che mi tolgono il fiato o che mi fanno piangere quasi come un’esperienza mistico religiosa.
Sto creando una piccola esperienza per la gente in modo che la possa tenere con se non come una pesante liquidazione politica, ma come qualcosa che tocchi al massimo livello di emozione”( Neshat,TIME Aprile 2004, http://www.eruditiononline.com/04.04/shirin_neshat_interview.htm) Woman Without Men è un film intenso e dal carattere fortemente rivoluzionario.
Le immagini, nitide e piene di particolari, omaggiano l’arte pittorica, richiamano antiche iconografie, diventano simboliche.
Lo spettatore si ritrova davanti a un vero e proprio affresco eseguito con tanta luce e tante ombre.
Il tutto, inserito nel contesto storico del 1953, anno in cui il golpe ordito da Stati Uniti e Gran Bretagna riuscì a deporre il governo democratico di Mossadegh per restaurare il potere dello Scià.
Le donne ne sono protagoniste:c’è Fakhri, moglie insoddisfatta che riesce a scappare e a comprare una tenuta in cui rifugiarsi.
Poi Munis, interessata alle vicende politiche.
E infine Faezeh, incastrata dal rapporto col fratello.
Le tre donne si conosceranno e finiranno per imparare l’amarezza della vita.
Film storico, diviso tra sogno e realtà , con le musiche di Ryuichi Sakamoto si vivono i conflitti interiori e le ansie scatenate da una voglia di libertà che nessun governo può mettere a tacere.
Incredibili, poi, i momenti in cui assistiamo ai soprusi di una società maschilista e chiusa.
Ottusa e cieca.
Ossessivamente rinchiusa in ambiti culturali soffocanti.
Le donne, in questo universo stretto, devono nascondersi, sono obbligate ad abbassare lo sguardo, sono impossibilitate dal muoversi.
Le uniche ancore di salvezza sono la cultura, tenuta segreta come un peccato, e la propria immaginazione.
Un film che fa riflettere e sembra mostri l’attuale situazione di tante donne musulmane, l’ultima – in ordine di tempo- quella povera ragazza diciottenne, Sanaa, trucidata dal padre perché osteggiava il suo legame con un cattolico.
E poi parlataci dell’integrazione!
XXVII Domenica del tempo ordinario (Anno B).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Genesi 2,18-24 Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Allora il Signore Dio pla-smò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccel-li del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costo-le e richiuse la carne al suo posto.
Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica car-ne.
Il brano è stato scelto perché richiamato dal Vangelo odierno.
Esso è desunto dal cosi-detto racconto javista della creazione dell’uomo (Gen 2).
Si tratta di un racconto sulle origi-ni, che vuole cioè risalire alle condizioni fondamentali e originarie dell’esistenza umana.
Prima di dare inizio alla storia degli uomini, si parla delle condizioni stesse nelle quali si svolge tale storia.
1.
Annotazioni – Il brano mette in evidenza due dimensioni essenziali dell’esistenza u-mana: prima dimensione, i presupposti positivi di un’esistenza felice, che Dio stesso crea e mette sul cammino dell’uomo, associandoli al suo apparire nel mondo: una natura mera-vigliosa (il giardino), aiuto nel lavoro (gli animali), amicizia ed amore tra uomo e donna, ecc.
(Gen 2); seconda dimensione, condizioni negative, derivate dal peccato dell’uomo: ver-gogna davanti a Dio, rapporti conflittuali tra uomo e donna, tra fratello e fratello; spropor-zione tra gli sforzi investiti nel lavoro ed i risultati ottenuti (Gen 3-4).
— Dio parla di un male dell’uomo, che intende superare mediante la sua creazione, cioè il «male» della solitudine (v.
18).
Gli uomini giungono alla pienezza del loro essere soltanto nel vivere comune.
Vivere da soli è una sofferenza, è un male («non è bene che l’uomo sia so-lo»).
— Gli animali costituiscono un aiuto per l’uomo, ma non si trovano al suo stesso livello (vv.
19-20).
Non possono né porsi in dialogo paritetico con l’uomo, né tantomeno sostituir-lo.
—L’immagine della «costola», dalla quale è «costruita» la donna (v.
22) sta ad indicare che l’uomo e la donna sono formati dalla stessa sostanza e perciò si appartengono mutua-mente.
Sono parenti, non sono estranei tra loro.
—Adamo esprime questo rapporto parentale tra lui e la donna.
Le parole: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (v.
23) sono espressioni proverbiali, che significano appunto pa-rentela, appartenenza.
— L’unione tra uomo e donna, che fonda una nuova famiglia, è più forte del legame che unisce figli e genitori (v.
24).
— Da sottolineare infine l’assoluta parità tra uomo e donna messa in chiaro dal testo bi-blico.
L’espressione «un aiuto che gli corrisponda» non vuole significare un aiuto in senso strumentale, subordinato, bensì un completamento, senza del quale non sarebbe possibile alcuna attività umana; le parole che completano la frase «che gli corrisponda» stanno ad in-dicare, appunto, la corrispondenza e la parità tra i due.
Sarà il peccato a trasformare que-sta parità in disuguaglianza (Gen 3,16).
Si può dire: la parità corrisponde alla volontà ori-ginaria di Dio; la disuguaglianza è conseguenza del peccato.
Seconda lettura: Ebrei 2,9-11 Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli ange-li, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che condu-ce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratel-li.
Siamo all’interno dell’introduzione della Lettera agli Ebrei, che sviluppa tutta una cri-stologia: in primo luogo l’Autore paragona Gesù ai profeti (1,1-2) e in secondo luogo alla Sapienza personificata ed agli angeli (1,4-2,19).
Gli angeli sono certo esseri celesti, ma Ge-sù, come uomo, è superiore a loro.
Mediante questi confronti la Lettera agli Ebrei esprime la fede nella divinità di Gesù.
Siccome Gesù si è abbassato al di sotto degli angeli, benché superiore ad essi, è stato in-coronato di onore e di gloria (v.
9).
Ciò corrisponde all’interpretazione cristologica del salmo 8.
— C’è di più: Gesù non solo si è umiliato, abbassandosi al di sotto degli angeli.
È andato oltre, ha addirittura sofferto la morte per tutti, e anche per questo gli è stata data la gloria.
Si tratta dello stesso pensiero che troviamo nell’inno di Fil 2,6-10.
Il volontario abbassa-mento di Gesù affrontato con la morte diventa causa della sua speciale esaltazione divina.
— Si presenta un parallelo tra creazione e redenzione (v.
10): come il mondo creato è o-pera di un solo Dio («per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose»), così anche l’opera della salvezza deve essere un’opera unica.
— Tra Colui che santifica e coloro che vengono santificati esiste una (misteriosa) comu-nione.
La santità dell’uno si trasmette ai molti, sì che la santità abbraccia tutti.
In tal modo la santità costituisce una famiglia, un legame tra fratelli e parenti («non si vergogna di chia-marli fratelli»).
— In poche parole, la Lettera agli Ebrei mostra lo stretto rapporto di appartenenza che esiste tra Gesù Cristo, che si abbassò nella morte, e tutti gli uomini che possono aver parte alla sua gloria ed alla sua santità.
Vangelo: Marco 10,2-16 In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie.
Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordina-to Mosè?».
Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ri-pudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma.
Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola.
Così non sono più due, ma una sola carne.
Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento.
E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulte-rio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un al-tro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù, al vedere que-sto, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio.
In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso».
E, pren-dendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
Esegesi Il vangelo odierno si inserisce esattamente agli inizi del percorso compiuto da Gesù nel territorio della Giudea (10,1) verso Gerusalemme, e cioè verso l’ora della sua passione e morte, annunciata già due volte (8,31ss.; 9,30 ss.).
Le discussioni, come quella di oggi sul divorzio e poi sulla sua autorità, il tributo a Cesare, la risurrezione dei morti ed il primo comandamento segnano un crescendo, che prepara l’esplosione finale dell’ostilità contro di lui, con la decisione di metterlo a morte.
Il che conferisce una tensione drammatica ad ogni dettaglio delle controversie, che non sono puramente accademiche nel magistero di Ge-sù.
Inoltre l’aver egli varcato i confini della Giudea, sottoposta alla giurisdizione di Erode, aumenta il rischio cui vogliono esporlo i Farisei con la domanda sul divorzio.
Erode ha re-centemente ripudiato sua moglie, vivendo in relazione adultera con quella del fratello, per questo aspramente redarguito da Giovanni Battista (Mc 7,17-29).
Con la sua risposta, Gesù o avrebbe sconfessato il Battista, che il popolo teneva in grande considerazione, oppure sa-rebbe incorso nel furore del re e della vendicativa Erodiade.
«È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?» (vv.
2-4).
La legge di Mosè accordava al marito il diritto di rimandare la moglie se avesse trovato in lei «un fatto indecoroso» (Dt 24,1).
Al tempo di Gesù, questo era oggetto di discussione tra due scuole rabbiniche: quel-la rigorista di Shammai che riconosceva legittimo motivo solo il caso di adulterio da parte della moglie, quella lassista di Hillel che ammetteva come valido qualsiasi motivo, anche il più futile.
I farisei con la loro domanda «mettono alla prova» Gesù, volendo indurlo sub-dolamente a pronunciarsi a favore o dei rigoristi o dei lassisti, per poi accusarlo.
«Per la durezza del vostro cuore» (vv.
5-6).
Gesù non si lascia coinvolgere nelle dispute di scuola, ma si vale di due principi ermeneutici che risolvono l’apparente problema: il primo dichiara che la legge mosaica non ha valore di precetto, ma di «concessione» accordata alla «durezza di cuore» (in greco sklerokardìa), vale a dire all’incapacità umana di intendere e fare la volontà di Dio.
Il secondo principio risale alla volontà originaria di Dio («all’ini-zio»), che si esprime nel suo progetto creatore, anteriormente al peccato e alla ribellione dell’uomo, volontà divina che nessuna legge successiva può invalidare.
«Chi ripudia la propria moglie… e se lei, ripudiato il marito» (vv.
11-12).
Donna ed uomo so-no messi sullo stesso piano.
Non è solo la donna colpevole di adulterio verso il marito (come si riteneva al tempo di Gesù, stando a come viene enunciata la domanda dei Fari-sei), ma anche il marito si rende colpevole di adulterio se rimanda la propria moglie e prende una donna sposata.
I diritti sono uguali, in linea con quello che Gesù ha detto sulla volontà originaria di Dio.
Chiunque li lede, uomo o donna, commette peccato di adulterio.
«Gli presentavano dei bambini perché li toccasse» (vv.
13-16).
Posta ad immediato seguito delle dichiarazioni precedenti, la scena dei bambini e le parole che Gesù rivolge ai discepo-li (v.
15) assumono un significato particolare.
La «logica» su cui è fondato il vincolo ma-trimoniale è la stessa che si richiede per entrare nel regno di Dio: i bambini sono simbolo di questa logica, che non si ostina a far valere i propri diritti o a misurare i torti degli altri, che non persegue secondi fini, né avanza pretese, ma si affida a Dio con assoluta semplici-tà filiale.
Meditazione «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18).
Dopo averlo chiamato alla vita, il desiderio di Dio chiama l’uomo alla comunione.
Non nella solitudine, ma nell’incontro e nella relazione l’adam può essere davvero a immagine e somiglianza di Colui che lo ha creato e lo custodisce nell’esistenza.
«Voglio fargli un aiuto», afferma più precisamente Dio.
‘Aiuto’ in ebraico è detto con un termine (‘ezer) che solita-mente nel Primo Testamento ha per soggetto Dio.
Dio è infatti ‘aiuto’ per l’uomo, ma la sua prossimità e il suo sostegno si rendono presenti anche mediante le relazioni che gli uomini vivono tra loro.
Soprattutto in quella relazione singolare che si stabilisce tra l’uomo e la donna, dove l’alterità, non l’uguaglianza, diventa luogo di comunione.
Tra noi essere u-mani non possiamo vivere un’alterità maggiore di quella che sussiste tra l’uomo e la don-na, eppure è proprio questa differenza a essere chiamata a diventare una ‘sola carne’.
«Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’u-nica carne» (v.
24).
È questa unità nella differenza a divenire segno dell’alleanza, cioè di quel rapporto con Dio che all’uomo è donato di accogliere nella sua esistenza.
Dio è l’Al-tro, il Trascendente, il Creatore, eppure con l’uomo egli vuole stabilire la sua comunione, oltrepassando ogni distanza.
Vivendo in una relazione d’amore e di dono reciproco, fino a divenire una sola carne, l’uomo e la donna intuiscono che tale deve essere anche la loro re-lazione con Dio: persino la differenza che c’è tra il Creatore e la sua creatura può essere vissuta – questo Dio promette ad Adamo donandogli Eva – non come lontananza o separa-zione, ma come spazio di dono, di incontro, di comunione.
L’astuzia del serpente inganne-rà Adamo ed Eva; mentendo li indurrà a credere il contrario.
La distanza che c’è da Dio è incolmabile, Dio non la vuole riempire con il suo dono e la sua prossimità, e allora Adamo, questa è la terribile suggestione del peccato, dovrà conquistarla con le sue mani, anziché accoglierla da quelle di Dio.
E il peccato comprometterà non solo la buona relazione con Dio, ma anche quella tra Adamo ed Eva.
Tra loro, anziché la logica del dono, si insinuerà, a causa del peccato, quella del potere o del possesso.
La comunione, infatti, ha i suoi criteri.
Diventare una sola carne è possibile solo se si è disposti ad assumere in se stessi la logica di Dio.
Il racconto della Genesi ce lo ricorda, con un linguaggio simbolico, ma nello stesso tempo suggestivo ed eloquente.
Eva è creata ed è donata ad Adamo nel sonno, mentre costui dorme.
Adamo non ha nessun potere su di lei.
Non è lui a progettarla, a immaginarla, neppure a meritarla; la può solo accogliere come dono gratuito per la sua vita.
Se può imporre il nome a tutte le altre creature del giardino, non può farlo con Eva.
«La si chiamerà donna» (v.
23).
Più che imporre un nome, Adamo deve riconoscerlo e riceverlo da altri.
Nel simbolismo biblico dire il nome di una realtà si-gnifica poter esercitare il proprio dominio su di essa.
Ma non sarà così tra Adamo ed Eva.
Adamo non potrà dominare Eva né esserne dominato: sono l’uno davanti all’altra, nella loro reciproca uguaglianza, «osso delle mie ossa e carne della mia carne» (v.
23).
Diversi, ma eguali; diversi non per dominarsi o sottomettersi, ma per essere in comunione l’uno con l’altra.
Adamo dorme, ma Dio gli dona Eva togliendogli una delle costole e richiuden-do la carne al suo posto (cfr.
v.
21).
Questa ferita è come il simbolo della vita di Adamo che deve aprirsi a sua volta al dono.
Eva è un dono di Dio per Adamo, ma è un dono che passa attraverso la vita stessa di Adamo che nella ferita del suo costato viene dischiusa al dono.
Ricevendo il dono di Dio Adamo riceve se stesso in modo diverso, come un donatore.
La sua è una ferita aperta e richiusa, perché è entrando in questo spazio del dono che la vita di Adamo si compie pienamente.
Solo in questo momento egli diviene compiutamente uomo, in una sorta di seconda nascita.
«Così l’uomo nasce facendo nascere» (P.
Beau-champ).
La benedizione di Dio, il suo dono per la nostra vita, lo si accoglie sempre così: nello spazio di una ferita, di un’esistenza cioè che si lascia trasformare e aprire dall’azione di Dio non alla dinamica del possesso, ma a quella del dono.
Nell’evangelo Gesù ricorda che è per la durezza del nostro cuore che Mosè scrisse la norma sul ripudio, ma non è questo il disegno originario del Padre.
Un cuore duro è ap-punto un cuore che non sa vivere in questa logica di Dio, segnata dalla gratuità e dal dono, che consente la vera comunione tra Dio e tra di noi, e anche tra l’uomo e la donna.
Più che alla stregua di un mero precetto, le parole di Gesù sono da intendersi come una promessa.
A chi accoglie la logica del Regno, che è il compimento del disegno creaturale del Padre, liberato e riscattato dal peccato introdotto dalla durezza di cuore dell’uomo, è offerta una possibilità nuova.
Gesù lo dirà poco più avanti, sempre in questo capitolo, ai discepoli stupiti di fronte alle sue parole sulla ricchezza.
«”E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.
Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?”.
Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”» (Mc 10,25-27).
La radicalità richiesta al matrimonio è simile a quella richiesta alla povertà: c’è un’impossibilità che l’uomo spe-rimenta a motivo della durezza del proprio cuore, che però può aprirsi ad accogliere la possibilità che viene da Dio.
La Legge di Mosè si è fatta carico del peccato dell’uomo of-frendo un rimedio misericordioso alla durezza del suo cuore.
Ma Gesù è più grande di Mosè e della sua Legge, egli ci offre non solo un rimedio, ma una possibilità nuova dentro la nostra impossibilità.
L’indissolubilità del matrimonio è «l’espressione del mondo che viene: solo chi partecipa del Regno nella sequela del re (cioè Cristo) ne diventa capace» (D.
Attinger).
In questo modo la fedeltà dell’amore tra l’uomo e la donna diviene davvero se-gno trasparente di ciò che Dio congiunge (cfr.
v.
9).
A unire l’uomo e la donna in modo in-dissolubile non è tanto un atto estrinseco o giuridico di Dio, quanto la qualità del suo amo-re che nel Regno ci viene donata, un amore fedele, accogliente, fecondo.
Da questo amore niente, neppure il peccato o la durezza del nostro cuore può separarci, come ricorda Paolo in Rm 8,35-39, e questo amore, regnando su di noi, ci consente di superare ogni possibile lontananza o separazione, vivendole nei vincoli di una più forte comunione.
È allora significativo che, a queste parole sulla radicalità del matrimonio, Marco ag-giunga subito dopo ciò che Gesù dice benedicendo i bambini che vengono a lui: «a chi è come loro appartiene il regno di Dio.
In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (v.
14-15).
Negli evangeli il bambino è simbolo di chi è debole, piccolo, impotente.
Non può fare affidamento sulle proprie forze, ma su ciò che ancora deve attendere e ricevere da altri.
Si accoglie così il regno di Dio: co-me un dono da ricevere senza pretendere di conquistarlo confidando nelle nostre possibili-tà.
Gesù accoglie i bambini e nello stesso tempo sottolinea il loro bisogno di dover acco-gliere.
Tale è il regno di Dio: da un lato è la manifestazione di un amore che ci accoglie persino nelle nostre debolezze; dall’altro è la manifestazione di un amore che si dona gra-tuitamente alle nostre debolezze rendendoci capaci di ciò che altrimenti ci rimarrebbe im-possibile.
Di questo amore la Chiesa è chiamata a farsi segno anche verso i rapporti coniugali tra l’uomo e la donna.
Da un lato deve annunciare una radicalità, quale l’indissolubilità del matrimonio, che in Gesù Cristo diviene possibile perché egli guarisce e scioglie la durezza del cuore umano; dall’altro deve rimanere come Gesù accogliente delle debolezze e delle impossibilità che gli uomini sperimentano, come bambini.
Ma a chi è come loro appartiene il regno di Dio! Dio garante dell’indissolubilità Il matrimonio è più del vostro amore reciproco, ha maggiore dignità e maggiore potere.
Finché siete solo voi ad amarvi, il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia.
Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio fa andare e venire e chiama al suo regno.
Nel vostro sentimento godete solo il cielo privato della vostra felicità.
Nel matrimonio invece venite collocati attivamente nel mondo e ne diventate respon-sabili.
Il sentimento del vostro amore appartiene a voi soli.
Il matrimonio, invece, è una investitura, un ufficio.
Per fare un re non basta che lui ne abbia voglia.
Occorre che gli riconoscano l’incarico di regnare.
Così non è la voglia di amarvi che vi stabilisce come strumento di vita.
E’ il matrimonio che ve ne rende atti.
Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio.
E’ il matrimonio che, d’ora in poi, porta sulle spalle il vostro amore.
Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa.
Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte a ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno.
Dio è il garante dell’indissolubilità.
E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena, nessuna tentazione, nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito.
(Dietrich Bonhoeffer) Il diverso Il “diverso” originario è la donna nei confronti dell’uomo e l’uomo nei confronti della donna.
E pertanto se il riconoscimento della diversità non è in primo luogo riconoscimento della diversità della sessualità umana, il sociale umano resta sempre esposto al rischio di discriminazioni ingiuste.
Proprio perché il tutto dell’humanum è presente potenzialmente nella particolarità di ciascuna diversità, la pienezza della persona si realizza nella loro uni-tà.
L’uomo è per la donna e la donna è per l’uomo poiché solo uomo e donna dicono la ve-rità intera della persona umana.
L’intrinseca bontà o valore dell’istituto matrimoniale consiste precisamente in questo: esprime-realizza in radice nell’unità uomo-donna l’humanum nella sua interezza.
Bontà e preziosità che non si trova in nessun altra relazione sociale.
Tocchiamo un punto fonda-mentale della vicenda umana e della sua comprensione.
Provo a dirlo in modo breve e per quanto riesco semplice.
All’origine, al “principio” della vicenda umana non stanno tante unità chiuse in se stesse.
Sta una dualità; un rapporto: un uomo e una donna.
Il dato uma-no originario non è l’identità, ma la relazione; la “figura” dell’incontro non è il contratto di individui originariamente estranei, ma è l’incontro nell’amore fra due persone diverse: uomo e donna.
(Cardinale Carlo Caffarra, “Matrimonio e laicità dello Stato”, Congresso Telogico-Pastorale Internazionale di Valencia, 4 luglio 2006).
I cervi Si racconta che i cervi quando vogliono recarsi al pascolo, in certe isole lontane dalla costa, per attraversare la lingua di mare poggiano la testa sulla schiena altrui.
Succede così che uno soltanto, quello che apre la fila, tiene alta la propria testa senza appoggiarla sugli altri; quando però egli si è stancato, si toglie dal davanti e si mette per ultimo, sicché anche lui può appoggiarsi sul compagno.
In questo modo tutti insieme portano i loro pesi e giungono alla meta desiderata: non affondano perché l’amore fa loro da nave.
(S.
Agostino) Due in una sola carne Dove potrei trovare parole in grado di descrivere quel matrimonio che la chiesa unisce, che l’offerta eucaristica conferma e la benedizione sigilla, gli angeli proclamano e il Padre ratifica? Difatti nemmeno qui in terra i figli possono contrarre il matrimonio secondo le norme stabilite e secondo il diritto vigente senza il consenso paterno.
Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola disciplina, un solo servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio.
Niente li separa né nello spirito, né nella carne; al contrario, sono veramente due in una so-la carne (cfr.
Gen 2,24; Mt 19,6; 1Cor 6,16; Ef 5,31).
E dove vi è una sola carne, lì vi è pure un solo spirito.
Infatti insieme pregano, insieme si prostrano davanti a Dio, insieme osser-vano le prescrizioni del digiuno, a vicenda si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si riconfortano.
Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nella chiesa di Dio, in perfetta uguaglianza nel banchetto di Dio, in perfetta uguaglianza nelle prove, nelle perse-cuzioni, nelle consolazioni.
Nessuno dei due si nasconde all’altro, nessuno si sottrae all’al-tro, nessuno è di peso all’altro.
[…] Tra loro due risuonano salmi e inni, si sfidano recipro-camente a chi canta meglio al Signore.
Cristo gioisce al vedere e ascoltare queste cose e in-via loro la sua pace (cfr.
Gv 14,27).
Là dove due sono riuniti, egli è là, presente (cfr.
Mt 18,20) e là dove egli è presente, non c’è il Malvagio.
(TERTULLIANO, Alla consorte 2,8,6-8, SC 273, pp.
148-151).
La vita in due Grazie, Signore perché ci hai dato l’amore capace di cambiare le cose.
Quando un uomo e una donna diventano uno nel matrimonio non appaiono più come creature terrestri ma sono l’immagine stessa di Dio.
Così uniti non hanno paura di niente con la concordia, l’amore e la pace l’uomo e la donna sono padroni di tutte le bellezze del mondo.
Possono vivere tranquilli protetti dal bene che si vogliono secondo quanto Dio ha stabilito.
Grazie, Signore per l’amore che ci hai regalato.
(S.
Giovanni Crisostomo).
“In-finitum”
Recita la cartella stampa: “Un’opera d’arte può restare incompiuta per cause di ordine pratico, o intellettuali o filosofiche: si possono avere opere “inconsapevolmente incompiute” come accade, ad esempio, anche nei grandi del Rinascimento italiano, Michelangelo, Leonardo e Tiziano”.
Il sottotesto più plausibile di questa mostra veneziana a palazzo Fortuny, intitolata “In-finitum” (e aperta fino al 15 novembre)allude sia alle opere incompiute di artisti del passato o tutt’ora viventi, sia al rapporto con l’infinito che molti pittori e scultori hanno o hanno avuto.
Quando si dice una mostra sofisticata, snob fino al parossismo.
Per visitarla, rigorosamente in fila indiana e a piccoli gruppi, pare sia consigliabile non aver superato i cinquanta ed essere in ottime condizioni psicofisiche.
Ovvero bisogna vederci bene, non soffrire di claustrofobia, essere super aggiornati sulle novità dell’arte contemporanea.
Solo con tali accorgimenti si potranno evitare quei moti di spaesamento e di irritazione che hanno colpito molti visitatori, chiamati a confrontarsi con un eccesso di penombra e la totale assenza di didascalie.
Ma estrapoliamo ancora una citazione dalla cartella stampa.
“Molti sono gli artisti che si sono misurati con il tema dell’infinito, interpretandolo secondo concetti e rappresentazioni proprie della cultura di appartenenza”.
In effetti l’elenco di duecentoquattordici nomi non è solo nutrito, ma apparentemente senza logica.
Perché c’è il neoclassico Canova accanto al metafisico De Chirico? Non solo, ma Malevic con la Nevelson, Duchamp con Dubuffet.
E che dire di un Giulio Paolini con Piranesi e Rothko con Schifano? Più comprensibile Lucio Fontana con Mariano Fortuny, entrambi maghi dello spazio.
Questi, alcuni degli esempi più significativi dell'”improbabile-impossibile” tema svolto dalla rassegna.
Dunque una mostra complessa per non dire laboriosa.
Ma non certo da bocciare, ottima l’idea, eccellenti i nomi.
Inoltre, al termine del percorso, si ha il regalo aggiuntivo di godere di un attico recentemente recuperato ed aperto al pubblico per l’occasione.
Ogni singolo visitatore se lo conquista salendo lentamente le ripidissime ed impervie scale; inesprimibile l’emozione di chi, dopo tanta oscurità e percorsi accidentati, si ritrova all’improvviso al centro di un ambiente circondato di finestre affacciate, a trecentosessanta gradi, sui tetti, sulle altane, sui canali e su quell’indescrivibile riverbero di luce e mare che fanno del panorama di Venezia qualcosa di unico al mondo.
All’interno dell’open-space, Tatsuro Miki e Axel Vervoordt hanno realizzato un Santuario del Silenzio, installazione che recupera uno spazio realizzato con oggetti trovati, dipinti col fango della laguna.
L’ambizione degli artisti è quella di scoprire la bellezza in luoghi e cose apparentemente insignificanti e rispettare la natura così com’è.
In questa stanza, comunque, ci sono altre installazioni difficili da decodificare, come quella dei quattromila aquiloni in miniatura, in seta e bambù, dell’artista Hashimoto.
Forte, allusiva, spirituale, la presenza dei giapponesi, tanto da banalizzare quasi altri nomi altisonanti come Rothko, Picasso, Fontana, Mirò e Kounellis.
Comunque è proprio l’impatto altamente scenografico di questa “camera con vista” che ci spinge a porci un interrogativo.
Perché non ricordare al grande pubblico i meriti del poliedrico talento di Mariano Fortuny? Mariano, infatti, non ha solo dato il proprio nome all’antico palazzo gotico appartenuto alla famiglia Pesaro, ma è stato un grande innovatore nel campo della scenografia e della scenotecnica, della fotografia e della pittura, nonché della creazione di tessuti stampati ispirati all’antica arte veneziana.
Il palazzo doveva servire per poter lavorare a tutte queste discipline che, per la sperimentazione, avevano bisogno di molto spazio per contenere telai, presse e tamponi lignei, alambicchi, colori e solventi, nonché un’infinita varietà di antichi galloni, passamanerie, stoffe, pezze, vesti, provenienti da ogni angolo della terra.
Mariano Fortuny y Madrazo, nato a Granada nel 1871 era figlio d’arte.
A diciott’anni si stabilì a Venezia ove perfezionò i propri studi artistici tra circoli e accademie e dove frequentò amicizie illustri come Gabriele D’Annunzio, la marchesa Casati, Hugo von Hofmannsthal.
Si inserì molto presto anche nel gran mondo parigino, dove ebbe modo di lavorare ad alcune scenografie teatrali per le quali cominciò a studiare soluzioni innovative.
È sua l’idea della Cupola, un particolare sistema di illuminazione della scena che riesce a servirsi della luce indiretta e diffusa.
Anche se il mondo parigino gli presta ammirata attenzione – è l’epoca di Sarah Bernardt – è soltanto con l’entrata nella sua vita di una mecenate, la contessa di Bearn, che la rivoluzione scenotecnica firmata Fortuny trova la sua completa applicazione.
Tra il 1903 e il 1906, il teatro privato della contessa si avvale non solo di luce indiretta, ma di proiezioni di cieli colorati e nuvole.
La fama esplode subito e il sistema di Fortuny viene adottato dai maggiori teatri europei.
Mariano però non si sente ancora appagato e si dedica alla creazione di stoffe, tessuti stampati e non solo.
Infatti negli anni Trenta inventò la carta da stampa fotografica e gli speciali colori a tempera Fortuny.
Una via di mezzo tra un artista, un mago ed un alchimista, come amavano definirlo gli amici Proust e D’Annunzio, alla sua morte, nel 1949, venne sepolto nel cimitero romano del Verano accanto al padre Mariano Fortuny y Marsal (1838-1874).
Negli anni Cinquanta il fascinoso palazzo veneziano fu donato dalla vedova Henriette alla città di Venezia con un ricco fondo di opere che illustrano la ricerca dell’artista tra Otto e Novecento.
Oltre che per le periodiche mostre, Palazzo Fortuny resta un luogo da esplorare quale specchio del fare inesauribile del suo ispiratore.
Basti pensare all’affascinante salone del piano nobile, con la raccolta dei dipinti, dei tessuti preziosi che rivestono le pareti, delle celebri lampade, che diventa anche uno spazio in cui il vuoto riesce a parlare.
Attraverso i muri e le finestre, le luci e i volumi percepiamo sia la storia del palazzo, che quella dell’operosa attività del suo atelier.
L’itinerario all’interno di questo palazzo-opera d’arte si può concludere nella biblioteca ancora pressoché intatta, dove, volendo fermarsi, ci sarebbero nuovi percorsi da meditare.
All'”In-finito”, ovviamente…
(©L’Osservatore Romano – 26 settembre 2009)