Ago e filo, si rattoppa da solo lo zucchetto.
È ospite alla corte del ribelle e ambizioso Menelik, nell’Etiopia lontanissima e sconosciuta.
In mezzo a tanto lusso indigeno, spicca la sua bella croce pettorale.
È vescovo.
Ma prima di tutto, è cappuccino e indomito missionario.
Scrive, infatti, nelle sue memorie: “Sono un povero cappuccino, un missionario di Gesù Cristo.
Qualunque altra dignità e supposto merito non sono per me che maggiori debiti presso Dio e presso gli uomini”.
Guglielmo Massaja, ovvero Abuna Messias: nel 1939 forse pochi lo ricordano, ugualmente oggi.
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e settanta da quando Goffredo Alessandrini realizzò questo kolossal del cosiddetto cinema coloniale italiano, vincendo l’1 settembre di quell’anno la Coppa Mussolini come miglior film alla vii Esposizione d’Arte Cinematografica di Venezia.
Si celebrava, indirettamente, la fragile Africa Orientale Italiana, proprio nel giorno in cui la Germania nazista invadeva la Polonia, la guerra iniziava e l’Impero italiano ipotecava definitivamente il suo crollo.
Al Lido, proiettarono più volte Abuna Messias nel corso della giornata vittoriosa e terribile.
Argomenti per stupire e commuovere ce n’erano assai: costato oltre cinque milioni di lire dell’epoca (circa venti milioni di euro attuali), con 250.000 comparse, 500 metri cubi di legname per le costruzioni, 50.000 metri di negativo di pellicola impressionata, interni nella nascente Cinecittà romana ed esterni tra le montagne del Ch’erch’er e a K’obo, nella regione dell’Amhara, attraversate in modo piuttosto fantasioso da miriadi di cavalieri, sacerdoti, schiavi e contadini, con grande sfarzo di costumi, copricapi, armi e chincaglie.
Si trattava di una storia di ispirazione “cattolica” inserita, però, nella propaganda di regime che vedeva necessaria la giustificazione della missione civilizzatrice italiana in terre povere dedite a schiavitù, scorribande, superstizioni e stregoneria, rafforzata da curiosità anche “antropologica” ed etnica per gli usi e i costumi di quella gente e i riti della chiesa copta, ricostruiti da Alessandrini con fedeltà, come ad esempio l’ordinazione sacerdotale presieduta dal metropolita copto Abuna Attanasio, acerrimo nemico di Messias, o il vivace concilio della medesima Chiesa in lingua locale.
C’era anche il peso della nuova società di produzione, la Romana Editrice Film, fondata un anno prima, braccio operativo del progetto della Società San Paolo e di don Alberione, di entrare direttamente nel mondo del cinema producendo film di chiara matrice cattolica: “deporre le forbici della censura e prendere in mano la macchina da presa” era la finalità di tale impegno, che in Abuna Messias riponeva altissime attese.
Ma il film non ebbe lunga vita, i problemi erano ben altri in quel frangente storico, tali da offuscare il successo iniziale (riapparve curiosamente in Francia nell’agosto 1948 con il titolo L’apôtre du désert) e quello del protagonista, il bravo e longevo Carmine Pilotto, già attore di lavori ben noti firmati, durante il fascismo, da Carmine Gallone, Aldo Vergano, Enrico Guazzoni e, dopo il conflitto, da Fernando Cerchio, Luigi Chiarini e Raffaello Materazzo.
Quest’anno le celebrazioni del bicentenario del vescovo missionario, con interessi nella medicina (il suo secondo soprannome era “Padre del Fantatà”, ossia “Signore del vaiolo”, per le migliaia di vaccinazioni somministrate, una delle sequenze più autentiche e commoventi del film), nell’ingegneria e nella politica, stimato da Leone xiii e creato cardinale nel 1884, hanno giustamente coinvolto la Cineteca Nazionale di Roma che ha portato a termine, grazie al coordinamento di Sergio Toffetti, suo Conservatore fino allo scorso mese di settembre, il delicato restauro della pellicola, della quale ora si possono apprezzare la qualità e l’audio, con una stravagante e solenne colonna sonora composta per l’occasione da Mauro Gaudiosi e don Licinio Refice (anche se quest’ultimo non compare nei crediti).
Il nome di Goffredo Alessandrini non era nuovo a operazioni di cinema gradite al regime e applaudite dal pubblico: nel 1934 aveva già vinto a Venezia un Premio speciale per Seconda B, nel 1938 la sua prima Coppa Mussolini (ex-aequo con Olympia di Leni Riefenstahl, miglior film straniero) per uno dei titoli più importanti e ricordati del cinema di quegli anni, Luciano Serra pilota interpretato dalla star di casa Amedeo Nazzari; infine nel 1942, ancora alla Biennale, un ultimo riconoscimento con Noi vivi.
Il filone del cinema coloniale italiano, pur contando su un elenco assai esiguo di titoli, non più di una decina, rappresenta però uno spaccato importante della cultura e dell’arte cinematografica dell’epoca, sospesa tra esigenze di mercato e obblighi di partito, e Abuna Messias rispecchia perfettamente queste tensioni, nelle quali la glorificazione della potenza e della civilizzazione italiana in Africa si accompagna a un curioso approccio etnico-antropologico che non dimentica le necessità e le logiche narrative del cinema.
Prima di tutto, avventura e mistero: l’esempio più bello, anche sul piano figurativo, è Lo squadrone bianco di Augusto Genina (Coppa Mussolini a Venezia nel 1936) con Fosco Giachetti, che riprende lo stile del cinema coloniale francese.
Qui meharisti coi bianchi burnus scorazzano sulla cresta delle dune, capeggiati da un comandante duro, ma giusto.
Cinema obbligatoriamente anche “ideologico”, che presenta la conquista italiana come fonte di civiltà per popolazioni oppresse da primitive leggi e consuetudini.
Abuna Messias, però, non rientra in alcuna di queste categorie e in questo risiede tutto il suo fascino e il suo interesse.
Non manca certo la volontà di assecondare gli obblighi della propaganda, coniugandoli a quelli del buon cristiano.
Nel film la prima azione di Massaja, proprio all’inizio della sua ultima missione etiopica iniziata nel 1868 e che si concluderà con l’esilio decretato dall’imperatore Johannes iv nel 1879 (in tutto, il missionario trascorse trentacinque anni di vita in Africa), è quella di liberare uno schiavo che poi diverrà sacerdote e al quale lascerà il compito di evangelizzare quelle terre e di creare, in prospettiva, un clero cattolico indigeno.
Ma non mancano dialoghi dichiaratamente piegati alle esigenze “esterne”.
Ecco quello che segue un banchetto di Menelik.
Il re: “Lasciamo il posto ai poveri, servite la carne cruda.
Vedi, senza l’aiuto della vostra civiltà non potrò mai arrivare a farne degli uomini.
Io ho bisogno della vostra civiltà: che intenzione ha l’Italia nei miei riguardi?”.
La risposta del missionario: “Cavour intuì, come sempre del resto, l’utilità di questo intervento, ma governare in parlamento fra partiti diversi non è facile.
Se dipendesse da lui la cosa sarebbe già avvenuta, ma la spedizione Antinori è già in viaggio per conoscere la situazione geografica del paese e chissà, da cosa può nascere cosa”.
Massaja, però, aggiunge in modo coerente alla sua fede: “Ti devo ringraziare di una cosa: tu hai visto poco fa quella folla di infelici, la mia vita è fra di loro, nessuna altra cosa ha importanza per me”.
Per quella folla Abuna Messias – che nel film, incarnando il puro spirito francescano di affidamento alla provvidenza divina, non cerca la difesa dei potenti perché, confessa allo stesso Menelik, toccandosi la croce che ha sul petto, “per difendermi mi basta questa” – spenderà davvero la sua vita e consumerà le sue forze, provate da interminabili viaggi: otto traversate del Mediterraneo, dodici del Mar Rosso, quattro pellegrinaggi in Terra Santa, quattro esili, innumerevoli prigionie, rischi di morte e malattie.
Il film di Alessandrini coglie qualche risvolto di questa vita avventurosa, lo fa con il minor peso di retorica possibile, anche se la recitazione degli attori italiani è piuttosto statica rispetto agli americani coevi.
E meno legata alle esigenze di veridicità: tutti, anche gli etiopi, sono italiani opportunamente truccati, tranne la bella principessa Alem, il capo indigeno Abd-el-Uad e il giovane schiavo Morka al quale, prima dell’ordinazione, Massaja insegnerà a non odiare il nemico, anche se è la cosa più difficile che bisogna imporsi per essere un bravo missionario.
Mario Ferrari, poi, nel ruolo dell’Abuna Attanasio, cerca di scolpire un mefistofelico avversario del Massaja che aizza il popolo con toni roboanti, molto simili a quelli che in Italia stavano infiammando le piazze.
Il vecchio e sapiente francescano nel film di Alessandrini sta in equilibrio tra esigenze missionarie e imposizioni politiche.
“Mi guardano, desidero capirli, entrare nella loro cultura, rispettare le loro origini, la loro storia.
Un missionario non può dimenticarlo” scrive di suo pugno a proposito dei popoli etiopi con i quali entra in contatto per portare a termine la sua missione evangelizzatrice.
Rifiutando la logica della contrapposizione e dell’imposizione, sensibile alle molteplici identità e culture africane, rispettoso dei costumi e degli usi che non deturpano la morale cattolica e difendono l’uomo nella sua totalità, cercando con tutti un dialogo, Massaja diventa così l’antieroe coloniale che i gerarchi d’allora mai avrebbero voluto assoldare e vedere raccontato in un film da loro ispirato, profeta di un mondo giusto, equo, libero, in pace.
Per quei tempi, quasi un’utopia.
(©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009) L’antieroe coloniale che il fascismo mal sopportava In occasione dei duecento anni dalla nascita del cardinale Guglielmo Massaja, il 10 novembre vengono presentati al Museo del cinema di Torino la copia restaurata dalla Cineteca Nazionale del film Abuna Messias di Goffredo Alessandrini (1939) e il nuovo documentario Guglielmo Massaja.
Un illustre conosciuto del regista Paolo Damosso, realizzato dalla Nova-t della Provincia dei frati cappuccini di Torino.
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Sovranità, decentramento, regole.
V.
CAMPIONE, A.POGGI, Sovranità, decentramento, regole.
I livelli essenziali delle prestazioni e l’autonomia delle istituzioni scolastiche, Il Mulino, Bologna 2009,ISBN: 8815130799,Pagine: 217, € 18.00 Fra i problemi che il nostro paese deve affrontare nella riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione, raramente viene citato quello relativo all’individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Eppure la costruzione di una cittadinanza unitaria “sociale” come limite al potere “politico” di differenziazione costituisce uno dei problemi cardine di ogni sistema realmente decentrato.
Le formule utilizzate in alcune costituzioni europee per legittimare una competenza dello Stato finalizzata a soddisfare i LEP sono il frutto dell’espansione dell’idea saldamente radicata nelle costituzioni democratiche di eguaglianza sostanziale, che implica non solo interventi dei pubblici poteri ma ancor più esige che gli stessi interventi siano finalizzati a rimuovere le disuguaglianze di fatto.
In questo volume si cerca di mettere in evidenza come l’introduzione di norme federalistiche renda non più rinviabile la precisa individuazione dei LEP.
In altri termini non è possibile sviluppare la forma federalista dello Stato e decidere di conseguenza di assicurare il mantenimento di standard adeguati in alcuni campi fondamentali (sanità, assistenza e, appunto, istruzione) senza definire preliminarmente i LEP.
Il punto di equilibrio va individuato nei contenuti con cui riempire quanto prescritto dalla Costituzione, da leggere in termini di difesa dei diritti e di adempimento degli obblighi di prestazione, piuttosto che come la semplice definizione di competenze dello Stato.
XXXII Domenica del tempo ordinario (Anno B).
Preghiere e Racconti L’offerta della vedova Nell’attesa dell’ora, il Figlio dell’uomo non agisce quasi più.
Si limita a guardar passare la gente: gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro interminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte.
Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Farisei, e al tempo stesso s’intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa indigenza.
Che vale un’elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.
(E.
MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 123-124).
Essere dono Ognuno è chiamato ad essere dio.
Ma essere dio non vuol dire avere tutto, servirsi di ogni cosa e di ogni uomo; non vuol dire essere un “potente” per opprimere gli altri.
Essere dio vuol dire essere un potente che dona agli altri il suo potere; vuol dire dare un senso di eternità a ciò che ci circonda, dare speranza ai disperati, gioia a chi piange, luce a chi non vede…Vuol dire indicare Dio a chi crede che Dio non esista.
(O.
OLIVIERO, L’amore ha già vinto.
Pensieri e lettere spirituali (1977-2005), Milano 2005, 22).
Il mendicante e il re Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto.
In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.
Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato.
Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina.
Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare.
Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro.
Si rammaricò.
Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.
Si privò di tutto quanto aveva per vivere «Chi usa misericordia verso il povero, presta a interesse al Signore» (Pr 19,17).
[…] Colui che presta denaro ai poveri del Signore, attende dal Signore la ricompensa della vita eterna.
Del resto, anche il beato apostolo Paolo nel suo insegnamento attesta che, tra le preoccupazioni di tutte le chiese, quella che lui ha per i poveri non è di certo la più piccola.
Dice infatti: «Soltanto ricordiamoci dei poveri, cosa che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10); e in un altro passo esclama: «Niente abbiamo portato venendo in questo mondo, e niente possiamo portar via» (1Tm 6,7); e ancora: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (2Cor4,7).
[…] Ricordiamoci anche di quella vedova che, nella sua sollecitudine per i poveri, trascurando se stessa, si privò di tutto quello che aveva per vivere, memore soltanto della vita futura, come attesta il Giudice stesso, il quale dice che altri danno del loro superfluo, essa invece, che forse era più bisognosa di molti anche tra i poveri, pur possedendo solo due monete, fu in verità più ricca nell’animo di tutti quanti i ricchi, e rivolta ai soli doni della bontà divina, avara del solo tesoro celeste, donò tutto quello che possedeva, perché tutto ciò che si raccoglie sulla terra alla terra deve tornare.
Essa gettò nel tesoro del tempio quello che aveva per possedere ciò che non aveva ancora visto; vi gettò i beni destinati alla corruzione per procurarsi quelli immortali.
Quella povera donna non disprezzò il giudizio disposto e ordinato da Dio per essere accolti da lui quando ritornerà.
Per questo colui che tutto dispone e il Giudice del mondo anticipò la sua sentenza e lodò nel Vangelo la donna che avrebbe incoronata nel giudizio.
[…] Rendiamo dunque al Signore i suoi doni; restituiamoli a lui che li riceve nella persona di ogni povero; diamoli, dico, con gioia per riceverli di nuovo da lui con esultanza, come egli stesso afferma.
(PAOLINO DA NOLA, Lettere 34,2-4, PL 61,345C.346A-C).
La pietra preziosa «Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé. Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese.
Il monaco gliela diede immediatamente.
Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l’inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.
Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore.
Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”» (Anthony de Mello).
Le persone sono doni Qualche tempo fa, ho ricevuto un articolo non firmato intitolato Le persone sono doni.
Vorrei parafrasarne alcuni passi come segue: «Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti.
Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente.
Alcuni vengono strapazzati durante l’invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.
Ma il dono non è l’involucro ed è importante rendersene conto.
È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall’involucro esteriore.
Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c’è bisogno dell’aiuto altrui.
Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati.
Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.
Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono.
Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia.
E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.
Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni.
Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu.
Siamo doni vicendevoli».
(J.
POWELL, Parlami di te.
So ascoltare il tuo Cuore, Milano, Gribaudi, 2005, 24-25).
I valorosi sono sempre tenaci? “I valorosi sono sempre tenaci?”.
Dal cielo, il Signore sorride contento, perché era ciò che Egli voleva: che ciascuno avesse nelle proprie mani la responsabilità della propria vita.
In fin dei conti aveva dato ai propri figli il più grande di tutti i doni: la capacità di scegliere e di decidere i propri atti.
Soltanto gli uomini e le donne segnati nel cuore dalla fiamma sacra avevano coraggio di affrontarLo.
E soltanto questi conoscevano il cammino per tornare al Suo amore, giacché capivano finalmente che la tragedia non era una punizione, ma una sfida.
Elia rivide a uno a uno tutti i suoi passi: dal momento in cui aveva lasciato la falegnameria, aveva accettato la propria missione senza discutere.
Anche se fosse stata vera, e lui pensava che lo fosse, Elia non aveva mai avuto l’opportunità di vedere che cosa accadeva nei cammini che aveva rifiutato di percorrere.
Perché aveva paura di perdere la fede, la dedizione, la volontà.
Riteneva che fosse molto rischioso sperimentare il cammino delle persone comuni: alla fine avrebbe potuto anche abituarsi e amare ciò che vedeva.
Non capiva che anche lui era una persona come tutte le altre, anche se udiva gli angeli e riceveva di tanto in tanto qualche ordine da Dio: era talmente convinto di sapere ciò che voleva da essersi comportato proprio come coloro che non avevano mai preso una decisione importante nella vita.
Era sfuggito al dubbio.
Alla sconfitta.
Ai momenti di indecisione.
Ma il Signore era generoso, e lo aveva condotto nell’abisso dell’inevitabile per dimostrargli che l’uomo deve scegliere, e non accettare, il proprio destino.
(Paulo COELHO, Monte Cinque, Bompiani, Milano, 1998, 206-207).
Preghiera Signore Gesù, che da ricco che eri ti sei fatto povero per arricchirci con la tua povertà, aumenta la nostra fede! È sempre molto poco ciò che abbiamo da offrirti, ma tu aiutaci a consegnarlo senza esitazione nelle tue mani.
Tu sei il Tesoro del Padre e il Tesoro dell’umanità: in te si riversa la pienezza della divinità, eppure tu attendi ancora, da noi, l’obolo di ciò che siamo, perfino del nostro peccato.
Crediamo che tu puoi trasformare la nostra miseria in beatitudine per molti, ma tu insegnaci la generosità e l’abbandono confidente dei poveri in spirito! Vogliamo accettare la sfida della tua parola e donarti tutto, anche il necessario per l’oggi e il domani: tu stesso fin d’ora sei la Vita per noi.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Lectio – Anno B Prima lettura: 1Re 17,10-16 In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta.
Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna.
La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane».
Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto.
Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”».
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni.
La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.
Dopo l’annuncio della siccità (v.
1) e la chiamata da parte di Dio con il ritiro al torrente Cherit (vv.
2-7), ora Elia deve spostarsi a Sarepta, circa 15 km a sud di Sidone, sulla costa fenicia, terra dalla quale proveniva Gezabele, nemica dichiarata di JHWH e dunque di Elia stesso.
In quel territorio Elia non si trova più sotto la giurisdizione di Acab.
L’ordine può essere stato dato da Dio a motivo della persecuzione, che ormai potrebbe essere aperta (cf.
18,10).
Proprio una vedova, che già per il suo stato sociale era condannata agli stenti, viene individuata come sostegno del profeta.
Umanamente questo è paradossale, ma è sempre Dio a garantire la vita al di là delle umane risorse e aspettative.
Nell’antico vicino oriente le vedove erano riconoscibili per l’abito da lutto che esse indossavano, segno permanente della loro incompletezza dopo la perdita dello sposo (cf.
Gn 38,13; Gdt 10,3).
Entrato in città, Elia ne scorge una che raccoglie la legna destinata a cuocere le ultime poche risorse che sono rimaste per lei e suo figlio: un pugno di farina e una goccia d’olio.
La vedova a cui Elia è inviato è sul lastrico, rassegnata ormai alla morte e alla cui alternativa non vede esonerato neanche il proprio figlio.
La donna esaudisce prontamente il desiderio di Elia in merito alla sete, come del resto prevede il grande senso di ospitalità orientale, ma recrimina per la richiesta di cibo.
Il fatto che la donna invochi JHWH nella sua risposta ad Elia può dipendere dal fatto di avere riconosciuto in lui un ebreo sia per l’abbigliamento che per la pronuncia.
Secondo l’uso orientale la donna giura per la divinità dell’ospite.
Il giuramento rivela che quanto viene asserito dalla donna è vero ed importante.
Alla comprensibile protesta della donna Elia risponde non trascurando i suoi legittimi bisogni, ma invitandola a farli precedere da un atto di fede attraverso l’oracolo che egli pronuncia.
Il contenuto delle parole di Elia non sono semplicemente un rovesciamento di prospettiva di futuro che aveva la vedova, la quale si sentiva ormai alla fine, ma anche una indicazione chiara di colui che offrirà la soluzione.
L’oracolo profetico è chiaramente forgiato sulla fede monoteista israelitica secondo la quale JHWH è l’unico Signore del creato dal quale la pioggia dipende.
Vi è qui un chiaro atteggiamento polemico verso il culto forestiero di cui Gezabele era promotrice e che riconosceva in Baal il dio della fecondità, manifestata appunto nei riguardi della terra con la pioggia.
Colui che regola i cicli naturali, che detiene il controllo delle riserve celesti (Gb 38,22-30) ha certamente potere anche sulla dispensa della vedova.
Essa si fida della parola di Elia e il miracolo si compie.
Attraverso il suo profeta Dio stesso si è presentato a quella diseredata non per toglierle il poco che le era rimasto, ma per aggiungere vita e speranza.
A causa di questo episodio Elia viene considerato nella pietà giudaica il patrono dei casi impossibili.
Seconda lettura: Ebrei 9,24-28 Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.
E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Già il v.
11 del nostro capitolo aveva parlato del santuario non fatto da mani di uomo.
Ora, riprendendo la liturgia del giorno dell’espiazione, si parla ancora del rapporto simbolico che intercorre tra il tempio di Gerusalemme, imponente costruzione umana, e il santuario celeste.
In 8,2 l’autore aveva già trattato di questo simbolo molto lontano dalla realtà che esso rappresenta, dal momento che il vero santuario in cui Cristo è entrato è il cielo stesso.
Lì Gesù si trova direttamente di fronte al Padre e diventa il nostro avvocato, come veniva ricordato nel passaggio della scorsa domenica in 7,25.
Ritornando alla liturgia dello jom kippur, cioè del giorno della espiazione, Gesù viene paragonato al sommo sacerdote, ma per istituire un contrasto.
Mentre il primo doveva annualmente «comparire», in modo solenne per indicare l’entrata del gran sacerdote nella parte più sacra del tempio, il santo dei santi, per Gesù non è così.
Egli non ha bisogno di reiterare la sua offerta, perché per la purificazione dal peccato non si serve del sangue di terzi, che nel caso del sommo sacerdote era addirittura di animale, sangue di cui idealmente veniva rivestito e dal quale veniva protetto nel suo accesso al Santo dei santi; sangue che non era in grado di purificare dai peccati.
Per questo il sacrificio, anche se svolto con la maggiore solennità, aveva una scadenza annuale che già in se stessa era dichiarazione di limitatezza.
Il v.
26 si apre con un ragionamento che procede per assurdo, per condurre alla comprensione della efficacia di quanto è stato compiuto da Cristo.
Se fossero valsi per Lui i criteri che regolavano l’espiazione nell’antico culto, egli avrebbe dovuto accompagnare tutta la storia umana, fin dalle sue origini, con il sacrificio.
Infatti la storia degli uomini è storia di peccatori e di miserie.
Al contrario, una sola volta, nella pienezza dei tempi, cioè nel momento stabilito dal Padre, Gesù è «apparso» prima nel tempo, dimensione in cui si commettono i peccati, e, dopo aver consumato in esso il sacrificio di se stesso, è «apparso» nel santuario celeste rivestito del proprio sangue che lo qualifica come efficace espiatore ed intercessore.
È pertanto sul sangue stesso di Gesù che si basa l’assoluta validità del suo sacrificio e dunque la sua non reiterabilità.
Nei vv.
27-28 vi è un nuovo confronto tra Gesù e l’esperienza umana.
Per l’uomo dopo la morte viene il giudizio, per Gesù invece vi sarà una seconda «apparizione».
Il tratto più interessante di questi versetti è il modo in cui viene presentata la parusia, perché certamente di essa parla l’autore quando dice che Cristo «apparirà una seconda volta».
Il ritorno finale viene descritto rifacendosi ancora alla liturgia del giorno della espiazione.
Quando il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi tutto il popolo rimaneva fuori in attesa di lui che uscendo avrebbe portato il perdono divino.
Così nel suo ritorno finale Cristo uscirà come vero sommo ed eterno sacerdote dal santuario celeste per portare la salvezza a coloro che lo attendono.
Prevale qui un aspetto positivo della venuta finale descritta come il compimento dell’attesa della sospirata, completa assoluzione.
Vangelo: Marco 12,38-44 In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti.
Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere.
Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete.
Tanti ricchi ne gettavano molte.
Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Esegesi Il brano evangelico è diviso in due sezioni.
La prima è costituita dai vv.
38-40 che contengono l’ultimo insegnamento impartito da Gesù nel capitolo 12 di Marco.
La seconda, introdotta da un cambiamento di luogo, occupa i vv.
41-44 con la vedova additata ad esempio di vera pietà.
Uno sguardo d’insieme alla tradizione sinottica ci avvertirebbe che l’atteggiamento polemico di Gesù verso gli scribi fu forte e non raro; basterebbe ricordare il capitolo 23 di Matteo.
La comunità primitiva si preoccupò subito di conservare memoria degli insegnamenti di Gesù in questa materia per ricavare anche da essi uno stile nuovo di vita al suo interno.
Il vangelo di Marco ha conservato poco materiale a questo proposito, e la parte che ci tocca leggere in questa domenica è la più polemica.
Gli scribi vengono presi di mira a causa della loro preoccupazione per l’esteriorità.
Probabilmente la loro condizione di studiosi e di esperti del testo sacro era manifestata nell’abbigliamento da un mantello apposito che essi si ponevano sulle spalle.
Altri segni di distinzione ai quali erano particolarmente attaccati erano gli atti di omaggio e di riguardo che venivano loro riservati in pubblico, innanzitutto nelle piazze, dove un gran numero di persone potevano assistere agli atti di deferenza che ricevevano.
Anche nelle case private, in occasione di banchetti, e persino nei luoghi di culto, le sinagoghe, desideravano essere in rilievo occupando i primi posti.
L’ultima apostrofe che Gesù riserva loro riguarda la vita di pietà vissuta in pubblico come atto di esibizionismo religioso.
Staccata dal piano esteriore è la loro avidità che prende di mira le persone meno tutelate: le vedove.
Professionalmente gli scribi offrivano la loro consulenza in materia legale, il che equivaleva in una società e cultura come quella giudaica, ad una competenza religiosa perché tutto veniva regolato alla luce della Thorà.
Essi però erano esosi per le loro prestazioni persino con i meno abbienti.
Le parole con le quali Gesù conclude le considerazioni a loro riguardo sono assai dure.
All’affermazione alla quale essi tanto tengono per il presente farà seguito una condanna più pesante di quella riservata al popolo.
Forse si può notare qui una fine ironia: a queste persone esasperatamente preoccupate di primeggiare sarà data loro la possibilità di farlo persino nella dimensione definitiva, ma in un modo negativo.
La seconda sessione del nostro brano (vv.
41-44) narra un episodio che si svolge in un ambiente specifico del grande complesso del tempio.
Si tratta di un corridoio dell’atrio, luogo in cui anche le donne potevano recarsi.
In questo corridoio vi erano tredici urne nelle quali venivano deposte le offerte dei devoti.
Ad introdurre il denaro nel contenitore era un sacerdote al quale l’offerente indicava lo scopo di quanto consegnava.
Le urne si distinguevano proprio anche per la speciale destinazione data all’offerta e dunque all’uso che ne sarebbe stato fatto.
Anche in questo ambiente non manca l’ostentazione che fa da legame narrativo con la sezione precedente: i ricchi gettano molto danaro.
Proprio questo filo conduttore ci porta a scoprire che la pericope liturgica si gioca sul contrasto.
All’esteriorità e all’avidità di cui si è parlato si contrappone la generosità e la pochezza della vedova.
Di proposito viene detto che la somma in suo possesso è cost
Vita e cosmo a rapporto
Inizia il 6 novembre presso la Casina Pio iv la settimana di studi “Astrobiology” promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze.
Pubblichiamo l’introduzione al programma dei lavori del presidente del comitato scientifico organizzativo e del direttore della Specola Vaticana.
L’astrobiologia è lo studio del rapporto della vita con il resto del cosmo: i suoi temi principali includono l’origine della vita e la materia che l’ha preceduta, l’evoluzione della vita sulla Terra, le sue prospettive future sulla Terra e al di fuori di essa e l’eventualità che ci sia vita altrove.
Dietro a ognuno di questi temi vi è un insieme multidisciplinare di questioni che coinvolgono la fisica, la chimica, la biologia, la geologia, l’astronomia, la planetologia e altre discipline, ognuna delle quali si collega più o meno strettamente alle questioni centrali dell’astrobiologia.
Spinta da nuove possibilità di esplorazione scientifica sulla Terra e al di fuori di essa, l’astrobiologia sembra assurgere a disciplina scientifica a sé stante.
Lo studio dell’astrobiologia è piuttosto appropriato per la Pontificia Accademia delle Scienze che si basa su una collaborazione pluridisciplinare.
La settimana di studio promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze ha un programma ambizioso: riunire scienziati illustri nei diversi campi, condividere i risultati più recenti delle loro ricerche e offrire una prospettiva più ampia del modo in cui questi risultati incidono su altre aree dell’astrobiologia.
Raggiungere questi obiettivi non sarà facile perché il linguaggio di ognuna delle discipline rappresentate dai relatori non è completamente comprensibile.
Come spiegare a un astronomo la complessità dei marker chimici dell’attività biologica in antichi sedimenti della Terra? Oppure, come illustrare con l’accuratezza necessaria a un biologo molecolare le più recenti tecniche astronomiche per l’individuazione dei pianeti? Il paradosso dell’astrobiologia sta nel fatto che, sebbene la si possa considerare una disciplina circoscritta e specializzata, non si può sperare di comprendere adeguatamente la vastità delle discipline tradizionali che ne costituiscono la spina dorsale.
La settimana di studio, dunque, è veramente un corso interdisciplinare per esperti di una determinata materia per acquisire conoscenza e comprensione in altre materie più distanti, ma sempre sotto la giusta e ragionevole denominazione di astrobiologia.
In effetti non si tratta di nulla di nuovo: sono 13 anni che l’astrobiologia è riconosciuta come una nascente disciplina autonoma.
Gli scienziati sono stati educati a comprendere gli uni le materie degli altri.
Tuttavia, a volte, ciò avviene nell’ambiente della frenetica “conferenza annuale”, quel fenomeno del sapere moderno in cui il massimo numero di interventi viene compresso nel tempo di pochi giorni e si crea una specie di bazar intellettuale dove gli scienziati acquistano frammenti preziosi di informazioni – generalmente, per facilità, nella propria disciplina – cercando di assicurarsi che i concorrenti non stiano vendendo proprio la merce che vogliono vendere loro, o dove (raramente) si avventurano in sessioni estranee alla propria competenza per scervellarsi su quanto viene detto.
Ovviamente si svolgono anche seminari di astrobiologia e di altre scienze, più concentrati, ma spesso riguardano una sottodisciplina.
In un qualsiasi mese dell’anno, geologi possono incontrarsi a Vancouver per approfondire i risultati più recenti sulla studio della comparsa più antica dei fossili sulla Terra, mentre a Rio de Janeiro astronomi presentano nuovi dati sull’abbondanza di elementi che formano la vita in vicine regioni in cui si formano stelle, a Potsdam intanto studiosi dei pianeti discutono dell’ultima prova dell’esistenza della vita sotto la superficie ossidante di Marte.
Questa settimana di studio non è un evento unico, ma è relativamente raro.
Una settimana intensiva in cui astrobiologi in relativo isolamento confrontano i propri campi di ricerca e cercano di comprenderli è un’impresa difficile, ma entusiasmante.
Per fare tutto ciò in un lasso di tempo determinato, abbiamo selezionato accuratamente i relatori che possono rendere i loro specifici campi di ricerca comprensibili a astrobiologi di altri campi, a laici intelligenti e a chi può collegare quelle ricerche ai più ampi problemi dell’astrofisica.
Il programma è suddiviso in otto sessioni.
La prima, “L’origine della vita”, riguarda il difficile quesito sui meccanismi che hanno permesso alle molecole di organizzarsi in modo da consentire l’inizio della vita.
La vita, come la conosciamo sulla Terra, è basata su una struttura di proteine e di polimeri acidi nucleici che trasportano le informazioni per costruire proteine dai loro aminoacidi costitutivi.
Seppur complessa, la vita è una chimica organica molto specifica e selettiva.
Infatti, dell’ampia gamma di possibili acidi organici che i sistemi abiotici possono produrre, la vita ne utilizza solo un manipolo.
Parimenti, utilizza ampiamente solo aminoacidi “di sinistra” e zuccheri “di destra”.
Nella biochimica della vita c’è molto di più, ma questo è un esempio della sfida che chimici e biochimici affrontano nel cercare di comprendere in che modo la cacofonia della chimica organica abiotica si è evoluta nella sinfonia strutturata della vita.
Nello stesso modo ricavare dallo scarso materiale geologico delle prime fasi della Terra qualche indicazione sulle condizioni ambientali nelle quali si è formata la vita è un compito estremamente difficile, perché l’attività geologica, ossia le forze della tettonica, l’erosione, gli impatti del materiale asteroidale, ha cancellato del tutto le prove dell’ambiente terrestre nel mezzo miliardo di anni successivo alla sua formazione.
La seconda sessione, “Abitabilità nel tempo”, riguarda il problema di come la Terra sia riuscita a sostenere la vita per tutta la sua lunga storia geologica.
Qui il materiale geologico è maggiore di quello risalente al periodo in cui si presume la vita abbia avuto inizio (e dovrebbe essere chiarito che non abbiamo un’idea precisa di quando questo sia accaduto).
Tuttavia, ora i processi sono molto complessi: una varietà di gradazioni spaziali, temporali ed energetiche entrano in gioco.
Il Sole stesso, che spesso è tacitamente considerato come il sostenitore stabile dell’acqua allo stato liquido, che è essenziale per la vita come la conosciamo, era circa il 30 per cento meno luminoso di oggi all’inizio della storia della Terra.
Tuttavia la prova geologica dell’esistenza di acqua allo stato liquido sulla superficie della Terra quando il Sole era così pallido suggerisce che la nostra atmosfera deve aver causato un effetto serra molto più forte di quello odierno e anche piuttosto diverso.
Episodi di seria glaciazione nelle testimonianze geologiche suggeriscono che, di quando in quando, il “termostato” atmosferico non ha funzionato.
In che modo la vita, perfino a livello molecolare, e l’ambiente abbiano interagito nel corso del tempo geologico è il tema della terza sessione, “Ambiente e genomi”.
I tracciati molecolari delle reazioni biochimiche che sostengono la vita restano nella testimonianza geologica, suggerendoci i cambiamenti avvenuti nel corso di lunghi periodi di tempo.
Lezioni da forme di vita che vivono in ambienti estremi, come i venti sottomarini e i deserti più aridi della Terra, contribuiscono all’interpretazione di queste testimonianze.
La comparsa relativamente improvvisa di vita animale, tarda nella storia della Terra, resta un mistero la cui soluzione si potrebbe trovare sia nell’ambiente sia nei meccanismi del genoma.
La Terra sembra essere unica nel nostro sistema solare in quanto ad abbondanza di vita e, ciononostante, non possiamo essere sicuri che non ci sia vita su Marte o altrove nel sistema solare.
La quarta sessione, “Individuare la vita altrove”, si occupa delle prospettive e delle tecniche per individuare la vita in una varietà di ambienti altrove nel sistema solare, al di là di Marte fino agli asteroidi e ai satelliti di Giove e di Saturno.
Indipendentemente dall’esistenza di vita altrove nel nostro sistema solare, la vasta galassia della Via Lattea di cui siamo parte contiene più di cento miliardi di stelle.
Se i pianeti sono una caratteristica comune di tali stelle, non potrebbe esserlo anche la vita? Le tre sessioni successive studiano in modo sistematico l’individuazione, la formazione e le proprietà dei pianeti intorno ad altre stelle: “pianeti extrasolari”.
La quinta sessione, “Strategie di ricerca di pianeti extrasolari”, spiega le varie tecniche utilizzate per individuare pianeti intorno ad altre stelle e determinare le loro proprietà.
Conosciamo già 380 pianeti extrasolari e gli studi suggeriscono che il 10 per cento di stelle con proprietà simili a quelle del nostro Sole ha almeno un pianeta.
La sesta sessione, “Formazione di pianeti extrasolari”, descrive dettagliatamente in che modo si formano i pianeti come parte del processo di formazione delle stelle.
Occorre domandarsi cosa determina il momento in cui un pianeta roccioso come la Terra si forma in opposizione a un gigante gassoso come Giove e se il processo di formazione del pianeta è materialmente differente intorno a stelle molto più piccole del nostro Sole.
La settima sessione, “Proprietà dei pianeti extrasolari”, riguarda modelli computerizzati, dati astronomici e alcune ipotesi sulla questione delle proprietà dei pianeti extrasolari come funzione delle proprietà delle stelle originarie e delle distanze da esse.
Molto del fascino dell’astrobiologia deriva dal chiedersi se forme di vita senziente esistono in altri mondi e se forme di vita diverse dalla nostra di fatto coesistono con noi, oggi, nel nostro mondo.
L’ottava sessione, “Intelligenza altrove e vita ombra”, studia entrambe le questioni.
La ricerca di vita intelligente altrove è condotta ascoltando il cosmo con radiotelescopi nello sforzo di cogliere un segnale di origine indiscutibilmente artificiale.
La ricerca sul nostro pianeta di una vita con una biochimica diversa da quella nota, la cosiddetta “vita ombra”, è una possibilità affascinante, ma piena di difficoltà.
L’astrobiologia si sforza di utilizzare una vasta gamma di tecniche scientifiche, focalizzate su obiettivi che vanno dalle molecole nelle cellule al vasto mondo intorno a noi, affinché il posto dell’umanità nel cosmo possa essere maggiormente apprezzato.
È il riconoscimento della notevole complessità di tutto ciò che è in e intorno a noi ed è il modo in cui il XXI secolo realizza l’esortazione del salmista di ricercare (Salmi, 111, 2).
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2009)
La preghiera fragile dei vecchi vicini a Dio
Pubblichiamo un’anticipazione di “Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera” del cardinale Martini Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell’età si fanno sentire.
Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado.
Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo.
So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni.
Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’argomento.
Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’anziano.
Si può considerare l’anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto.
/ Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4.
Ma anche fino al verso 8).
In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.
La salute e l’età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola.
Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre.
Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento.
Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario.
Tuttavia questo accorciare i tempi dell’orazione potrebbe essere molto pericoloso.
Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata.
Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.
Ma la preghiera dell’anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità.
Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani.
Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca.
Anzitutto nella Bibbia.
In molti Salmi si parla apertamente dell’anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive.
Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25).
Si veda anche l’esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore».
La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano.
La più nota è la preghiera dell’anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).
La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli.
Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me.
Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano.
Mi pare che possano emergere tre aspetti: un’insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.
Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia – ho 85 anni – si distingue la preghiera di ringraziamento.
Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire “a tempo pieno”) a prepararmi alla morte.
E ciò non è dato a tutti.
In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».
Là dove invece non c’è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14).
Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze.
Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto.
E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati! La terza caratteristica della preghiera dell’anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore.
Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano.
Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale.
Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente.
Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre.
Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore.
A noi non resterà che seguirlo docilmente.
in “la Repubblica” del 31 ottobre 2009
Qualcosa di così personale.
CARLO MARIA MARTINI,Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera, Mondadori Milano, 2009, pp.
120, Codice EAN: 9788804594680, € 17,50 Come e perché pregare? Carlo Maria Martini tocca uno dei temi più importanti non solo per il cristiano ma per chiunque si trovi ad affrontare le innumerevoli circostanze della vita.
“La preghiera – scrive il Cardinale – è la risposta immediata che ci sale dentro il cuore quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere, momenti in cui ci sentiamo come tratti fuori dalla schiavitù delle immanenze quotidiane”.
Ma la preghiera è anche “la forza che si oppone alla paura di cambiare, di lanciarsi su nuove vie”.
<a href=”http://ads.bol.it/www/delivery/ck.php?n=ad042fd3&cb=%n” target=”_blank”><img src=”http://ads.bol.it/www/delivery/avw.php?zoneid=22&n=ad042fd3&ct0=%25c” border=”0″ alt=”” /></a> La preghiera è qualcosa di estremamente semplice, qualcosa che nasce dal cuore.
Con queste parole il cardinale Martini ci introduce nel tema del suo nuovo libro, dedicato a uno degli aspetti più intimi e delicati del rapporto con Dio: la preghiera.
E la risposta immediata che sale dal profondo quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere.
Il che può avvenire in molti modi, diversi per ciascuno di noi: davanti a un paesaggio di montagna, in un momento di solitudine nel bosco, ascoltando una musica.
Sono momenti di verità dell’essere, nei quali ci sentiamo come tratti fuori dalla schiavitù delle invadenze quotidiane, che ci sollecitano continuamente.
Facciamo un respiro più ampio del solito, avvertiamo qualcosa che si muove dentro di noi, ed ecco elevarsi una preghiera: Mio Dio ti ringrazio , Signore, quanto sei grande! .
Questo riconoscimento di Dio è la preghiera naturale, la preghiera dell’essere.
Ogni nostra preghiera parte da tale principio: l’uomo che vive a fondo l’autenticità delle proprie esperienze sente immediatamente, istintivamente, l’esigenza di esprimersi attraverso una preghiera di lode, di ringraziamento, di offerta.
Il mandarino di Cicerone
La mostra dedicata al gesuita Matteo Ricci che apre il 29 ottobre al Braccio di Carlomagno si gioca su una idea geniale dell’allestitore scenografo Pierluigi Pizzi.
Dal momento che il percorso espositivo si disloca in due parti, una dedicata a Roma, alla Compagnia di Gesù e all’Europa fra XVI e XVII secolo, l’altra che ha per argomento la Cina abitata, penetrata, capita e acculturata da Matteo Ricci, ecco allora che i colori dominanti sono due.
Un azzurro algido e luminoso (“azzurro Sassoferrato”, lo chiama Pizzi, con riferimento al noto pittore della Riforma cattolica) per la pars occidentis, il rosso imperiale per la zona che ospita le opere e i documenti della Cina.
Del resto la mostra voluta con determinazione ammirevole da monsignor Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia, ha un titolo che prefigura e replica l’idea dei due colori.
Il gesuita di Macerata, fra Roma e Pechino, si colloca oggettivamente “ai crinali della storia”.
Perché negli anni che stanno fra il 1580 e il 1610 – gli anni della missione cinese di padre Matteo – sembrò possibile vedere, come dal vertice di una alta montagna, il possibile dialogo, la fruttuosa contaminazione fra due mondi l’uno all’altro incogniti, apparentemente incomunicabili, sigillati dalla loro stessa diversità.
Una mostra che, come questa, intende mettere in figura un tempo grandiosamente cruciale della storia, deve saper usare con didattica efficace il sistema dei simboli.
Pierluigi Pizzi ci riesce magnificamente.
Due infatti sono i fuochi che catturano l’attenzione del visitatore e intorno ai quali si organizza e si irradia il percorso espositivo.
Uno è l’altare di Confucio, prestito della Sezione missionaria etnologica dei Musei Vaticani.
Fiammeggiante di lacca e di oro, di dimensioni imponenti, fronteggiato da un Budda pensoso e compassionevole, rappresenta perfettamente la raffinata filosofica religiosità cinese.
A fare da contraltare, nel senso letterale oltre che simbolico del termine, c’è la gloria barocca di Pier Paolo Rubens.
Dalla chiesa genovese del Gesù viene la grande tela che racconta l’apoteosi di sant’Ignazio di Loyola e dei suoi seguaci.
Rubens è emozione ed è passione, la sua pittura sontuosa smagliante che rielabora Raffaello e Caravaggio, che non teme lo splendore del Vero e trasfigura il tutto nella visione ottimistica e trionfalistica di una Chiesa alla conquista del mondo, è l’altra faccia della medaglia.
È il punto di partenza, religioso e culturale, dal quale Matteo Ricci partiva quando lasciò il Collegio romano per l’impero di mezzo.
Intorno ci sono i quadri del fiammingo Seghers (anch’essi prestiti dei Musei Vaticani) con i protagonisti della evangelizzazione, Francesco Saverio e Ignazio di Loyola.
C’è un intenso ritratto di quest’ultimo rappresentato al tavolo di lavoro, raro e pressoché incognito dipinto proveniente dal Gesù di Roma, forse attribuibile al Ribera.
Ci sono i ritratti dei Papi capaci di reggere la Chiesa nei tempi di ferro che videro, in Europa, le guerre di religione e il confronto armato con l’islam.
La battaglia di Lepanto di Paolo Veronese, prestata dal veneziano Museo dell’Accademia, è davvero l’emblema di un’epoca.
Era il 1571 quando l’armata navale guidata da Giovanni d’Austria spezzava l’assalto del turco alla fortezza Europa.
Nello stesso anno il giovane Matteo Ricci entrava nell’ordine gesuita.
Si preparava a diventare il Li Madou che i cinesi ancora oggi onorano come uno dei padri identitari della loro grande storia.
Non è senza significato se nel Millennium Center di Pechino, immenso edificio politico cerimoniale che celebra i fasti della nazione e del partito, il gigantesco rilievo in marmi policromi dedicato alla storia della Cina, dal primo imperatore ai protagonisti del Novecento, porti due sole immagini di stranieri, entrambi italiani.
Uno è Marco Polo alla corte di Kubilai Kan, l’altro è Matteo Ricci che, dalla terrazza della Città proibita, in veste di mandarino confuciano, scruta il cielo.
Li Madou portò in Cina la geometria di Euclide, l’astronomia, la meccanica, la cartografia.
Portò il De amicitia di Cicerone trasformato in un delizioso libretto mandarino dedicato a un alto dignitario un po’ confuciano, un po’ animista, un po’ (forse) cristianizzante.
Portò dunque la cultura d’Occidente, significata in mostra da astrolabi, planetari, rappresentazioni della città e dell’impero.
Portò anche, naturalmente, la dottrina cristiana ma lo fece usando come apripista la scienza e la tecnica, patrimonio condiviso per l’Occidente come per l’Oriente, e muovendosi in ogni caso con mano leggera, con straordinaria capacità mimetica, con rispetto assoluto e squisito per la cultura e per le tradizioni del Paese che aveva deciso di fare suo.
Si fece cinese fra i cinesi, assunse anche negli abiti l’iconografia del funzionario imperiale, fu cerimonioso e obliquo, iperbolico e burocratico, poetico e pragmatico come costume ed etichetta richiedevano.
Se non si fosse comportato in questo modo non avrebbe avuto gli onori che la Cina moderna gli riconosce e che permette a noi di collocarlo, davvero, ai crinali della storia.
Una storia troppo presto interrotta ma che oggi, in tempi di integrazione fondata sul dialogo e quindi sul rispetto e sulla conoscenza, appare più che mai attuale.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009)
TUTTI I SANTI (Anno B)
Preghiere e Racconti La santità è sempre giovane «Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”.
“Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri.
Beati voi!”.
E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità.
Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio.
Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita.
Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.
“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana.
È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio.
Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore.
Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo.
(…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente.
E la santità non è questione di età.
La santità è vivere nello Spirito Santo”.
Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza.
Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.
(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella la GMG 2002).
Ciò che ho scritto di noi Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni è il disegno tracciato su un raggio di sole ciò che ho scritto di noi è tutta verità è la tua grazia cesta colma di frutti rovesciata sull’erba è la tua assenza quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via è la mia gelosia quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati è la mia felicità fiume soleggiato che irrompe sulle dighe ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia ciò che ho scritto di noi è tutta verità.
(Nazim Hikmet) Le beatitudini bibliche Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali.
È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città.
Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono.
Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati.
Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo.
La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza.
A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità.
E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.
Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili.
Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana.
Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.
Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).
Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.
(A.
MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.).
Il paese della felicità Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.
Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.
(Thorkild Hansen) Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli? Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza.
Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte.
Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.
San Benedetto lo sapeva.
Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati.
Questa è per me una regola fondamentale e saggia.
I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità.
Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti.
In questo modo danneggerebbe se stessa.
C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli.
Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).
Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo? I valori ci conferiscono valore e dignità.
La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore.
Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri.
La sua vita avrà sempre meno valore.
Lo tirerà giù.
La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”.
I valori ci danno, quindi, una forza interiore.
Rendono sana la nostra vita.
Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido.
Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli.
Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido.
E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità.
Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo.
E a lungo termine avrà anche successo nella vita.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).
Preghiera Signore Gesù Cristo, custodisci questi giovani nel tuo amore.
Fa’ che odano la tua voce e credano a ciò che tu dici, poiché tu solo hai parole di vita eterna.
Insegna loro come professare la propria fede, come donare il proprio amore, come comunicare la propria speranza agli altri.
Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo, in un mondo che ha tanto bisogno della tua grazia che salva.
Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini, perché siano sale della terra e luce del mondo all’inizio del terzo millennio cristiano.
Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida questi giovani uomini e giovani donne del ventunesimo secolo.
Tienili tutti stretti al tuo materno cuore.
Amen.
(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Lectio – Anno B Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14 Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente.
E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.
Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli.
Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?».
Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai».
E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.
Dopo la solenne scenografia celeste (cf.
cap.
4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf.
cap.
5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf.
cap.
6).
La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte.
Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento.
La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.
Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv.
2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv.
9-12) e la loro identità (vv.
13-14).
All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti.
Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf.
Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv.
5-8, tralasciati dal testo liturgico).
Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo.
(Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).
Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare».
Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf.
v.
9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione.
Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza.
Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza).
Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v.
14).
I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»).
Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.
Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3 Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
La santità è amore.
La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.
I vv.
1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!».
Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo.
Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità.
Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita.
L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile.
Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio.
Se i vv.
1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.
Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v.
3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino.
Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono.
Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v.
3).
Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni.
Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre.
Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v.
9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.
Vangelo: Matteo 5,1-12a In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Esegesi Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola.
Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo.
È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù.
Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo.
Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale.
E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano.
Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità.
L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf.
Mt 5,1.2).
Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati».
Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf.
Lc 6,20-26).
Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf.
Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf.
Sal 128,1; 1,1).
Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.
Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi.
Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11.
A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.
Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo.
Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole.
Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento.
I vv.
11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù.
Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto.
Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena.
Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui.
Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso.
È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.
Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito…
beati gli afflitti…».
Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock.
Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza.
Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento.
L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente.
Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente.
Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo.
Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.
Che cosa possiamo rispondere? Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive.
Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff.
Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.
La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore.
La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende.
Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile.
Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità.
E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso.
Così di seguito, tutto rimanda a Dio.
La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive.
In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere.
Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è.
Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà.
Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva.
Questa è la santità.
Meditaz
Le virtù di don Rua e il modello di don Bosco
Dal 28 ottobre al 1 novembre si tiene a Torino-Valdocco il convegno internazionale di studi dedicato a “Don Michele Rua, primo successore di don Bosco”, alla vigilia del centenario della morte del beato, avvenuta il 6 aprile 1910, e dell’anno speciale che il Rettor maggiore salesiano ha indetto nella sua memoria (31 gennaio 2010 – 31 gennaio 2011).
Al convegno, organizzato dall’Associazione cultori di storia salesiana e dall’Istituto storico salesiano, partecipano un centinaio di studiosi provenienti da trentatré nazioni.
Pubblichiamo la sintesi della prima relazione, tenuta dal postulatore generale delle Cause dei santi della famiglia salesiana.
”Don Michele Rua, fedele discepolo di don Bosco” è espressione che ricorre come un leitmotiv nelle biografie del beato.
Di fronte a simili stereotipi, il dovere dello storico è quello di un’indagine rigorosa, che illustri la verità e le approssimazioni del caso.
È ciò che mi propongo di fare, avviando un confronto tra la Positio sulle virtù di don Bosco e quella di don Rua.
In effetti, ritengo che sia questa la via più sicura – perché la più ricca di documentazione, generalmente affidabile – per affrontare la questione.
La causa di canonizzazione di don Bosco Il 1° aprile 1934 – domenica di Pasqua e solenne chiusura del Giubileo straordinario della redenzione – il Papa Pio XI proclamava santo il sacerdote torinese Giovanni Bosco (1815-1888).
Giungeva così al termine la sua causa di beatificazione e di canonizzazione, iniziata a Torino il 4 giugno 1890.
La prima fase – cioè il “processo ordinario”, così chiamato perché condotto sotto la responsabilità del vescovo ordinario del luogo – venne chiusa il 1° giugno 1897.
Dieci anni dopo, il 24 luglio 1907, iniziò a Roma il “processo apostolico” sotto la responsabilità diretta della Santa Sede – precisamente della Sacra Congregazione dei Riti.
Questa seconda fase durò vent’anni, fino all’8 febbraio 1927, e conobbe esiti alterni.
Basti dire che al termine di una sessione preparatoria – precisamente quella del 20 luglio 1926 – sembrò ad alcuni che la causa non potesse più procedere.
Ma l’interessamento autorevole di Pio XI – che da giovane prete aveva conosciuto personalmente don Bosco (“Noi siamo con profonda compiacenza tra i più antichi amici personali del venerabile don Bosco”: così aveva detto il neoeletto Pontefice nell’allocuzione rivolta ai giovani collegiali salesiani l’8 giugno 1922) e ne aveva conservato un ricordo altissimo – fece ripetere la medesima sessione pochi mesi più tardi, il 14 dicembre 1926.
L’esito positivo di questa nuova sessione spianò la strada agli adempimenti ulteriori, in primo luogo alla cosiddetta congregazione generale coram sanctissimo – cioè davanti al Papa – l’8 febbraio 1927, e finalmente alla promulgazione del decreto sull’eroicità della vita e delle virtù del venerabile Giovanni Bosco (20 febbraio 1927).
Così, dopo il riconoscimento dei quattro miracoli allora prescritti – due per la beatificazione e due per la canonizzazione – il Papa Pio XI poté procedere il 2 giugno 1929 alla beatificazione di don Bosco, e poi alla sua canonizzazione, precisamente il 1° aprile 1934.
Soprattutto il “processo apostolico” – i cui atti confluiscono nella Positio super virtutibus – intende illustrare al meglio, pur con i limiti delle ricerche umane, il peculiare modello di santità incarnato da quella persona, di cui si discute.
Così il confronto tra le rispettive Positiones – di don Bosco e di don Rua – consente di verificare le tangenze e le distanze dei due modelli.
Secondo la procedura allora vigente – sostanzialmente modificata dai successivi interventi pontifici, fino alla costituzione Divinus perfectionis Magister di Giovanni Paolo II (1983) – il processo apostolico era condotto con il metodo delle “obiezioni” – le cosiddette animadversiones proposte dall’ufficio del Promotore della Fede, cioè dal “pubblico ministero” della Sacra Congregazione, volgarmente chiamato “avvocato del diavolo”) e delle “risposte” (le responsiones preparate dall’avvocato [difensore] designato dalla Postulazione).
Le obiezioni alla santità di don Bosco, che emergono dalla lettura della Positio, sono abbastanza note.
Si tratta soprattutto della sua “astuzia”, orientata, secondo l'”avvocato del diavolo”, a un’ardente passione di successo personale e di guadagno economico.
Vi entra anche, per gli stessi motivi, l’accusa di un certo “plagio” nei confronti dei ragazzi, con rilievi pesanti riguardo al mancato esercizio della prudenza, specialmente nei racconti di sogni e di premonizioni terrificanti; di “non trasparenza” – per usare il vocabolario di oggi – nella ricerca e nella gestione d’elemosine e d’eredità; di scarsa sobrietà nella mensa; e, finalmente, di disubbidienza pressoché sistematica all’arcivescovo di Torino, Lorenzo Gastaldi.
La causa di canonizzazione di don Michele Rua La prima fase della causa di beatificazione e di canonizzazione del servo di Dio Michele Rua, cioè il cosiddetto “processo ordinario”, si svolse a Torino dal 2 maggio 1922 al 20 novembre 1928.
In duecentoventisei sessioni furono ascoltati ventidue testimoni, tra cui due testi ex officio – così detti perché convocati direttamente dal tribunale, al di là della lista dei testimoni presentata all’inizio del processo.
Otto anni dopo, il 10 novembre 1936 – quando la canonizzazione di don Bosco era ormai avvenuta da più di due anni – iniziò la seconda fase della causa, cioè il “processo apostolico”.
Ma il periodo bellico rallentò sensibilmente l’andamento della causa: così il decreto sull’eroicità delle virtù fu promulgato soltanto il 21 aprile 1953.
Trascorsero ancora diciassette anni per il riconoscimento dei due miracoli prescritti per la beatificazione – il relativo Decreto è del 19 novembre 1970 – e finalmente il 29 ottobre 1972 il venerabile Michele Rua fu solennemente beatificato a Roma, nella basilica di San Pietro, dal Papa Paolo VI.
La procedura introdotta da Giovanni Paolo II nel 1983 – tuttora vigente – richiede un altro miracolo, e non due, per la canonizzazione.
Tuttavia, benché la Postulazione abbia raccolto un lungo elenco di “grazie” attribuite all’intercessione di don Rua, al momento presente nessuna d’esse si configura in maniera tale da consentire l’apertura di un processo sul miracolo.
Quando questo processo sarà celebrato – a tale scopo è necessario promuovere nel popolo di Dio la conoscenza del beato, diffonderne il culto e raccomandarne l’intercessione – e se il giudizio degli organismi giudicanti sarà positivo, il Papa potrà procedere alla canonizzazione di don Michele Rua.
Lo studio del “processo apostolico” e l’esame della Positio super virtutibus di don Rua sono decisivi per il confronto – che qui ci interessa – tra il modello di santità rappresentato da don Bosco e quello incarnato da don Rua.
In verità, questo studio e questo esame sono già stati compiuti da storici e biografi del calibro di Agostino Auffray, Eugenio Ceria e Joseph Aubry, e sono stati ricondotti in sintesi efficace da Francis Desramaut nelle pagine conclusive della sua recentissima Vita di don Michele Rua primo successore di don Bosco, pubblicata in francese, di prossima edizione in lingua italiana.
Volendo riferirci a quest’ultima sintesi, appare evidente che la prudenza, la temperanza e la povertà sono le virtù che caratterizzano maggiormente il profilo spirituale di don Rua tracciato nella Positio.
Ovviamente nessuna delle tre virtù rimane fine a se stessa.
Tutte e tre concorrono a delineare la carità eroica di don Rua – sia la carità verso Dio, sia la carità verso il prossimo, con particolare riferimento ai giovani poveri e abbandonati.
Resta il fatto che l’itinerario di santità percorso da Michele Rua trascorre attraverso queste tre virtù in maniera del tutto privilegiata.
Così noi le prenderemo ordinatamente in esame, riferendoci sempre al testo della Positio e alla sintesi proposta da Desramaut.
Anzitutto – scrive il padre Desramaut – don Rua era souverainement prudent, tanto che la prudenza è sottolineata con un’enfasi speciale anche nel decreto sull’eroicità delle virtù.
Di fatto, nella Positio si legge che don Rua praticò puntualmente la prudenza, e così, con l’aiuto di Dio, egli fece crescere dovunque la società salesiana; promosse nei confratelli la pietà e lo zelo per le anime; moltiplicò le spedizioni missionarie; approvò e sostenne i salesiani che desideravano dedicarsi all’apostolato dei lebbrosi; fece in modo che nei collegi si coltivassero la pietà, lo studio e la disciplina; e con grande energia – mai disgiunta dall’amorevolezza – non trascurò nulla, secondo gli insegnamenti del fondatore, che potesse contribuire alla maggior gloria di Dio.
Come si vede, la prudenza appare la sigla distintiva dell’immensa opera di governo e di animazione pastorale svolta dal beato Michele Rua.
Quanto alla temperanza, egli riempì di contenuti pratici – con una ricchezza straordinaria – il programma consegnato da don Bosco ai suoi figli: “Lavoro e temperanza”.
In particolare, la temperanza si traduceva per lui nel “culto della regola”.
Si dice che don Bosco ripetesse: “Don Rua è la regola vivente”.
Sorvegliava attentamente se stesso per concedere al corpo solo ciò che era strettamente necessario.
Mai si concesse la siesta pomeridiana.
Ogni giorno, dopo il pranzo, partecipava alla ricreazione con i confratelli, secondo le indicazioni della regola, mentre alla sera, dopo le preghiere, manteneva il religioso silenzio.
Così pure osservava e faceva osservare tutte le prescrizioni, anche le più piccole, della sacra liturgia.
Era temperante pure nel cibo.
Non lo si vide mai assumere alcun alimento fuori dai pasti, e alla sua mensa di rettor maggiore non tollerava alcun privilegio.
Per il sonno, al termine della sua estenuante giornata, si stendeva per cinque o sei ore su un divano trasformato in letto.
Insomma, aveva imparato fin da ragazzo a “non ascoltarsi mai”, non certo per il gusto della mortificazione in se stessa, ma per rendere il corpo più docile al servizio della carità.
Riguardo infine alla povertà, don Rua ne fece la sua compagna prediletta.
Non aveva che due talari, una per l’estate e una per l’inverno, tutt’e due usate fino a logorarne la stoffa, ma sempre perfettamente ordinate.
Per ventidue anni abitò la camera che era stata di don Bosco, e non permise mai che qualche cosa ne fosse cambiata.
Forse la sua lettera circolare più ispirata è quella del 31 gennaio 1907, dedicata appunto al tema della povertà, da lui definita “il primo dei consigli evangelici”.
“La povertà, in se stessa, non è una virtù”, si legge nella medesima lettera.
“La povertà diventa virtù solo quando è volontariamente abbracciata per amor di Dio, come fanno coloro che si danno alla vita religiosa.
Tuttavia anche allora la povertà non cessa di essere amara; anche ai religiosi la pratica della povertà impone dei gravi sacrifici, come noi stessi ne abbiamo fatto mille volte l’esperienza.
Non è perciò da stupire se la povertà sia sempre il punto più delicato della vita religiosa, se ella sia come la pietra di paragone per distinguere una comunità fiorente da una rilassata, un religioso zelante da uno negligente…
Di qui la necessità per parte dei superiori di parlarne sovente e per parte di tutti i membri della famiglia salesiana di mantenerne vivo l’amore e intiera la pratica”.
Più avanti, illustrando la motivazione carismatica della povertà salesiana, don Rua aggiunge: “Chiunque non vivesse secondo il voto di povertà, chi nel vitto, nel vestito, nell’alloggio, nei viaggi, nelle agiatezze della vita valicasse i limiti che c’impone il nostro stato, dovrebbe sentir rimorso d’aver sottratto alla congregazione quel denaro che era stato destinato a dar pane agli orfani, favorire qualche vocazione, estendere il regno di Gesù Cristo.
Pensi che ne dovrà rendere conto al tribunale di Dio”.
Confronto tra due profili spirituali Può destare qualche sorpresa e perplessità la conclusione più evidente a cui approda il confronto tra le due Positiones, cioè il fatto che le stesse virtù maggiormente invocate per delineare la santità di don Rua sono quelle costantemente impugnate per contestare la santità di don Bosco.
È vero infatti che proprio la prudenza, la temperanza e la povertà sono i “cavalli di battaglia” delle animadversiones raccolte nella Positio del fondatore.
Si può vedere, al riguardo, come abbiano resistito tenacemente – fino alla Novissima positio super virtutibus, stampata per la congregazione generale coram sanctissimo dell’8 febbraio 1927 – le obiezioni alla prudenza di don Bosco – oltre che alla sua obbedienza – specialmente a causa della vicenda con monsignor Gastaldi; e le obiezioni alla sua povertà, soprattutto a causa di una certa transazione di beni dei Servi di Maria.
La risposta a queste e alle altre obiezioni giunse finalmente – oltre che dagli avvocati difensori – dall’autorità suprema del Papa.
Al termine della medesima congregazione generale dell’8 febbraio 1927, che chiuse il processo apostolico, Pio XI ebbe a dire: “Il venerabile don Bosco appartiene alla magnifica categoria di uomini scelti in tutta l’umanità, a questi colossi di grandezza benefica, e la sua figura facilmente si ricompone, se all’analisi minuta, rigorosa delle sue virtù, quale venne fatta nelle precedenti discussioni lunghe e reiterate, succede la sintesi che, riunendone le sparse linee, la restituisce bella e grande: una magnifica figura, che l’immensa, insondabile umiltà, non riusciva a nascondere”.
E qualche anno dopo, nell’omelia della canonizzazione, il Santo Padre avrebbe solennemente definito quella “magnifica figura” come l'”apostolo della gioventù, interamente dedito alla gloria di Dio e alla salute delle anime”, distintosi per arditezza di concetti e modernità di mezzi in ordine all’educazione completa dell’uomo.
Educazione che – secondo il pensiero del Papa, in polemica non troppo velata con la cultura fascista del tempo – non doveva limitarsi soltanto a corroborare il corpo, ma doveva mirare a tutto il suo essere, e a promuovere la formazione delle scienze, senza però trascurare mai le verità divine e soprannaturali.
Il riconoscimento delle virtù di don Bosco non poteva essere più pieno né più autorevole.
D’altra parte, la pratica delle medesime virtù aveva in lui quel tanto d’inedito e di “ardimentoso” – per riecheggiare il linguaggio di Pio XI – che può spiegare, almeno in parte, le animadversiones citate.
Ebbene, la ricezione assai differente della santità di don Rua rispetto a quella del fondatore – come attesta con sufficiente chiarezza il confronto tra le due Positiones – dimostra che egli non fu la “copia” di don Bosco.
Se lo stereotipo del “fedele discepolo” dovesse significare questo, sarebbe certamente da rigettare.
In ogni caso, è da preferire l’espressione adottata dal Rettor maggiore nella sua lettera del 24 giugno 2009, con la quale egli indice un anno dedicato alla memoria del beato Michele Rua nel primo centenario della sua scomparsa: qui infatti don Chávez parla di don Rua come di un “discepolo fedele di Gesù sui passi di don Bosco”.
In realtà, assai più che una semplice “copia” del fondatore, il primo successore di don Bosco appare – anche nella vita spirituale e nell’itinerario della santità salesiana – come colui che “ha fatto della sorgente, una corrente, un fiume”.
Conservando intatta la propria irripetibile personalità – che era ben diversa da quella di don Bosco – egli ha approfondito e sistematizzato in un progetto di vita personale e comunitaria il cammino di perfezione di san Giovanni Bosco, percorrendo una via propria, originale.
In questo senso va interpretata l’affermazione di Angelo Amadei – che cita a sua volta don Paolo Albera – là dove si legge che don Rua “riuscì a riprodurre in se stesso nel modo più perfetto il modello” del fondatore.
Per questo motivo, infine, il beato Michele Rua rappresenta la “chiave di lettura” migliore – e quasi obbligatoria – per comprendere a fondo il modello di santità realizzato da san Giovanni Bosco.
(©L’Osservatore Romano – 28 ottobre 2009)
A single man
E’ notizia recente che Barack Obama ha annunciato la fine della politica del “non chiedere, non dire”, che permetteva ai gay di arruolarsi nelle forze armate soltanto a patto di non dichiarare il proprio orientamento sessuale, come è di pochi giorni fa la manifestazione svoltasi a Roma per il giorno degli “Uguali” che fa riferimento all’articolo 3 della Costituzione che recita: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Purtroppo, i casi di razzismo contro gli omosessuali si verificano troppo spesso e neppure lo struggente film di Tom Ford “A single Man”( 66.
ma Mostra di Venezia) che ha meritato la Coppa Volpi all’elegante Colin Firth per la sua interpretazione di George, il protagonista, farà cambiare idea agli incalliti persecutori che sempre a Roma hanno picchiato a sangue due gay portando in giro uno striscione con questa scritta: Il Colosseo ai Gay? Con i leoni dentro (Cfr.La Stampa, 12 ottobre 2009 ed altri quotidiani nazionali).
Naturalmente si parla di diritti, non di differenze di genere che esistono e si vedono: una donna è donna e un uomo è un uomo e il matrimonio tra un uomo ed una donna non è paragonabile a quello tra due omosex, per le molte ragioni di ordine scientifico, sociali, religiose che qui è inutile elencare, perché ci interessa il sentimento universale: l’amore che può nascere e legare i cuori di due persone senza troppo badare al genere.
E allora, diciamo che A single Man avrebbe meritato il Leone d’oro per la bellezza di ogni inquadratura, la misurata e toccante recitazione degli interpreti, specie quella di Colin Firth cui, come abbiamo già scritto- è stata assegnata la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.
Questo film ha ricevuto così tanti applausi come nessun altro.
Ma la Giuria- prudente- ha ritenuto opportuno attribuire un premio, ma non il maggiore per non suscitare altri vespai, critiche, grida di “aiuto, adesso ratificano con il Leone d’oro il rapporto omosex”! E qui in Italia è pericolosissimo, per via di tanti scalmanati ignoranti che sono omofobi a tutto spiano, senza rendersi conto che –in questo modo diventano razzisti e vanno contro la Costituzione.
E non chiamiamo in causa il Vaticano che pure in questo campo avrebbe molto da farsi “perdonare” per la strenua difesa dei preti pedofili e così via.
Parlare di omosessualità è stato difficile sin dal tempo della Bibbia e non è diventato più facile discuterne nel nostro tempo(basti attenersi alla confusione creatisi in Parlamento per l’approvazione della legge contro l’omofobia).
A noi interessa- ora- presentare il film, da vedere assolutamente.
.La sua uscita dovrebbe essere il prossimo 22 gennaio 2010.
Il film – vincitore del Queer Lion 2009 e della Coppa Volpi a Colin Firth – sarà distribuito dall’Archibald Film di Vania Taxler( Cfr.: www.queerblog.it).
Il romanzo A single Man di Christopher Isherwood(cfr.: Wikipedia, l’enciclopedia libera).Vai a: Navigazione, cerca Christopher William Bradshaw-Isherwood (Wybersley Hall, 26 agosto 1904 – Santa Monica, 4 gennaio 1986) è stato uno scrittore inglese.
Era nato a Wybersley Hall, High Lane, nel nordovest dell’Inghilterra, figlio di proprietari terrieri.
Suo padre, ufficiale dell’esercito, era stato ucciso nella prima guerra mondiale.
A scuola incontrò Wystan Hugh Auden, che divenne inizialmente suo amante, e poi il suo amico più caro per tutto il resto della sua vita.
Studiò successivamente al Corpus Christi College di Cambridge, e alla University of Cambridge, dove incontrò Stephen Spender, che era alla Oxford University con Auden. Rifiutando le sue origini sociali e attratto dai ragazzi delle classi sociali più basse, Isherwood si trasferì a Berlino, capitale della giovane Repubblica di Weimar, attrattovi dalla sua meritata reputazione di libertà sessuale (e omosessuale).
Qui lavorò come insegnante privato mentre scriveva il romanzo Mr.
Norris se ne va e una serie di racconti editi sotto il titolo Addio a Berlino, che avrebbero fornito l’ispirazione per la commedia I Am a Camera e al musical, che ne fu tratto, Cabaret.
Nel settembre 1931 il poeta William Plomer gli presentò lo scrittore Edward Morgan Forster; divennero intimi amici e Forster fece da mentore al giovane scrittore.
Auden e Isherwood viaggiarono prima in Cina nel 1938, poi emigrarono negli Usa nel 1939.
Isherwood si stabilì in California, dove si convertì all’Induismo.
Assieme a Swami Prabhavananda produsse diverse traduzioni scritturali induiste, saggi sui Vedānta, la biografia Ramakrishna and his Followers, e romanzi, opere teatrali e sceneggiature, tutte farcite di temi e personaggi del Vedānta, karma, reincarnazione e ricercaUpanishadica.
Arrivando a Hollywood nel 1939, egli incontrò Gerald Heard, il mistico-storico che fondò un suo proprio monastero a Trabuco Canyon che infine donò alla Vedānta Society.
Attraverso Heard, che fu il primo a scoprire Swami Prabhavananda e il Vedānta, Isherwood si unì ad uno straordinario gruppo di esploratori mistici che comprendeva Aldous Huxley, Bertrand Russell, Chris Wood, John Yale e J.
Krishnamurti.
Tramite Huxley, Isherwood strinse amicizia con il compositore russo Igor Stravinsky.
Egli ottenne la cittadinanza statunitense nel 1946.
Nel 1964 pubblica il romanzo A single man (edito in Italia da Guanda con il titolo Un uomo solo), dedicandolo all’amico Gore Vidal.
Il romanzo rievoca la giornata qualsiasi di un anziano professore californiano, alle prese con se stesso, i suoi studenti, e l’entusiasmo per una notte passata assieme a un giovane universitario incontrato per caso durante la giornata.
Dal 1953 fino alla morte, Isherwood ha vissuto col suo compagno, il pittore e ritrattista Don Bachardy.
Bibliografia Norman Page, Auden and Isherwood: the Berlin years (2000) Peter Parker, “Isherwood: the biography” (2004) Dennis Altman, Omosessuale, oppressione e liberazione, Arcana, Roma 1974.
“La bellezza salverà il mondo”, scriveva Fyodor Dostoyevsky.
E il film di Tom Ford, “A Single Man”, dimostra la verità di questa affermazione.
Una pellicola attesa dato che uno dei creatori di moda più geniali e importanti del mondo ha diretto una storia tanto personale quanto universale.
Liberamente adattato dal toccante romanzo di Christopher Isherwood, “A Single Man” è una storia d’amore, segnata da un lutto e da un uomo che, nonostante abbia tutto nella vita, non trova più le ragioni per continuare.
Fino a quando, grazie ad una vecchia amicizia con una donna e ad un giovane ragazzo attratto da lui, capirà che le piccole cose sono importanti.
E che la bellezza che ci circonda ci può riconciliare anche con la fine.
La morte fa parte della vita, ed è l’unico aspetto che accomuna l’esistenza di ogni essere umano.
Ambientato a Los Angeles nel 1962 durante la crisi dei missili successiva all’invasione USA a Cuba, “A Single Man” è la storia di George Falconer, un professore inglese di 52 anni che cerca di dare un senso alla propria vita dopo la morte del suo compagno Jim.
Egli indugia nel passato e non riesce a immaginarsi un futuro, ma una serie di eventi e di incontri lo porteranno a decidere se ci sia o no un significato nel vivere senza Jim.
George viene confortato da una cara amica, Charley, una bella donna di 48 anni a sua volta assalita da dubbi sul futuro.
Kenny, un giovane studente di George alla ricerca di una ragione che giustifichi la sua natura omosessuale, perseguita il professore identificandolo come anima gemella.
A Single Man Titolo originale: A Single Man Nazione: U.S.A.
Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 99′ Regia: Tom Ford Cast: Colin Firth, Julianne Moore, Matthew Goode, Ginnifer Goodwin, Nicholas Hoult, Paulette Lamori, Lee Pace, Keri Lynn Pratt, Ryan Simpkins, Teddy Sears, Ridge Canipe Produzione: Artina Films, Depth of Field, Fade to Black Productions Distribuzione: – Archibald Film di Vania Taxler, nel gennaio 2010 Data di uscita: Venezia 2009 Nei cinema: gennaio 2010 Colin Firth, divenuto famoso grazie al film “Il Diario di Bridget Jones”, è nato il 10 Settembre 1960 a Grayshott, Hampshire, in Inghilterra.
I genitori sono entrambi insegnanti, i nonni, invece, erano missionari metodisti.
Colin ha una sorella, Kate, che insegna canto, ed un fratello Jonathan, anche lui attore, (“Luther”).
Dopo aver trascorso i primi cinque anni della sua vita in Nigeria torna in Inghilterra per frequentare le scuole a Winchester.
A causa degli impegni di lavoro del padre per un anno si trasferisce in America, a St.
Louis, nel Missouri, dove è soprannominato dai suoi compagni l’inglese.
Poi, quando torna in Inghilterra, i suoi amici inglesi lo chiamano lo yankee.
La sua passione per la recitazione nasce fin dalle elementari, quando interpreta Jack Frost in una recita di Natale.
All’età di 14 anni decide di diventare un attore, e si iscrive al Drama Centre a Chalk Farm, a Londra.
Qui viene notato il suo talento, ed è grazie alla sua interpretazione di Amleto nella rappresentazione scolastica di fine anno, che decolla la sua carriera.
Notato nello spettacolo, infatti, Colin viene chiamato per interpretare il ruolo del protagonista, Guy Bennett, nel dramma teatrale “Another Country”, rappresentato al West End.
Curiosamente il suo debutto cinematografico, nel 1984, è nella trasposizione cinematografica della stessa opera, dove, questa volta, veste i panni di Tommy Judd, l’amico del protagonista, che invece è interpretato da Rupert Everett.
Nonostante la confidenza trasmessa sul grande schermo, tra i due non c’è molta simpatia, anche se, a detta dello stesso Colin, pare che con gli anni, i due siano riusciti ad appianare le divergenze, tanto da riuscire a divertirsi quando si ritrovano sul set di “L’importanza di chiamarsi Ernesto” nel 2002.
Durante le riprese del film “Valmont” di Milos Forman, 1989, incontra Meg Tilly, e dal loro amore, nel 1990, nasce il loro primo figlio, William.
Dopo cinque anni, però, la loro relazione finisce.
I rapporti rimangono comunque amichevoli anche per via del piccolo Will, che attualmente vive negli Stati Uniti con la mamma.
Il 21 Giugno del 1997 sposa Livia Giuggioli, produttrice italiana, conosciuta durante le riprese di “Nostromo”.
La coppia ha due figli, Luca e Matteo, nati rispettivamente nel 2001 e 2003.
La famigliola passa il suo tempo tra Londra e Roma, dove i coniugi Firth hanno comprato una casa.
L’attore ama molto l’Italia e durante un’intervista ha espresso il desiderio di recitare sotto la regia di Gabriele Muccino.
Filmografia (2009) A Single Man – George (2009) Dorian Gray – Lord Henry Wotton (2009) A Christmas Carol – Fred (voce) (2008) Genova – Joe (2008) Un matrimonio all’inglese – Jim Whittaker (2007) St.
Trinian’s – Geoffrey Thwaites (2008) Un marito di troppo – Richard Bratton (2008) Mamma Mia! – Harry Bright (2007) Quando tutto cambia – Frank (2007) And When Did You Last See Your Father? – Blake Morrison (2007) L’ultima legione – Aurelio (2005) Nanny McPhee (Tata Matilda) – Mr.
Brown (2005) False verità – Where the truth lies – Vince Collins (2004) Che pasticcio, Bridget Jones – Mark Darcy……