IV Domenica di Avvento

IV DOMENICA DI AVVENTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Michea 5,1-4a          Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me  colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti.
Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele.
Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra.
Egli stesso sarà la pace!».
    v Il profeta Michea è un contemporaneo di Isaia (VIII secolo).
In questo passo egli dedica la sua attenzione non a Gerusalemme, ma a Betlemme, la città che ha dato i natali a Davide.
A distanza di anni i discendenti di Davide non hanno ancora assolto alla loro missione.
Occorre che venga un discendente particolare che darà origine a un nuovo inizio.
Da Betlemme infatti verrà il Salvatore, discendente di Davide.
     Il testo profetico non è esplicito, però lo diventa alla luce del NT e anche del vangelo odierno.
Il sussultare di Giovanni nel seno di sua madre alla presenza di un altro feto, si capisce se pensiamo alla identità di Gesù.
Egli viene profeticamente celebrato nella prima lettura.
     Il testo di Michea è un celeberrimo vaticinio messianico.
Il messia è il centro ideale e soggetto logico, anche se non sempre grammaticale.
Di Lui si esalta la patria, Betlemme/Efrata (dal nome di un clan di Efratei che si era stanziato a Betlemme): una modesta borgata assurge al ruolo di protagonista perché da essa «uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele» (v.
1).
     I tempi non sono ancora maturi e, in attesa del grande evento, Israele sarà ancora alla mercé dei suoi nemici (cf.
v.
2).
Tra la profezia di Michea e la sua realizzazione si colloca la speranza, autentico motore della storia di Israele.
     La figura del Messia è caratterizzata come il pastore che «pascerà con la forza del Signore»: affiora un tema a largo spettro biblico (cf.
Ez 34; Gv 10).
La espressione «con la maestà del nome del Signore, suo Dio» suona un po’ barocca, ma serve all’autore a far capire che Dio si impegna personalmente; per noi è facile leggere tra le righe la divinità del Messia (cf.
v.
3).
     Il v.
4 conclude l’oracolo profetico e ne riassume il significato: la pax davidica fu effettivamente vissuta nei primi anni del regno di Salomone.
Ora la storia freme verso il futuro e colui che nascerà porterà la vera pace, lui chiamato «principe della pace» (Is 9,8).
  Seconda: Ebrei 10,5-10          Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”».
Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà».
Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo.
Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
       v La Bibbia ha sempre di mira una visione ‘olistica’ della realtà: la sola prospettiva biologica non basta a garantire la grandezza della vita.
Che a colui che doveva nascere fossero riconosciuti indiscussi segni di grandezza morale, lo avevano detto bene le due precedenti letture: sia la muta testimonianza di Giovanni o quella esplicita di Elisabetta, sia il messag-gio della profezia di Michea.
La presente lettura ha il merito di interpretare la piena consapevolezza del Messia e il suo totale ingaggio a favore dell’umanità.
     La lettera agli Ebrei parla della morte di Gesù servendosi del linguaggio cultuale dell’AT.
Gli ordinamenti cultuali antichi avevano funzione preparatoria e quindi transitoria.
Non era ancora giunto quanto Dio desiderava.
Poi arriva Cristo con l’offerta della sua vita.
L’Autore trova un prezioso parallelo nel Sal 40 che egli cita nel testo greco dei LXX.
     La pienezza della vita viene raggiunta con il dono della medesima, perché solo allora si tocca il vertice dell’amore di Dio («Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà») e dell’amore del prossimo («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» Gv 15,13).
    Vangelo: Luca 1,39-45          In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.
E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
       Esegesi      Troviamo ora insieme due donne, Elisabetta e Maria, che in precedenza Luca aveva presentato separatamente.
Se un filo di soprannaturale comunione le legava già prima, in quanto parte attiva del progetto amoroso di Dio, ora hanno l’opportunità di incontrarsi e di comunicare.
     Il brano si compone di due parti, introdotte da un quadro di riferimento cronologico-geografico: dopo l’evento dell’annunciazione, Maria si trasferisce dal nord (Nazaret) al sud (città di Giuda) (cf.
v.
39).
In tale contesto si colloca dapprima l’incontro delle due madri (vv.
40-45), quindi la preghiera di Maria, il Magnificat, nata in quell’occasione e per quell’occasione (vv.
45-48; in realtà continua fino al v.
55, ma il testo liturgico si interrompe prima).
Dal confronto delle due parti, vediamo che la prima è dominata dalla parola di Elisabetta, mentre la seconda dalla parola di Maria.
Due madri che, ciascuna a proprio modo, cantano un inno alla vita.
     Dopo la stupenda esperienza di Nazaret che la promuoveva a ruolo di ‘Madre di Dio’, Maria non appare una creatura beata in se stessa, isolata nella sua intimità divina, bensì un essere corporeo, fatto di concretezza, di sensibilità e di disponibilità.
Ella lascia la mistica tranquillità della sua casa e si mette in strada.
Non viene detto espressamente il motivo del viaggio; tutto lascia pensare che la causa sia da ricercare nell’annuncio angelico: Maria era stata informata che la parente Elisabetta era al sesto mese di gravidanza (cf.
v.
37).
Il fatto che ella si fermerà tre mesi, giusto il tempo perché il bambino possa nascere, permette di concludere che effettivamente Maria intenda recare aiuto alla futura mamma.
Ella si muove e va là dove la chiama l’urgenza di un bisogno.
«In fretta» esprime la sollecitudine di recare il giovanile aiuto all’anziana parente.
L’amore al prossimo, anche in questo caso, testimonia l’autenticità dell’amore a Dio.
     Non sono fornite indicazioni geografiche, se non un generico «verso la regione montuosa, in una città di Giuda».
Una tradizione del VI secolo identifica il luogo con Ein Karem, la cui scelta è forse dovuta alla bucolica serenità del luogo e al fatto di essere equidistante da Gerusalemme e da Betlemme.
A noi interessa rilevare lo spostamento da Nazaret, al nord, verso la Giudea, al sud, con un percorso di circa 150 Km che richiedeva circa tre giorni di cammino.
Da questo cammino, non privo di fatica e di disagi, verrà la possibilità di un incontro e quindi della lode.
Cammino, incontro e lode sono quindi i tre segmenti che costruiscono l’armonia di questo racconto.
     Maria si mette in cammino.
Grazie a lei anche Gesù, prima ancora di nascere, è in movimento verso gli altri, profetico anticipo della sua missione itinerante che intende portare a tutti la parola che aiuta e che salva.
Luca utilizza l’episodio per mettere alla luce quanto si era compiuto nell’intimità di Nazaret, che solo con il dialogo con un’interlocutrice poteva lasciare la sua segretezza e la sua dimensione individuale.
     La prima scena è dominata da Elisabetta e dalle sue parole; non va dimenticato che queste si sprigionano dal suo animo quando sono sollecitate da Maria.
Due eventi causano e spiegano tali parole.
Il primo, apparentemente ordinario, è l’ingresso di Maria nella casa di Zaccaria con il conseguente saluto rivolto a Elisabetta.
È una felice ‘provocazione’.
Il saluto origina il secondo evento, il sussulto del bambino di Elisabetta che sembra riconoscere la voce di Maria e, più ancora, sembra relazionarsi a colui che ella porta in grembo.
     L’incontro delle due madri è l’occasione per l’incontro dei due figli che portano in grembo, Giovanni e Gesù.
Su di loro riposa lo spessore teologico del brano.
Si instaura ancora a livello di feto quella dipendenza gerarchica, un misto di servizio incondizionato e di gioia piena, che caratterizzerà la vita di Giovanni.
Egli testimonierà: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo: Ora questa mia gioia è compiuta.
Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,29-30).
Al presente c’è una percezione che si riverbera in un sussulto di gioia.
Le due madri sono ‘arche sante’, ‘ostensori sacri’ di due esseri destinati l’uno a tratteggiare la via, l’altro ad essere lui stesso via.
La scena, pur dominata dalle due madri, ha il suo fulcro nella percezione che Giovanni ha di Gesù e nell’implicito riconoscimento della sua grandezza.
     Effettivamente le parole di Elisabetta documentano che lo spessore teologico attraversa i ‘concepiti’ più che le madri: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (vv.
42-43).
Con una espressione semitica che equivale a un superlativo («fra le donne»), Maria viene celebrata per la sua funzione o carisma (essere «Madre del mio Signore») e per la sua adesione incondizionata a tale vocazione.
A lei vengono riservate una benedizione («benedetta tu») e una beatitudine («beata»).
     La benedizione è una formula tipica dell’AT, dove il verbo ebraico barak e il sostantivo derivato berakah si trovano ben 398 volte.
Secondo diversi studiosi, la radice ebraica brkh è collegata a berekh (= ginocchio) creando il nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi, tipico atto di adorazione e di omaggio alla divinità.
Nella Bibbia le benedizioni si dividono in ‘ascendenti’ quando celebrano Dio per qualche intervento (cf.
Sal 41,14) e ‘discendenti’ quando si invoca la potenza di Dio su qualcuno o su qualcosa (cf.
Nm 6,24-27) o quando è lo stesso Dio a benedire (cf.
Gn 1,28).
La benedizione è un dono che ha rapporto con la vita; possiamo affermare che la ricchezza fondamentale della benedizione è quella della vita e della fecondità: questo vale tanto per la terra, quanto per le persone (cf.
Dt 28,1-14).
Lo vediamo bene nel nostro passo, quando alla benedizione per Maria viene affiancata quella per il figlio: «e benedetto il frutto del tuo grembo!».
Maria viene celebrata proprio per la sua maternità.
Così la benedizione viene da Dio e a Lui ritorna ora sotto forma di invocazione e di preghiera; è un riconoscere quello che Lui ha fatto.
     La beatitudine del v.
45 la prima del vangelo di Luca, certifica l’adesione di Maria alla volontà divina.
Ella quindi non è solo destinataria privilegiata di un arcano disegno che la rende benedetta, ma pure persona responsabile che accetta e aderisce.
Maria non è una creatura che sa, ma una creatura che crede, perché si è aggrappata ad una parola nuda che ella ha rivestito di amore.
Ora Elisabetta le riconosce questo amore, espresso con «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto», e la celebra come la prima di tutte le donne.
Maria va da Elisabetta per un servizio domestico, Elisabetta le restituisce il servizio liturgico della lode, riconoscendola benedetta come madre e beata come credente.
     Il ‘cantico di Elisabetta’ (cf.
vv.
42-45), dono dello Spirito, pubblicizza per il lettore e per il credente il mistero che Maria pensava affidato alla segretezza della sua intimità.
Non esiste rapporto autentico con Dio che non abbia la possibilità di diventare ‘pubblico’: questo è il concetto fondamentale di carisma e Maria ha in primis il carisma di essere la «madre del mio Signore», come le riconosce la parente.
L’incontro di due madri in attesa, diventa l’incontro del frutto che hanno in grembo; Giovanni percepisce la presenza del suo Signore ed esulta, esprimendo con il suo sussultare la gioia a contatto con la salvezza, che Maria potrà formalizzare nel canto che segue.
  Meditazione      «Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto» (Lc 1,78).
Così aveva profetato Zaccaria nel suo cantico di lode per la nascita prodigiosa del figlio Giovanni.
Ora la visita di Dio si fa prossima; il suo volto si sta intessendo nel grembo di una vergine, Maria; colui che è chiamato «profeta dell’Altissimo», colui che andrà «innanzi al Signore a preparargli le strade» (Lc 1,76), già ne riconosce la presenza e ancora nel seno della madre, Elisabetta, esulta di gioia messianica.
La liturgia della IV domenica di Avvento ci orienta ormai al cuore del mistero: Dio non solo visita il suo popolo, ma sceglie di dimorare stabilmente in mezzo ad esso.
L’irruzione di Dio nella storia dell’umanità ha sempre qualcosa di inatteso e ogni visita di Dio opera una sorta di capovolgimento dei criteri e delle attese dell’uomo.
E così Dio sceglie uno sconosciuto villaggio della Palestina, Betlemme, «così piccolo per essere tra i villaggi di Giuda» per rivelare «colui che deve essere il dominatore di Israele», colui che «pascerà con la forza del Signore», colui che «sarà la pace» (cfr.
Mi 5,1-4).
Lo sguardo di Dio si posa, con infinita gratuità, su una povera ragazza di Nazaret, Maria; sarà lei a dare un corpo e un volto umano all’Emmanuele.
In Maria, il Figlio di Dio può dire: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato» (Eb 10, 5; citazione del Sal 40,7-9).
E così, fedele al suo amore per i piccoli, Dio rivela i primi frutti della sua visita all’umanità nell’incontro tra due donne che portano nel loro grembo la vita e che si accolgono l’un l’altra riconoscendo reciprocamente ciò che Dio ha operato in ciascuna di loro.
Maria ed Elisabetta, custodi del dono di Dio, diventano l’icona dell’umanità visitata dalla misericordia di Dio.
Attraverso il racconto di Luca, cerchiamo allora di cogliere la qualità di questo incontro e i frutti che da esso scaturiscono.                                               Anzitutto dobbiamo riconoscere che l’incontro tra Maria ed Elisabetta è una esperienza della forza della parola di Dio che agisce nella vita di chi sa accoglierla.
Elisabetta dirà a Maria: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45).
È questa la prima beatitudine: credere nell’efficacia della parola di Dio, poggiare la propria vita sulla fedeltà di Dio alla sua promessa come su di una roccia.
È ciò che permette al Signore di vivere ‘oggi’ nel credente che lo ascolta.
A chi proclamava la beatitudine e la gioia della maternità di Maria, Gesù risponderà proprio con questa prima e fondamentale beatitudine: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28).
Ed è per questo che Maria ed Elisabetta non possono fare altro che rileggere tutta la loro esperienza alla luce della parola di Dio che permette una comprensione profonda dei segni di cui sono protagoniste, segni in cui si riconosce l’onnipotenza di Dio.
Ogni parola e ogni gesto di questo incontro portano impresso il sigillo della Scrittura trasformandosi così nell’abbraccio tra la Prima e la Seconda Alleanza, tra la promessa e il compimento.
Davvero solo la parola di Dio può permetterci di riconoscere quando il Signore ci visita e quali frutti ci porta.
               Alla luce della Scrittura, allora noi possiamo cogliere più in profondità il senso di questo incontro.
Esso non è solamente la commozione tra due donne per la gioia della loro maternità così straordinaria e singolare.
Il saluto di Maria (aspasmon, termine che ritorna tre volte) provoca qualcosa di speciale: in Elisabetta che «fu colmata di Spirito Santo» (v.
41) e nel bambino che portava in sé, che «ha sussultato di gioia nel suo grembo» (v.
44).
Lo Spinto santo e la gioia sono due doni tipicamente messianici segni della presenza e dell’incontro con il Signore che visita il suo popolo, doni che Maria ha riconosciuto in se con l’annuncio dell’angelo (cfr.
1, 28.35) e che ora comunica ad Elisabetta (quasi una eco di quella Parola da cui tutto ha avuto inizio e da cui tutto proviene).
Ed è significativo che lo spazio in cui questi doni sono comunicati è l’ascolto: «appena…
ebbe udito il saluto di Maria…
appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi…» (vv.
41.44).
È l’ascolto il luogo in cui si riconosce la presenza del Signore e in cui si accoglie la sua parola; e riconoscere la voce di Dio produce gioia e comunica lo Spirito.
Ci soffermiamo allora su questi due doni che scaturiscono dalla visita di Dio, di quel Dio portato nel grembo di Maria, come nell’arca dell’Alleanza, ad Elisabetta (che riconosce in Maria «la madre del mio Signore», v.
43).
            Alla presenza di Maria e alla voce del suo saluto, Elisabetta «fu colmata di Spirito Santo» (v.
42).
Colei che è «piena di grazia» e sulla quale lo Spirito Santo è sceso, diventa pneumatofora, portatrice di Spirito, capace di comunicare ad altri lo Spirito di Dio.
Ed è lo Spirito, accolto da Elisabetta attraverso l’ascolto della voce di Maria, a permettere di riconoscere la presenza di Dio in questo incontro.
Sembra quasi che Luca abbia voluto anticipare la Pentecoste, che narrerà poi in At 2,1-4 (in cui sarà ancora presente Maria insieme agli apostoli nella camera alta: At 1,13-14).
Elisabetta e Giovanni passano così dall’economia della legge a quella dello Spirito, quasi formando un nucleo iniziale di Chiesa.
                 La potenza dello Spirito Santo, comunicato da Maria, investe anche Giovanni nel grembo di sua madre e lo fa trasalire, saltare e danzare di gioia (vv.
41.44; chiara è l’allusione alla danza di Davide di fronte all’arca in 2Sam 6,14-16).
La gioia, di fatto, investe tutta la scena.
È una gioia ‘viscerale’, profonda, che, attraverso il dono dello Spirito, sgorga dal riconoscimento di una promessa attesa da secoli e che finalmente trova il suo compimento.
Ed è una gioia tanto più intensa quanto più lunga era stata l’attesa; una gioia vissuta dapprima nell’esultanza delle viscere e poi celebrata dal cuore e dalle labbra delle due donne.
In questa gioia, i Padri (in particolare Origene) hanno anche voluto sottolineare l’incontro e il riconoscimento dei due figli ancora nel grembo materno: colui che cammina davanti al Messia ne riconosce la presenza e lo testimonia, lo annuncia (euangelion) non con la voce di chi grida nel deserto, ma con la gioia comunicativa del bambino.
Giovanni prenderà coscienza di questa gioia quando dirà: «L’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo.
Ora questa mia gioia è piena» (Gv 3,29).
       La semplice gioia di un bambino non ancora nato e comunicata dalle labbra della madre compie il suo corso trovando spazio nel cuore di Maria.
E diventa un canto, il Magnificat.
E in esso Maria riconosce la verità di tutto ciò che Elisabetta e il suo bambino le hanno detto.
Davvero il Signore l’ha visitata, l’ha riempita di Spirito Santo e di gioia: «Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (1, 48).
             Come Maria, il credente che ha saputo riconoscere la visita di Dio nella sua vita attraverso quella parola che ha cercato di ascoltare, custodire, mettere in pratica, diventa missionario: capace di annunciare e comunicare il dono di Dio.
E il dono di Dio è la gioia nello Spirito Santo, la lieta notizia che è Gesù.
  Preghiere e Racconti   Andiamo fino a Betlem Andiamo fino a Betlem, come i pastori.
L’importante è muoversi.
Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro.
E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.
Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio.
Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura.
Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.
(don Tonino Bello)   C’era una volta un lupo C’era una volta un lupo che viveva nei dintorni di Betlemme.
I pastori lo temevano e vegliavano l’intera notte per salvare le loro greggi.
C’era sempre qualcuno di sentinella, così il lupo era ogni volta più affamato, scaltro e arrabbiato.
Una strana notte, piena di suoni e luci, mise in subbuglio i campi dei pastori.
L’eco di un meraviglioso canto di angeli era appena svanito nell’aria.
Era nato un bambino, un piccino, un batuffolo rosa, roba da niente.
Il lupo si meravigliò che quei rozzi pastori fossero corsi tutti a vedere un bambino.
“Quante smancerie per un cucciolo d’uomo” pensò il lupo.
Ma incuriosito e soprattutto affamato com’era, li seguì nell’ombra a passi felpati.
Quando li vide entrare in una stalla si fermò nell’ombra e attese.
I pastori portarono dei doni, salutarono l’uomo e la donna, si inchinarono deferenti verso il bambino e poi se ne andarono.
L’uomo e la donna stanchi per le fatiche e le incredibili sorprese della giornata si addormentarono.
Furtivo come sempre, il lupo scivolò nella stalla.
Nessuno avvertì la sua presenza.
Solo il bambino.
Spalancò gli occhioni e guardò l’affilato muso che, passo dopo passo, guardingo, ma inesorabile si avvicinava sempre più.
Il lupo aveva le fauci socchiuse e la lingua fiammeggiante.
Gli occhi erano due fessure crudeli.
Il bambino però non sembrava spaventato.
“Un vero bocconcino” pensò il lupo.
Il suo fiato caldo sfiorò il bambino.
Contrasse i muscoli e si preparò ad azzannare la tenera preda.
In quel momento una mano del bambino, come un piccolo fiore delicato, sfiorò il suo muso in una affettuosa carezza.
Per la prima volta nella vita qualcuno accarezzò il suo ispido e arruffato pelo, e con una voce, che il lupo non aveva mai udito, il bambino disse: “Ti voglio bene, lupo”.
Allora accadde qualcosa di incredibile, nella buia stalla di Betlemme.
La pelle del lupo si lacerò e cadde a terra come un vestito vecchio.
Sotto, apparve un uomo.
Un uomo vero, in carne e ossa.
L’uomo cadde in ginocchio e baciò le mani del bambino e silenziosamente lo pregò.
Poi l’uomo che era stato un lupo uscì dalla stalla a testa alta, e andò per il mondo ad annunciare a tutti: “È nato un bambino divino che può donarvi la vera libertà! Il Messia è arrivato! Egli vi cambierà!”.
La venuta del Signore Noi aspettiamo il giorno anniversario della nascita di Cristo: il nostro spirito dovrebbe come slanciarsi, pazzo di gioia, incontro al Cristo che viene, tutto teso in avanti con un ardore impaziente, quasi incapace di contenersi e di sopportare ritardo…
Chiedo per voi, fratelli, che il Signore, prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi nel vostro intimo.
Questa venuta del Signore, sebbene nascosta, è magnifica, e getta l’anima che contempla nello stupore dolcissimo dell’adorazione.
Lo sanno bene coloro che ne hanno fatto l’esperienza; e piaccia a Dio che quelli che non l’hanno fatta ne provino il desiderio! (GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, II, 2-4).
  Quando Dio spera… …non è per lo spazio d’una notte che Dio spera contro speranza.
  Mendicante sconosciuto, instancabilmente percorri i lidi delle notti umane, ombra tra le ombre innumerevoli dei senza speranza.
Nella tua bocca muta si spengono i singhiozzi, ma tu vorresti gridare, anche tu, perché questo grido se ne vada, come un’eco diversa,                       come un richiamo nuovo, a confondersi con il lamento crescente, con le grida degli assetati di luce con il terribile silenzio dei pianti soffocati, e non resta che aprirsi al vuoto dei marosi grigi, all’alba che si accende non veduta.
Sul lido delle notti umane, sei il Dio senza voce.
Poiché la tua Parola fu detta in un giorno del tempo.
L’ hai pronunciata tutta,                             l’hai gridata sino alla fine, sino all’ultimo respiro del tuo Figlio.
Ma quando fu compiuta la tua Parola nella sua pienezza, per te, Dio, venne il tempo della speranza nuda, della speranza muta, della speranza contro ogni speranza.
  Preghiera della quarta domenica di Avvento Dio eterno, Dio sempre nuovo, inafferrabile, Dio di alleanza, Dio di libertà, dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti? dove si annuncia la tua venuta? La tua Parola ci rassicuri, o Padre degli uomini, Dio della promessa, ora e sempre.
  Presenza imprevedibile, Dio di lunga pazienza, Signore dell’impossibile, noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo della tua venuta.
Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato per scoprire, per svelare, per generare, non cessiamo di pregarti: il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno, all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo, nostro fratello e nostro Signore, per sempre.
(Nicole Berthet).
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
   

Spidlík

L’intervista Eminenza, qual è il bilancio dei suoi 90 anni e in sintesi del suo Novecento? «Guardando indietro, sono stupito dei grandi segni della Provvidenza che mi ha protetto nei difficili periodi del Novecento: la crisi dopo la prima guerra mondiale, l’occupazione nazista, il totalitarismo comunista, la ricerca dell’identità nell’esilio.
L’inno nazionale della Cechia comincia con le parole: dov’è la mia patria? La mia risposta è semplice: sono ciò che sono nato e ringrazio tutti gli altri Paesi, soprattutto l’Italia, che mi hanno aiutato a sviluppare attraverso lo studio e la spiritualità ciò che mi fu impedito nella mia terra natale».
Lei ha conosciuto bene uno dei grandi testimoni del Novecento, Giovanni Paolo II.
Qual è il suo ricordo? «Era un Papa slavo e forse anche per questo ci siamo ben compresi, da subito, riguardo al suo amato aforisma “respirare a due polmoni”.
In questo spirito ho cercato di predicare gli esercizi spirituali nel 1995 alla Curia romana, dopo i quali è nata l’idea di costruire la cappella Redemptoris Mater che è stata realizzata nel 1999.
A mio giudizio con la costruzione di questo luogo di culto dentro il Vaticano e l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor Hominis e le domande di senso racchiuse in quel testo, come ad esempio la parte dedicata ai diritti dell’uomo, si chiude in un certo senso la parabola del Novecento con le sue tragedie».
Si narra che Karol Wojtyla fosse edificato ma anche divertito dalla sua capacità di predicare… «Il Papa rideva e scherzava volentieri.
Una volta ci incontrammo nel corridoio del Palazzo apostolico e voleva benedirmi.
Io gli dissi: Santo Padre non posso inginocchiarmi, ho male alle gambe.
E lui rispose: anch’io.
Meno male, Santo Padre, che cominciamo dalle gambe e non dalla testa, gli feci io…».
Leggendo la sua biografia, salta subito all’occhio il gran numero di lingue nelle quali le sue opere sono state tradotte.
«Ci sono tante traduzioni, è vero, ma non è colpa mia! Ad esempio un mio libro uscì molti anni fa, prima della guerra in Iraq, in arabo col permesso di Saddam Hussein.
Altri volumi sono usciti in Egitto.
In neogreco sono tradotti i manuali, mentre i romeni traducono praticamente tutto.
Prima si usavano i miei libri in francese, come seconda lingua; poi i giovani sono diventati anglofoni, ma ora li traducono in romeno e persino in russo».
Che cosa l’Oriente cristiano può significare e dare come patrimonio culturale all’Europa e all’Occidente di oggi? «Credo che l’Oriente cristiano potrà ora dare un suo contributo veramente efficace.
Il motivo è semplice: gli slavi sono stati gli ultimi ad essere stati battezzati e proprio per questo il loro apporto, rispetto ad altre culture europee, è entrato più tardi nella coscienza universale.
Il grande Solov’ëv riteneva che questo apparente deficit fosse un segno provvidenziale per il ruolo <+corsivo>in fieri<+tondo> che proprio gli slavi avrebbero potuto giocare nella società che verrà ma anche per il futuro del cristianesimo».
Il cardinale Giacomo Biffi nel 2007, durante gli esercizi spirituali alla Curia romana, citando l’«Anticristo» di Solov’ëv, ha detto che esso potrebbe celarsi oggi in un pacifista così come in un ecologista, annacquando così l’essenza del messaggio cristiano.
Qual è la sua opinione a riguardo? «Concordo con la preoccupazione del cardinale Biffi.
L’Anticristo viene presentato come l’uomo ideale, che pensa di risolvere tutti i problemi umani adoperando bene la ragione e la volontà, ma senza Cristo.
Il suo successo finisce in una catastrofe mondiale.
Il rischio, a ben vedere, è in fondo evidente, seppur con connotati diversi, anche nella nostra cultura e mentalità corrente, che vuole vivere senza Dio».
Citando il suo amato Dostoevskij sarà, secondo lei, la bellezza a salvare il mondo? «Credo di sì.
Anche Solov’ëv amava citare questa frase.
Il suo significato più autentico è quello di superare l’aspetto estetico.
Il “bello” è ciò in cui si riesce a vedere un elemento che lo supera, elevandolo.
Il carbone e il diamante, ad esempio, sono chimicamente uguali.
Eppure il carbone è brutto perché in esso non vediamo nient’altro.
Al contrario il diamante è bellissimo perché vi risplende la luce.
I gradi della bellezza sono diversi.
Ma non c’è dubbio che la sintesi e il paradosso di tutto questo è racchiuso nella figura del Cristo, che raccolse su di sé le grandezze ma anche le miserie dell’umanità nell’Incarnazione».
L’opera di questo gesuita sembra una lunga citazione (140 libri e più di 600 articoli, tradotti in tutto il mondo, tra questi gli ultimi due saggi scritti per la Lipa nel 2007 Maranatha.
La vita dopo la morte e Il monachesimo).
Ma dietro al cordiale sorriso e alla flemma di questo cardinale si annida la speranza ecumenica di sempre sul futuro del Vecchio Continente: che la Chiesa di Occidente impari, secondo la celebre frase del poeta russo Vjaceslav Ivanov, a «respirare con ambedue i polmoni».
Dal Centro Ezio Aletti, nel cuore di Roma a pochi passi dalla basilica di Santa Maria Maggiore, il cardinale gesuita Tomás Spidlík, che domani, 17 dicembre, compirà 90 anni rilegge il suo Novecento con grande gratitudine per i doni ricevuti.
Circondato dalle icone della spiritualità orientale e dai dipinti e mosaici del suo confratello Marko Ivan Rupnik tornano alla mente di questo anziano porporato, nato nel 1919 a Boskovice in Moravia, come in un album dei ricordi, i grandi autori, da Pavel Florenskji all’amato Teofane il Recluso, che hanno costellato la sua vita di intellettuale cattolico più studiato nel mondo ortodosso per la sua conoscenza della spiritualità dell’Oriente cristiano.

Nei cinema italiani a Natale

Piovono film sugli schermi di Natale, qualcuno in sintonia con lo spirito delle feste, altri destinati a chi fugge da impegno e riflessione.
Come sempre di questi tempi, insomma, ognuno troverà pane per i propri denti.
Anche se le pellicole in sala hanno spessore e qualità molto diverse.
PER BAMBINI E FAMIGLIE La nuova eroina delle più piccole sarà una fanciulla povera e con la pelle nera, in linea con la nuova era Obama, una Cenerentola riveduta e corretta da Ron Clements e John Musker ne La principessa e il ranocchio con cui la Disney fa ritorno all’animazione tradizionale in 2D.
Ai maschietti piacerà invece Astroboy, una sorta di Pinocchio fantascientifico che a 58 anni dalla sua nascita per mano di Osamu Tezuka arriva sul grande schermo con la voce di Silvio Muccino.
In Piovono polpette, invece, un inventore un po’ folle trova il modo di trasformare la pioggia in leccornie da immagazzinare durante la crisi economica, mentre lo spagnolo Planet 51 racconta di un astronauta sbarcato per sbaglio su un pianeta dove sono i terrestri ad essere considerati temibili alieni.
Porta sullo schermo uno dei racconti natalizi per eccellenza, ma non è adatto ai più piccoli, A Christmas Carol, prodigio di animazione tridimensionale, mentre Land of the Lost propone la classica avventura di una famigliola perdutasi in un’altra dimensione spazio-temporale.
LE COMMEDIE Se in Io e Marilyn Leonardo Pieraccioni riflette sul ruolo di padre e sulle famiglie allargate grazie al fantasma della Monroe, anche il postino protagonista di Il mio amico Eric di Ken Loach risolverà i suoi problemi con l’aiuto di un amico immaginario, il calciatore Cantona.
Mentre continua il suo fortunato percorso Cado dalle nubi di Checco Zalone, aspirante musicista pugliese emigrato a Milano, la famiglia, in particolare il rapporto tra padri e figli nell’Italia del Sud degli anni Sessanta, è al centro de L’uomo nero di Sergio Rubini, mentre George Clooney ironizza su vecchi, presunti esperimenti dell’esercito americano in L’uomo che fissa le capre.
PER RIFLETTERE Remake del film danese di Susanne Bier, Brothers di Jim Sheridan racconta di un marine che, dato per morto ma risbucato dall’inferno, ritorna in famiglia profondamente traumatizzato dall’orrore subito.
Ne Il canto delle spose, ambientato nella Tunisi del 1942, Karin Albou propone una storia di conflitti razziali e di oppressione sulle donne, mentre nel documentario Debito di ossigeno di Giovanni Calamari due famiglie confessano il dramma della perdita del lavoro.
Il tema dell’immigrazione clandestina e dell’intolleranza sono invece al centro di Welcome del francese Philippe Lioret.
UN NATALE DIVERSO Per chi detesta i film di Natale a Natale c’è Sherlock Holmes di Guy Ritchie in cui il celebre detective e il suo assistente Watson devono vedersela con un complotto che minaccia l’intera nazione: tra arti marziali e scazzottate i due assomigliano molto a Bud Spencer e Terence Hill.
Delude Amelia di Mira Nair, piatto e stucchevole ritratto dell’aviatrice americana che per prima attraversò l’Atlantico in solitaria, mentre ossessioni e cliché della cultura ebraica sono messi alla berlina dai Coen nella pellicola A Serious Man, e Francis Ford Coppola rivela i Segreti di famiglia di un giovane americano trasferitosi a Buenos Aires.
Michael Mann ridimensiona il mito del gangster John Dillinger in Nemico pubblico, il catastrofico 2012 di Roland Emmerich porta sullo schermo gli effetti della profezia maya e Moon di Duncan Jones affronta il tema del doppio in un film di fantascienza teorico e concettuale.
da Avvenire 19 12 2009

E viene Natale

AGOSTINO MANTOVANI, E viene Natale.
Pensieri e riflessioni, Infinito Edizioni, Castel Gandolfo (RM), 2009,  Isbn: 78-88-89602-68-3,  pp.118, Euro 12,00 Natale che viene, tempo di auguri.
Ci sono stati altri Natali che ricordiamo, perché il tempo passa.
Ce ne saranno altri.
Succede da oltre duemila anni.
Chissà come saranno i prossimi.
Intanto in questo libro l’autore traccia quarantuno modi inusuali e ricchi di poesia per formulare auguri diversi dal solito, ricordando che il Natale non è e non può essere la celebrazione del consumismo, ma altro.
Ben altro.
“Il Natale è anche poesia e quella di Mantovani è leggera e leggiadra con la neve, gli aceri, i tramonti, le stagioni, i mulini a vento e tante altre immagini suggestive e delicate.
Il Natale è anche mensa famigliare che riunisce gli affetti più cari, è anche festa dei bambini e dei loro balocchi, è anche scambio di doni sotto l’albero, è anche occasione per spargere auguri (come il seminatore spargeva la semente) che talvolta riannodano antiche amicizie dal tempo sfilacciate, è anche solidarietà, anche tenerezza, anche accoglienza, anche…
Purché sia anche”.
(Aldo Ungari) “Ci avviciniamo al Natale e sarebbe cosa bella se riuscissimo a prepararci nel modo giusto: vedendo con occhi nuovi la fragilità dell’uomo – la nostra fragilità e quella degli altri – fino a farne motivo di bontà, di pazienza, di premura.
Come una riproduzione in noi della tenerezza di Dio”.
(Mons.
Luciano Monari) Scarica la scheda del libro Scarica la prefazione del libro Dello stesso genere/autore, ti consigliamo anche: Vicoli in Paradiso Il cielo in una stalla

III Domenica di Avvento anno C

III DOMENICA DI AVVENTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Sofonia 3,14-18          Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura.
In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».
    v  La prima lettura dà il là di intonazione alla liturgia odierna, invitando alla gioia.
Letta in connessione con il Vangelo, la ragione sta nella venuta del Messia, quella storica che riviviamo nel Natale, quella teologica che si attua nella vita veramente cristiana di ogni credente.
     Due minuscole unità compongono il presente brano: un invito alla gioia (vv.
14-15) e una parola di consolazione (vv.
16-18).
Le due parti hanno un comune fondamento, dato dalla presenza di Dio.
Egli non si mostra più giudice, ma amore.
Egli è ciò che il suo Nome esprime: JHWH, il Dio verace, il Dio presente, il Dio salvatore.
Per contestualizzare il brano e capire la sua esplosione festosa, occorre sapere che su Gerusalemme si era abbattuto minaccioso il giudizio divino.
I nemici erano lo strumento nelle mani della divina giustizia per mostrare la scissione avvenuta tra Dio e il suo popolo.
Ora, grazie anche alla predicazione profetica, era venuta una salutare reazione da parte del popolo, pronto alla conversione.
Il profeta gli annuncia: «Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico» (v.
75).
In termini più positivi, il Signore sta in mezzo al suo popolo, segno di una comunione ritrovata.
L’alleanza ha ripreso a palpitare, respirando con i due polmoni, quello di Dio e quello del popolo.
Qui sta primariamente la fonte della gioia, affidata al giubileo del v.
14, di cui risuona una eco nell’annuncio dell’angelo a Maria (cf.
Lc 1,28: da tradurre con «rallegrati» e non con il bolso «ti saluto»).
   L’idea del Dio in mezzo al suo popolo anima pure il brano consolatorio (vv.
16-18).
«In quel giorno» rimanda ad una situazione non facilmente definibile nel tempo, ma non per questo ipotetica.
Il suo carattere escatologico la colloca tra i grandi interventi di Dio, che prenderanno piena forma nel NT.
Dio ha sospeso il giudizio di condanna contro il suo popolo traditore: egli lo vuole salvare, solo in forza dell’incommensurabile amore verso di esso.
Lui si presenta re di Israele, e pure domina su tutti i popoli della terra.
Non si è ancora totalmente manifestata la sua potenza regale, ma l’imminente manifestazione della salvezza diventa segno, inizio e condizione di una signoria completa.
    Anche se il presente risulta difficile, chi ripone la propria fiducia nella potenza di Dio salvatore non deve temere nulla.
Di più, può contare sull’amore di Dio che rinnova e che invita alla festa (cf.
v.
18).
  Seconda: Filippesi 4,4-7          Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti.
La vostra amabilità sia nota a tutti.
Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.  E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
       v Il brano si trova nella parte conclusiva della lettera, quando è il momento delle ultime raccomandazioni, e contiene cinque frizzanti imperativi.
La scelta liturgica si spiega per il binomio gioia-vicinanza del Signore: l’invito alla gioia e l’esortazione a compiere il bene verso tutti sono motivati da Paolo con la frase che il Signore è vicino.
    Il discorso si allarga dai singoli (cf.
i precedenti vv.
2-3) alla comunità.
Questa riceve l’esortazione alla gioia, tema che attraversa tutta la lettera.
Mentre prima erano individuati motivi concreti che causavano la gioia (cf.
1,18; 2,17-18), ora l’appello è generale e insistito.
La gioia ha tre aspetti: una radice interiore, un’espressione esterna e una causa ben precisa.
La radice è il Signore: sempre si tratta di gioia in Lui («rallegratevi nel Signore»), per distinguerla nettamente da realtà che portano lo stesso nome ma che hanno contenuto diverso: qui Paolo si preoccupa di bloccare le imitazioni.
La gioia che invade l’intimo dell’individuo e della comunità, investe pure l’esterno, tutti gli altri, sotto forma di «affabilità».
Infine viene indicata la causa, consistente nell’avvicinarsi del Signore.
Questa precisazione orienta e determina il contenuto della gioia cristiana; è la presenza di Cristo che garantisce e assicura una condizione di benessere per sé e per gli altri: «L’attesa della parusia è per l’apostolo un motivo parenetico centrale» (J.
Ernst).
    La vicinanza del Signore, già reale presenza per molti aspetti, funge da deterrente contro ansie incontrollate: chi lascia operare nella propria vita la semplice parola ‘il Signore è vicino’, esperimenta già ora la pace di Dio.
Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio.
Il cri-stiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia irretire da lacci che frenano il suo impegno o che smorzano la sua serenità di fondo.
Anche sotto questo punto si comprende il precedente invito alla gioia.
Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell’esistenza cristiana ed è già stato chiaro, alludendo fin dall’inizio alle sue catene (cf.
1,13).
Ma è altrettanto convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini (cf.
in greco il verbo merimnao, lo stesso di Mt 6,25.31.34) che bloccano e rendono improduttivi; positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio di cui la «pace» del v.
7 è la sacramentalizzazione.
La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a Lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti».
Non è certo un ‘far conoscere’ qualcosa che non sa, ma è il modo per l’uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla Sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a Lui.
Colui che è capace di pregare e di ringraziare depone il suo affanno in Dio.
    Potrebbero sembrare belle parole di circostanza, se non venissero dalla vita stessa di Paolo che ha dimostrato di leggere tutto, persecuzione compresa, con gli occhi illuminati dalla luce della Provvidenza (cf.
1,15-20).
Paolo si trova in prigione quando scrive la presente lettera.
Egli pensa alla sua comunità di Filippi e pensa altresì a Cristo che ha sempre riempito la sua vita.
Egli pensa al ritorno di Cristo, mediante la morte che può giungere da un momento all’altro.
Paolo ha detto il suo sì anche a questa situazione estrema e rimane un uomo felice pur nella catena e nella incertezza del suo futuro.
L’incontro con Cristo trasforma in aurora di vita quello che, umanamente parlando, ha il sapore crepuscolare del fallimento o della repentina conclusione.
  Vangelo: Luca 3,10-18        In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?».
Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?».
Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?».
Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
       Esegesi      Nei versetti che precedono il nostro brano avevamo assistito a un vigoroso appello alla conversione, non privo di toni forti, tipici della personalità e del messaggio del Battista.
Ora il tono in parte si smorza, senza perdere vigore, e trapassa nella consolante esortazione che tutti possono concorrere a preparare degnamente la venuta del Messia.
    Il brano ha un marcato carattere esortativo.
Distinguiamo una prima parte (vv.
10-14), in cui Giovanni sollecita tre gruppi a comportarsi correttamente, da una seconda (vv.
15-17), con la testimonianza che il Precursore dà su Gesù, esortando implicitamente a seguirlo.
Il v.
18 mantiene una funzione conclusiva e sembra pure un passaggio del testimone da Giovanni a Gesù, grazie al verbo ‘evangelizzare’ («annunciava la buona novella»).
    Giovanni svolge una duplice attività: predica e battezza.
La prima è funzionale alla seconda, in quanto le sue parole devono portare le persone al pentimento.
Segno visibile di quella volontà di cambiare vita è l’acqua che i pellegrini ricevono dal Battista.
Non si tratta certo di battesimo in senso cristiano, ma comunque di ‘battesimo’, se prendiamo la parola nel suo significato etimologico di ‘immersione’.
Il battesimo-sacramento sarà possibile solo dopo la morte e risurrezione di Gesù; per il momento ci si prepara ricevendo il battesimo di Giovanni.
Esso è molto più di un semplice gesto esteriore perché implica la buona volontà di migliorare la propria esistenza alla luce della predicazione.
Non basta una decisione interiore di cambiar vita: occorre vedere anche all’esterno la novità.
Da qui l’esigenza di assumere comportamenti concreti che si indirizzano secondo le indicazioni del Battista che ha il primario compito di «dare al suo popolo la conoscenza della salvezza» (Lc 1,77).
    Nella esemplificazione dei comportamenti da tenere, passiamo a un nuovo registro dove impressiona il calore di una comprensione che apre le porte a tutti.
Non è certo ‘indulgenza’ del predicatore, ma coerenza con il messaggio che egli annuncia: un messaggio che vuole raggiungere tutti indistintamente, superando le antiche barriere che creavano steccati e divisioni: non solo tra popolo eletto e altre nazioni, ma pure all’interno degli stessi ebrei.
Incontriamo una pacata istruzione che ha tutta l’aria di essere un minicatechismo oppure un vademecum di teologia e di saggezza, di comprensione e di incoraggiamento.
Luca lascia trasparire anche qui la sua sensibilità universalista («le folle interrogavano Giovanni») Se ha una preferenza, questa va tutta per gli emarginati.
    Infatti mette sul palcoscenico del suo interesse le categorie che noi diremmo ‘a rischio’: odiati esattori di tasse che collaboravano con l’occupante romano e che spesso calcavano la mano sulla povera gente diventando autentici strozzini (cf.
5,30; 19,7), oppure soldati mercenari che facevano il gioco dei potenti.
La salvezza non ha ‘colore’ o ‘tessera di appartenenza’ come qualcuno amava, e qualche volta anche oggi ama, far credere.
La salvezza è dono di Dio, quindi espressione della gratuità del suo amore che, in quanto tale, non ha ‘corsie privilegiate’.
Tutti sono potenziali destinatari di tale dono e lo saranno effettivamente nella misura in cui si apriranno nella disponibilità della loro vita.
È a questa apertura che punta Giovanni, invitando e sollecitando tutti.
I segni di rinnovamento vertono esclusivamente sull’amore al prossimo: la gente deve imparare a condividere, i pubblicani a praticare la giustizia, i soldati a trattare con umanità.
     Oltre alla universalità, altro dato interessante per entrare nella sfera della salvezza è la normalità.
Non sono richiesti miracoli né atteggiamenti di eccezione per fruire del dono della salvezza: solo il corretto esercizio della propria professione.
È come dire che le persone si santificano nel tessuto della loro storia quotidiana, facendo bene quello che devono.
Viene valorizzata al massimo una ‘sana laicità’ intendendo per laicità l’inserimento nel tessuto della storia.
A meno che si tratti di un’attività manifestamente disonesta (per esempio il furto o la prostituzione), tutte le professioni hanno una dignità che va onorata con il proprio impegno.
Giovanni non richiede a nessuno di cambiare mestiere, esige piuttosto di vivere bene la propria vocazione.
Ottima preparazione per attendere degnamente il Messia.
     Di Lui Giovanni parla con vigore, alzando le note nel rigo della sua testimonianza.
Compito di Giovanni è solo preparatorio, preparare «un popolo ben disposto» (Lc 1,17).
Egli prepara la strada a chi viene dopo di lui, al Messia.
Egli si dimostra ben vaccinato contro il virus da protagonismo e dichiara apertamente di non essere il Messia.
Questi gode di una dignità che non ha confronto.
Essa viene espressa negativamente con la distinzione tra i due, e positivamente per il contenuto della missione di Gesù.
La distanza abissale che separa Giovanni dal Messia viene affidata dapprima all’immagine dello sciogliere i lacci dei sandali.
Era questo il compito riservato abitualmente allo schiavo.
Giovanni non si ritiene nemmeno degno di essere lo schiavo del Messia.
Quindi la sostanza arriva nei versetti successivi che conservano un colorito palestinese e aprono a una prospettiva escatologica.
Prendendo lo spunto dalla pratica del contadino che sull’aia utilizzava il ventilabro (attrezzo di legno a forma di pala con il quale si gettava in aria il grano: questo, più pesante, cadeva a terra e la pula era portata via dal vento) per separare il grano dalla pula, Giovanni presenta Gesù come ‘il giudizio di Dio’, colui che distingue e che determina.
In termini semplificati: è Gesù l’elemento discriminante e decisivo, colui per il quale occorre impegnarsi se si vuole raggiungere la salvezza; il rifiuto di Gesù equivale al rifiuto della salvezza.
  Meditazione      Nel nostro cammino di attesa dell’avvento del Signore Gesù, siamo ancora accompagnati, in questa terza domenica, dalla figura di Giovanni il Battista e dalla sua parola.
Quest’uomo austero e senza compromessi, che ha scelto il deserto arido come sua dimora perché si rivelasse in tutta sua forza l’unica parola che è capace di rendere feconda la vita dell’uomo, continua a parlare anche a noi, ad invitarci a preparare nelle nostre esistenze, nel nostro cuore, la via del Signore perché possiamo vedere la sua salvezza.
Afferrato dalla parola di Dio che è scesa su di lui nel deserto per consacrarlo ad esser profeta del Messia, Giovanni ha sentito con forza tutta la radicalità e l’urgenza di una scelta che sia unicamente per il Signore.
E con toni forti e taglienti l’ha proclamata perché ogni uomo potesse prenderne coscienza: la parola infuocata che esce dalle labbra del Battista mette a confronto l’uomo con l’imminente giudizio di Dio e non lascia spazio a compromessi e ipocrisie.
A coloro che andavano a fasi battezzare, Giovanni dice: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione…
La scure è posta alla radice degli alberi, perciò ogni albero che non da buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Lc 3,7-9).
Dio è ‘Colui che viene’, colui che è immediatamente ‘vicino’ e che chiama l’uomo all’ultima presa di coscienza seria e responsabile.
Di fronte a Lui non c’è possibilità di scampo, né in un rito rassicurante (il battesimo) , né nella presunzione di possedere già la salvezza («non cominciate a dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre…»: cfr.
8).
Non è possibile mascherarsi dietro un rito, svuotandolo del suo contenuto; il battesimo ricevuto, per inverarsi, deve avere come conseguenza un mutamento di vita.
     L’attesa del Messia che Giovanni annuncia è infuocata e certamente ciascuno sente il timore di incontrare il volto di giustizia di Colui che viene a portare la salvezza.
La radicalità di questa parola profetica, d’altra parte, contrasta con l’annuncio di gioia che questa terza domenica di Avvento ci invita ad accogliere (e forse per questo i vv.
7-9 di Lc 3 sono stati omessi nella lettura liturgica).
Le parole di consolazione che risuonano nell’annuncio del profeta Sofonia aprono il cuore di Gerusalemme alla gioia, accogliendo il Signore che viene: «…il tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17).
E anche per Paolo l’imminente venuta del Signore non può produrre altro che gioia nel cuore del credente: «Siate sempre lieti nel Signore…
Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5).
La testimonianza del Battista è così estranea a questa gioia? Quale salvezza attendeva il Battista? Che cosa pensava del Messia? Si è sbagliato? Giovanni non si è sbagliato: il Messia che ha annunciato è quello atteso, ma ogni venuta del Signore ha sempre qualcosa di imprevisto.
Giovanni era chiamato a preparare la via e dunque il suo compito era quello di richiamare l’uomo alla sua responsabilità, alla urgenza e alla serietà di una reale conversione.
E anche se l’annuncio del Precursore è veramente carico di minaccia, la meta ultima non è il castigo, bensì l’insistente richiamo alla conversione che deve concretizzarsi nei frutti degni (v.
8).
Questo è il compito di Giovanni.
Sarebbe toccato poi al Signore Gesù rivelare tutta la gioia che scaturisce dalla compassione e dal perdono di Dio per coloro che riconoscono il loro bisogno di salvezza, per i piccoli e i poveri, per gli affaticati e gli oppressi, per i pubblicani e le prostitute.
E il volto di Dio che Gesù ha annunciato non è in contrasto con quello che Giovanni proclamava nel deserto; semplicemente è un volto altro, al di là e sopra ogni giustizia.
È il volto della misericordia.
Giovanni, nel profondo della sua esistenza così simile al deserto nel quale dimorava, ha avuto la grazia di intravedere, come da lontano, questo volto.
A quest’uomo così essenziale, tale visione è bastata per riempire di gioia la sua vita (cfr.
Gv 3,29) e comprendere che la parola di Dio è certamente giudizio, ma è soprattutto e prima di tutto evangelo, annuncio pieno di gioia.
E lo vediamo proprio nei versetti di Luca che seguono l’invito alla conversione (vv.
10-15).
Giovanni nel deserto predica una conversione, e lo fa con toni infuocati.
Ma tutta il suo annuncio diventa consolazione e gioiosa notizia.
Tutto è riportato alla bellezza dell’evangelo, tutto è in relazione con quella gioiosa parola di salvezza che è Gesù.
E anzitutto Giovanni orienta tutta la sua vita a quell’unica parola che salva.
La sua persona non ha importanza e la sua voce è solo prestata all’unica parola che dona salvezza: «Viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali» (v.
16).
Il tono di Giovanni allora diventa umile, pacato, pieno dello Spirito consolatore: è come un fratello maggiore che ci prende per mano e ci guida a Gesù: è lui che è il più forte, è lui l’Agnello che prende su di sé il peccato del mondo, è lui che può perdonare.
Si potrebbero porre sulle labbra di Giovanni le parole di Sofonia: «Non temere Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te…» (Sof 3, 16-17).
     E coloro che, forse un po’ spaventati dalle parole dure uscite dalla bocca di Giovanni, domandano: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?» (v.
12), si sentono rivolgere una risposta profondamente semplice ed evangelica, che indica loro un cammino possibile, quotidiano, di conversione.
Giovanni non invita gli uomini a fuggire nel deserto, a rivestirsi di peli di cammello e a nutrirsi di miele selvatico e di locuste.
L’itinerario proposto dal Battista per portare frutti degni di conversione è nella linea dei profeti: il luogo della conversione è la vita in cui deve prendere forma la parola di Dio.
La solidarietà e la condivisione, la giustizia e la lealtà sono i frutti degni che maturano in una vita che ha accolto seriamente la parola di Dio.
In fondo, ciò che Giovanni propone a coloro che domandano – «che cosa dobbiamo fare?» (vv.
10.12.14) – è semplicemente calare la gioia del vangelo, la misericordia e il perdono di Dio, il suo amore, nei gesti che ogni giorno ognuno è chiamato a compiere, nel lavoro che è chiamato a svolgere, nei rapporti che deve intessere, nel mondo in cui vive.
Ognuno vedrà la salvezza di Dio se la sua vita, nelle dimensioni più semplice e quotidiane, si convertirà alla novità e alla gioia che il Messia dona con la sua venuta.
     E, in fondo, così è anche vissuto Giovanni il Battista, quest’uomo così austero e senza compromessi.
La gioia è diventata il tono profondo della sua vita.
Anche se il suo volto e la sua parola erano dure e infuocate, il suo cuore viveva costantemente immerso nella gioia.
Anzi la gioia è stato il frutto maturo della sua vita radicalmente donata e affidata alla parola di Dio, una vita per questo essenziale, dura e allo stesso tempo umile e gioiosa.
Da una parte l’umiltà di Giovanni è quasi drammatica; ma proprio per questo riesce già a camminare nella luce della gioia evangelica.
E questa umiltà trasforma la violenza e la du-rezza del suo linguaggio in consolazione ed evangelo: «Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo» (v.
18).
Quella gioia a cui oggi anche la liturgia ci invita, è stata, a dispetto di tutto, la vocazione di Giovanni.
         Preghiere e Racconti   Domenica gaudete Questa domenica, la terza del tempo di Avvento, è detta “Domenica gaudete”, “siate lieti”, perché l’antifona d’ingresso della Santa Messa riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”.
E subito dopo aggiunge la motivazione: “Il Signore è vicino” (Fil 4,4-5).
Ecco la ragione della gioia.
Ma che cosa significa che “il Signore è vicino”? In che senso dobbiamo intendere questa “vicinanza” di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro.
Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2).
Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la “vicinanza” di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino.
In questa luce, è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei “Bambinelli”, le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe.
Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri “Bambinelli”, che ora benedico.
Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera: Dio, nostro Padre, tu hai tanto amato gli uomini da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù, nato dalla Vergine Maria, per salvarci e ricondurci a te.
Ti preghiamo, perché con la tua benedizione queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi, siano, nelle nostre case, segno della tua presenza e del tuo amore.
Padre buono, dona la tua benedizione anche a noi, ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici.
Apri il nostro cuore, affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia, fare sempre ciò che egli chiede e vederlo in tutti quelli che hanno bisogno del nostro amore.
Te lo chiediamo nel nome di Gesù, tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen.
(Le parole del Papa, Benedetto XVI, alla recita dell’Angelus, 14-XII-2008).    Il Vangelo della gioia «Il Signore è fedele per sempre rende giustizia agli oppressi, da il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge lo straniero».
(Sal 145)   C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.
Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.
«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5).
Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.
Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia.
Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.
  Umiltà Qualche finezza etimologica non guasta.
E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.
II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile.
Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra.
E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale.
Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.
Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole? E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale? E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato? E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).
Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore? Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?   Fedeltà La gioia cristiana deriva da due fontane.
La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse.
Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro.
Il nostro, insomma, è un Dio di parola.
«Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.
«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».
È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore.
La gioia non tarderà ad irrompere.
La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».
Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.
A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.
  Utopia «Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10).
È la più osata battuta di Isaia.
La più incredibile.
Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.
Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra? O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze? O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»? (Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72) Porto una responsabilità       Anche se come singolo non posso ottenere che tutto vada per il meglio, posso portare il mio contributo perché qualche cosa in questo mondo migliori.
Non posso sottrarmi alla responsabilità con la scusa che gli altri dominano il mondo.
Ognuno lascia una traccia in questo mondo con la sua vita.  E da queste tracce il mondo viene plasmato.
Ho la responsabilità di lasciare là dove vivo un traccia buona e feconda.
Posso e devo contribuire perché  il mondo intorno a me diventi migliore, perché in me e attraverso di me il bene diventi visibile in questo mondo.
Non posso lasciare questo compito ad altri.
Devo cominciare da me.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 140).
Preghiera Mi sorprende anche quest’anno la tua promessa, Signore: mentre sono in cammino con la Chiesa, per prepararmi al natale, sentire che sei tu ad aprirmi una strada per la conversione.
Mi apri una strada raggiungendomi con la tua Parola: mentre io la ascolto spesso stancamente e senza entusiasmo, tu mi ricordi che l’incontro con essa è più forte della potenza degli imperi e dei grandi di questo mondo e che trasforma anche la mia vita in storia di salvezza.
Insegnami ad ascoltare, insegnami il silenzio.
Mi apri una strada promettendo di abbattere monti e colmare valli.
Se non fosse perché lo dici tu, sarei tentato di pensare che si tratti per me di una battaglia persa in partenza: che io non smetta, Signore, di lottare contro le montagne dell’orgoglio, dell’ira, dei vizi e non mi spaventi per le lacune della mia risposta poco generosa.
Mi apri una strada indicandomi i tanti deserti che trovo intorno a me e gli spazi vuoti che la nostra carità non sa mai colmare: che io possa, Signore, fare la mia parte, senza scoraggiarmi per il tanto che non posso e non so fare.
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
   

Il Natale nella storia del cinema

Il cinema di Natale inizia con il suo Babbo.
Guarda soprattutto a lui, dedicandogli in un secolo di vita, oltre duecento titoli, a partire dal 1897.
Il fascino del costume, della casetta polare, della fabbrica di balocchi, della slitta e del volo nella notte magica, la vigilia del 25 dicembre, è rimasto intatto, diventando un elemento costante della produzione cinematografica natalizia.
Così, a soli due anni dalla sua nascita, il cinema si appropria subito di Babbo Natale con ben due film, uno dedicato alla discesa dal camino e alla confezione delle calze piene di regali e uno alla festa preparata per lui sotto il classico albero.  Da lì a poco, questa icona natalizia fa capolino in un primo muto del 1912 e in un secondo del 1925, quest’ultimo girato realmente al Polo Nord.
Poi arriva un classico, Miracolo nella 34ª strada diretto da George Seaton nel 1947 con John Payne che rimprovera la cinica Maureen O’Hara, distratta dalla carriera e dai consumi.
Lei non crede che Kris Kringle sia davvero Santa Claus, ma “Doris – la redarguisce l’avvocato Fred Gailey – un giorno scoprirai che il tuo modo realistico di affrontare le cose di questo mondo semplicemente non funziona.
E quando ciò accadrà, non lasciarti sfuggire il fascino delle cose incomprensibili.
Scoprirai che sono le uniche cose che meritano veramente di essere prese in considerazione”.
In fondo il cinema, con questa arringa, difende anche il suo stesso fascino e produce ben due rifacimenti, uno televisivo del 1973 e uno nel 1994 col grande Richard Attenborough nel ruolo di Kringle-Santa Claus.
Curiosando, ecco nel 1959 un Santa Claus messicano che ha assoldato bambini di tutte le etnie per costruire i regali e che deve combattere, con l’aiuto di Mago Merlino, un diavoletto dispettoso e cattivo.
Come si vede, dagli anni Sessanta le tradizioni narrative cominciano a contaminarsi e il più delle volte portano a veri e propri pasticci cinematografici che di natalizio perdono tutto, pure lo spirito.
Appaiono a frotte creature nordiche e leggendarie, come gli elfi, in molte versioni tra cui una diretta addirittura da  Rossano Brazzi nel 1966 (The Christmas that Almost Wasn’t) nella quale appaiono Mr.
& Mrs.
Claus a difendere il Natale che rischia di essere cancellato.
Ma la coppia natalizia ritorna anche nel 1985 in Santa Claus, di Jeannot Szwarc.
Troviamo, però, in questa ricca filmografia, anche Babbi Natale mortali e gaudenti, oppure al circo, rapiti dai marziani, in versione giapponese, alcolisti e violenti, addirittura serial killer, fino alla computerizzazione fantasmagorica in The Polar Express di Robert Zemeckis, del 2004, che sperimenta per  la  prima volta la tecnica adottata  anche in A Christmas Carol e vede il sempre bravo Tom Hanks nei panni di Babbo Natale alle prese con un bambino che dubita della sua esistenza.
E nel 2005 è interessante il tentativo multiculturale e multietnico messo in atto da Steve Grey e Ton Knight che, nella loro opera prima di animazione, Santa Camel’s, immaginano un Babbo Natale costretto a utilizzare quattro cammelli al posto delle renne per portare doni ai bambini sofferenti del Medio Oriente.
Il Natale è sempre stato una festa che supera ogni confine e differenza, perché agisce sui buoni sentimenti, comuni a tutta l’umanità.
Carità e giustizia sono temi universali e natalizi, che si ritrovano, diversamente declinati, in due principali filoni, quello romanzesco e quello propriamente evangelico.
All’inizio, il cinema pesca molto nella narrativa secondo uno schema assai semplice:  il Natale porta, miracolosamente, al riscatto di vite dissipate e il cuore chiuso e cinico si apre alla carità.
Due sono gli esempi più famosi:  in Miracle on Main Street, del 1939, una peccatrice trova, la sera della vigilia, un bambino abbandonato proprio nel presepe di una chiesa.
La piccola creatura le salverà la vita e l’anima.
Un classico della riconciliazione, questa volta con intervento esterno degli angeli, è The Preacher’s Wife del 1947, con remake nel 1996:  nel primo la coppia era formata da Cary Grant e Loretta Young, nel secondo il ruolo della moglie è stato affidato a Whitney Houston.
Ma il miracolo dei miracoli è l’intramontabile La vita è meravigliosa, diretto da Frank Capra nel 1964, vero inno alla vita buona e ben vissuta.
Mentre vite piuttosto sprecate e superficiali, ma seguitissime da un certo pubblico natalizio, sono quelle raccontate nei cosiddetti “cinepanettoni” italiani che, prendendo a pretesto il Natale solo come momento di divertimento, seguono per le città più famose del mondo le disavventure comiche di coppie male assortite.
Il racconto della Natività rimane, invece, pudicamente ai margini del cinema.
Troviamo piuttosto segmenti di storia evangelica rappresentati nelle superproduzioni hollywoodiane epico-cristologiche.
È lì che il Natale fa capolino con ricostruzioni di veri presepi viventi e un’approssimativa verosimiglianza storica.
Ci sono, però, tre splendide Natività cinematografiche, dissimili e pregne di stupore e di senso del mistero, che vale la pena ricordare e rivedere.
Nel Christus di Giulio Antamoro, film del 1916 modellato sulla grande tradizione pittorica italiana, il Salvatore nasce in una capanna pudicamente osservata dall’esterno e in lontananza, ma dalla quale irradia una luce soprannaturale di inusitato vigore.
Esattamente sessant’anni più tardi, è Franco Zeffirelli a girare, nel suo Gesù di Nazareth, il più commovente e poetico parto verginale di Maria:  Olivia Hussey diventa un’icona del cinema natalizio.
Infine, trent’anni dopo, per Nativity di Catherine Hardwicke è stata organizzata, il 26 novembre 2006, una prima assoluta in Aula Paolo VI:  indimenticabile l’applauso scrosciante dei 7.000 spettatori al primo vagito di Gesù Bambino tra le braccia di Maria.
(©L’Osservatore Romano – 12 dicembre 2009)

«Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto»,

Dal 10 al 12 dicembre si svolge a Roma la tre giorni di studi “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto” organizzata dal Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.
Alcuni interventi della prima giornata La grande prostrazione della modernità  di Andrea Riccardi Non si tratta di una manifestazione religiosa, ma di un convegno che vuol essere culturale prima di tutto.
Per tre giorni si discuterà del Dio della fede e della filosofia, del Dio della cultura e della bellezza, del Dio delle religioni e di quello delle scienze.
In connessione, però, con i temi dell’anima, della vita, della violenza, della musica, del libro su Dio.
Quasi un festival su Dio, un evento culturale di dialogo e di pensiero.
Trent’anni fa non sarebbe stato possibile un evento simile.
Non perché allora qualcuno lo impedisse, ma per la struttura stessa della cultura pubblica.
Allora, a molti, sembrava che i credenti fossero una razza in estinzione:  la secolarizzazione, intrecciata con l’avanzata irresistibile della modernità, avrebbe ridotto le religioni a retaggio del passato o al massimo a fatto interiore e privato di taluni.
La storia correva verso l’irrilevanza di Dio.
Freud lo spiega bene in Avvenire di un’illusione del 1927:  “Dobbiamo credere perché i nostri antenati remoti hanno creduto.
Ma questi nostri avi erano di gran lunga più ignoranti di noi, hanno creduto cose che oggi ci sarebbe impossibile accettare”.
La fine della fede era la vittoria sull’ignoranza.
Così, se le religioni si presentavano in un dibattito pubblico e culturale, erano protese a dimostrare la loro utilità sociale, politica, più che a parlare di Dio.
Si poteva accettare di parlare del fatto che i cristiani fossero utili, ma Dio era un affare strettamente privato.
Oggi invece si tiene un grande evento culturale per discutere di Dio e l’interesse del pubblico sembra forte.
Il mondo non è divenuto “devoto”, ma si sono aperte crepe profonde nella sicurezza che la storia scorre verso il futuro che gli è promesso.
Sono scomparse le mappe ideologiche della storia, che davano il senso di dove si era e che indicavano o promettevano il futuro.
L’uomo si sente – come dice Todorov – spaesato in un mondo dalle frontiere infinite come quelle della globalizzazione.
L’uomo spaesato, abbagliato dalla vastità degli orizzonti del nostro mondo, non più protetto dal suo angolo di visuale o da un’ideologia, soffre l’irrilevanza.
Si sono corrose le certezze dell’ateismo, che  si  presentavano  come  profezia di una  umanità  emancipata.
 L’uomo spaesato soffre:  “L’uomo – diceva il poeta Wojtyla – soffre per mancanza di visione”.
Il problema e la presenza di Dio ritornano nella storia.
Certo talvolta il problema di Dio è ridotto a una o più spiritualità, considerate necessarie per trovare equilibrio in un’esistenza difficile e senza riferimenti.
Ma si manifesta sempre più la diffusa convinzione che sia necessario interrogarsi se questo nostro mondo non abbia bisogno di Dio.
E, d’altra parte, in modo complesso, vivo e chiaro ma anche impalpabile, si sente scorrere una storia di Dio, attraverso la testimonianza di una comunità credente.
Il problema di Dio ritorna perché i credenti lo pongono, ma anche perché se lo pongono, più o meno esplicitamente, uomini e donne che soffrono per mancanza di visione.
E forse perché obbiettivamente il problema c’è ed è stato rimosso.
Con molto acume Olivier Clément si interrogava su “come assumere e capovolgere…
il nichilismo, il cinismo, più semplicemente la grande prostrazione che determina oggi il nostro mondo e che pervade noi che siamo prigionieri del nulla”.
La grande prostrazione è quella del nostro Occidente, che ha molte risorse materiali, ma che sembra aver perso energie e voglia di vivere, spaesato in una storia divenuta troppo grande.
È la fine della storia, come scriveva Fukuyama, oppure il disperdersi della storia in mille insensati rivoli di storie? Il non senso della storia interroga sulla connessione tra la storia di Dio e la storia dell’uomo e dei popoli.
E, parlando di Dio, si torna al Dio della nostra storia, della rivelazione biblica, che connette la storia dei popoli, degli uomini con quella di Dio, fino a Gesù.
Per Clément, Dio è la risposta alla grande prostrazione di un mondo che ha rinunciato a cambiare, di un uomo che ha rinunciato a orientare la storia.
“Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”:  il dibattito di questi tre giorni è percorso dalla convinzione che parlare di Dio e credere in Dio cambia in profondità l’esistenza umana e la storia.
Sul filo di questa convinzione, interverranno molti che, in prospettive e con conclusioni diverse, si sono posti il problema di Dio.
I risultati del convegno saranno importanti, ma fin da ora è già notevole convergere su questo tema.
Anche perché non si tratta solo di un convegno di addetti ai lavori, ma di un evento a molte dimensioni, che ha già registrato l’interesse di tanti.
È il segno di una ricerca e di un movimento profondo nel nostro tempo.
Pasternak fa dire a un personaggio del Dottor Zivago.
“Qualcosa si è messo in movimento nel mondo…
la persona, la predicazione della libertà…
La vita umana personale è diventata la storia di Dio”.
Che sia possibile dire qualcosa di simile anche per questo nostro tempo? Anima e destino il ritorno di due parole tabù di Michele Lenoci Finalmente si torna a parlare dell’anima, anche in ambito filosofico e teologico, dopo che questo termine, a vari livelli e per diversi motivi, sembrava destinato a essere dimenticato o bandito:  i motivi parevano tanti e certamente non privi di una qualche plausibilità.
Da un lato, il confronto con la ricerca scientifica, e in particolare con i metodi e i risultati delle neuroscienze, ha indotto a parlare della mente, la cui ammissione risultava, peraltro, già assai problematica di fronte alla pretesa di molte impostazioni fisicaliste, secondo cui la stessa mente sarebbe superflua, giacché la struttura del cervello sarebbe sufficiente a spiegare le cosiddette attività superiori degli esseri umani, come la conoscenza, i sentimenti, gli atti di volontà.
D’altro lato, sul versante più propriamente teologico, le critiche da molte parti avanzate contro il processo di ellenizzazione del cristianesimo hanno spinto a tornare a una lettura fedele al testo biblico, mirante a salvaguardarne la peculiarità linguistica e culturale, che sarebbe stata insidiata o cancellata dalla concettualizzazione greca, in particolare di ispirazione platonica:  ne sarebbe risultato un dualismo nella concezione antropologica, una visione dell’anima come sostanza autonoma e separata dal corpo e una sua destinazione intrinseca all’immortalità, contro una prospettiva unitaria, più autenticamente scritturistica, in cui la dominante dinamica soteriologica ed escatologica sarebbe determinata dall’azione di Dio e l’esito finale consisterebbe nella risurrezione del corpo.
Infine, ad accrescere la diffidenza verso l’anima, anche da parte filosofica, in epoca contemporanea, si muoveva il rilievo che un tale concetto sarebbe proprio della teologia, implicherebbe un contesto di fede rivelata e sarebbe, in qualche modo, estraneo a una considerazione prettamente razionale; per caratterizzare la peculiarità dell’uomo si preferiva ricorrere alle nozioni di coscienza, sia pure incarnata, di io, di spirito o anche di persona.
Inoltre, la dimensione trascendentale talora veniva interpretata secondo una curvatura universalistica, in cui la peculiarità del singolo individuo, conoscente, agente e volente, rischiava di andare smarrita.
Di recente sono apparsi numerosi testi, di diversa impostazione e differente prospettiva, che pongono al centro l’anima, per indagarne criticamente il “destino”, cioè sia per capire se un tale concetto può resistere alle sfide lanciate dalle neuroscienze, sia per interrogarsi su ciò che attende l’uomo dopo la morte e in che senso si possa parlare di una vita futura.
Quest’ultima domanda, al di là di tante infatuazioni di marca orientaleggiante che alludono a forme possibili di reincarnazione, nella prospettiva cristiana, intende approfondire, in termini attuali e concettualmente adeguati, il tema dei novissimi, che talora appare un po’ trascurato nella riflessione teologica e nelle proposte pastorali.
Si tratta certamente di testi che hanno peso e valore assai diversi, ma sono comunque significativi, poiché rimettono al centro dell’indagine filosofica e teologica un concetto, che non solo ha avuto una storia complessa, ricca e feconda nella cultura occidentale, ma tuttora sembra rivestire un’importanza e un ruolo particolari.
Solo per alludere a un esempio, molte questioni di natura bioetica relative all’inizio e alla fine della vita, che tanto angustiano le discussioni di questi anni, possono essere meglio affrontate partendo proprio da un’adeguata concezione dell’anima e certe soluzioni o certi vincoli possono essere proposti e giustificati in modo plausibile solo facendo riferimento a una dimensione dell’uomo, la quale può rinvenire nell’anima una collocazione teoricamente soddisfacente.
Certamente alcune precisazioni sono necessarie:  spesso il richiamo all’anima è servito, sia nella riflessione filosofica, sia, soprattutto, nelle mediazioni del senso comune, a veicolare una prospettiva antropologica dualistica, quasi che anima e corpo siano due sostanze separate, capaci di coesistere nell’essere umano, ma eterogenee e legate da una relazione solo esterna ed estrinseca.
In tal modo, diventa assai arduo individuare le modalità del legame tra esse e spiegare i fenomeni che attestano un’influenza reciproca; inoltre, indulgendo a una concezione cartesiana, si riserva all’anima l’intera componente spirituale dell’uomo, mentre il corpo, inteso nella sua autonomia quasi fosse una macchina, si esaurisce nell’esclusiva dimensione materiale, cosicché potrebbe legittimamente essere sottoposto a tutte le trasformazioni rese possibili dalla moderna tecnologia.
Un’interpretazione ispirata alla prospettiva di Aristotele e Tommaso, che salvaguardi anche la peculiarità e l’originalità del secondo rispetto al primo, va, invece, in un’altra direzione, che oggi trova numerosi riscontri in diverse impostazioni olistiche e sistemiche della ricerca.
Qui l’uomo è concepito come un ente strutturalmente unitario, in cui l’anima è l’unica forma, vale a dire è principio dell’essere e dell’attività complessiva, stratificata a diversi livelli gerarchicamente ordinati e connessi; e il corpo non va inteso come la materia della moderna fisica, privo di determinazioni qualitative, ma, proprio in quanto animato, come Leib, è tale solo grazie alla sua conformazione ottenuta tramite l’anima.
E tale forma, che, da un lato, è totalmente intrinseca alla corporeità, dall’altro, sporge rispetto a essa e la trascende, avendo una sua autonomia ontologica, attestata da certe particolari attività (come la conoscenza astratta e la libertà) e possedendo, poi, un destino ulteriore a quello della vita fisica.
Alcune acute riflessioni teologiche recenti vedono in una tale concezione dell’anima anche un presupposto teorico valido a rendere comprensibile la risurrezione, proprio perché garantisce l’originalità dell’uomo rispetto alla creazione e la sua disponibilità a cogliere e accogliere l’invito di Dio.
Occhio alla metafisica travestita da scienza di Giorgio Israel È perfettamente comprensibile che i passati tumultuosi rapporti tra scienza e fede – in buona sostanza il “caso Galileo” – inducano alla prudenza e al desiderio di non aprire nuovi conflitti e anzi di stabilire un terreno di concordia.
Ma spesso si dimentica che quei conflitti furono tali soprattutto per motivi d’intolleranza nei confronti del libero pensiero, mentre, nella sostanza, le posizioni di fondo che si confrontavano erano perfettamente legittime.
Il timore che nascano nuove accuse d’intolleranza – nel contesto dell’ostilità diffusa in occidente nei confronti del “proprio” pensiero religioso – non può però indurre ad accettare come “verità scientifiche” indiscutibili, da prendere per buone come tali e da “conciliare” con la fede, quelle che sono soltanto credenze metafisiche contrabbandate come fatti oggettivi sperimentalmente accertati.
Le neuroscienze contemporanee hanno aperto terreni nuovi di ricerca e permettono di approfondire tanti aspetti del funzionamento del cervello prima inaccessibili e di descrivere, in prima approssimazione, ciò che accade nel cervello quando si pensa.
Ma è assolutamente arbitrario sostenere che le neuroscienze stiano chiarendo – o addirittura abbiano chiarito – la formazione del pensiero e abbiano dissolto il concetto “metafisico-teologico” di anima in quello oggettivo-naturalistico di mente-cervello.
Al contrario, la transizione senza soluzione di continuità dalle neuroscienze alle neurofilosofie, facendo credere che le seconde siano la logica conseguenza delle prime, è indebita e rappresenta un modo inelegante di far passare per verità oggettive basate sul metodo sperimentale una vecchia metafisica materialistica che ha le sue origini nella rilettura unilaterale del cartesianesimo da parte di Lamettrie, d’Holbach, Cabanis, Hélvetius e altri.
Non a caso, anche i riduzionisti più radicali ma attenti a un approccio serio, come Jean-Pierre Changeux, si guardano dal ricorrere a terminologie del tipo “il cervello pensa”, ammettendo con Paul Ricoeur trattarsi di un vero e proprio ossimoro.
Sono ancor oggi perfettamente appropriate le parole scritte quasi un secolo fa da Henri Bergson: “È comprensibile che degli scienziati che filosofeggiano oggi sulla relazione tra fisico e psichico si schierino con l’ipotesi parallelista: i metafisici non hanno fornito loro nient’altro.
Ammetto pure che preferiscano la dottrina parallelista a tutte quelle che si potrebbero ottenere con lo stesso metodo di costruzione a priori: trovano in questa filosofia un incoraggiamento ad andare avanti.
Ma se qualcuno di loro ci verrà a dire che questa è scienza, che è l’esperienza che ci rivela un parallelismo rigoroso e completo tra vita cerebrale e mentale, ah no!, lo fermeremo e gli risponderemo: potete senz’altro, voi scienziati, sostenere questa tesi, come la sostiene il metafisico, ma non è più lo scienziato che parla in voi, è il metafisico.
Ci restituite semplicemente quel che vi abbiamo prestato.
La dottrina che ci offrite la conosciamo: esce dalle nostre botteghe, siamo noi filosofi ad averla fabbricata; ed è merce vecchia, molto vecchia.
Non per questo vale di meno, ma neppure per questo è migliore.
Datela per quel che è, e non fatela passare per un risultato della scienza, per una teoria modellata sui fatti e capace di rimodellarsi su di essi: una dottrina che ha potuto assumere, prima che si sviluppasse la nostra fisiologia e la nostra psicologia, la forma perfetta e definitiva in cui si riconosce una “costruzione metafisica”.
Una lettura intellettualmente libera delle ricerche e dei risultati delle neuroscienze contemporanee deve saper discernere criticamente i risultati oggettivi dalle indebite estrapolazioni metafisiche.
Tanto per fare un solo esempio, la dimostrazione di Changeux che, mentre una persona acquisisce l’idea che due forme geometriche diversamente poste sono congruenti mediante una rotazione, lo stesso fenomeno geometrico accade in ambito neuronale, è di grande interesse ma non costituisce – come si pretende – una dimostrazione dell’ipotesi parallelista mediante la descrizione di come si producano nel cervello le rappresentazioni.
Difatti, la rappresentazione scelta è del tutto particolare e la “dimostrazione” non contraddice, anzi è coerente con l’idea bergsoniana che gli stati cerebrali descrivano soltanto gli aspetti locomotori dell’attività mentale.
Si conferma la difficoltà di descrivere la formazione di pensieri non riconducibili a fenomeni spazio-temporali rappresentabili nei termini della spazio-temporalità matematica.
Né alcuno sa indicare come superarla se non attraverso la semplice affermazione apodittica della riducibilità di ogni aspetto della realtà a relazioni quantitative.
Ma questa è una mera ipotesi metafisica.
Il punto è che non appena si accetta l’ideologia naturalistica, non vi è più “dialogo”: la conciliazione tra scienza e fede avviene per sparizione del secondo “dialogante”.
Nessun pensiero religioso vivo può convivere con il naturalismo, che ne costituisce la negazione radicale.
Il naturalismo ha come progetto la riduzione del pensiero e dell’anima a mere manifestazioni di processi fisico-chimici.
Entro questa riduzione i temi della libertà, della finalità, della morale si dissolvono.
Ma – ripeto – opporsi risolutamente al naturalismo non significa opporsi alla scienza.
Al contrario.
Significa opporsi a qualcos’altro: alla pretesa ontologica, ovvero di costruire una scienza oggettiva dell’essere.
Questa filosofia si è impantanata nella diatriba tra dualismo e monismo che non poteva non condurre al prevalere di quest’ultimo in versione materialistica: ne fa testo la facilità con cui il cartesianesimo è stato riletto in chiave materialistica e, come tale, è stato sussunto a filosofia fondativa della scienza.
Chi ha a cuore i temi che sono al centro dell’esperienza e del pensiero religiosi non dovrebbe dialogare con le neurofilosofie, bensì, da un lato guardare alla scienza (alla neuroscienza) nei precisi confini in cui essa ha un valore indiscutibile e, dall’altro, dialogare (e far dialogare la teologia) con le filosofie che hanno tentato nel corso del Novecento di superare le aporie dei grandi sistemi ontologici.
Penso in particolare a filosofi come Bergson e Husserl che hanno affrontato questo obbiettivo, in modi assai diversi ma con una preoccupazione comune, come ha ben messo in luce Emmanuel Lévinas.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 dicembre 2009

Immacolata Concezione anno C

Preghiere e Racconti Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.
L’esistenza di quello che la Chiesa chiama “peccato originale” è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi.
L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Gn 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo (cfr Sap 1,13-14; 2,23-24) il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione.
E’ il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Gn 3,15).
Fin dal principio, dunque, “l’eterno consiglio”  come direbbe Dante  ha un “termine fisso” (Paradiso, XXXIII, 3): la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità.
Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: “piena di grazia” (Lc 1,28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth.
E’ la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti.
Così scriveva sant’Andrea di Creta: “La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori” (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A).
E la liturgia odierna afferma che Dio ha “preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato” (Orazione Colletta).
Carissimi, in Maria Immacolata, noi contempliamo il riflesso della Bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo.
In Maria questa bellezza è totalmente pura, umile, libera da ogni superbia e presunzione.
Così la Vergine si è mostrata a santa Bernadette, 150 anni or sono, a Lourdes, e così è venerata in tanti santuari.
Oggi pomeriggio, secondo la tradizione, anch’io Le renderò omaggio presso il monumento a Lei dedicato in Piazza di Spagna.
(LE PAROLE DEL PAPA, BENDETTO XVI, ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 08.12.2008).
  Maria, donna gestante «Rimase con lei circa tre mesi.
Poi tornò a casa sua».
Il vangelo stavolta non dice se vi tornò «in fretta», come fu per il viaggio di andata.
Ma c’è da supporlo.
Da Nazaret era quasi scappata di corsa, senza salutare nessuno.
Quell’incredibile chiamata di Dio l’aveva sconvolta.
Era come se, improvvisamente, all’interno della sua casetta si fosse spalancato un cratere e lei vi camminasse sul ciglio in preda alle vertigini.
E allora, per non precipitare nell’abisso, si era aggrappata alla montagna.
Ma ora bisognava tornare.
Quei tre mesi di altura le erano bastati per placare i tumulti interiori.
Vicino a Elisabetta aveva portato a compimento il noviziato di una gestazione di cui cominciava lentamente a dipanare il segreto.
Ora bisognava scendere in pianura e affrontare i problemi terra terra a cui va incontro ogni donna in attesa.
Con qualche complicazione in più.
Come dirglielo a Giuseppe? E alle compagne con cui aveva condiviso fino a poco tempo prima i suoi sogni di ragazza innamorata, come avrebbe spiegato il mistero che le era scoppiato nel grembo? Che avrebbero detto in paese? Sì, anche a Nazaret voleva giungere in fretta.
Perciò accelerava l’andatura, quasi danzando sui sassi.
Oltretutto, su quei sentieri di campagna, vi si sentiva sospinta come dal vento, di cui, però, le foglie degli ulivi e i pampini delle viti non lasciavano percepire la brezza, nell’immota calura dell’estate di Palestina.
Per placare il batticuore, che pure tre mesi prima non aveva provato in salita, si sedette sull’erba.
Solo allora si accorse che il ventre le si era curvato come una vela.
E capì per la prima volta che quella vela non si issava sul suo fragile scafo di donna, ma sulla grande nave del mondo per condurla verso spiagge lontane.
Non fece in tempo a rientrare in casa, che Giuseppe, senza chiederle neppure che rendesse più esaurienti le spiegazioni fornitegli dall’angelo, se la portò subito con se.
Ed era contento di starle vicino.
Ne spiava i bisogni.
Ne capiva le ansie.
Ne interpretava le improvvise stanchezze.
Ne assecondava i preparativi per un natale che ormai doveva tardare.
Una notte, lei gli disse: «Senti, Giuseppe, si muove».
Lui, allora, le posò sul grembo la mano, leggera come battito di palpebra, e rabbrividì di felicità.
Maria non fu estranea alle tribolazioni a cui è assoggettata ogni comune gestante.
Anzi, era come se si concentrassero in lei le speranze, sì, ma anche le paure di tutte le donne in attesa.
Che ne sarà di questo frutto, non ancora maturo, che mi porto nel seno? Gli vorrà bene la gente? Sarà contento di esistere? E quanto peserà su di me il versetto della Genesi: «Partorirai i figli nel dolore»? Cento domande senza risposta.
Cento presagi di luce.
Ma anche cento inquietudini.
Che si intrecciavano attorno a lei quando le parenti, la sera, restavano a farle compagnia fino a tardi.
Lei ascoltava senza turbarsi.
E sorrideva ogni volta che qualcuna mormorava: «Scommetto che sarà femmina».
  Santa Maria, donna gestante, creatura dolcissima che nel tuo corpo di vergine hai offerto all’Eterno la pista d’atterraggio nel tempo, scrigno di tenerezza entro cui è venuto a rinchiudersi Colui che i cieli non riescono a contenere, noi non potremo mai sapere con quali parole gli rispondevi, mentre te lo sentivi balzare sotto il cuore, quasi volesse intrecciare anzi tempo colloqui d’amore con te.
Forse in quei momenti ti sarai posta la domanda se fossi tu a donargli i battiti, o fosse lui a prestarti i suoi.
Vigilie trepide di sogni, le tue.
Mentre al telaio, risonante di spole, gli preparavi con mani veloci pannolini di lana, gli tessevi lentamente, nel silenzio del grembo, una tunica di carne.
Chi sa quante volte avrai avuto il presentimento che quella tunica, un giorno, gliel’avrebbero lacerata.
Ti sfiorava allora un fremito di mestizia, ma poi riprendevi a sorridere pensando che tra non molto le donne di Nazaret, venendoti a trovare dopo il parto, avrebbero detto: «Rassomiglia tutto a sua madre».
Santa Maria, donna gestante, fontana attraverso cui, dalle falde dei colli eterni, è giunta fino a noi l’acqua della vita, aiutaci ad accogliere come dono ogni creatura che si affaccia a questo mondo.
Non c’è ragione che giustifichi il rifiuto.
Non c’è violenza che legittimi violenza.
Non c’è programma che non possa saltare di fronte al miracolo di una vita che germoglia.
Mettiti, ti preghiamo, accanto a Marilena, che, a quarant’anni, si dispera perché non sa accettare una maternità indesiderata.
Sostieni Rosaria, che non sa come affrontare la gente, dopo che lui se n’è andato, lasciandola col suo destino di ragazza madre.
Suggerisci parole di perdono a Lucia, che, dopo quel gesto folle, non sa darsi pace e intride ogni notte il cuscino con lacrime di pentimento.
Riempi di gioia la casa di Antonietta e Marco, la quale non risuonerà mai di vagiti, e di’ ad essi che l’indefettibilità del loro reciproco amore è già una creatura che basta a riempire tutta l’esistenza.
Santa Maria, donna gestante, grazie perché, se Gesù l’hai portato nel grembo nove mesi, noi, ci stai portando tutta la vita.
Donaci le tue fattezze.
Modellaci sul tuo volto.
Trasfondici i lineamenti del tuo spirito.
Perché, quando giungerà per noi il dies natalis, se le porte del cielo ci si spalancheranno dinanzi senza fatica sarà solo per questa nostra, sia pur pallida, somiglianza con te.
(Don Tonino Bello, Maria , donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 132000, 25-27)  IMMACOLATA CONCEZIONE   Lectio Anno c     Prima lettura: Genesi 3,9-15.20          [Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?».
Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».
Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato».
Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?».
Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».  L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
       Poiché oggi è ammesso da tutti che i primi capitoli della Genesi non ci forniscono una cronaca di avvenimenti, ma contengono una professione di fede circa i rapporti dell’uomo e della sua storia con Dio, dobbiamo cercare di cogliere il messaggio religioso contenuto nella nostra lettura.
Essa contiene soprattutto l’annunzio di una prospettiva di salvezza per l’umanità rappresentata dalla prima coppia umana.
L’annunzio è preceduto da un dialogo in cui Dio mette in evidenza l’effetto distruttore del peccato (la rottura del vincolo di dipendenza da Dio, suggerita dal serpente, che prometteva di far diventare gli uomini come Dio, se si fossero ribellati alle sue leggi): perdita del rapporto amicale con Dio, inizio della diffidenza reciproca tra l’uomo e la donna, ingresso della fatica e del dolore nella vita umana, necessità di lottare sempre contro l’insidia perenne del peccato.
L’annunzio apre la prospettiva che, nel futuro, il seme dell’uomo avrebbe sconfitto il seme del serpente.
Il sentimento cristiano, guidato da una interpretazione libera di questo testo documentata dalla Volgata, ha capito che, in questa prospettiva di futura vittoria, un posto speciale spettava a Maria.
  Seconda lettura: Efesini 1,3-6.11-12          Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
    La nostra seconda lettura utilizza una parte della prosa lirica elevata a Dio in onore di Gesù Cristo, con cui si apre la lettera agli Efesini (1,3-14).
Sulla sua scelta per questa liturgia ha forse pesato la presenza del termine immacolati, che ricorre nel v.
4.
Il senso principale del brano è che Dio merita la nostra lode e il ringraziamento perché egli per primo ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizioni valide per sempre, avendo suscitato per noi il suo Figlio Gesù Cristo, da noi riconosciuto come Signore.
Più in particolare, Dio va lodato e ringraziato perché, mediante la persona di Gesù Cristo, noi siamo stati chiamati alla santità (cioè a essere santi e immacolati), con un decreto che precede la fondazione del mondo.
Senza che ne avessimo alcun diritto naturale, per poter realizzare la nostra chiamata alla santità, Dio ci ha regalato l’adozione a suoi figli, per i meriti di Gesù Cristo.
Tutto questo, già per se stesso, può essere inteso come un inno di lode che celebra l’attività salvifica di Dio.
Da aggiungere è anche che, avendo posto in Cristo tutta la nostra speranza, sappiamo che erediteremo la totalità delle divine promesse.
Come si vede, al centro della nostra lettura c’è che tutti noi cristiani siamo chiamati alla santità, cioè a essere santi e immacolati, a partecipare quindi al modello di esistenza che ha qualificato Maria santissima come immacolata.
        Vangelo: Luca 1,26-38        In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe.
La vergine si chiamava Maria.
Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.
L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.
Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù.
Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».
Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra.
Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio.
Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».
E l’angelo si allontanò da lei.
       Esegesi     Tra i testi del Nuovo Testamento che ci parlano di Maria, la madre del Salvatore, il racconto dell’Annunciazione di Gesù è certamente il più ricco di teologia, sicché ad esso si è sempre ispirato lo speciale settore dell’approfondimento teologico che è detto mariologia.
Cerchiamo di cogliere questa ricchezza, partendo dall’analisi esegetica dei singoli versetti.
Nei vv.
26-27, l’evangelista stabilisce un rapporto di netta continuità tra il già descritto annuncio della nascita del precursore (Lc l,5ss) e la scena che si accinge a descrivere: ogni singolo avvenimento della storia della salvezza si inquadra perfettamente in un disegno generale concepito e realizzato da Dio.
In questo disegno si fronteggiano la grandezza insondabile di Dio, che manda come suo messaggero l’angelo Gabriele (un personaggio a cui nel libro di Daniele era stata affidata una missione riguardante gli avvenimenti messianici), e la piccolezza apparentemente insignificante di Nazareth di Galilea e di una oscura fanciulla che si chiama Maria, promessa sposa di un certo Giuseppe (solo in quest’ultimo personaggio c’è un barlume di riconosciuta nobiltà, perché discende dalla cosa di Davide).
Di Maria è qui sottolineato per ben due volte lo stato di verginità.
Per Giuseppe è richiamata la sua appartenenza alla cosa di Davide, da cui doveva venire il Messia.
— Nel v.
28, il saluto dell’angelo, chàire, non è un semplice sinonimo del comune shalom (pace), ma sembra voglia evocare l’accenno alla gioia messianica a cui nei profeti è invitata la figlia di Sion (che significa la nazione ebraica), nell’imminenza dei tempi messianici (Sof 3.14; Gl 2,21.23; Zac 9.9).
Il titolo kecharitoméne, con cui Maria è gratificata dall’angelo, non ha certamente il senso di un gentile appellativo (equivalente a una bella fanciulla!), ma sembra si voglia riferire alla missione che a lei Dio vuole affidare e si può ben tradurre: trasformata dal favore divino; la traduzione della Volgata, piena di grazia, rende giustizia alla densità teologica del vocabolo e ha indotto il popolo cristiano a trovare qui incluso un accenno alla verità dell’immacolata concezione.
A quella stessa missione sembra debba riferirsi la frase il Signore è con tè; era questa infatti la formula con cui si dava incoraggiamento, nei libri dell’Antico Testamento, ai personaggi scelti da Dio per una qualche missione speciale (Isacco, in Gn 26,3.24; Giacobbe in Gn 28,15; Mosè, in Es 3,12; Gedeone, in Gdc 6,12; ecc.).
— Nel v.
29, il turbamento di Maria, diversamente da quanto è detto per Zaccaria in 1,12, non deriva dalla visione dell’angelo, ma dal senso delle sue parole: Maria dimostra così la sua iniziale consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso.
— Nei vv.
30-31, l’angelo, dopo averle rivolto un incoraggiamento, rivela a Maria la missione che Dio vuole affidarle: con parole che richiamano alla mente il testo di Is 7,14, le è detto che essa dovrà dare alla luce un figlio del quale Dio stesso ha già stabilito il nome.
L’importanza di questo figlio è già oscuramente accennata nell’implicito riferimento al testo di Isaia e nel fatto che il suo nome è direttamente scelto da Dio.
— Nei vv.
32-33, è dichiarata apertamente la straordinaria identità del futuro figlio di Maria.
Questo figlio è descritto con chiaro riferimento al testo di 2Sam 7,8-16: da lì sono presi i termini grande…
figlio (di Dio) …cosa…
regno (i Davide) …regno senza fine.
Il figlio di Maria è qui qualificato come il Messia atteso dai Giudei, ma già il senso delle parole adoperate in ambiente giudaico sembra dilatarsi per accogliere la nuova prospettiva cristiana.
— I vv.
34-35 difficilmente potrebbero spiegarsi, se si intendessero come battute stenografiche di un dialogo tra l’angelo e Maria.
Sono però chiarissimi nel trasmetterci il messaggio rivelato che il figlio di Maria è stato concepito verginalmente, cioè senza il contributo di un padre terreno, e che questo stesso figlio di Maria è propriamente figlio di Dio fin dalla sua origine, cioè non in conseguenza della sua elezione alla dignità messianica, ma, grazie alla potenza creatrice dello Spirito Santo, fin dal momento della sua prodigiosa concezione.
— Nei vv.
36-37, l’angelo conferma l’eccezionalità dell’avvenimento annunziato, fornendo un segno capace di renderlo credibile: rivela a Maria la notizia ancora sconosciuta da tutti, che la sterile Elisabetta è diventata feconda nella sua vecchiaia, a dimostrazione che nulla è impossibile a Dio.
— Nel v.
38, che conclude il racconto, l’evangelista ci fa capire che Maria ha pienamente inteso l’alta missione che le è stata affidata, al punto che mette sulle sue labbra parole evocanti alte personalità dell’Antica Alleanza (Abramo, Mosè, Davide, il misterioso Servo di JHWH), che avevano meritato il titolo onorifico di servi del Signore.
Proclamandosi serva di Dio, Maria è ben lontana dall’esprimere una semplice rassegnazione a oscuri disegni divini, dichiara piuttosto di essere gioiosamente pronta a collaborare alla imminente salvezza del mondo portata dal suo figlio Gesù.
Dall’esame analitico dei singoli versetti emerge la conclusione che il racconto di Luca ha come scopo principale quello di rivelarci l’identità messianica del figlio di Maria, che però è anche, a titolo specialissimo, figlio di Dio sin dalla sua concezione.
In secondo luogo, il racconto ci parla della missione affidata a Maria, sottolineando soprattutto due cose: che l’iniziativa di quanto dovrà accadere appartiene esclusivamente a Dio; che lo stesso Dio ha reso Maria idonea all’assolvimento del compito affidatele mediante la pienezza di grazia.
In questa pienezza, il popolo cristiano ha sentito che doveva starci anche l’Immacolata Concezione.
  Meditazione      La liturgia della Parola di questa solennità ci offre nel versetto al salmo responsoriale (Sal 97) una particolare angolatura contemplativa per accostare il mistero celebrato: «Abbiamo contemplato o Dio le meraviglie del tuo amore».
L’atteggiamento suscitato da questa parola ci invita a rileggere i testi della Scrittura, e in particolare il racconto di Lc 1,26-38, collocandoci in uno spazio di meraviglia, che nello stesso tempo è spazio di silenzio, di sguardo, di riconoscenza, di gioia.
Di fronte a Colui che «ha compiuto meraviglie…
ha fatto conoscere la sua salvezza.
..
si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa di Israele» (Sal 97,1-3), il credente non può che stupirsi e con questo atteggiamento accostarsi a quel momento misterioso della storia di salvezza che rivela e porta a compimento il dise-gno di amore di Dio su tutta l’umanità.
Abbracciando con un solo sguardo tutta la storia che Dio ha intessuto fin dall’eternità con ogni uomo, Paolo ci ricorda che questo disegno di amore ha un punto d’arrivo, una meta: essere in Cristo, poiché in Lui siamo stati «scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci ad essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4-5).
Ma la fedeltà di Dio a questo progetto di gratuità trova una conferma ‘storica’ in un evento che è come promessa, speranza e anticipazione di ciò che Lui vuole realizzare per ogni uomo «secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1,5).
È l’evento che si realizza in una ragazza di Nazaret, Maria, che dal messaggero di Dio è salutata con queste inaudite parole: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28).
In questa donna trovano così spazio gioia, sovrabbondanza e totalità di grazia, presenza di un Dio che salva e usa misericordia.
E tutto questo è adombrato in un silenzioso dialogo tra quel Dio che si rivela nella sua Parola e quella umile donna che fa spazio, in un ascolto di fede radicale, a quella Parola che finalmente in lei può prendere un volto.
Noi conosciamo qualcosa di questo miste-rioso incontro nel racconto dell’evangelista Luca.
Forse ciò che ci viene trasmesso da questa narrazione è troppo poco per decifrare un mistero, ma sicuramente è molto per lasciarci stupire da esso.
     E un primo tratto di questo racconto che in noi desta meraviglia, è il fatto che Dio dialoga con Maria.
«Maria non è la semplice destinataria passiva della rivelazione riguardante il Figlio.
Il suo è un ruolo attivo, di partner, nel contesto immediato, partner dell’angelo del Signore, ma, in realtà, partner di Dio stesso, che ha voluto far dipender la realizzazione del suo progetto dal libero consenso che Egli sollecitava dalla sua fede» (J.
Dupont).
Maria dialoga con l’angelo, intervenendo per capire e per maturare nell’adesione a ciò che le viene detto.
La forza di questa parola dia-logica, che apre allo sguardo di Maria il mistero di un Dio che sceglie di parlare all’uomo, coinvolge completamente questa donna e, entrando in lei, si trasforma in carne: «Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).
     Ma è sorprendete il fatto che anche all’inizio della storia della salvezza, quella storia drammaticamente segnata da una rottura (cfr.
Gen 3,1-16), permanga intatto un dialogo tra Dio e l’uomo.
E nelle parole che Dio rivolge al primo uomo e alla prima donna rimangono misteriosamente uniti la sofferenza di una fiducia tradita e il desiderio di continuare ‘diversamente’ una relazione di amore e di alleanza.
È come se Dio, in questo dialogo, guardasse molto lontano, ad un compimento: «Io porrò inimicizia – dice al serpente – tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,15).
                E la liturgia, nella sua sapiente lettura della storia sacra, accosta, proprio per questa festa, questi due dialoghi ‘originari’: il dialogo tra Dio e il primo uomo, dialogo profondamente segnato dal dramma del rifiuto, e il dialogo tra l’angelo e una donna, Maria, nell’orizzonte di un cammino carico di novità e di pienezza.
E si rimane colpiti dalle risonanze tra questi due dialoghi, pur lontani e diversi, ma racchiusi ambedue dalla nostalgia di un Dio che cerca nell’uomo un volto in cui riflettere tutta la sua bellezza e la sua misericordia, che non si rassegna a perdere la sua creatura più preziosa, che gli va incontro con volto amico.
Questa parola che Dio rivolge all’uomo è l’unica che può strappare l’uomo dal nulla, creandolo e chiamandolo alla vita, ed è l’unica che può rompere il silenzio e il mutismo in cui l’umanità si è racchiusa, ridando ad essa la possibilità di un dialogo.
«Dove sei?» (Gen 3,9): ecco la parola rivolta all’uomo dopo che egli ha distolto il volto dal suo Dio.
E solo Dio può porre questa domanda che certamente brucia come una ferita nel cuore dell’uomo che la ode, ma che permette all’uomo di riprender quel cammino, faticoso e doloroso, alla ricerca del volto di Dio.
«Dove sei?»: Quale è il luogo in cui l’uomo ha scelto di abitare nella sua libertà? Dove lo ha condotto il suo cammino, la sua pretesa di possedere, di usurpare il luogo in cui solo Dio può abitare? «Cerca Dio – ammonisce un anziano monaco del deserto – ma non cercare dove dimora».
L’uomo ha cercato il volto di Dio, si è collocato con umiltà davanti al suo sguardo, ha accettato che Dio solo potesse dargli un luogo dove dimorare, oppure ha preteso di invadere la dimora stessa di Dio, sostituirsi a lui nel suo luogo santo? «Dove sei?…
Ho udito la tua voce nel giardino: avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (Gen 3,10).
La risposta di Adamo è la risposta dell’uomo, dell’umanità, che non sa più dove si trova: ha cacciato Dio dalla sua dimora, si è messo al suo posto e ora è senza fissa dimora, fugge, non riesce più a collocarsi e a leggersi in uno spazio donato (quel simbolico giardino in cui tutto gli era offerto gratuitamente).
Il suo disagio, la sua fragilità e il suo smarrimento di fronte ad un luogo che sente di aver violato, si trasformano in paura.
Sente quel passo di Dio che si avvicina come minaccioso, ingombrante, oppressivo, come il passo di un conquistatore che viene a riprendere il luogo del suo possesso.
E quel luogo, in cui l’uomo abitava con Dio, quel luogo di Dio in cui l’uomo era chiamato ad entrare per pura grazia, e non per diritto e possesso, da spazio di prossimità e comunione, si trasforma in abisso di lontananza, pieno di incognite e di angoscia.
L’unico luogo in cui l’uomo sente di poter ricevere sollievo è quello in cui può nascondere il suo volto, la sua nudità.
L’uomo ha perso la sua vicinanza con Dio, ma ha anche perso la vicinanza con se stesso.
Il volto di Dio riflesso nel suo stesso volto provoca all’uomo l’angoscia del fallimento e della fine: «Ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (v.
10).
     «Dove sei?».
Questa domanda rivolta da Dio al primo uomo e alla prima donna è come una eco che attraversa tutta la storia dell’umanità, risuonando nel cuore di ciascuno.
Con essa Dio misteriosamente continua a chiamare l’uomo a sé, suscitandogli il desiderio e la nostalgia di un ritorno.
Finché, in una casa della Galilea, questa domanda riceve finalmente la risposta che Dio si attendeva: «Dove sei?» […] «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).
La risposta di Maria è la riposta di una umanità libera, che ha accolto radicalmente la sua nudità e l’ha collocata davanti a Colui che ha la delicatezza di avvolgere con il suo sguardo di compassione tutto ciò che l’uomo sente come fragilità e debolezza (cfr.
Lc 1,48).
     «Dove sei?…
Eccomi…»: è la risposta di chi non teme più nulla, di chi, disarmato, si presenta davanti a Colui al quale nulla è impossibile (cfr.
Lc 1,37); la risposta di chi accetta un cammino di obbedienza a quella parola che, sola, conosce il mistero dell’uomo e che richiede la radicalità della fede.
-Eccomi- è la risposta dell’uomo che getta tutte le maschere dietro le quali vuol nascondere il suo volto e si scopre vero davanti a Colui che è prossimità: «il Signore è con te» (1,28).
     «Dove sei?».
La risposta di Adamo è quella dell’uomo che fugge e si nasconde da Dio, dell’uomo che si nascondono di fronte a se stesso ed alla sua responsabilità; la risposta di Maria è quella di chi accetta di stare vicino a Dio così come si è, assumendo in pieno la propria libertà, sapendo che tutta la propria esistenza è oggetto di pura grazia; e stando vicino a Dio, in questo luogo, e non altrove, scopre la misura di quella pace che annulla ogni timore ed angoscia, la misura di quel passo leggero che come soffio trasforma e rende nuova ogni creatura.
Maria non ha paura del passo di Dio; sa che esso ha il ritmo dello Spirito, il ritmo dell’amore.
     «Dove sei?…
Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto».
      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
   

Omelie

Omelia della XXXII domenica del tempo ordinario di Benedetto XVI Brescia, 8 novembre 2009 Cari fratelli e sorelle, è grande la mia gioia nel poter spezzare con voi il pane della Parola di Dio e dell’Eucaristia, qui, nel cuore della diocesi di Brescia, dove nacque ed ebbe la formazione giovanile il servo di Dio Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI.
[…] Al centro della liturgia della Parola di questa domenica – la XXXII del tempo ordinario – troviamo il personaggio della vedova povera, o, più precisamente, troviamo il gesto che ella compie gettando nel tesoro del Tempio gli ultimi spiccioli che le rimangono.
Un gesto che, grazie allo sguardo attento di Gesù, è diventato proverbiale.
“L’obolo della vedova”, infatti, è sinonimo della generosità di chi dà senza riserve il poco che possiede.
Prima ancora, però, vorrei sottolineare l’importanza dell’ambiente in cui si svolge tale episodio evangelico, cioè il Tempio di Gerusalemme, centro religioso del popolo d’Israele e il cuore di tutta la sua vita.
Il Tempio è il luogo del culto pubblico e solenne, ma anche del pellegrinaggio, dei riti tradizionali, e delle dispute rabbiniche, come quelle riportate nel Vangelo tra Gesù e i rabbini di quel tempo, nelle quali, però, Gesù insegna con una singolare autorevolezza, quella del Figlio di Dio.
Egli pronuncia giudizi severi – come abbiamo sentito – nei confronti degli scribi, a motivo della loro ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano.
Gesù, insomma, si dimostra affezionato al Tempio come casa di preghiera, ma proprio per questo lo vuole purificare da usanze improprie, anzi, vuole rivelarne il significato più profondo, legato al compimento del suo stesso mistero, il mistero della sua morte e risurrezione, nella quale Egli stesso diventa il nuovo e definitivo Tempio, il luogo dove si incontrano Dio e l’uomo, il creatore e la sua creatura.
L’episodio dell’obolo della vedova si inscrive in tale contesto e ci conduce, attraverso lo sguardo stesso di Gesù, a fissare l’attenzione su un particolare fuggevole ma decisivo: il gesto di una vedova, molto povera, che getta nel tesoro del Tempio due monetine.
Anche a noi, come quel giorno ai discepoli, Gesù dice: Fate attenzione! Guardate bene che cosa fa quella vedova, perché il suo atto contiene un grande insegnamento.
Esso, infatti, esprime la caratteristica fondamentale di coloro che sono le “pietre vive” di questo nuovo Tempio, cioè il dono completo di sé al Signore e al prossimo.
La vedova del Vangelo, come anche quella dell’Antico Testamento, dà tutto, dà se stessa, e si mette nelle mani di Dio, per gli altri.
È questo il significato perenne dell’offerta della vedova povera, che Gesù esalta perché ha dato più dei ricchi, i quali offrono parte del loro superfluo, mentre lei ha dato tutto ciò che aveva per vivere (cfr.
Marco 12, 44), e così ha dato se stessa.
Cari amici! A partire da questa icona evangelica, desidero meditare brevemente sul mistero della Chiesa, del Tempio vivo di Dio, e così rendere omaggio alla memoria del grande papa Paolo VI, che alla Chiesa ha consacrato tutta la sua vita.
La Chiesa è un organismo spirituale concreto che prolunga nello spazio e nel tempo l’oblazione del Figlio di Dio, un sacrificio apparentemente insignificante rispetto alle dimensioni del mondo e della storia, ma decisivo agli occhi di Dio.
Come dice la lettera agli Ebrei – anche nel testo che abbiamo ascoltato – a Dio è bastato il sacrificio di Gesù, offerto “una volta sola”, per salvare il mondo intero (cfr.
Ebrei 9, 26.28), perché in quell’unica oblazione è condensato tutto l’amore del Figlio di Dio fattosi uomo, come nel gesto della vedova è concentrato tutto l’amore di quella donna per Dio e per i fratelli: non manca niente e niente vi si potrebbe aggiungere.
La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesù, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento.
È il Corpo di Cristo che si dona interamente, Corpo spezzato e condiviso, in costante adesione alla volontà del suo Capo.
[…] È questa la Chiesa che il servo di Dio Paolo VI ha amato di amore appassionato e ha cercato con tutte le sue forze di far comprendere e amare.
Rileggiamo il suo “Pensiero alla morte”, là dove, nella parte conclusiva, parla della Chiesa.
“Potrei dire – scrive – che sempre l’ho amata…
e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto.
Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse”.
Sono gli accenti di un cuore palpitante, che così prosegue: “Vorrei finalmente comprenderla tutta, nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità.
Corpo mistico di Cristo.
Vorrei – continua il papa – abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla”.
E le ultime parole sono per lei, come alla sposa di tutta la vita: “E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo”.
Che cosa si può aggiungere a parole così alte ed intense? Soltanto vorrei sottolineare quest’ultima visione della Chiesa “povera e libera”, che richiama la figura evangelica della vedova.
Così dev’essere la Comunità ecclesiale, per riuscire a parlare all’umanità contemporanea.
L’incontro e il dialogo della Chiesa con l’umanità di questo nostro tempo stavano particolarmente a cuore a Giovanni Battista Montini in tutte le stagioni della sua vita, dai primi anni di sacerdozio fino al pontificato.
Egli ha dedicato tutte le sue energie al servizio di una Chiesa il più possibile conforme al suo Signore Gesù Cristo, così che, incontrando lei, l’uomo contemporaneo possa incontrare Lui, Cristo, perché di Lui ha assoluto bisogno.
Questo è l’anelito di fondo del Concilio Vaticano II, a cui corrisponde la riflessione del papa Paolo VI sulla Chiesa.
Egli volle esporne programmaticamente alcuni punti salienti nella sua prima enciclica, “Ecclesiam suam”, del 6 agosto 1964, quando ancora non avevano visto la luce le costituzioni conciliari “Lumen gentium” e “Gaudium et spes”.
Con quella prima enciclica il pontefice si proponeva di spiegare a tutti l’importanza della Chiesa per la salvezza dell’umanità e, al tempo stesso, l’esigenza che tra la comunità ecclesiale e la società si stabilisca un rapporto di mutua conoscenza e di amore (cfr.
Enchiridion Vaticanum, 2, p.
199, n.
164).
“Coscienza”, “rinnovamento”, “dialogo”: queste le tre parole scelte da Paolo VI per esprimere i suoi “pensieri” dominanti – come lui li definisce – all’inizio del ministero petrino, e tutt’e tre riguardano la Chiesa.
Anzitutto, l’esigenza che essa approfondisca la coscienza di se stessa: origine, natura, missione, destino finale; in secondo luogo, il suo bisogno di rinnovarsi e purificarsi guardando al modello che è Cristo; infine, il problema delle sue relazioni con il mondo moderno (cfr ibid., pp.
203-205, nn.
166-168).
Cari amici – e mi rivolgo in modo speciale ai fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio –, come non vedere che la questione della Chiesa, della sua necessità nel disegno di salvezza e del suo rapporto con il mondo, rimane anche oggi assolutamente centrale? Che, anzi, gli sviluppi della secolarizzazione e della globalizzazione l’hanno resa ancora più radicale, nel confronto con l’oblio di Dio, da una parte, e con le religioni non cristiane, dall’altra? La riflessione di papa Montini sulla Chiesa è più che mai attuale; e più ancora è prezioso l’esempio del suo amore per lei, inscindibile da quello per Cristo.
“Il mistero della Chiesa – leggiamo sempre nell’enciclica “Ecclesiam suam” – non è semplice oggetto di conoscenza teologica, dev’essere un fatto vissuto, in cui ancora prima di una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza” (ibid., p 229, n.
178).
Questo presuppone una robusta vita interiore, che è – così continua il papa – “la grande sorgente della spiritualità della Chiesa, modo suo proprio di ricevere le irradiazioni dello Spirito di Cristo, espressione radicale e insostituibile della sua attività religiosa e sociale, inviolabile difesa e risorgente energia nel suo difficile contatto col mondo profano” (ibid., p.
231, n.
179).
Proprio il cristiano aperto, la Chiesa aperta al mondo hanno bisogno di una robusta vita interiore.
Carissimi, che dono inestimabile per la Chiesa la lezione del servo di Dio Paolo VI! E com’è entusiasmante ogni volta rimettersi alla sua scuola! È una lezione che riguarda tutti e impegna tutti, secondo i diversi doni e ministeri di cui è ricco il Popolo di Dio, per l’azione dello Spirito Santo.
In questo Anno Sacerdotale mi piace sottolineare come essa interessi e coinvolga in modo particolare i sacerdoti, ai quali papa Montini riservò sempre un affetto e una sollecitudine speciali.
Nell’enciclica sul celibato sacerdotale egli scrisse: “Preso da Cristo Gesù (Filippesi 3, 12) fino all’abbandono di tutto se stesso a lui, il sacerdote si configura più perfettamente a Cristo anche nell’amore col quale l’eterno Sacerdote ha amato la Chiesa suo corpo, offrendo tutto se stesso per lei…
La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta infatti l’amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio” (“Sacerdotalis coelibatus” 26).
Dedico queste parole del grande papa ai numerosi sacerdoti della diocesi di Brescia, qui ben rappresentati, come pure ai giovani che si stanno formando nel seminario.
E vorrei ricordare anche quelle che Paolo VI rivolse agli alunni del Seminario Lombardo il 7 dicembre 1968, mentre le difficoltà del postconcilio si sommavano con i fermenti del mondo giovanile.
“Tanti – disse – si aspettano dal papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi.
Il papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a chiunque altro.
Sarà Lui a sedare la tempesta…
Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera.
È questa la condizione che Gesù ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza.
Anche il papa ha bisogno di essere aiutato con la preghiera” (Insegnamenti VI, [1968], 1189).
[…] Preghiamo perché il fulgore della bellezza divina risplenda in ogni nostra comunità e la Chiesa sia segno luminoso di speranza per l’umanità del terzo millennio.
Ci ottenga questa grazia Maria, che Paolo VI volle proclamare, alla fine del Concilio Ecumenico Vaticano II, Madre della Chiesa.
Amen! BENEDETTO XVI, Omelie dell’anno liturgico 2009 narrato da Joseph Ratzinger, papa, a cura di Sandro Magister, Libri Scheiwiller, Milano, 2009, pp.
400, euro 15,00.
Alla vigilia dell’Avvento è uscito in Italia un libro che raccoglie le omelie di Benedetto XVI dell’anno liturgico appena trascorso.
Ogni anno liturgico va da Avvento ad Avvento.
È una grande narrazione sacramentale che, di messa in messa, ha questa particolarità: realizza ciò che dice.
Il protagonista della narrazione, Gesù, non è semplicemente ricordato, ma è presente ed agisce.
Le omelie sono la chiave di comprensione della sua presenza e dei suoi atti.
Dicono chi egli è e che cosa fa oggi, “secondo le Scritture”.
Questo, almeno, è ciò che si apprende ascoltando papa Joseph Ratzinger, straordinario omileta.
Le omelie sono ormai un segno distintivo del pontificato di Benedetto XVI.
Forse ancora il meno noto e capito, ma sicuramente il più rivelatore.
Le scrive in buona misura di suo pugno, a tratti le improvvisa, sono quanto di più genuino esce dalla sua mente.
Ad esse si dedica in misura preponderante e crescente.
Le omelie del penultimo anno liturgico – anch’esse pubblicate in un volume un anno fa dallo stesso editore – erano state ventisette; in questa nuova raccolta sono quaranta.
E ad esse vanno aggiunte le “piccole omelie” che il papa pronuncia la domenica all’Angelus di mezzogiorno, sulle letture della messa del giorno: tutte inconfondibilmente di suo pugno, anch’esse riprodotte in appendice a questo volume.
Per facilitare la lettura, nel volume ogni omelia è seguita dai testi delle letture bibliche della relativa messa.
Benedetto XVI, infatti, fa riferimento sistematico a questi testi.
E non solo.
Quando serve, il lettore trova riprodotti anche altri testi liturgici commentati dal papa nell’omelia: dal “Magnificat” del vespro al “Te Deum” dell’ultimo dell’anno, dal “Victimæ pascali laudes” del giorno di Pasqua al “Veni Sancte Spiritus” di Pentecoste.
Lo scorso Giovedì Santo papa Ratzinger commentò a lungo il canone – cioè la preghiera centrale della messa – che si legge quel giorno nella liturgia di rito romano.
E anche questo canone il lettore trova trascritto nel libro, sia in latino che in lingua moderna.
Le omelie papali sono ordinate secondo la scansione dell’anno liturgico, di domenica in domenica e di festa in festa, dall’Avvento al Natale, alla Quaresima, a Pasqua, a Pentecoste e oltre.
Ma sotto ogni titolo è sempre specificato dove e come il rito è stato celebrato: ad esempio nella Cappella Sistina battezzando alcuni bambini, oppure a Gerusalemme, a Betlemme, in Camerun, in Angola, nell’uno o nell’altro dei viaggi papali.
In ogni omelia, infatti, Benedetto XVI “situa” la sua predicazione, la applica alla comunità alla quale parla, oppure ricava dal contesto una lezione per tutti.
Un esempio lampante è l’omelia riprodotta qui di seguito, che nel libro non c’è perché pronunciata mentre esso era già in stampa.
Benedetto XVI l’ha letta durante la messa da lui celebrata lo scorso 8 novembre a Brescia, nella diocesi natale di papa Giovanni Battista Montini, Paolo VI.
E a questo papa egli quindi fa riferimento, oltre che alle letture bibliche della messa del giorno.
Un secondo esempio recente della predicazione di papa Ratzinger – per ragioni di data assente dal libro – è la “piccola omelia” dell’Angelus di domenica 15 novembre, anch’essa riprodotta più sotto.
Se è sempre più evidente che Benedetto XVI, col suo “stile” nel celebrare la messa, intende offrire un modello a una Chiesa liturgicamente confusa, lo stesso si può dire che faccia con la sua arte omiletica.
”Piccola omelia” all’Angelus della XXXIII domenica del tempo ordinario di Benedetto XVI Roma, 15 novembre 2009 Cari fratelli e sorelle, siamo giunti alle ultime due settimane dell’anno liturgico.
Ringraziamo il Signore che ci ha concesso di compiere, ancora una volta, questo cammino di fede – antico e sempre nuovo – nella grande famiglia spirituale della Chiesa! È un dono inestimabile, che ci permette di vivere nella storia il mistero di Cristo, accogliendo nei solchi della nostra esistenza personale e comunitaria il seme della Parola di Dio, seme di eternità che trasforma dal di dentro questo mondo e lo apre al Regno dei Cieli.
Nell’itinerario delle letture bibliche domenicali ci ha accompagnato il Vangelo di san Marco, che oggi presenta una parte del discorso di Gesù sulla fine dei tempi.
In questo discorso, c’è una frase che colpisce per la sua chiarezza sintetica: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Marco 13, 31).
Fermiamoci un momento a riflettere su questa profezia di Cristo.
L’espressione “il cielo e la terra” è frequente nella Bibbia per indicare tutto l’universo, il cosmo intero.
Gesù dichiara che tutto ciò è destinato a “passare”.
Non solo la terra, ma anche il cielo, che qui è inteso appunto in senso cosmico, non come sinonimo di Dio.
La Sacra Scrittura non conosce ambiguità: tutto il creato è segnato dalla finitudine, compresi gli elementi divinizzati dalle antiche mitologie: non c’è nessuna confusione tra il creato e il Creatore, ma una differenza netta.
Con tale chiara distinzione, Gesù afferma che le sue parole “non passeranno”, cioè stanno dalla parte di Dio e perciò sono eterne.
Pur pronunciate nella concretezza della sua esistenza terrena, esse sono parole profetiche per eccellenza, come afferma in un altro luogo Gesù rivolgendosi al Padre celeste: “Le parole che hai dato a me io le ho date a loro.
Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato” (Giovanni 17, 8).
In una celebre parabola, Cristo si paragona al seminatore e spiega che il seme è la Parola (cfr.
Marco 4, 14): coloro che l’ascoltano, l’accolgono e portano frutto (cfr.
Marco 4, 20) fanno parte del Regno di Dio, cioè vivono sotto la sua signoria; rimangono nel mondo, ma non sono più del mondo; portano in sé un germe di eternità, un principio di trasformazione che si manifesta già ora in una vita buona, animata dalla carità, e alla fine produrrà la risurrezione della carne.
Ecco la potenza della Parola di Cristo.
Cari amici, la Vergine Maria è il segno vivente di questa verità.
Il suo cuore è stato “terra buona” che ha accolto con piena disponibilità la Parola di Dio, così che tutta la sua esistenza, trasformata secondo l’immagine del Figlio, è stata introdotta nell’eternità, anima e corpo, anticipando la vocazione eterna di ogni essere umano.
Ora, nella preghiera, facciamo nostra la sua risposta all’Angelo: “Avvenga per me secondo la tua parola” (Luca 1, 38), perché, seguendo Cristo sulla via della croce, possiamo giungere pure noi alla gloria della risurrezione.

I Domenica di Avvento anno C

Preghiere e Racconti   Dio ci dona il suo tempo Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico.
Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino.
Tutti diciamo che “ci manca il tempo”, perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico.
Anche a tale riguardo la Chiesa ha una “buona notizia” da portare: Dio ci dona il suo tempo.
Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo.
Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova.
Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di alleanza.
In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.
Tre poi sono i grandi “cardini” del tempo, che scandiscono la storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro l’incarnazione-redenzione e al termine la “parusia”, la venuta finale che comprende anche il giudizio universale.
Questi tre momenti però non sono da intendersi semplicemente in successione cronologica.
Infatti, la creazione è sì all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi.
Così pure l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente.
E a loro volta l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.
Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza.
Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita.
Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: “Vegliate!” (Mc 13,33.35.37).
E’ rivolto ai discepoli, ma anche “a tutti”, perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza.
Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso.
Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù.
InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene.
  Maria, vergine dell’attesa Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna.
Lei è la Vergine dell’attesa, la Vergine dell’Avvento, la Madre dell’attesa.
Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome, viene riferito un fremito d’attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un’altra cosa: «In quel tempo l’angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).
«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese.
Fidanzata è colei che attende.
Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.
Maria viene presentata come la donna che attende.
Fidanzata, cioè.
Solo dopo ci viene detto il suo nome.
L’attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l’ultima.
E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l’ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura.
Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell’ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.
Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.
  Maria, Vergine e Madre dell’attesa Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito.
Vergine in attesa, all’inizio.
Madre in attesa, alla fine.
E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti.
L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi.
L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele.
L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più.
L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini.
L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno.
L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.
Attendere: infinito del verbo amare.
Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.
  Con la lampada accesa E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti, così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.
Un giorno le nozze dell’Agnello le celebreremo tutti quanti.
Saremo tutti invitati, tutti protagonisti.
Verrà questo giorno! Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell’appannamento dei nostri entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto possano sembrare lontane, utopiche.
No, non sono utopie, sono invece i luoghi dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene.
Questo vi annunciamo oggi! Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po’ l’icona di quello che dovremmo essere: con l’abito bianco, con la lampada accesa, in attesa; disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25, 9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».
A voi che oggi non fuggite per la tangente dell’irreale, ma fate una scelta di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l’olio alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere l’attesa».
La vera tristezza Oggi non si attende più.
La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita.
E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio.
Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita.
E ormai i giochi sono fatti.
E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta.
E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata.
E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere.
La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco.
Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere.
Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese.
E forse è vero.
Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne.
Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare.
Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.
Una «pro-vocazione» Oggi l’Avvento c’impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l’impegno e starei per dire anche l’indignazione: indignatevi un po’, fratelli e sorelle! Indignatevi, perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi, non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante violenze…
Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia.
Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della nostra vita, un’icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un po’ più avanti.
Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano ad essere uomini dell’attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell’attesa, che ha aspettato questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece, vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano sempre la gente.
Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo? Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale, interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su rocce che possono farci ruzzolare da un momento all’altro.
Forse abbiamo assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.
Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia dell’umanità.
Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua, che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della guerra giusta o ingiusta, o della difesa…
Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito.
Siamo gente che riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono tante sofferenze.
Sopportiamo facilmente che, all’interno della nostra città, col freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che vivono allo sbando, che non hanno più progetti.
Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri sudari.
Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione di un’attesa di cieli nuovi e terre nuove.
Anche tu, Stefano, che ti accingi ad entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore.
Questo contatto con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l’uva fatta vino, ti mette in rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che vengono scavate nelle cave della storia, della terra.
Scommetto che anche il pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del grano che viene prodotto dai nostri campi! Buona attesa, dunque.
Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci dia da portare un lieto annuncio! (Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 45-54).
  Amare la prima venuta, desiderare la seconda Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare.
Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori.
Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […].
Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore.
Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.
Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo.
Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta.
Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.
(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).
Questo mondo è un luogo buono? Nell’antico Testamento la Bibbia parla del mondo come della creazione buona di Dio e come del mondo dell’uomo, un mondo che Dio tiene in mano e che trasformerà nel suo mondo definitivo.
Tuttavia già l’Antico Testamento sa che il mondo è incrinato, che in esso è presente il peccato, che esistono l’odio e la discordia.
Secondo il punto di vista pessimistico del Qohelet, il mondo si muove in un circolo di delusione e di oppressione.
I profeti interpretano il mondo a partire dalla sua fragilità, ma annunciano contemporaneamente un mondo rinnovato da Dio, un mondo colmo di giustizia e di pace.
Anche nel Nuovo Testamento incontriamo questa doppia concezione.
Paolo e Giovanni interpretano il mondo in modo piuttosto negativo.
Per Giovanni, il mondo si è rifiutato di credere in Gesù.
È, quindi, un mondo che rimane buio, non illuminato.
Parla di “questo” mondo, che si chiude di fronte a Dio.
Ma contro questo mondo chiuso la fede vuole erigere un mondo opposto, nel quale Dio governa e illumina ogni cosa, nel quale l’amore di Dio permea ogni cosa.
Per Paolo, il mondo è connotato soprattutto dal peccato.
Ed è solo un mondo temporaneo, che il cristiano deve sopportare fino a quando Cristo presenterà il nuovo mondo.
Il mondo è il luogo in cui viviamo.
In esso riconosciamo la bellezza della creazione.
Ma contemporaneamente il mondo è il luogo in cui ci dovremmo affermare.
Dovremmo vivere nel mondo, senza lasciarci condizionare dal mondo.
Viviamo piuttosto nel mondo come coloro che hanno la loro vera origine in Dio e che, quindi, plasmano e organizzano il mondo in modo tale che diventi degno di essere vissuto per tutti.
Abbiamo una responsabilità verso questo mondo.
Non possiamo sfruttarlo, ma dovremmo averne cura in modo tale che anche le generazioni future possano vivere bene in esso.
Se il mondo sia un luogo buono è, quindi, una domanda rivolta a noi stessi.
Infatti, se sia un luogo buono per le generazioni che ci seguiranno dipende, non da ultimo, dal modo in cui lo lasceremo a loro.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2008, 181-182).
  Preghiera (prima domenica)   Signore del giorno e della notte, Dio del cielo e della terra, si avvicina l’ora della tua venuta.
Non lasciarci intorpidire in un’attesa sonnolenta.
Desta i nostri cuori alla Parola che non cessi di rivolgerci attraverso i secoli dei secoli.
  Padrone dello spazio e del tempo, nostro Dio, nostro Padre, non lasciarci riaddormentare: rendici attenti all’occasione di salvezza che ci offri, a questi segni incipienti del Regno del tuo Figlio che vive presso di te e tra noi ora e sempre.
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
         Lectio Anno c     Prima lettura: Genesi 33,14-16          Ecco, verranno giorni – oràcolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda.
In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra.
In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.
    v Il messaggio della prima lettura è più che un annuncio di calda speranza.
La sua funzione è di completare la prospettiva escatologica del Vangelo e di richiamare anche il dato storico dell’incarnazione.
Per noi che leggiamo la profezia di Geremia, le sue parole non sono più un semplice annuncio al futuro («verranno giorni…
realizzerò…
farò germo-gliare…»), ma la documentazione di un futuro che è diventato il presente della storia della salvezza.
La Parola di Dio documenta che le promesse divine trovano un compimento e tale compimento è Cristo.
Non sarà difficile la lettura cristologica di questo passo di Geremia.
     Leggiamo di fatto in filigrana il passaggio dall’AT al NT: quello che poteva riferirsi a Davide e alla sua dinastia, appartiene in modo inequivocabile a Gesù di Nazaret, il più illustre discendente di Davide.
L’oracolo rivela quindi un manifesto carattere messianico.
     Il brano si trova nel contesto di un messaggio di consolazione e riprende l’oracolo di 23,5-6.
Esso si compone dell’impegno di Dio a realizzare le sue promesse al popolo nel suo insieme (Israele e Giuda) e ciò avviene mediante la nascita di uno che, discendente da Davide, porterà la «salvezza».                                         Il termine chiave che ritorna tre volte è «giustizia».
Isaia aveva dato a un bambino che doveva nascere il nome profetico di ‘Emmanuele’ (Dio con noi), Geremia quello di ‘Signore nostra giustizia’.
In entrambi i casi si tratta di uno che avrà uno speciale rapporto con Dio, in quanto effettivamente realizzerà, e pienamente, la volontà divina, la ‘giustizia’.
Il testo messianico prepara gli animi ad accogliere Gesù di Nazaret, colui che il NT ci dirà totalmente in comunione con Dio, da essere Lui stesso Dio in quanto Figlio.
     La lettura nel suo insieme invita a coltivare la speranza, virtù non facilmente reperibile nel nostro mondo.
Deve essere una speranza ‘teologale’, in quanto innervata nelle promesse divine e vissuta come gioiosa attesa dal popolo di Dio.
In questo senso dà senso anche al tempo liturgico che stiamo vivendo.
  Seconda: 1Tessalonicesi 3,12-4,2          Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.
Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.
Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
    v La speranza e l’attesa si coniugano felicemente con l’impegno: si va incontro al Signore nell’esercizio sereno e quotidiano dei propri doveri sociali e cristiani.
Tra tutti eccelle quello dell’amore.
     Il brano comprende i versetti conclusivi della prima parte della lettera (capp.
1-3) e quelli iniziali della seconda (capp.
4-5).
I versetti 12-13 creano un’atmosfera soffusa di preghiera e contengono due richieste per la comunità.                                         Nella prima Paolo domanda a Dio di appianare le difficoltà perché possa giungere a Tessalonica.
È un desiderio, una sorta di augurio, bene espresso in greco dal modo ottativo che ha appunto questa sfumatura.
Paolo non programma se non in comunione con la volontà divina che tutto dirige.
E come precedentemente era stato Satana a bloccare il cammino verso la comunità (cf.
2,18), così ora solo Dio può concedere il raggiungimento dell’agognata meta.
Il desiderio di Paolo rimane comunque aperto alle disposizioni della imperscrutabile volontà divina.
È come se egli dicesse: «se, come, quando Dio vorrà».
È giusto e doveroso che il missionario in servizio al Vangelo faccia dei progetti, ma è altrettanto vero che deve essere disposto a ribaltarli quando la divina Provvidenza ne proponga altri.
     La seconda richiesta di preghiera tocca il cuore stesso della vita comunitaria.
Paolo chiede un amore sovrabbondante, trabocchevole, perché poco amore non è ancora amore.
La pienezza di amore riguarda sia l’interno, la comunità stessa, sia l’esterno, ‘rappresentato da quel «tutti» (v.
12) che abbatte inesorabilmente ogni frontiera ed ogni steccato divisorio.
Solo un amore ‘a tutto campo’ permette di andare serenamente incontro al Signore.
La preghiera si conclude con questa prospettiva escatologica, quasi a ricordare che solo da una visuale completa si capisce meglio la realtà.
     Con una festosa immagine di luce termina la prima parte della lettera.
Con 4,1 siamo in presenza di una nuova parte della lettera, come indicano chiaramente il contenuto ricco di esortazioni e il vocabolario corrispondente.
     Incontro al Signore si va insieme, guidati da coloro che hanno una più matura esperienza di fede.
Paolo è per la comunità di Tessalonica il padre spirituale, il maestro, il fratello e l’amico.
Dato questo sottofondo, può impartire direttive del tipo «avete appreso da noi come comportarvi» (v.
1).
Potrebbe sembrare presuntuoso da parte di Paolo presentarsi come modello, se non si conosce la situazione storica in cui operava.
In un tempo in cui non esistevano testi scritti né tradizioni orali poiché la comunità era da poco fondata,  l’unico riferimento concreto era l’apostolo con il suo insegnamento e comportamento.
Egli non solo ha predicato il Vangelo, ma pure ha insegnato a incarnarlo nella vita quotidiana.
Per questo motivo si offre a modello.
Paolo sarebbe veramente presuntuoso se si ritenesse l’unico punto di riferimento, ma sa bene di essere solo una specie di specchio che riflette il Cristo; la formula completa compare in 1Cor 11,1: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
     La richiesta, di conseguenza, non disturba più il lettore, anzi, gli mostra una dimensione inedita dell’autorità, quella di proporsi agli altri quale esempio da imitare perché tutti insieme si possa «piacere a Dio».
Ravvisiamo in questa espressione un principio fondamentale dell’agire morale che consiste nella sintonia con la volontà divina (cf.
la «giustizia» della prima lettura).
     Quando Paolo impartisce importanti direttive, svolge un ruolo profetico perché agisce da portavoce di Gesù Cristo; al pari della parola annunciata che era recepita come «Parola di Dio» (2,13), così ora le indicazioni comportamentali vengono «da parte del Signore Gesù» (v.
2).
Paolo ha appreso dal Signore, vive la sua fede e la trasmette sotto forma di testimonianza.
Egli va così incontro al Signore e sollecita a fare altrettanto.
  Vangelo: Luca 21,25-28.34-36          In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra.
Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra.
Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
    Esegesi      Il brano è composto da due spezzoni (vv.
25-28: disastri cosmici e manifestazione gloriosa del Figlio dell’uomo; vv.
34-36: richiesta di vigilanza) del cosiddetto ‘discorso escatologico’, cioè che riguarda le ‘cose ultime’ (ta eschata in greco significa le realtà ultime, chiamate anche, alla latina, ‘novissimi’).
     Il discorso si colora con tratti apocalittici.
Il termine ‘apocalittico’ indica la rivelazione (dal greco apokalyptein: togliere il velo, rivelare) del giudizio divino, del mistero e della persona di Gesù.
Può indicare un modo particolare di esprimersi caratterizzato dalla rivelazione di segreti riguardanti la fine dei tempi e il corso della storia.
Poiché la descrizione è spesso affidata a un linguaggio cifrato ricco di visioni e di simboli non raramente terrificanti, nel modo di esprimersi comune ‘apocalittico’ è divenuto sinonimo di ‘catastrofico’.
Le espressioni devono essere capite nel loro significato, senza dimenticare la natura e gli artifici del linguaggio profetico apocalittico.
Si tratta di un modo di comunicare, più che di una precisa descrizione di eventi futuri.
L’accenno agli sconvolgimenti cosmici e alle ‘guerre mondiali’ sono pezzi d’obbligo negli annunci profetici e rappresentavano le immagini più catastrofiche che la fantasia dell’uomo antico avesse a disposizione.
             La distruzione ha effetto di trasformazione.
A differenza del linguaggio popolare che intende ‘apocalittico’ solo come distruzione e basta, il mondo biblico intende la distruzione come il primo passo perché possa sorgere qualcosa di nuovo.
È come l’abbattimento di una casa per costruirne una nuova.
L’espressione «Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte» prepara ed è condizione perché si verifichi la novità che segue.
     Infatti tutto il magma di angoscia e di negatività che precede (cf.
anche la parte non registrata dal testo liturgico, per esempio i vv.
10-24), prepara ed è funzionale al grande annuncio dei vv.
27-28, cuore teologico del brano e principio ispiratore della odierna liturgia della Parola.
Dopo aver ripreso un testo biblico di distruzione, quasi a voler cancellare un universo corrotto, si offre allo sguardo degli eletti la figura vittoriosa di Cristo: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (v.
27).
Nel buio della negatività si accende la luce radiosa del Figlio dell’uomo che si manifesta «con grande potenza e gloria».
È possibile una duplice lettura: quella legata al contesto del brano, di chiara matrice escatologica, e quella legata al tempo liturgico dell’Avvento che riattualizza la venuta storica di Gesù.
     È un momento di grande gioia, non esplicitamente espressa, ma inclusa nelle due espressioni «risollevatevi e alzate il capo» e «la vostra liberazione è vicina».
La venuta di Cristo trasforma radicalmente la storia, imprimendole il marchio positivo della novità da lui apportata.
Con Lui e grazie a Lui nulla è perduto, tutto è sapientemente trasformato.
Del giu-dizio e della sorte degli empi non si parla.
Il discorso non culmina in una visione di giudizio, bensì in una consolante promessa per gli eletti.
Si è smarrito il tono apocalittico, spesso tenebrosi e lugubre, e si è fatto spazio al tono del vangelo, lieta novella per tutti gli uomini.
     All’azione di Cristo deve seguire l’impegno dei cristiani, richiamato dai vv.
34-36, il secondo spezzone del brano liturgico.
Al fine di non edulcorare una realtà che rimane comunque difficile e per non lasciare gli uomini in una neghittosa attesa, il discorso vibra nella parte conclusiva sulle note dell’esortazione.
Poiché la venuta di Cristo è il fatto conclusivo della storia, in quanto costituisce il termine del tempo e l’inizio definitivo dell’eternità, occorre essere saggi e vivere in operosa attesa.
La saggezza sta proprio nel saper riconoscere i segni del tempo finale.
L’impegno potrebbe essere riassunto nel duplice imperativo «Vegliate in ogni momento pregando».
La venuta di Cristo non ci deve trovare distratti da mille cose inutili o, peggio, nocive.
Vegliare è il modo storico di rispondere alla prima venuta di Gesù, la sua incarnazione.
È un vegliare fatto di serena attività che rifugge dall’ansia nevrotica del futuro come pure da una dissennata irresponsabilità.
È una attività in comunione con il divino, reso manifesto da quel «pregando» che Luca ama inserire con insistenza nel suo Vangelo e che anche qui mette ‘in più’ rispetto alla sua probabile fonte, il Vangelo di Marco.
  Meditazione      I temi che caratterizzano la liturgia della Parola di questa prima domenica di Avvento si intrecciano simbolicamente con la prospettiva suggerita ai credenti dai testi scritturistici presentati nelle ultime domeniche del tempo ordinario.
La visione che si apre al nostro sguardo è ancora quella del tempo e della storia colti nella loro fase finale, in relazione con il compimento della promessa di Dio, quella promessa di bene fondata sulla fedeltà del Signore al popolo di Israele…
e gratuitamente estesa ad ogni uomo: «Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele…
In quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto…» (Ger 33,14-15).
Sono tempi e giorni, come ci ricorda il profeta Geremia, che verranno, e che dunque devono essere attesi nella pazienza e nella speranza, sapendo discernere fin d’ora i segni della salvezza veniente.
La prospettiva che apre lo sguardo credente sugli ultimi tempi offre così una qualità singolare alla storia che l’uomo è chiamato a vivere, plasmando quegli atteggiamenti che ci permettono di camminare sul crinale del già e non ancora: la vigilanza, l’attenzione ai segni, la pazienza, il discernimento.
È soprattutto la pericope di Luca ad aiutarci a focalizzare questa visione di fede sulla storia e sul suo compimento.
     Pur rifacendosi al ricco immaginario apocalittico fornito dalla tradizione giudaica, la prospettiva del discorso escatologico di Gesù riportato in Luca non sembra eccessivamente preoccupata di fornire elementi di identificazione o criteri precisi di discernimento che permettano di intravedere l’approssimarsi del compimento della storia.
Ciò che deve stare a cuore al discepolo è piuttosto il modo con cui si è chiamati a vivere in questa storia da credenti, tenendo sempre lo sguardo volto al compimento.
Il credente può sempre cadere in due trappole: o la tentazione di una impazienza che tende ad anticipare il compimento o la rassegnazione di chi non aspetta più nulla, disimpegnandosi nella storia.
Gli imperativi del discernimento (Lc 21,29-33), dell’attenzione (vv.
34-35) e della vigilanza orante (v.
36) sono un antidoto ad ogni pretesa o delusione di fronte al tempo, al suo scorrere e alle sue contraddizioni, e permettono di essere umilmente radicati e impegnati in questa storia nell’attesa di un compimento che è solo nelle mani di Dio.
Si potrebbe dire che la qualità della presenza del credente nella storia è data, secondo il testo di Luca, da due movimenti.
Il primo è caratterizzato dalla pazienza che permette di resistere nel tempo dell’attesa e custodire il cuore della propria vita da ciò che lo minaccia, radicati nella fedeltà di Dio alle sue promesse: «con la vostra pazienza (en te upomone) salverete la vostra vita» (Lc 21,19).
Questo è l’atteggiamento che caratterizza il tempo della Chiesa, ponendo i credenti in continua tensione verso il Signore e impegnandoli a testimoniare nella storia il desiderio dell’incontro con il Veniente.
Il secondo movimento, quasi contrapposto alla apparente staticità di una paziente attesa, si esprime in una sorta di liberazione, di ripresa di vita, di gioia: allora vedranno il Figlio dell’uomo venire…
risollevatevi ed alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (vv 27-28).
Di fronte agli eventi che annunciano un disfacimento di questo tempo e di questo mondo e che, generando angoscia e disperazione, rendono l’uomo incapace di guardare in faccia la storia per comprenderne il senso, colui che ha atteso il Figlio dell’uomo intuisce che tutto ciò che sta avvenendo orienta all’incontro.
Il credente è chiamato a guardare con libertà e parresia, fiducia e desiderio il Volto del suo Signore che è vicino, anzi è invitato a scorgerlo già negli avvenimenti.
Il tempo della pazienza è terminato; può alzarsi e riprendere la pozione dell’uomo libero.
Ma ciò che permette il passaggio dalla pazienza alla liberazione, ciò che permette di comprendere questa storia è l’incontro con un Volto: il Volto di colui che «viene su una nube con grande potenza e gloria» (v.
27).
È il Volto del crocifisso e risorto, del trafitto verso il quale ogni uomo è chiamato a volgere lo sguardo (cfr.
Gv 19, 37), a rivelare il senso e il compimento della storia, di ogni storia: la storia, ogni storia è sanata e salvata dalle ferite di Colui che viene sulle nubi con grande potenza e gloria.
È questa la promessa di bene e il germoglio giusto scorti da lontano dal profeta Geremia.
     «Con la vostra pazienza salverete la vostra vita […] risollevatevi e alzate il capo…
per comparire davanti al Figlio dell’uomo» (vv.
19.28.36).
In queste espressioni del testo di Luca possiamo inoltre scorgere la dinamica della speranza, il faticoso cammino interiore che trasforma la vita del credente in spazio aperto, pronto all’incontro con il Veniente.
È tuttavia necessario percorrere queste tappe per radicare la speranza nella propria vita, trasformarla in stile che da spessore alle relazioni e strappa l’esistenza al ripiegamento su di sé.
Colui che dispera, si nega, perde la sua coesione interiore, abdica alla vita; il disperato è colui che non alza il capo, cioè non sa assumere la dignità propria dell’uomo.
Nella parola di Gesù, invece, abbiamo tre volti della speranza, tre spazi che in progressione aprono all’incontro con il volto di colui che è la nostra speranza.
Anzitutto la speranza permette di discernere la verità del tempo dell’attesa.
È nella pazienza (nel senso etimologico del termine greco, «stare sotto un peso») che l’uomo può custodire integra e vera la propria vita; ma è la speranza a rendere l’attesa paziente tempo di discernimento, durante il quale, nonostante le contraddizioni (i colpi che tendono a spostarci e a far cambiare posizione), è possibile mettere a fuoco ciò che è veramente essenziale («le mie parole non passeranno»: v.
33).
Chi sa dimorare nella pazienza, custodendo vigile la speranza, ha la forza di riprendere la posizione eretta, vincendo così ogni tentazione di ripiegamento.
E questo è possibile perché all’orizzonte della propria esistenza, della storia (nonostante i segni contrari) scorge l’approssimarsi di ‘Colui che viene’.
Se si è conservato sempre vigile lo sguardo del cuore sul volto luminoso del Risorto, allora si saprà riconoscerlo quando egli viene a liberarci.
Infine, il frutto della speranza è la parresia, la piena fiducia, lo stare faccia a faccia con il Signore: lo sguardo del figlio che non ha più paura e sta in piedi, da persona pienamente liberata, davanti al suo Signore.
     «Vegliate in ogni momento pregando…» (v.
36).
Speranza e vigilanza diventano così i due percorsi essenziali su cui il credente cammina nel tempo.
La speranza rende vigile la nostra vita, custodisce agile il nostro cuore, ravvivando in esso il continuo desiderio dell’incontro con il Veniente.
E la vigilanza orante accresce in noi la speranza, nutrendo di essa ogni nostro desiderio.
Un cuore non abitato dalla speranza e dalla vigilanza diventa pesante, ingombro di tante presenze che lo stordiscono.
     E infine non si deve dimenticare che gli imperativi della pazienza, della vigilanza e della speranza assumono un orizzonte ecclesiale.
Non sono rivolti semplicemente al singolo discepolo, ma alla comunità dei discepoli, alla Chiesa.
E sulla qualità di testimonianza offerta da questi imperativi, la Chiesa gioca l’autenticità della sua presenza nel tempo e nella storia.
Una Chiesa che sa attendere è una Chiesa viva: sa vivere in coscienza l’unicità e l’irripetibilità del tempo in cui è inserita; è capace di andare al di là di quello che fa, meno preoccupata di riempire con le sue opere gli spazi che la storia gli offre, quanto piuttosto preoccupata a far calare in essa il senso di una incompiutezza, di una speranza, di un cammino verso quella pienezza nell’incontro con il Veniente.
«Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie – ricorda Giovanni Paolo II nella Orientale Lumen 8 – e quindi di autocelebrarsi o abbandonarsi alla tristezza.
Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito…
».