I nostri figli senza maestri

Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza.
Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere.
E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa—compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge.
E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.
Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti.
Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene.
Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.
Se, infatti, padri e madri—come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione.
E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente.
Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno.
Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani.
Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti.
È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.
Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise.
Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani.
Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto.
Speranze —condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme.
Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
Corriere della Sera 30 aprile 2009

Maestri e testimoni

MASSIMO BORGHESI, Maestri e testimoni.
Profili filosofico-teologici del ‘900, , Messaggero, Padova 2009,  EAN 9788825022544, pp.
124, euro 13,90 Il XX secolo, l’era dell’ateismo, del nichilismo e del totalitarismo politico, è stato un periodo profondamente tragico.
Esso ha visto gli intellettuali ora schierati a favore del potere, ora coraggiosi testimoni della verità.
Tra questi ultimi emergono figure luminose di autori cristiani, ebrei, laici che non hanno rinnegato la dimensione religiosa, l’unica che consentiva di non arrendersi alle seduzioni della potenza, e che hanno pagato spesso un duro prezzo per la loro fedeltà all’ideale.
Alcuni tra loro sono tra i protagonisti del pensiero e della vita spirituale del ‘900.
Il volume presenta una «galleria» di autori significativi come Camus, Buber, Bonhoeffer, Guardini, Stein, de Lubac, Giussani.
Completano il quadro le interviste a tre grandi del ‘900: Gadamer, Del Noce, Leclercq.
La loro memoria assume un valore particolare in un contesto, quello attuale, in cui i grandi maestri sono scomparsi e la vita, dei credenti come dei non credenti, chiede nuovi testimoni della verità.
Autore MASSIMO BORGHESI, è professore ordinario di filosofia morale presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Perugia.
Profondo esperto di filosofia contemporanea, sensibile ai fenomeni sociali e culturali del Novecento e del terzo millennio, da una prospettiva umana ed evangelica, è autore di numerosi libri pubblicati e tradotti da case editrici italiane ed estere.

Capire la situazione in Iran

La loro religione: lo sciismo Il termine sciita deriva da shi’a (= partito).
Sono seguaci di Alì, cugino e genero di Maometto.
Essi considerano i primi tre califfi usurpatori, perché Maometto designa Alì come suo successore; pertanto può essere imam (= califfo, ma anche teologo e giurista autorevole) solo un discendente di Maometto attraverso la figlia Fatima e suo marito Alì, dopo che Alì fu assassinato nel 661.
Nella dottrina sciita l’Imam è il capo della comunità, dotato dell’Isma cioè l’infallibilità e l’impeccabilità.
Al contrario, non ravvisano l’autorità della Sunna.
Per loro il Corano è il testo sacro immodificabile ed intoccabile, perché parola di Dio.
Essi formano la confessione islamica ufficiale dell’Iran, si dividono in ismailiti, imamiti e in altri gruppi minori.
Respingono la Sunna e professano dottrine segrete e misteriose.
Così, ad esempio, la setta sciita degli imamiti duodecimani ammette l’esistenza storica di 12 imam legittimi, discendenti maschili di Alì e Fatima, impeccabili, infallibili e unici interpreti della legge religiosa.
Il dodicesimo imam MUHAMMAD AL-MAHDI, scomparso nell’878, non sarebbe morto, ma occultato in un luogo misterioso, per ricomparire prima della fine del mondo.
La sua presenza attiva in mezzo ai fedeli avviene attraverso i dottori della legge (= mugtahidun), i più autorevoli dei quali in Iran sono gli ayatollah(e pare che Mahmud Ahmadinejad creda ciecamente nella sua prossima venuta, tanto che “progetta” un’ampia autostrada per accoglierlo: Cfr quotidiani italiani del 19- 20 giugno 2009)) La repubblica islamica La Rivoluzione iraniana del 1979 trasformò la millenaria monarchia persiana in una Repubblica Islamica la cui costituzione si ispira alla legge coranica, la sharia.
Khomeini, capo del consiglio rivoluzionario, assunse di fatto il potere, mentre gli uomini del vecchio regime venivano sommariamente processati e giustiziati a centinaia, il 30 marzo un referendum sancì la nascita della Repubblica Islamica dell’Iran con il 98% dei voti; vennero banditi bevande alcoliche, gioco d’azzardo e prostituzione, iniziarono le persecuzioni contro gli omosessuali e chiunque assumesse comportamenti non conformi alla sharia.
La nuova costituzione prevedeva l’esistenza parallela di due ordini di poteri: quello politico tradizionale rappresentato dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento, a cui furono riservati compiti puramente gestionali, e quello di ispirazione religiosa affidato a una Guida Suprema (faqih) coadiuvata da un Consiglio dei Saggi (velayat-e faqih), cui fu demandato l’effettivo esercizio del potere e che riconosceva nell’Islam e non nelle istituzioni il vertice dello Stato(Teocrazia) Venne istituito anche un corpo di guardiani della rivoluzione (pasdaran).
Tra le prime decisioni del Consiglio ci fu l’avvio di massicce espropriazioni e nazionalizzazioni che cambiarono radicalmente la struttura economico-produttiva dell’Iran(M.
Emiliani, M.
Ranuzzi de’ Bianchi, E.
Atzori, Nel nome di Omar.
Rivoluzione, clero e potere in Iran, Bologna, Odoya, 2008).
I poteri in Iran: La Guida Suprema L’architettura istituzionale uscita dalla rivoluzione del 1979 è complessa.
Il punto di riferimento è la Guida Suprema, un religioso, che viene eletto dall’Assemblea degli Esperti, 86 religiosi, a loro volta prescelti a suffragio universale sulla base di liste preparate dal governo.
La Guida Suprema ha un incarico a vita, anche se può essere rimosso in casi eccezionali dall’Assemblea degli Esperti.
Essi hanno un mandato di otto anni, rinnovabile.
Il loro presidente è l’uomo più potente dopo la Guida Suprema ora è ancora Ali Khamenei.
Egli nomina metà dei 12 membri del Consiglio dei Guardiani (gli altri sono laici nominati dal Parlamento), una specie di Corte Costituzionale, che vigila sul rispetto delle regole e seleziona i candidati alla presidenza della Repubblica.
La Guida Suprema designa i comandanti delle forze armate, il capo supremo della Giustizia, i direttori di radio e tv, insedia il presidente della Repubblica dopo le elezioni.
Dopo la morte di Khomeini, nel 1989, la Guida Suprema è sempre stato Ali Khamenei.
Il presidente dell’Assemblea degli Esperti è il suo rivale Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che comanda anche lo strategico Consiglio per il Discernimento del Sistema (ma è stato rimosso).
In sintesi, la Guida Suprema ha questi compiti: 1.
Delineare le politiche generali della Repubblica islamica dell’Iran, a seguito di consultazioni con il Consiglio nazionale di discernimento delle opportunità.
2.
Supervisione sulla corretta esecuzione delle politiche generali del sistema.
3.
Emanazione dei decreti per i referendum nazionali.
4.
Assunzione del comando supremo delle forze armate.
5.
Dichiarazioni di guerra e pace, e mobilitazione delle forze armate.
6.
Nomina, destituzione e accettazione delle dimissioni di: 1.
i fuqaha’ del consiglio dei Guardiani.
2.
la suprema autorità giudiziaria del paese.
3.
il capo della radio e televisione della Repubblica islamica dell’Iran.
4.
il capo dello stato maggiore.
5.
il comandante in capo del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche.
6.
i comandanti supremi delle forze armate.
7.
Risolvere le differenze tra le tre armi delle forze armate e regolare le loro relazioni.
8.
Risolvere i problemi che non possono essere risolti con metodi convenzionali, attraverso il Consiglio nazionale delle emergenze.
9.
Firmare i decreti che formalizzano le elezioni popolari per il presidente della repubblica.
10.
Destituzione del presidente della repubblica, con dovuto riguardo agli interessi del paese, dopo che la Corte Suprema lo ha ritenuto colpevole della violazione dei suoi obblighi costituzionali, o dopo un voto dell’Assemblea Consultiva Islamica (il Majles) che ne certifica l’incompetenza in base all’articolo 89 della costituzione.
11.
Condonare o ridurre le sentenze degli incarcerati, all’interno dei criteri islamici, su raccomandazione del capo del sistema giudiziario.
Il capo può delegare parte dei suoi doveri e poteri ad altre persone.
I poteri dello Stato: il Presidente della Repubblica e il Parlamento.
Il Presidente della Repubblica, eletto ogni quattro, anni è il capo dell’esecutivo.
È la più alta carica istituzionale dopo la Guida Suprema.
Ha un ruolo di governo più che di rappresentanza.
Ha in mano la politica economica ed estera, presiede il consiglio dei ministri , ma non controlla le forze armate (che si richiamano alla Guida Suprema).
Mahmud Ahmadinejad, il primo laico dal 1981, è legato fortemente a Khamenei e ai religiosi conservatori.
Ha favorito gli interessi economici del corpo paramilitare dei Guardiani della Rivoluzione, soprattutto nel settore petrolifero, e moltiplicato per 15 i finanziamenti al Consiglio dei Guardiani.
Il Parlamento (Majles) ha 290 membri e conta poco.
Ma può costringere alle dimissioni un ministro.
I Guardiani della Rivoluzione e i Basiji.
I Guardiani della rivoluzione (o Pasdaran) sono uno dei due corpi delle forze armate, sotto un unico comando assieme alle forze regolari.
Ma di fatto bilanciano a favore dei religiosi l’esercito regolare (largamente confitto nella rivoluzione).
Hanno 125 mila uomini.
Il comandante è nominato da Khamenei, che ha consentito, assieme ad Ahmadinejad, la loro espansione nei settori economici statali: di fatto controllano un terzo del Pil.
I Basiji, o difensori degli oppressi, sono una milizia di volontari (una specie di pattuglia all’ennesima potenza).
L’organico è di 90 mila uomini, ma possono mobilitarne un milione.
Sono il braccio armato (di bastoni e coltelli) dei religiosi in caso di repressioni.
I riformisti e Mousavi.
I due uomini forti dell’assetto istituzionale sono la Guida Suprema Khamenei e il presidente dell’Assemblea degli Esperti Rafsanjani.
Entrambi hanno servito come presidenti della Repubblica e si sono costruiti una rete di consenso e di interessi economici.
Khamenei è legato ai Pasdaran e al clero più intransigente, Rafsanjani alle classi commerciali borghesi: ha fatto arricchire parecchi oltre a essersi arricchito.
Rafsanjani venne sconfitto da Ahmadinejad nel 2005, dopo che aveva servito per due mandati negli Anni Novanta.
Gli succedette Mohammad Khatami, la grande speranza dei riformatori.
Hossein Mousavi fu primo ministro tra il 1985 e il 1989, gli anni della guerra con l’Iraq, sotto la presidenza Khamenei.
Ma è poi passato nel campo dei riformatori, facendo riferimento a Khatami e allo stesso Rafsanjani.
Il ruolo degli studenti nelle proteste.
Il 70% della popolazione iraniana ha meno di 30 anni.
Gli universitari di Teheran rappresentano la fascia sociale più occidentalizzata e informata del Paese.
Nel 1999 scatenarono una rivolta repressa nel sangue (decine di morti, moltissimi scomparsi o messi a tacere con minacce).
Il loro obiettivo erano i conservatori e le loro restrizioni (specie nei costumi e nei diritti delle donne).
Presidente della Repubblica era il riformatore Khatami, che però non poteva seguire il programma troppo filo-occidentale degli universitari.
Infatti, prontamente fu tolto di mezzo e rimanere solamente una “bella figura” dell’apparato restrittivo ed indicibilmente oppressivo di qualsiasi giovanile richiesta come cantare, ballare, ritrovarsi in gruppi, truccarsi, liberi di vestire e sposare come si desidera…) Come e cosa succederà nello scacchiere regionale e internazionale.
Ahmadinejad ha ribaltato la politica di appeasement di Khatami con l’Occidente.
La sfida a Israele a gli Stati Uniti, in chiave interna, cementa il consenso tra i Pasdaran (dai quali proviene) le milizie, i religiosi, che a loro volta distribuiscono le prebende statali attraverso la rete di moschee con le loro appendici associative e di mutuo soccorso.
I finanziamenti a Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza servono a tenere sotto pressione Israele.
Il nucleare è fonte di orgoglio nazionale e vasto consenso.
Ma Ahmadinejad si è avvicinato al Patto di Shanghai che unisce Russia, Cina e i Paesi dell’Asia centrale (in Tagikistan e Uzbekistan tra l’altro si parla largamente il persiano), ma ha anche stretto rapporti amichevoli con Afghanistan (altro Paese di lingua persiana) e Pakistan.
Il suo viaggio al vertice di Ekaterinburg ha suggellato questo nuovo asse che dovrebbe fornire sbocchi alle esportazioni e mettere a disposizione alta tecnologia Mahmud Ahmadinejad Nato con il nome di Mahmoud Saborjhian nel 1956 nel villaggio di Arādān, vicino Garmsar, figlio di un fabbro, si trasferì con la famiglia a Tehrān quando aveva un anno.
Il cognome di famiglia fu successivamente cambiato in Ahmadinejad, che significa “della razza di Maometto” ovvero “della razza virtuosa”.
E’ sesto e attuale Presidente della Repubblica islamica dell’Iran dal 3 agosto 2005.
E’ stato sindaco di Teheran dal 3 maggio 2003 fino al 28 giugno 2005, ed è un conservatore religioso; prima di diventare sindaco era un ingegnere civile e un professore all’Università Iraniana di Scienza e Tecnologia.
È stato eletto presidente dell’Iran il 24 giugno 2005, al secondo turno delle elezioni presidenziali, battendo il rivale, l’ex-presidente Ali Akhbar Hāshemi Rafsanjāni.
Aḥmadinejād ha spesso mandato segnali discordanti all’opinione pubblica internazionale circa i suoi progetti presidenziali.
Secondo alcuni osservatori negli Stati Uniti, questa linea sarebbe stata studiata per ottenere i consensi sia dei conservatori religiosi, sia delle classi meno agiate.
Il motto usato nella sua campagna elettorale fu: “è possibile e possiamo farlo”.
Nella sua campagna presidenziale ha avuto un approccio populista, con grande enfasi data dal suo semplice stile di vita.
Si è paragonato a Moḥammad ʿAli Rajāi — il secondo Presidente dell’Iran — dichiarazione che ha sollevato obiezioni da parte della stessa famiglia di Rajāi.
Aḥmadinejād sostenne di voler creare in Iran un “governo esemplare per i popoli del mondo”.
Si autodefinisce un “fondamentalista”, ovvero un politico che si ispira ai fondamenti dell’Islam e della originaria rivoluzione islamica in Iran.
Uno dei suoi obiettivi sarebbe quello di “mettere sulle tavole del popolo i profitti del petrolio”, ovvero quello di operare per una redistribuzione delle ricchezze derivanti dalla vendita del petrolio.
Ma non è stato così.
Si è invece espresso apertamente contro gli Stati Uniti d’America.
Ha inoltre dichiarato che le Nazioni Unite sono “unilateralmente schierate contro l’Islam” e si è chiaramente opposto al potere di veto che hanno i cinque Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dichiarando che “non è giusto che pochi Stati possano imporre il loro veto a decisioni di carattere globale.
Se un tale privilegio deve continuare ad esistere, allora deve essere esteso anche al mondo dell’Islam, la cui popolazione ha raggiunto quasi il miliardo e mezzo di persone”.
Egli é molto noto sin dal tempo della sua elezione come il protetto di Khāmenei.
Durante la conferenza internazionale Il mondo senza sionismo, nell’ottobre 2005, Mahmud Ahmadinejād, citando Āyatollāh Khomeyni (il vecchio leader supremo di Iran) ha detto: «…questo regime occupante Gerusalemme è destinato a scomparire dalla pagina del tempo…», con riferimento allo Stato di Israele (http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/esteri/moriente21/moriente21/moriente21.html).
L’inizio dell’avversione del governo iraniano nei confronti di quello israeliano e la messa della parola fine alle relazioni tra i due paesi vanno collocati nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione islamica (detta anche “khomeinista”) del 1979.
In occasione del congresso della FAO svoltosi a Romail 3 giugno 2008ha ribadito le sue accuse contro Israele(http://www2.irna.ir/en/news/view/line-17/0806023503151017.htm), suscitando proteste di varie parti politiche in Italia e all’estero.
Non dimentichiamo poi discriminazioni amministrative per gli ebrei che vivono in Iran, come l’assegnazione delle case popolari, gli avanzamenti di carriera, ecc.) e quelle nel diritto penale e civile (la testimonianza in tribunale di un non-musulmano vale la metà di quella di un fedele islamico; se un non-musulmano si converte all’islam incamera l’intera eredità paterna, ecc.).
Molti cittadini iraniani di religione ebraica per sfuggire da questa situazione di emarginazione cercano di lasciare il paese attraverso l’ambasciata israeliana in Turchia (in Iran non ci sono rappresentanze diplomatiche israeliane o americane).
In Israele sono presenti circa 150,000 ebrei di origini persiane, i cosiddetti parsim.).
Durante la Conferenza internazionale sul razzismo denominata “Durban II” e tenutasi a Ginevra il 20 aprile 2009, fu proprio l’esordio dei lavori dell’assise dei delegati ONU che si sciolse in una plateale diserzione dei rappresentanti di alcuni Paesi occidentali (gli Stati Uniti, Israele, il Canada, l’Australia e l’Ita¬lia avevano già deciso di non partecipare alla Conferenza, anche quale effetto della prima conferenza di Durban del 2001 -Conferenza mondiale contro il razzismo- e delle ridotte garanzie offerte in sede di lavori preparatori nella seconda assise).
La pubblica accusa di Ahmadinejād contro Israele (senza citarlo direttamente) fu quella di aver consolidato un governo razzista in Medio Oriente dopo il 1945, utilizzando l’ “aggressione militare per privare della terra un’intera nazione, sotto il pretesto della sofferenza degli ebrei”, e invitando “immigrati dall’Europa, dagli Stati Uniti e dal mondo dell’Olocausto per stabilire un governo razzista nella Palestina occupata”.
Attualmente, egli ha avviato migliori relazioni con la Russia Però il suo non vive una buona situazione interna.
Nonostante Khomeini volesse instaurare una “democrazia islamica”, le milizie popolari del regime e i pasdaran esercitano uno stretto controllo sulla radio e sulla stampa.
Inoltre numerose dimostrazioni di studenti sono state represse.
Come se non bastasse, l’applicazione della legge islamica limita fortemente i diritti delle donne (ad esempio in un tribunale la testimonianza di una donna vale metà di quella di un uomo).
Le minoranze sono perseguitate (adesso perseguita i Curdi, dopo averli sostenuti contro Saddam.
Sotto il profilo economico, la politica di Ahmadinejad è stata finora fallimentare: a causa delle sanzioni, molti generi di prima necessità e beni di lusso scarseggiano.
A causa di ciò, l’inflazione,che al tempo dello Scià Reza Pahlavi era del 12-15% ora arriva al 25-30%.
I pasdaran ormai controllano in pieno la vita del paese; oltre a ispezionare il parlamento, verificano anche i costumi della gente; numerose ditte a loro legate hanno il monopolio degli appalti e delle commesse governative .
All’interno dei guardiani vi è anche una corruzione molto vasta, e molti di essi sono coinvolti nell’importazione clandestina di beni che non possono arrivare legalmente in Iran per via delle sanzioni.
La sua politica finanziaria è sotto attacco ed il presidente è accusato di aver condotto la Repubblica islamica alla rovina finanziaria.
Nel dicembre 2008, Ahmadinejad aveva annunciato che il suo governo aveva stabilito un piano di salvataggio che avrebbe consentito alle classi socio-economiche più deboli di rimettersi in piedi.
Inoltre, a causa del blocco degli scambi iraniani causati dai toni anti-occidentali e anti-israeliani del presidente, l’Iran, quarto estrattore di petrolio al mondo, raziona la benzina perché, vista la mancanza in patria di tecnologie adeguate alla lavorazione del pesante greggio iraniano, s’incontrano difficoltà non di poco conto nel farla raffinare all’estero(Cfr.
: :  Pier Luigi Petrillo, Iran, Il Mulino 2008 http://www.mulino.it/edizioni/foreign_rights/scheda_volume.php?isbnart=12603&id_sezione=815 M.
Emiliani, M.
Ranuzzi de’ Bianchi, E.
Atzori, Nel nome di Omar.
Rivoluzione, clero e potere in Iran, Bologna, Odoya, 2008 ISBN 978-88-6288-000-8.).
Mahmud Ahmadinejad, il piccolo uomo con il vestito grigio e l’aspetto tuttaltro che attraente che ha già governato l’Iran dal 1995 con mano di ferro, pare sia stato eletto come presidente di questo spettacolare Paese, per altri quattro anni.
Si grida ai brogli elettorali( può essere), si manifesta per strade e piazze, anche a costo di pagare con la vita.
L’occidente resta sconcertato di fronte ai tumulti, ai morti, alle inarrendevoli dimostrazioni di non accettazione dei risultati delle elezioni in Iran che vedono “confermato” dall’Autorità Suprema Khamenei, Mahmoud Ahmadinejad che di certo non raccoglie molte simpatie né nei Paesi più sviluppati del mondo, né tra gli stessi iraniani.
Infatti , dalla richiesta della guida suprema della Rivoluzione islamica iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, di porre fine alle manifestazioni e di accettare i risultati delle elezioni «limpide e trasparenti, l’opposizione è tornata in piazza a Teheran e la tensione cresce con il passare dei minuti.
Non si sa come andrà a finire, anche per la semplice ragione che lì vige una ferrea teocrazia(Ali Khamenei, può essere paragonato al papa: le sue parole sono decisive ed intoccabili) e le nazioni fortemente democratiche non si permettono di avanzare critiche, non avendo un quadro completo e certo degli esiti.
Ma una cosa è sicura: sebbene siano stati chiusi con violenza molte vie di comunicazione con l’esterno; le coraggiose blogger( tante ragazze tutte in gamba e senza paura dello spauracchio del rigidismo sciita che proibisce qualsiasi innocente manifestazione, come cantare, ballare, mostrare il viso senza velo…), continuano a mantenere i contatti con Twitter, Facebook e altri social network che sicuramente , stavolta, hanno avuto un grande impatto su quello che sta succedendo nel loro paese.
Di fatto, i sostenitori di Mir Hossein Mousavi, il principale opponente di Mahmoud Ahmadinejad, si sono organizzati online per le elezioni dei giorni scorsi.
Facebook, in particolare sta diventando uno strumento fondamentale nelle campagne elettorali: è diventato un modo per eludere i mass media controllati dallo stato, che ovviamente lì sostengono l’attuale amministrazione.
Attualmente Mousavi ha più di 36,000 amici su Facebook, grazie ai quali ha mobilitato i votanti al di sotto dei 30 anni, ossia circa il 50 per cento degli elettori.
I suoi sostenitori gli hanno inoltre creato una pagina Twitter e un canale su YouTube(Cfr.: quotidiani italiani del 20 giugno 2009 e ss.).
Non è- tuttavia- semplice per gli occidentali riuscire a districarsi in questo “groviglio” di feroce religiosità(lo sciismo), di ricchezza(petrolio e pistacchi), di povertà( la maggior parte del popolo vive con pochi euro).
La storia dell’Iran dalla fine dell’Ottocento a oggi, è – soprattutto- la storia dell’ascesa del potere religioso, il racconto della nascita di una teocrazia senza uguali nel mondo.
Il racconto delle repressioni, rivoluzioni, opportunità democratiche e derive tiranniche di un paese che mette a rischio gli equilibri mondiali, minacciando l’Occidente con lo sviluppo della tecnologia atomica nelle mani del fanatismo religioso.
Ma per capire qualcosa di più di questo Paese così lontano, ma così vicino a noi sia per la frequenza dei suoi molti cineasti a Venezia(Kiarostami, Makhmalbaf,…) che per artisti spesso presenti come tuttora alla 53.
ma Biennale d’arte, cercheremo di “riassumere” sinteticamente la loro storia.

Natale del Signore Gesù (anno C)

NATALE DEL SIGNORE   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 52,7-10          Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
    v Il nostro brano, appartenente al così detto secondo Isaia, immagina di descrivere la gioia entusiasta del popolo esiliato, che ascolta un divino messaggero, annunziante che l’esilio è finito e Dio è tornato nella santa città, dimostrandosi salvatore potente.
La nostra liturgia interpreta il brano in chiave messianica.
                                                                      Seconda lettura: Ebrei 1,1-6          Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente.
Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
    v L’introduzione della anonima lettera agli Ebrei si armonizza assai bene con la lettura evangelica.
Anch’essa infatti sembra volerci svelare la misteriosa identità di Gesù Cristo.
Prima di tutto, ci è detto egli è il Figlio di Dio ed è venuto nel mondo per parlarci (come si vede, anche questo testo è vicino a definire Gesù Cristo Verbo di Dio), in qualità di creatore e signore (in quanto erede) di tutte le cose (vv.
1-2).
In secondo luogo, di questo Figlio di Dio, del quale si magnifica ancora la potenza della parola, è detto che, avendo realizzato la purificazione del mondo è assiso alla destra di Dio, superando in dignità gli stessi angeli (vv.
3-6).
  Vangelo: Giovanni 1,1-18          In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
    Esegesi      I primi 18 versetti del c.
I del quarto vangelo contengono certamente una composizione poetica, che non segue le norme della metrica greca, ma le cadenze e le regole della poesia semitica, basata su vari tipi di parallelismo e antitesi cadenzati.
Nella composizione poetica sono però inseriti dei brani in prosa di tipo narrativo o esplicativo.
Le due inserzioni narrative riguardano la testimonianza storica resa da Giovanni Battista al Verbo di Dio: vv.
6-8 e v.
15.
L’inserzione esplicativa del v.
13 sembra ampliare la descrizione dei figli di Dio del v.
12; quella del v.
17 commenta l’accenno alla grazia, fatta nel verso precedente, ricordando che questa è propria di Gesù Cristo, così come la legge è propria di Mosè; il v.
18 fa certamente da conclusione all’intero inno e potrebbe anche farne parte.
È probabile che l’inno a Gesù come Verbo (cioè parola) di Dio esistesse, nelle comunità formatesi attorno all’apostolo Giovanni, come inno liturgico e che il redattore del quarto vangelo lo abbia utilizzato, così come pare abbia fatto Paolo in Fil 2,5ss e in Col l,12ss e altri agiografi in altri libri del Nuovo Testamento.
     La ricchezza delle idee espresse nell’inno, velate per di più dal linguaggio allusivo e fluttuante che è proprio della poesia, non ci consente di farne qui l’intera analisi.
Ci contentiamo di sottolineare i motivi che lo hanno fatto scegliere come lettura evangelica della terza Messa di Natale.
     Ci sono due problemi che la primitiva predicazione cristiana ha dovuto affrontare e che tutt’ora sono ineludibili: il primo è quello della identità personale di Gesù Cristo (chi è costui?); il secondo è quello del rifiuto opposto a Gesù Cristo e al suo vangelo, a cominciare dal suo stesso popolo.
Ambedue i problemi li hanno tenuti presenti i nostri quattro vangeli e, in particolare, i vangeli dell’infanzia di Matteo e Luca.
Si ha l’impressione che il prologo del vangelo di Giovanni voglia rispondere soprattutto a questi due problemi.
     Risponde al primo problema la denominazione di Gesù Cristo come Verbo, ossia Parola di Dio: in quanto Parola di Dio egli appartiene all’area di Dio ed è al di fuori o al di sopra del tempo, in principio (vv.
1-2); l’intera creazione dipende da lui, perché è opera sua (v.
3) e, in particolare da lui deriva la vita, che è lo splendore della creazione ed è in se stessa rivelazione o manifestazione di Dio, vale a dire luce degli uomini (v.
4), contrastata ma non vinta dalle tenebre, cioè dall’ignoranza e dal peccato degli uomini (v.
5): finalmente, questo verbo di Dio, preannunciato dalla testimonianza dell’inviato divino Giovanni Battista (vv.
6-5), si fece carne e prese la sua dimora fra gli uomini, rivelando a loro la gloria del Padre (v.
14).
Questa è la densa e articolata risposta data al problema della identità di Gesù.
     Il secondo problema, quello del rifiuto patito da Gesù nella sua stessa patria, non riceve una spiegazione semplicistica, ma è svelato in tutta la sua dimensione cosmica e universale: esso va riportato cioè al rifiuto che sempre le tenebre hanno opposto alla luce (vv.
5.10-11).
Più che fare infiniti discorsi sull’argomento, occorre vedere ciò che accade a quelli che accolgono il Verbo di Dio fatto uomo: diventano figli di Dio e vengono riempiti dalla grazia, cioè dall’amore del Padre (vv.
12.16).
  Meditazione      «Un giorno santo è spuntato per noi…
oggi una splendida luce è discesa sulla terra».
Il canto al vangelo di questa eucaristia bene ci introduce nello spirito di questo giorno, giorno reso santo da quella «splendida luce» che ha illuminato la notte oscura dell’umanità e ora brilla nella pienezza del suo fulgore.
Il prologo del vangelo di Giovanni (Gv 1,1-18), che con felice intuizione la Chiesa fa proclamare nella Messa del giorno, descrive l’itinerario di questa «luce» che dalle ‘origini’ e dalle ‘altezze’ di Dio ‘scende’ nel mondo per rischiarare le sue tenebre e ridonargli nuova vita.
Là infatti dove arriva la luce, la vita può diffondersi e rifiorire; al contrario, dove tutto è avvolto dal buio, c’è solo il deserto e la morte.
All’inizio della creazione, quando «la terra era informe e deserta» e in essa tutto era ancora tenebra, la prima realtà che Dio fece sorgere dalla potenza della sua parola fu proprio la luce: «Dio disse: “Sia la luce!”.
E la luce fu» (Gen 1,1-3).
La vita prende avvio dalla luce e la luce, a sua volta, simboleggia la vita nel suo dilatarsi e crescere, prendendo forma e colore: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv l,4).
     Il tema della luce attraversa tutto il quarto vangelo e costituisce uno dei motivi fondamentali dell’intera narrazione, costruita appunto sul dualismo e sul contrasto luce/tenebre.
Gesù stesso, durante il suo ministero, non esiterà a dichiarare: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
Ma il motivo della luce è strettamente legato anche a tutta la tematica del ‘vedere’: senza luce è infatti preclusa ogni possibilità di visione delle realtà di questo mondo (il buio rende tutti in qualche modo ‘ciechi’).
La prima lettura e il salmo responsoriale insistono sul fatto che «la salvezza del nostro Dio» giunta a noi in questi giorni ultimi (cfr.
Eb 1,2) è stata veduta da «tutti i confini della terra» (Is 52,10; Sal 97,3).
Allo stesso modo l’evangelista Giovanni, al culmine del suo prologo, dove con poche e incisive parole narra il momento cruciale e irripetibile dell’incarnazione del Verbo («E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»), introduce il ‘noi’ della comunità credente proprio con l’azione del ‘vedere’: «e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14).
Nessuno può vedere Dio, dice tutta la Scrittura, e Giovanni dal canto suo ripete: «Dio nessuno lo ha mai visto», ma, aggiunge subito: «il Figlio unigenito…
è lui che lo ha rivelato» (v.
18).
Noi vediamo «la gloria di Dio» nella «carne» dell’uomo Gesù, nell’umanità fragile e debole che il Verbo ha assunto venendo in questo mondo.
Ancora una volta, il contrasto si fa stridente: la carne, questa realtà caduca e mortale (erba che secca e fiore che appassisce, dicono i profeti: cfr.
Is 40,6-7) diventa epifania di Dio, luogo che irradia lo splendore della sua gloria (cfr.
Eb 1,3).
     La celebrazione del Natale non cessa di accrescere il nostro stupore mostrandoci che quel «bambino nato per noi» (antifona d’ingresso, che riprende Is 9,5) non è altro che il Verbo di Dio, la Parola eterna che è divenuta carne, la Salvezza che tutti i popoli attendevano di vedere.
È in questo piccolo e inerme bambino che «il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni» (Is 52,10), come ci dice il profeta Isaia con un’immagine plastica e incisiva.
‘Snudare il braccio’ vuol dire mostrare tutta la propria forza e potenza, esibire la propria grandezza nella capacità di compiere prodigi che non temono confronti.
Certamente, sentire proclamare questa parola con lo sguardo ancorato al presepe di Betlemme, a quel bimbo «avvolto in fasce che giace nella mangiatoia», non può non suscitare in noi una sorta di meraviglia confusa, di grato smarrimento, di pensoso palpitare del cuore…
     Nel prologo della lettera agli Ebrei (seconda lettura) ci imbattiamo nella solenne affermazione che «Dio ha parlato a noi nel Figlio» (Eb 1,2).
Se «in principio» (Gen 1,1; cfr.
Gv 1,1) Dio aveva già fatto risuonare la sua parola creatrice e, nel corso del tempo, aveva continuato a parlare «molte volte e in diversi modi» attraverso i profeti (Eb 1,1), è soltanto ora, «in questi giorni», che dice la sua parola ultima e definitiva nel suo Figlio amato.
Gesù è la Parola, «il Verbo», attraverso cui Dio dice veramente e fino in fondo se stesso.
Se Dio non ha mai smesso di parlare – cioè di comunicarsi attraverso il fragile mezzo della parola, mai imposta e sempre esposta al possibile rifiuto -, è però negli ultimi tempi che la sua parola acquista una nuova e più radicale dimensione, assumendo tutto lo spessore e la concretezza della ‘carne’.
È a questa carne che Dio affida il suo incontenibile desiderio di comunicazione e di comunione con l’uomo, prendendo su di sé il rischio di una condivisione piena e totale della nostra condizione umana.
Forse è a questo che allude la colletta di questa eucaristia quando dice che «in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti…».
Il «modo» di parlare nella carne del Figlio diventa «più mirabile» del modo con cui la parola potente di Dio ha creato l’uomo e il mondo intero.
Ed è solamente per questa via, segnatamente (o mirabilmente) ‘carnale’, che a noi è data la possibilità di accogliere fino in fondo questa parola, ricevendo così in dono la grazia di «diventare figli di Dio» (Gv 1,12).
  Preghiere e Racconti Quella volta che Francesco… Amico, questo Natale del Signore voglio vederlo!».
Così disse, all’inizio del dicembre 1223, Francesco di Assisi all’amico Giovanni Velita, un possidente di terreni collinosi a Greccio, presso Rieti.
E il Santo spiegò all’amico cosa intendesse per “vedere” il Natale.
Nacque, da quel’intesa, il presepio com’è conosciuto nella cultura cristiana, nella pietà e nell’arte dei paesi latini.
Francesco è un credente dal cuore di fanciullo e dalla fervida e festosa fantasia.
La sua fede “vede” ciò che crede, ma le mancava l’“oggetto” da vedere nella figura e nella forma concreta; il Poverello, in quel secolo di ferro e di fuoco, ma anche di grandi santi, poeti e profeti della fede, non era soddisfatto di una “lacuna” costante nella rappresentazione della nascita del Figlio di Dio.
Conosceva, grazie ai suoi pellegrinaggi a Roma, la Natività nei mosaici delle grandi basiliche, ma non gli bastava.
In quei sublimi cicli pittorici, il Figlio di Dio pur avvolto in fasce, è quasi sempre raffigurato come un principe, dalla faccia seria, senza splendore d’innocenza e d’infanzia.
Francesco deve aver coltivato a lungo la speranza di “vedere” realmente la presenza di Cristo neonato, e ha cercato un’immagine viva del Bambino di Betlemme, fatta di carne, di uno sguardo, un gemito, un sorriso.
Il discorso di Francesco a Giovanni Velita non è riferito certo alla lettera, ma il senso è preciso: “Preparami, per questo Natale del Signore, una grotta, della paglia, un asino, un bue, dei pastori e una mangiatoia, vuota però.
La cornice è nostra, ma la presenza è soltanto quella che a lui piacerà mostrarci.
E un sacerdote celebri, nella notte, il sacrificio eucaristico.
A tutto il resto penserà il Signore”.
Giovanni Velita obbedisce felice.
La collina boscosa, nella notte, si riempie di gente, di canti, di grida di bambini, di animali, pecore e agnelli.
Dopo aver proclamato il Vangelo, Francesco parla alla gente stupefatta, curiosa, trepida davanti a quella mangiatoia vuota.
La voce del Poverello trema, raccontano i suoi biografi: sembra un belato d’agnello e ogni volta che pronuncia il nome di Gesù, si commuove fino alle lacrime.
Alla consacrazione, nella mangiatoia si manifesta la presenza di un bambino vivo.
Sta lì, e dorme, come quello di Betlemme, come tutti i bambini della terra.
Chi è? Chi l’ha posto in quel luogo? Da dove è venuto? Dove sono Maria e Giuseppe? Francesco non ha bisogno di dare risposte.
Ha già detto tutto: “Stanotte la carne dell’uomo è stata glorificata per sempre.
Il Figlio di Dio l’ha assunta, vi è nato un uomo come noi, per restarci accanto fino alla fine del tempo.
E il nostro Signore povero, figlio di Maria.
Adoriamolo”.
Si piega sulla mangiatoia e solleva tra le braccia il bambino, per mostrarlo alla gente incredula e felice.
Poi le fiaccole, i fuochi e le voci si spengono.
Ma nella teologia e nel folclore, nella pietà e nell’arte, quel rito strano e a suo modo inaudito, resterà per sempre indelebile.
Francesco con questo semplice rito, ha ricreato il Natale di Betlemme e ha “inventato” il presepio.
Ha messo in circolo, nell’arte di tutti i secoli, “il volto” di Cristo bambino, annullando la “maschera” di un Dio giudice severo e senza pietà.
Il Santo di Assisi, da profeta e poeta dell’innocenza, con il Presepio di Greccio ha riacceso e fortificato la “memoria” della natività di Betlemme, dalla quale la cristianità può recuperare innocenza e coraggio, fedeltà ed amore.
È il senso stimolante di due versi di Thomas Merton: «E finalmente io apprendo d’essere nato — oramai non più in Francia — ma a Betlemme».
(Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
  Trovato neonato in una stalla   Trovato neonato in una stalla: polizia e servizi sociali indagano «Arrestati un falegname e una minorenne».
  Betlemme, Giudea   L’allarme è scattato nelle prime ore del mattino, grazie alla segnalazione di un comune cittadino che aveva scoperto una famiglia accampata in una stalla.
Al loro arrivo gli agenti di polizia, accompagnati da assistenti sociali, si sono trovati di fronte ad un neonato avvolto in uno scialle e depositato in una mangiatoia dalla madre, tale Maria H.
di Nazareth, appena quattordicenne.
Al tentativo della polizia e degli operatori sociali di far salire la madre e il bambino sui mezzi blindati delle forze dell’ordine, un uomo, successivamente identificato come Giuseppe H.
di Nazareth, ha opposto resistenza, spalleggiato da alcuni pastori e tre stranieri presenti sul posto.
Sia Giuseppe H.
che i tre stranieri, risultati sprovvisti di documenti di identificazione e permesso di soggiorno, sono stati tratti in arresto.
Il Ministero degli Interni e la Guardia di Finanza stanno indagando per scoprire il Paese di provenienza dei tre clandestini.
Secondo fonti di polizia i tre potrebbero essere degli spacciatori internazionali, dato che erano in possesso di un ingente quantitativo d’oro e di sostanze presumibilmente illecite.
Nel corso del primo interrogatorio in questura gli arrestati hanno riferito di agire in nome di Dio, per cui non si escludono legami con Al Quaeda.
Le sostanze chimiche rinvenute sono state inviate al laboratorio per le analisi.
La polizia mantiene uno stretto riserbo sul luogo in cui è stato portato il neonato.
Si prevedono indagini lunghe e difficili.
Un breve comunicato stampa dei servizi sociali, diffuso in mattinata, si limita a rilevare che il padre del bambino è un adulto di mezza età, mentre la madre è ancora adolescente.
Gli operatori si sono messi in contatto con le autorità di Nazareth per scoprire quale sia il rapporto tra i due.
Nel frattempo Maria H.
è stata ricoverata presso l’ospedale di Betlemme e sottoposta a visite cliniche e psichiatriche.
Sul suo capo pende l’accusa di maltrattamento e tentativo di abbandono di minore.
  (Dario Guerini, in <http://www.facebook.com/notes/dario-guerini/buon-natale/190558089997>, 10 dicembre 2009).
    «Sia questo per voi il segno; troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12).
Fissiamo l’attenzione su alcuni punti.
 I pastori Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori.
Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.
Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione.
Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.
Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?   L’angelo del Natale Un secondo spunto viene offerto dal messaggio.
Contiene una promessa, indicata da un verbo di movimento: «Troverete» (Lc 2,12).
Il trovare presuppone una ricerca, un cammino, un esodo.
Per i pastori si trattò solo di abbandonare i fuochi del bivacco e le capanne di fronde erette a difesa dalle intemperie.
Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo solerti conservatori.
È un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio.
Si tratta infatti di ripercorrere, a ritroso, secoli e secoli di storia; di rileggere, con occhi diversi, le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlemme.
E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso.
Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia: i segni della debolezza, del nascimento e della povertà di Dio.
Un bambino inerme.
Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione.
Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza.
A questo punto il discorso sulla debolezza di i Dio, più che assumere le cadenze del moralismo (tale, cioè, da spingerci ad amare i deboli, gli indifesi, i non garantiti), dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti manifestando la sua gloria nei segni del non-potere, della non-violenza.
  La veste del bambino Le fasce sono simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché la sua luce non ciechi i nostri occhi.
Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Signore, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci.
Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle.
Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce.
Qui, se per poco ci mettiamo a «sbendare», le coperte s’infittiscono paurosamente: migliaia di volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato.
E si potrebbe continuare all’infinito, in un interminabile rosario di sofferenze.
È qui che Dio continua a vivere da clandestino.
A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli; di lasciarci ferire dall’oppressione dei poveri, prima di cantare le nenie natalizie davanti al presepio.
Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, trovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità?   La culla del neonato La mangiatoia è il simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù.
È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell’umanità: non è lì.
È vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria, di tutti coloro che la nostra durezza di cuore classifica come intrusi, estranei, abusivi.
La mangiatoia è però anche il simbolo del nostro rifiuto «È venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11).
È l’epigrafe della nostra non accoglienza.
La greppia di Betlemme interpella, in ultima analisi, la nostra libertà.
Gesù non compie mai violazioni di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi.
Possiamo chiudergli la porta in faccia.
Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia: che è un atteggiamento gravissimo nei confronti di Dio.
Sì, è molto meno grave condannare alla croce, che condannare alla mangiatoia.
Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua inquietante presenza ha da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno.
Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di nuova speranza.
  (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 79-84).
Che cosa significa “tempo compiuto” o “vita compiuta”       I mistici hanno riflettuto su questo concetto della pienezza del tempo.
Per Meister Eckhart il tempo è stato compiuto con l’incarnazione di Dio.
Il tempo è il luogo nel quale l’uomo diviene uno con Dio.
Se siamo uno con il Dio eterno, allora il tempo è compiuto.
Agostino riprende l’espressione di san Paolo della pienezza del tempo: “Ma quando giunse la pienezza del tempo, apparve anche colui che voleva liberarci dal tempo.
Infatti, liberati dal tempo, dovremmo giungere a quella eternità dove non c’è nessun tempo”.
Per Paolo la pienezza del tempo consiste nel fatto che Dio ha inviato suo Figlio nel mondo (Gal 4,4).
In Gesù è uno Dio e uomo, tempo ed eternità.
Se siamo in Cristo, prendiamo parte a Dio e alla sua pienezza, alla sua eternità.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2008, 185).
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
 

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Anno C).

Preghiere e Racconti La casa di Nazaret “La casa di Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del vangelo.
Qui si impara a osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio, tanto semplice, umile e bella.
Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo.
Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato.
Qui, a questa scuola certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del vangelo e diventare discepoli del Cristo.
Non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazaret.
In primo luogo essa ci insegna il silenzio.
Oh! Silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri.
Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera che Dio solo vede nel segreto.
Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia.
Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile.
Ci faccia vedere com’è dolce e insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale.
Infine impariamo la lezione del lavoro.
Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana” (Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1965).
  La mamma è qui «Il bambino amato sente che ha qualcosa di bello, di valido, e che esiste per qualcuno perché si sente scelto.
Il bambino si sente scelto solamente quando c’ è una figura femminile affettivamente disponibile, gratuita, permanente, che vive per lui.
Non si può essere madre e padri a ore.
Ogni bambino svegliandosi ha bisogno di vedere il volto della madre che gli sorride e andando a letto vuole il bacio della buona notte, la benedizione di papà e mamma e quando ritorna a casa da scuola ha il desiderio di sentirsi rispondere “la mamma è qui”.
(Oreste BENZI, Per la Famiglia.
La coppia oggi tra libertà dell’uomo e mistero di Dio, Rimini, Guaraldi, 1992, 73).
La Sacra Famiglia Tre Persone e un amato esse sono tutte e tre: in esse un solo amore, un amante le rendeva; l’amato tale amante ove ognuna d’esse vive; perché l’essere che hanno delle tre ognuna tiene e ciascuna d’esse ama chi tal essere possiede.
  Questo esser è ciascuna, questo solo le congiunge in un nodo sì ineffabile che ridire non si può; infinito è per tal modo quell’amore che le unisce, che in tre è un solo amore, lor sostanza essa si dice; e l’amor quanto più uno tanto più amor produce.
  (Giovanni della Croce).
  La famiglia, icona della Trinità Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli.
Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia.
Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.
Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù.
Tutti quanti noi.
Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.
Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità.
La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.
Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.
Quando si rompe un’amicizia, si piange.
Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.
La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza.
Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza.
Saremo tutt’uno con te.
Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.
(Don Tonino Bello)   Preghiera dinanzi al presepe       Signore Gesù, noi ti vediamo bambino  e crediamo che tu sei il Figlio di Dio e il nostro Salvatore.
Con Maria,con gli angeli e con i pastori noi ti adoriamo.
Ti sei fatto povero per farci ricchi con la tua povertà: concedi a noi di non dimenticarci mai dei poveri e di tutti coloro che soffrono.
Proteggi la nostra famiglia, benedici i nostri piccoli doni, che abbiamo offerto e ricevuto, imitando il tuo amore.
Fa che regni sempre tra noi questo senso di amore che rende più felice la vita.
Dona un Buon Natale a tutti, o Gesù, perché tutti si accorgano che tu oggi sei venuto a portare al mondo la gioia.
  Preghiera per la famiglia O Padre del cielo, fa’ che nella nostra famiglia imitiamo le stesse virtù e lo stesso amore della Santa famiglia di Nazareth, perché, riuniti insieme nella tua casa, possiamo un giorno godere la gioia eterna.
Per Cristo nostro Signore.
Amen.
(Paolo VI)   * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
   SANTA  FAMIGLIA   Lectio Anno c     Prima lettura: 1Samuele 1,20-22.24-28          Al finir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuèle, «perché – diceva – al Signore l’ho richiesto».
Quando poi Elkanà andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il suo voto, Anna non andò, perché disse al marito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre».
Dopo averlo svezzato, lo portò con sé, con un giovenco di tre anni, un’efa di farina e un otre di vino, e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo.
Immolato il giovenco, presentarono il fanciullo a Eli e lei disse: «Perdona, mio signore.
Per la tua vita, mio signore, io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore.
Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto.
Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore».
E si prostrarono là davanti al Signore.
       v L’esperienza di Anna è quella di una maternità sofferta.
La donna è sterile e viene nel santuario di Silo a chiedere a Dio la grazia di un figlio (1Sam 1,9-19).
Il sacerdote che osserva il fervore della sua preghiera si sente autorizzato a darle una risposta rassicuratrice: «Va in pace e il Dio d’Israele ascolti la domanda che gli hai fatto» (1,17).
     Secondo l’attesa nasce il bambino desiderato.
Ma c’è ora da adempiere  l’impegno preso al momento della desolazione.
«Io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita», aveva detto nel dolore (1,11).
Il piccolo Samuele è il figlio della promessa, come il suo stesso nome ricorda «Il Signore ha ascoltato».
    Ora che il bambino è in qualche modo autosufficiente, Anna compie il suo pellegrinaggio verso il santuario di Silo per presentarsi alla faccia del Signore.
E per ricevere sicura udienza offre prima un sacrificio di propiziazione e quindi presenta il bambino per offrirlo al servizio del luogo sacro…
     «Il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto.
Anch’io lascio che il Signore lo richieda» (1,27-28).
Non è un baratto, ma una coerenza del proprio credo.
Se JHWH dona deve anche ricevere.
    È la logica che ha guidato a suo tempo i passi di Abramo, il padre dei credenti.
Pure lui aveva ricevuto miracolosamente un figlio e cede senza discutere alle richieste di chi glielo aveva accordato, ma la prontezza, quindi la sua fede, è il presupposto per riaverlo nuovamente (Gn 22).
    Samuele è consegnato al Signore e rimarrà nel santuario di Silo alla scuola del gran sacerdote Eli; non ritornerà a Ramataim, nelle montagne di Efraim, con i genitori, ma diventerà presto la guida spirituale di tutto Israele.
«Da Dan a Bersheba», da un estremo all’altro del paese, tutto il popolo seppe «che era stato costituito profeta del Signore» (1Sam 3,20).
Iddio non si era lasciato vincere in generosità.
    E la madre che aveva pianto per la sua sterilità, per la carenza, di un figlio, ora che l’ha perso donandolo al Signore non è afflitta ma, piena di esultanza, intona un canto di gioia e di ringraziamento che sarà l’anticipo del Magnificat di Maria (2,1-10; cf.
Lc 1,46-55).
  Seconda lettura: 1Giovanni 3,1-2.21-24          Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.
Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui.
In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
    v Le «Lettere» di Giovanni fanno parte di quelle chiamate «cattoliche» dirette cioè non a una singola chiesa, ma a una cerchia più ampia di credenti, in pratica alle comunità cristiane di Asia che registrano nel loro interno i primi attriti e le prime divisioni.
    La condizione del cristiano, secondo l’autore della lettera, è unica, poiché in virtù della sua fede e della rigenerazione battesimale è passato realmente in uno stato di vita nuova che è quello dei figli di Dio.
    Il discorso non è propriamente teologico, ma pratico e soprattutto pastorale.
Il «figlio» è colui che è generato dal seno del padre (cf.
Gv 1,13.18) non tanto un prodotto della sua potenza.
Tra le cose, gli esseri e l’uomo c’è per l’autore biblico, davanti a Dio, una grande differenza, poiché solo l’uomo è a sua immagine e somiglianza (cf.
Gn 1,26).
    Il nuovo Testamento fa un passo avanti e stabilisce tra Dio e l’uomo una relazionalità, quasi una parentela che induce il primo a chiamarsi «padre» e il secondo a dirsi «figlio».
È  sempre un linguaggio analogico, mutuato cioè dal mondo degli uomini dove la relazione più intima e più cara che esiste tra persone è quella tra i genitori e i figli.
    Il cristiano è colui che ha accettato la testimonianza di Gesù Cristo, vive secondo le sue proposte, soprattutto si prova ad amare i suoi simili, persino i nemici.
Egli vive secondo una perfezione che solo Dio possiede.
«Se così farete, perdonate cioè anche a quelli che non lo meritano, sarete perfetti come il Padre vostro che è nei cieli» ricordano Matteo e Luca (5,43-48; 6,36:23,34).
     La lettera di Giovanni richiama questa dignità del cristiano che può far propri gli atteggiamenti e i sentimenti di Dio.
Non si tratta di un titolo accademico, di una onorificenza gratuita, ma di una promozione che nasce sì dalla fede in Cristo, soprattutto però dall’assunzione dei suoi insegnamenti a programma di vita.
È l’essere veramente cristiani, cioè il tentativo di imitare il grado di carità di Gesù Cristo che rende un uomo figlio di Dio.
    Il passo centrale di tutta la lettera è sempre 1,3-7, soprattutto la frase «Dio è luce in cui non ci sono tenebre; se camminiamo nella luce come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri».
    La filiazione divina si rivela nel grado di capacità di accoglienza degli uomini, cioè nel grado di amore verso i fratelli.
La comunione con Dio, la dimora in lui, la paternità e la filiazione, temi della lettera, si identificano alla fine con l’imitazione di Cristo, con l’amore degli uni verso gli altri.
    Non sono tanto i sentimenti quanto i comportamenti che rivelano la dignità del cristiano.
  Vangelo: Luca 2,41-52          I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa.
Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava.
E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso.
Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore.
E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
       Esegesi      Luca conclude, con il brano 2,41-52, il racconto dell’infanzia di Gesù.
Dopo il dittico degli annunzi (1,5-55) e delle nascite (1,57-2,20) in cui la persona e la missione di Gesù ha il suo risalto soprattutto nel confronto con la figura di Giovanni (simbolo dell’antica alleanza), quella di Maria (la comunità dei credenti) e con Elisabetta (la sinagoga) seguono due quadri che si possono chiamare delle «ascensioni di Gesù al tempio di Gerusalemme», che costituiscono o meglio anticipano l’apoteosi del Cristo nel luogo dell’antico culto e davanti ai dottori d’Israele che rimangono confusi e ammirati davanti alla sapienza del nuovo rabbi che ormai ha eclissato la loro autorità.
     La storia non era andata così, ma l’evangelista non racconta ciò che era realmente accaduto, ma che avrebbe dovuto o dovrebbe accadere: Israele si convertirà e riconoscerà il messia che Dio ha inviato al suo popolo e nello stesso tempo alle genti (Lc 2,32).
     Il testo di Lc 2,41-52 (come quello di Lc 2,21-40) sotto le parvenze di una cronaca e una pagina di alta teologia o se si vuole di profonda cristologia.
Il figlio del falegname di cui i nazaretani conoscono i familiari, la madre, le sorelle, i fratelli e che per questo rifiutano di ascoltare è il maestro di sapienza, il salvatore di tutti gli uomini      Il racconto di Lc 2,41-52 ha l’aria di un episodio, ma il messaggio supera la sua portata aneddotica; bisogna seguire la sua trama, ma senza perdere di vista le alte intenzioni dell’autore.
    Il pellegrinaggio della S.
Famiglia a Gerusalemme è l’occasione o il pretesto della visita di Gesù al tempio.
    L’evangelista descrive la fase iniziale della manifestazione di Gesù ma sembra che pensi soprattutto all’ultima, quella che compirà pure in occasione della pasqua.
     La separazione di Gesù dai genitori, lo smarrimento può apparire inverosimile, ma è soprattutto misterioso.
Segnala la strada di Cristo che è solitaria.
Gesù è accompagnato dai genitori nella sua infanzia, ma quando deve dar compimento alla sua missione è solo.
Neanche gli apostoli gli sono di grande aiuto, piuttosto di intralcio.
Essi l’abbandonano anche nell’ora del Getsemani che si conclude con la condanna capitale.
     Giuseppe e Maria sono persone reali e simboliche; sono i genitori di Gesù, ma anche i prototipi della comunità credente.
Essi si preoccupano del figlio; lo ricercano, lo ritrovano e si preoccupano di capire le ragioni del suo comportamento.
     La domanda «Figlio, perché ci hai fatto questo?» riassume secoli di teologia.
In altri tempi si dirà: «Cur Deus homo?» (Perché Dio si è fatto uomo?) oppure: «Perché la croce?».
La morte di Cristo è il problema che ha fatto perdere l’orientazione agli apostoli, ha atterrito Paolo e rende perplessi quanti si provano a riflettervi sopra.
«Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», dice Maria coinvolgendo nella sua angoscia lo sposo e l’intera comunità.
     I «tre» giorni della sparizione possono contenere un’allusione ai tre giorni della sepoltura, della scomparsa di Gesù dallo sguardo dei suoi fratelli e quindi possono contenere un richiamo alla sua passione e morte.
     La risposta alla domanda di Maria e di quanti ella rappresenta non è una spiegazione ma un invito ad accettare le disposizioni che vengono dall’alto anche se non si comprendono.
Al «Figlio, perché ci hai fatto questo?» segue un «Perché mi cercavate?».
Ogni ricerca sulle scelte di Gesù sfocia in un bivio oltre il quale non è possibile indagare.
C’è un imperativo, un dovere a cui occorre solo sottostare.
     La strada della salvezza è segnata da colui che l’ha decisa; ne ha stabiliti i percorsi e le modalità di attuazione; l’uomo deve solo seguirli.
È quanto Gesù confessa alla madre e a quanti condividono le sue perplessità.
     «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Egli è, come tutti, «nato da donna», ma è anche «figlio» cioè un prediletto di Dio, un suo particolare inviato, incaricato di una speciale missione in mezzo agli uomini che è quella di richiamarli alla loro vera origine, al rapporto familiare o filiale che hanno con Dio.
     L’appellativo «padre» rivolto a Dio è quello che tutti debbono far proprio al posto di altri più solenni (Signore, altissimo, onnipotente) ma meno opportuni.
Gesù tenterà innanzitutto di rinnovare i rapporti dell’uomo con Dio, sottraendolo alla subordinazione e introducendolo nel cuore della sua famiglia.
Una «profanazione» che gli costerà la vita, ma egli non può deflettere da quel «dovere» che segna tutta la sua esistenza: sempre incompreso, sempre frainteso, persino dai propri intimi che vengono a prenderlo perché lo credono fuori di sé (Mc 3,21).
     La strada di Dio non è la strada degli uomini, per accettarla bisogna rinunciare a capire; occorre solo credere.
È quanto Maria sembra suggerire.
L’evangelista nota che «essi non compresero» (2,50) ma non aggiunge che per questo non credettero, come invece asserisce Giovanni a proposito dei «fratelli» (Gv 7,5) o fa capire parlando dei suoi avversari.
     Maria e Giuseppe non compresero, ma anche questa volta riflettono sulle cose udite, le confrontano con altre nel tentativo di riuscire se non a capirle a poterle far proprie, cioè ad accettarle, a credere (cf.
Lc 2 19).
     La prima parte del quadro è offuscato dall’ombra della separazione ma la seconda e mondata dalla luce del ritrovamento e del trionfo (2 46-47).
Sono messe a confronto tra di loro le due fasi della vita di Gesù: quella terrestre che si chiude sulla croce e nella tomba e quella gloriosa che si apre con la vittoria sui nemici e sulla morte (risurrezione).
     La scena di Gesù in mezzo ai dottori è nuova, più che storica è soprattutto simbolica, profetica.
Di fatto Gesù aveva finito la sua esistenza ignominiosamente, con una disfatta, ma è stata una sconfitta che si e trasformata in vittoria.
«Presto vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza», aveva detto Gesù ai sinedriti che stavano con-dannandolo (Mc 14,62).
     Il profeta che pochi avevano ascoltato e che pochissimi avevano accettato può parlare ora dal luogo più sacro della terra, accanto alla sede dell’unico e vero Dio e dove le più venerande autorità d’Israele avevano le loro cattedre.
Esse sembrano scomparse e quelli che erano i maestri indiscussi della parola di Dio sono se non ai piedi al fianco del nuovo rabbi.
È lui che fa loro le domande e in qualche modo orienta le loro risposte.
Anche se sembra un ascoltatore, nella mente dell’evangelista è il dottore che ha preso il posto di Mosè ed Elia e dà prova della sua indiscussa autorità (cf.
LC 9,36).
     Quelli che erano stati i più agguerriti avversari di Gesù, appunto gli scribi, i farisei e i dottori della legge, pendono ora dalle sue labbra e quello che è più sorprendente, invece che dall’ira sono pervasi dallo stupore e dalla gioia.
     La situazione si è rovesciata.
L’umile profeta galileo è diventato il maestro che Parla dai cortili del tempio, il luogo ufficiale degli interpreti della Legge, e ad ascoltarlo sono le classi dirigenti, i maestri d’Israele proprio quelli che l’avevano rifiutato e fatto condannare a morte.
     È una proiezione profetica e un auspicio che Luca ha davanti ai suoi occhi e propone ai suoi lettori.
Mentre racconta la prima esistenza di Gesù guarda con ottimismo al futuro della salvezza cristiana e soprattutto al suo rapporto con l’antico Israele.
  Meditazione      Celebriamo oggi la festa della Santa Famiglia di Nazaret.
Anche se normalmente questa piccola comunità viene ritenuta ‘straordinaria’ e non confrontabile con le nostre ordinarie esperienze famigliari, il racconto evangelico odierno può forse farci rivedere tale giudizio, mostrandoci come la vicenda di Giuseppe, Maria e Gesù sia molto più vicina, ‘simpatica’ e addirittura imitabile da una qualsiasi famiglia che voglia davvero far crescere tutti i suoi membri.
     Il brano, riportato dal solo Luca, apre uno squarcio nel silenzio dei trent’anni trascorsi da Gesù in famiglia.
Ci narra una vicenda svoltasi, significativamente, nell’anno in cui Gesù giunge alla maturità religiosa: a dodici anni, infatti, si diviene bar mitzwa, figlio del comandamento, e si è tenuti all’ascolto operoso della parola di Dio.
     In modo esplicitamente ricercato o accogliendo le sollecitazioni della vita, tutti noi abbiamo vissuto degli avvenimenti simbolici che hanno segnato alcune tappe, alcune svolte fondamentali della nostra esistenza: dal non dormire più nella camera dei genitori al ricevere le chiavi di casa, dalla scelta della scuola e del lavoro al primo viaggio in solitudine, dalla ricerca di una autentica amicizia alla prima preghiera fatta liberamente, senza la necessità di compiacere alcuno…
Sono ‘riti’ che si imprimono nella carne, nella memoria profonda di ognuno e ai quali vale la pena talvolta ritornare per ripercorrere il nostro cammino, ritrovando vigore nuovo.
     Queste esperienze presentano e richiedono sempre dei tratti comuni: curiosità esistenziale, ricerca di novità, coraggio di staccarsi dalle relazioni ordinarie, perseveranza…
Ci si potrà dirigere verso qualcosa di proibito o di sconsigliato, di rischioso o di illecito ma anche verso qualcosa di ambito e raccomandato, di consigliato e suggerito.
Potrà essere l’ambito affettivo o quello lavorativo, quello religioso o quello avventuroso…
Comunque sia, lo si farà da soli! A modo proprio.
E difficilmente lo si potrà esprimere e raccontare, giustificare, in modo convenzionale: ma questo può essere garanzia di autenticità.
Quale genitore, seppur nel dolore del distacco, del taglio del ‘cordone ombelicale’, non ha la sua più grande soddisfazione nel vedere i propri figli camminare autonomamente, alla ricerca della verità e dell’autenticità? Non è forse gioia grande osservare nei figli il desiderio di superare le convenzioni per intraprendere un cammino di ricerca personale, la ‘propria via’? Ogni genitore conosce questo passaggio, sa che deve vigilare su di esso con prudenza.
Eppure capita spessissimo che si verifica un’incapacità di leggere e capire le vicende dei propri figli.
Come anche i loro linguaggi e messaggi: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (2,49).
     La famiglia di Nazaret non si sottrae a questa esperienza.
L’angoscia (cfr.
2,48) che arriva a investire Maria e Giuseppe cozza violentemente contro la decisa autonomia – non è una scappatella adolescenziale! – rivendicata con intensità da Gesù.
E scoppia l’incomprensione…
     Come quindi si diceva sopra: niente di nuovo sotto il sole! Oggi come allora.
Un’esperienza di fatica, di frustrazione reciproca ma anche qualcosa di necessario, di liberante.
La festa vera di una famiglia sta proprio nel veder sorgere al proprio interno una personalità adulta, nell’accompagnare la sua crescita con rispetto e discrezione – «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (2,51) -, nel ritrovare la dimensione fondamentale di coppia senza ridursi a quella di genitore, nell’accogliere gli stimoli nuovi immessi dai nuovi linguaggi.
A questo proposito, il nostro testo ci consegna le prime parole di Gesù riportate dal terzo evangelista e sono una formidabile sfida e verifica del nostro cammino di fede: «Perché mi cercavate?» (2,51).
     C’è dunque un mistero di morte e risurrezione dentro ogni famiglia e il nostro brano vi allude ripetutamente: Gesù viene ritrovato nel tempio dopo tre giorni (cfr.
2,46; 24,46); non si comprende la ragione di questa separazione (cfr.
2,48; 24,14); lo si ritrova dove non ci si aspettava (cfr.
2,46; 24,31).
Pasqua in famiglia!  

IV Domenica di Avvento

IV DOMENICA DI AVVENTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Michea 5,1-4a          Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me  colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti.
Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele.
Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra.
Egli stesso sarà la pace!».
    v Il profeta Michea è un contemporaneo di Isaia (VIII secolo).
In questo passo egli dedica la sua attenzione non a Gerusalemme, ma a Betlemme, la città che ha dato i natali a Davide.
A distanza di anni i discendenti di Davide non hanno ancora assolto alla loro missione.
Occorre che venga un discendente particolare che darà origine a un nuovo inizio.
Da Betlemme infatti verrà il Salvatore, discendente di Davide.
     Il testo profetico non è esplicito, però lo diventa alla luce del NT e anche del vangelo odierno.
Il sussultare di Giovanni nel seno di sua madre alla presenza di un altro feto, si capisce se pensiamo alla identità di Gesù.
Egli viene profeticamente celebrato nella prima lettura.
     Il testo di Michea è un celeberrimo vaticinio messianico.
Il messia è il centro ideale e soggetto logico, anche se non sempre grammaticale.
Di Lui si esalta la patria, Betlemme/Efrata (dal nome di un clan di Efratei che si era stanziato a Betlemme): una modesta borgata assurge al ruolo di protagonista perché da essa «uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele» (v.
1).
     I tempi non sono ancora maturi e, in attesa del grande evento, Israele sarà ancora alla mercé dei suoi nemici (cf.
v.
2).
Tra la profezia di Michea e la sua realizzazione si colloca la speranza, autentico motore della storia di Israele.
     La figura del Messia è caratterizzata come il pastore che «pascerà con la forza del Signore»: affiora un tema a largo spettro biblico (cf.
Ez 34; Gv 10).
La espressione «con la maestà del nome del Signore, suo Dio» suona un po’ barocca, ma serve all’autore a far capire che Dio si impegna personalmente; per noi è facile leggere tra le righe la divinità del Messia (cf.
v.
3).
     Il v.
4 conclude l’oracolo profetico e ne riassume il significato: la pax davidica fu effettivamente vissuta nei primi anni del regno di Salomone.
Ora la storia freme verso il futuro e colui che nascerà porterà la vera pace, lui chiamato «principe della pace» (Is 9,8).
  Seconda: Ebrei 10,5-10          Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”».
Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà».
Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo.
Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
       v La Bibbia ha sempre di mira una visione ‘olistica’ della realtà: la sola prospettiva biologica non basta a garantire la grandezza della vita.
Che a colui che doveva nascere fossero riconosciuti indiscussi segni di grandezza morale, lo avevano detto bene le due precedenti letture: sia la muta testimonianza di Giovanni o quella esplicita di Elisabetta, sia il messag-gio della profezia di Michea.
La presente lettura ha il merito di interpretare la piena consapevolezza del Messia e il suo totale ingaggio a favore dell’umanità.
     La lettera agli Ebrei parla della morte di Gesù servendosi del linguaggio cultuale dell’AT.
Gli ordinamenti cultuali antichi avevano funzione preparatoria e quindi transitoria.
Non era ancora giunto quanto Dio desiderava.
Poi arriva Cristo con l’offerta della sua vita.
L’Autore trova un prezioso parallelo nel Sal 40 che egli cita nel testo greco dei LXX.
     La pienezza della vita viene raggiunta con il dono della medesima, perché solo allora si tocca il vertice dell’amore di Dio («Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà») e dell’amore del prossimo («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» Gv 15,13).
    Vangelo: Luca 1,39-45          In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.
E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
       Esegesi      Troviamo ora insieme due donne, Elisabetta e Maria, che in precedenza Luca aveva presentato separatamente.
Se un filo di soprannaturale comunione le legava già prima, in quanto parte attiva del progetto amoroso di Dio, ora hanno l’opportunità di incontrarsi e di comunicare.
     Il brano si compone di due parti, introdotte da un quadro di riferimento cronologico-geografico: dopo l’evento dell’annunciazione, Maria si trasferisce dal nord (Nazaret) al sud (città di Giuda) (cf.
v.
39).
In tale contesto si colloca dapprima l’incontro delle due madri (vv.
40-45), quindi la preghiera di Maria, il Magnificat, nata in quell’occasione e per quell’occasione (vv.
45-48; in realtà continua fino al v.
55, ma il testo liturgico si interrompe prima).
Dal confronto delle due parti, vediamo che la prima è dominata dalla parola di Elisabetta, mentre la seconda dalla parola di Maria.
Due madri che, ciascuna a proprio modo, cantano un inno alla vita.
     Dopo la stupenda esperienza di Nazaret che la promuoveva a ruolo di ‘Madre di Dio’, Maria non appare una creatura beata in se stessa, isolata nella sua intimità divina, bensì un essere corporeo, fatto di concretezza, di sensibilità e di disponibilità.
Ella lascia la mistica tranquillità della sua casa e si mette in strada.
Non viene detto espressamente il motivo del viaggio; tutto lascia pensare che la causa sia da ricercare nell’annuncio angelico: Maria era stata informata che la parente Elisabetta era al sesto mese di gravidanza (cf.
v.
37).
Il fatto che ella si fermerà tre mesi, giusto il tempo perché il bambino possa nascere, permette di concludere che effettivamente Maria intenda recare aiuto alla futura mamma.
Ella si muove e va là dove la chiama l’urgenza di un bisogno.
«In fretta» esprime la sollecitudine di recare il giovanile aiuto all’anziana parente.
L’amore al prossimo, anche in questo caso, testimonia l’autenticità dell’amore a Dio.
     Non sono fornite indicazioni geografiche, se non un generico «verso la regione montuosa, in una città di Giuda».
Una tradizione del VI secolo identifica il luogo con Ein Karem, la cui scelta è forse dovuta alla bucolica serenità del luogo e al fatto di essere equidistante da Gerusalemme e da Betlemme.
A noi interessa rilevare lo spostamento da Nazaret, al nord, verso la Giudea, al sud, con un percorso di circa 150 Km che richiedeva circa tre giorni di cammino.
Da questo cammino, non privo di fatica e di disagi, verrà la possibilità di un incontro e quindi della lode.
Cammino, incontro e lode sono quindi i tre segmenti che costruiscono l’armonia di questo racconto.
     Maria si mette in cammino.
Grazie a lei anche Gesù, prima ancora di nascere, è in movimento verso gli altri, profetico anticipo della sua missione itinerante che intende portare a tutti la parola che aiuta e che salva.
Luca utilizza l’episodio per mettere alla luce quanto si era compiuto nell’intimità di Nazaret, che solo con il dialogo con un’interlocutrice poteva lasciare la sua segretezza e la sua dimensione individuale.
     La prima scena è dominata da Elisabetta e dalle sue parole; non va dimenticato che queste si sprigionano dal suo animo quando sono sollecitate da Maria.
Due eventi causano e spiegano tali parole.
Il primo, apparentemente ordinario, è l’ingresso di Maria nella casa di Zaccaria con il conseguente saluto rivolto a Elisabetta.
È una felice ‘provocazione’.
Il saluto origina il secondo evento, il sussulto del bambino di Elisabetta che sembra riconoscere la voce di Maria e, più ancora, sembra relazionarsi a colui che ella porta in grembo.
     L’incontro delle due madri è l’occasione per l’incontro dei due figli che portano in grembo, Giovanni e Gesù.
Su di loro riposa lo spessore teologico del brano.
Si instaura ancora a livello di feto quella dipendenza gerarchica, un misto di servizio incondizionato e di gioia piena, che caratterizzerà la vita di Giovanni.
Egli testimonierà: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo: Ora questa mia gioia è compiuta.
Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,29-30).
Al presente c’è una percezione che si riverbera in un sussulto di gioia.
Le due madri sono ‘arche sante’, ‘ostensori sacri’ di due esseri destinati l’uno a tratteggiare la via, l’altro ad essere lui stesso via.
La scena, pur dominata dalle due madri, ha il suo fulcro nella percezione che Giovanni ha di Gesù e nell’implicito riconoscimento della sua grandezza.
     Effettivamente le parole di Elisabetta documentano che lo spessore teologico attraversa i ‘concepiti’ più che le madri: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (vv.
42-43).
Con una espressione semitica che equivale a un superlativo («fra le donne»), Maria viene celebrata per la sua funzione o carisma (essere «Madre del mio Signore») e per la sua adesione incondizionata a tale vocazione.
A lei vengono riservate una benedizione («benedetta tu») e una beatitudine («beata»).
     La benedizione è una formula tipica dell’AT, dove il verbo ebraico barak e il sostantivo derivato berakah si trovano ben 398 volte.
Secondo diversi studiosi, la radice ebraica brkh è collegata a berekh (= ginocchio) creando il nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi, tipico atto di adorazione e di omaggio alla divinità.
Nella Bibbia le benedizioni si dividono in ‘ascendenti’ quando celebrano Dio per qualche intervento (cf.
Sal 41,14) e ‘discendenti’ quando si invoca la potenza di Dio su qualcuno o su qualcosa (cf.
Nm 6,24-27) o quando è lo stesso Dio a benedire (cf.
Gn 1,28).
La benedizione è un dono che ha rapporto con la vita; possiamo affermare che la ricchezza fondamentale della benedizione è quella della vita e della fecondità: questo vale tanto per la terra, quanto per le persone (cf.
Dt 28,1-14).
Lo vediamo bene nel nostro passo, quando alla benedizione per Maria viene affiancata quella per il figlio: «e benedetto il frutto del tuo grembo!».
Maria viene celebrata proprio per la sua maternità.
Così la benedizione viene da Dio e a Lui ritorna ora sotto forma di invocazione e di preghiera; è un riconoscere quello che Lui ha fatto.
     La beatitudine del v.
45 la prima del vangelo di Luca, certifica l’adesione di Maria alla volontà divina.
Ella quindi non è solo destinataria privilegiata di un arcano disegno che la rende benedetta, ma pure persona responsabile che accetta e aderisce.
Maria non è una creatura che sa, ma una creatura che crede, perché si è aggrappata ad una parola nuda che ella ha rivestito di amore.
Ora Elisabetta le riconosce questo amore, espresso con «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto», e la celebra come la prima di tutte le donne.
Maria va da Elisabetta per un servizio domestico, Elisabetta le restituisce il servizio liturgico della lode, riconoscendola benedetta come madre e beata come credente.
     Il ‘cantico di Elisabetta’ (cf.
vv.
42-45), dono dello Spirito, pubblicizza per il lettore e per il credente il mistero che Maria pensava affidato alla segretezza della sua intimità.
Non esiste rapporto autentico con Dio che non abbia la possibilità di diventare ‘pubblico’: questo è il concetto fondamentale di carisma e Maria ha in primis il carisma di essere la «madre del mio Signore», come le riconosce la parente.
L’incontro di due madri in attesa, diventa l’incontro del frutto che hanno in grembo; Giovanni percepisce la presenza del suo Signore ed esulta, esprimendo con il suo sussultare la gioia a contatto con la salvezza, che Maria potrà formalizzare nel canto che segue.
  Meditazione      «Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto» (Lc 1,78).
Così aveva profetato Zaccaria nel suo cantico di lode per la nascita prodigiosa del figlio Giovanni.
Ora la visita di Dio si fa prossima; il suo volto si sta intessendo nel grembo di una vergine, Maria; colui che è chiamato «profeta dell’Altissimo», colui che andrà «innanzi al Signore a preparargli le strade» (Lc 1,76), già ne riconosce la presenza e ancora nel seno della madre, Elisabetta, esulta di gioia messianica.
La liturgia della IV domenica di Avvento ci orienta ormai al cuore del mistero: Dio non solo visita il suo popolo, ma sceglie di dimorare stabilmente in mezzo ad esso.
L’irruzione di Dio nella storia dell’umanità ha sempre qualcosa di inatteso e ogni visita di Dio opera una sorta di capovolgimento dei criteri e delle attese dell’uomo.
E così Dio sceglie uno sconosciuto villaggio della Palestina, Betlemme, «così piccolo per essere tra i villaggi di Giuda» per rivelare «colui che deve essere il dominatore di Israele», colui che «pascerà con la forza del Signore», colui che «sarà la pace» (cfr.
Mi 5,1-4).
Lo sguardo di Dio si posa, con infinita gratuità, su una povera ragazza di Nazaret, Maria; sarà lei a dare un corpo e un volto umano all’Emmanuele.
In Maria, il Figlio di Dio può dire: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato» (Eb 10, 5; citazione del Sal 40,7-9).
E così, fedele al suo amore per i piccoli, Dio rivela i primi frutti della sua visita all’umanità nell’incontro tra due donne che portano nel loro grembo la vita e che si accolgono l’un l’altra riconoscendo reciprocamente ciò che Dio ha operato in ciascuna di loro.
Maria ed Elisabetta, custodi del dono di Dio, diventano l’icona dell’umanità visitata dalla misericordia di Dio.
Attraverso il racconto di Luca, cerchiamo allora di cogliere la qualità di questo incontro e i frutti che da esso scaturiscono.                                               Anzitutto dobbiamo riconoscere che l’incontro tra Maria ed Elisabetta è una esperienza della forza della parola di Dio che agisce nella vita di chi sa accoglierla.
Elisabetta dirà a Maria: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45).
È questa la prima beatitudine: credere nell’efficacia della parola di Dio, poggiare la propria vita sulla fedeltà di Dio alla sua promessa come su di una roccia.
È ciò che permette al Signore di vivere ‘oggi’ nel credente che lo ascolta.
A chi proclamava la beatitudine e la gioia della maternità di Maria, Gesù risponderà proprio con questa prima e fondamentale beatitudine: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28).
Ed è per questo che Maria ed Elisabetta non possono fare altro che rileggere tutta la loro esperienza alla luce della parola di Dio che permette una comprensione profonda dei segni di cui sono protagoniste, segni in cui si riconosce l’onnipotenza di Dio.
Ogni parola e ogni gesto di questo incontro portano impresso il sigillo della Scrittura trasformandosi così nell’abbraccio tra la Prima e la Seconda Alleanza, tra la promessa e il compimento.
Davvero solo la parola di Dio può permetterci di riconoscere quando il Signore ci visita e quali frutti ci porta.
               Alla luce della Scrittura, allora noi possiamo cogliere più in profondità il senso di questo incontro.
Esso non è solamente la commozione tra due donne per la gioia della loro maternità così straordinaria e singolare.
Il saluto di Maria (aspasmon, termine che ritorna tre volte) provoca qualcosa di speciale: in Elisabetta che «fu colmata di Spirito Santo» (v.
41) e nel bambino che portava in sé, che «ha sussultato di gioia nel suo grembo» (v.
44).
Lo Spinto santo e la gioia sono due doni tipicamente messianici segni della presenza e dell’incontro con il Signore che visita il suo popolo, doni che Maria ha riconosciuto in se con l’annuncio dell’angelo (cfr.
1, 28.35) e che ora comunica ad Elisabetta (quasi una eco di quella Parola da cui tutto ha avuto inizio e da cui tutto proviene).
Ed è significativo che lo spazio in cui questi doni sono comunicati è l’ascolto: «appena…
ebbe udito il saluto di Maria…
appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi…» (vv.
41.44).
È l’ascolto il luogo in cui si riconosce la presenza del Signore e in cui si accoglie la sua parola; e riconoscere la voce di Dio produce gioia e comunica lo Spirito.
Ci soffermiamo allora su questi due doni che scaturiscono dalla visita di Dio, di quel Dio portato nel grembo di Maria, come nell’arca dell’Alleanza, ad Elisabetta (che riconosce in Maria «la madre del mio Signore», v.
43).
            Alla presenza di Maria e alla voce del suo saluto, Elisabetta «fu colmata di Spirito Santo» (v.
42).
Colei che è «piena di grazia» e sulla quale lo Spirito Santo è sceso, diventa pneumatofora, portatrice di Spirito, capace di comunicare ad altri lo Spirito di Dio.
Ed è lo Spirito, accolto da Elisabetta attraverso l’ascolto della voce di Maria, a permettere di riconoscere la presenza di Dio in questo incontro.
Sembra quasi che Luca abbia voluto anticipare la Pentecoste, che narrerà poi in At 2,1-4 (in cui sarà ancora presente Maria insieme agli apostoli nella camera alta: At 1,13-14).
Elisabetta e Giovanni passano così dall’economia della legge a quella dello Spirito, quasi formando un nucleo iniziale di Chiesa.
                 La potenza dello Spirito Santo, comunicato da Maria, investe anche Giovanni nel grembo di sua madre e lo fa trasalire, saltare e danzare di gioia (vv.
41.44; chiara è l’allusione alla danza di Davide di fronte all’arca in 2Sam 6,14-16).
La gioia, di fatto, investe tutta la scena.
È una gioia ‘viscerale’, profonda, che, attraverso il dono dello Spirito, sgorga dal riconoscimento di una promessa attesa da secoli e che finalmente trova il suo compimento.
Ed è una gioia tanto più intensa quanto più lunga era stata l’attesa; una gioia vissuta dapprima nell’esultanza delle viscere e poi celebrata dal cuore e dalle labbra delle due donne.
In questa gioia, i Padri (in particolare Origene) hanno anche voluto sottolineare l’incontro e il riconoscimento dei due figli ancora nel grembo materno: colui che cammina davanti al Messia ne riconosce la presenza e lo testimonia, lo annuncia (euangelion) non con la voce di chi grida nel deserto, ma con la gioia comunicativa del bambino.
Giovanni prenderà coscienza di questa gioia quando dirà: «L’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo.
Ora questa mia gioia è piena» (Gv 3,29).
       La semplice gioia di un bambino non ancora nato e comunicata dalle labbra della madre compie il suo corso trovando spazio nel cuore di Maria.
E diventa un canto, il Magnificat.
E in esso Maria riconosce la verità di tutto ciò che Elisabetta e il suo bambino le hanno detto.
Davvero il Signore l’ha visitata, l’ha riempita di Spirito Santo e di gioia: «Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (1, 48).
             Come Maria, il credente che ha saputo riconoscere la visita di Dio nella sua vita attraverso quella parola che ha cercato di ascoltare, custodire, mettere in pratica, diventa missionario: capace di annunciare e comunicare il dono di Dio.
E il dono di Dio è la gioia nello Spirito Santo, la lieta notizia che è Gesù.
  Preghiere e Racconti   Andiamo fino a Betlem Andiamo fino a Betlem, come i pastori.
L’importante è muoversi.
Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro.
E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.
Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio.
Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura.
Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.
(don Tonino Bello)   C’era una volta un lupo C’era una volta un lupo che viveva nei dintorni di Betlemme.
I pastori lo temevano e vegliavano l’intera notte per salvare le loro greggi.
C’era sempre qualcuno di sentinella, così il lupo era ogni volta più affamato, scaltro e arrabbiato.
Una strana notte, piena di suoni e luci, mise in subbuglio i campi dei pastori.
L’eco di un meraviglioso canto di angeli era appena svanito nell’aria.
Era nato un bambino, un piccino, un batuffolo rosa, roba da niente.
Il lupo si meravigliò che quei rozzi pastori fossero corsi tutti a vedere un bambino.
“Quante smancerie per un cucciolo d’uomo” pensò il lupo.
Ma incuriosito e soprattutto affamato com’era, li seguì nell’ombra a passi felpati.
Quando li vide entrare in una stalla si fermò nell’ombra e attese.
I pastori portarono dei doni, salutarono l’uomo e la donna, si inchinarono deferenti verso il bambino e poi se ne andarono.
L’uomo e la donna stanchi per le fatiche e le incredibili sorprese della giornata si addormentarono.
Furtivo come sempre, il lupo scivolò nella stalla.
Nessuno avvertì la sua presenza.
Solo il bambino.
Spalancò gli occhioni e guardò l’affilato muso che, passo dopo passo, guardingo, ma inesorabile si avvicinava sempre più.
Il lupo aveva le fauci socchiuse e la lingua fiammeggiante.
Gli occhi erano due fessure crudeli.
Il bambino però non sembrava spaventato.
“Un vero bocconcino” pensò il lupo.
Il suo fiato caldo sfiorò il bambino.
Contrasse i muscoli e si preparò ad azzannare la tenera preda.
In quel momento una mano del bambino, come un piccolo fiore delicato, sfiorò il suo muso in una affettuosa carezza.
Per la prima volta nella vita qualcuno accarezzò il suo ispido e arruffato pelo, e con una voce, che il lupo non aveva mai udito, il bambino disse: “Ti voglio bene, lupo”.
Allora accadde qualcosa di incredibile, nella buia stalla di Betlemme.
La pelle del lupo si lacerò e cadde a terra come un vestito vecchio.
Sotto, apparve un uomo.
Un uomo vero, in carne e ossa.
L’uomo cadde in ginocchio e baciò le mani del bambino e silenziosamente lo pregò.
Poi l’uomo che era stato un lupo uscì dalla stalla a testa alta, e andò per il mondo ad annunciare a tutti: “È nato un bambino divino che può donarvi la vera libertà! Il Messia è arrivato! Egli vi cambierà!”.
La venuta del Signore Noi aspettiamo il giorno anniversario della nascita di Cristo: il nostro spirito dovrebbe come slanciarsi, pazzo di gioia, incontro al Cristo che viene, tutto teso in avanti con un ardore impaziente, quasi incapace di contenersi e di sopportare ritardo…
Chiedo per voi, fratelli, che il Signore, prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi nel vostro intimo.
Questa venuta del Signore, sebbene nascosta, è magnifica, e getta l’anima che contempla nello stupore dolcissimo dell’adorazione.
Lo sanno bene coloro che ne hanno fatto l’esperienza; e piaccia a Dio che quelli che non l’hanno fatta ne provino il desiderio! (GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, II, 2-4).
  Quando Dio spera… …non è per lo spazio d’una notte che Dio spera contro speranza.
  Mendicante sconosciuto, instancabilmente percorri i lidi delle notti umane, ombra tra le ombre innumerevoli dei senza speranza.
Nella tua bocca muta si spengono i singhiozzi, ma tu vorresti gridare, anche tu, perché questo grido se ne vada, come un’eco diversa,                       come un richiamo nuovo, a confondersi con il lamento crescente, con le grida degli assetati di luce con il terribile silenzio dei pianti soffocati, e non resta che aprirsi al vuoto dei marosi grigi, all’alba che si accende non veduta.
Sul lido delle notti umane, sei il Dio senza voce.
Poiché la tua Parola fu detta in un giorno del tempo.
L’ hai pronunciata tutta,                             l’hai gridata sino alla fine, sino all’ultimo respiro del tuo Figlio.
Ma quando fu compiuta la tua Parola nella sua pienezza, per te, Dio, venne il tempo della speranza nuda, della speranza muta, della speranza contro ogni speranza.
  Preghiera della quarta domenica di Avvento Dio eterno, Dio sempre nuovo, inafferrabile, Dio di alleanza, Dio di libertà, dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti? dove si annuncia la tua venuta? La tua Parola ci rassicuri, o Padre degli uomini, Dio della promessa, ora e sempre.
  Presenza imprevedibile, Dio di lunga pazienza, Signore dell’impossibile, noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo della tua venuta.
Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato per scoprire, per svelare, per generare, non cessiamo di pregarti: il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno, all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo, nostro fratello e nostro Signore, per sempre.
(Nicole Berthet).
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
   

Spidlík

L’intervista Eminenza, qual è il bilancio dei suoi 90 anni e in sintesi del suo Novecento? «Guardando indietro, sono stupito dei grandi segni della Provvidenza che mi ha protetto nei difficili periodi del Novecento: la crisi dopo la prima guerra mondiale, l’occupazione nazista, il totalitarismo comunista, la ricerca dell’identità nell’esilio.
L’inno nazionale della Cechia comincia con le parole: dov’è la mia patria? La mia risposta è semplice: sono ciò che sono nato e ringrazio tutti gli altri Paesi, soprattutto l’Italia, che mi hanno aiutato a sviluppare attraverso lo studio e la spiritualità ciò che mi fu impedito nella mia terra natale».
Lei ha conosciuto bene uno dei grandi testimoni del Novecento, Giovanni Paolo II.
Qual è il suo ricordo? «Era un Papa slavo e forse anche per questo ci siamo ben compresi, da subito, riguardo al suo amato aforisma “respirare a due polmoni”.
In questo spirito ho cercato di predicare gli esercizi spirituali nel 1995 alla Curia romana, dopo i quali è nata l’idea di costruire la cappella Redemptoris Mater che è stata realizzata nel 1999.
A mio giudizio con la costruzione di questo luogo di culto dentro il Vaticano e l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor Hominis e le domande di senso racchiuse in quel testo, come ad esempio la parte dedicata ai diritti dell’uomo, si chiude in un certo senso la parabola del Novecento con le sue tragedie».
Si narra che Karol Wojtyla fosse edificato ma anche divertito dalla sua capacità di predicare… «Il Papa rideva e scherzava volentieri.
Una volta ci incontrammo nel corridoio del Palazzo apostolico e voleva benedirmi.
Io gli dissi: Santo Padre non posso inginocchiarmi, ho male alle gambe.
E lui rispose: anch’io.
Meno male, Santo Padre, che cominciamo dalle gambe e non dalla testa, gli feci io…».
Leggendo la sua biografia, salta subito all’occhio il gran numero di lingue nelle quali le sue opere sono state tradotte.
«Ci sono tante traduzioni, è vero, ma non è colpa mia! Ad esempio un mio libro uscì molti anni fa, prima della guerra in Iraq, in arabo col permesso di Saddam Hussein.
Altri volumi sono usciti in Egitto.
In neogreco sono tradotti i manuali, mentre i romeni traducono praticamente tutto.
Prima si usavano i miei libri in francese, come seconda lingua; poi i giovani sono diventati anglofoni, ma ora li traducono in romeno e persino in russo».
Che cosa l’Oriente cristiano può significare e dare come patrimonio culturale all’Europa e all’Occidente di oggi? «Credo che l’Oriente cristiano potrà ora dare un suo contributo veramente efficace.
Il motivo è semplice: gli slavi sono stati gli ultimi ad essere stati battezzati e proprio per questo il loro apporto, rispetto ad altre culture europee, è entrato più tardi nella coscienza universale.
Il grande Solov’ëv riteneva che questo apparente deficit fosse un segno provvidenziale per il ruolo <+corsivo>in fieri<+tondo> che proprio gli slavi avrebbero potuto giocare nella società che verrà ma anche per il futuro del cristianesimo».
Il cardinale Giacomo Biffi nel 2007, durante gli esercizi spirituali alla Curia romana, citando l’«Anticristo» di Solov’ëv, ha detto che esso potrebbe celarsi oggi in un pacifista così come in un ecologista, annacquando così l’essenza del messaggio cristiano.
Qual è la sua opinione a riguardo? «Concordo con la preoccupazione del cardinale Biffi.
L’Anticristo viene presentato come l’uomo ideale, che pensa di risolvere tutti i problemi umani adoperando bene la ragione e la volontà, ma senza Cristo.
Il suo successo finisce in una catastrofe mondiale.
Il rischio, a ben vedere, è in fondo evidente, seppur con connotati diversi, anche nella nostra cultura e mentalità corrente, che vuole vivere senza Dio».
Citando il suo amato Dostoevskij sarà, secondo lei, la bellezza a salvare il mondo? «Credo di sì.
Anche Solov’ëv amava citare questa frase.
Il suo significato più autentico è quello di superare l’aspetto estetico.
Il “bello” è ciò in cui si riesce a vedere un elemento che lo supera, elevandolo.
Il carbone e il diamante, ad esempio, sono chimicamente uguali.
Eppure il carbone è brutto perché in esso non vediamo nient’altro.
Al contrario il diamante è bellissimo perché vi risplende la luce.
I gradi della bellezza sono diversi.
Ma non c’è dubbio che la sintesi e il paradosso di tutto questo è racchiuso nella figura del Cristo, che raccolse su di sé le grandezze ma anche le miserie dell’umanità nell’Incarnazione».
L’opera di questo gesuita sembra una lunga citazione (140 libri e più di 600 articoli, tradotti in tutto il mondo, tra questi gli ultimi due saggi scritti per la Lipa nel 2007 Maranatha.
La vita dopo la morte e Il monachesimo).
Ma dietro al cordiale sorriso e alla flemma di questo cardinale si annida la speranza ecumenica di sempre sul futuro del Vecchio Continente: che la Chiesa di Occidente impari, secondo la celebre frase del poeta russo Vjaceslav Ivanov, a «respirare con ambedue i polmoni».
Dal Centro Ezio Aletti, nel cuore di Roma a pochi passi dalla basilica di Santa Maria Maggiore, il cardinale gesuita Tomás Spidlík, che domani, 17 dicembre, compirà 90 anni rilegge il suo Novecento con grande gratitudine per i doni ricevuti.
Circondato dalle icone della spiritualità orientale e dai dipinti e mosaici del suo confratello Marko Ivan Rupnik tornano alla mente di questo anziano porporato, nato nel 1919 a Boskovice in Moravia, come in un album dei ricordi, i grandi autori, da Pavel Florenskji all’amato Teofane il Recluso, che hanno costellato la sua vita di intellettuale cattolico più studiato nel mondo ortodosso per la sua conoscenza della spiritualità dell’Oriente cristiano.

Nei cinema italiani a Natale

Piovono film sugli schermi di Natale, qualcuno in sintonia con lo spirito delle feste, altri destinati a chi fugge da impegno e riflessione.
Come sempre di questi tempi, insomma, ognuno troverà pane per i propri denti.
Anche se le pellicole in sala hanno spessore e qualità molto diverse.
PER BAMBINI E FAMIGLIE La nuova eroina delle più piccole sarà una fanciulla povera e con la pelle nera, in linea con la nuova era Obama, una Cenerentola riveduta e corretta da Ron Clements e John Musker ne La principessa e il ranocchio con cui la Disney fa ritorno all’animazione tradizionale in 2D.
Ai maschietti piacerà invece Astroboy, una sorta di Pinocchio fantascientifico che a 58 anni dalla sua nascita per mano di Osamu Tezuka arriva sul grande schermo con la voce di Silvio Muccino.
In Piovono polpette, invece, un inventore un po’ folle trova il modo di trasformare la pioggia in leccornie da immagazzinare durante la crisi economica, mentre lo spagnolo Planet 51 racconta di un astronauta sbarcato per sbaglio su un pianeta dove sono i terrestri ad essere considerati temibili alieni.
Porta sullo schermo uno dei racconti natalizi per eccellenza, ma non è adatto ai più piccoli, A Christmas Carol, prodigio di animazione tridimensionale, mentre Land of the Lost propone la classica avventura di una famigliola perdutasi in un’altra dimensione spazio-temporale.
LE COMMEDIE Se in Io e Marilyn Leonardo Pieraccioni riflette sul ruolo di padre e sulle famiglie allargate grazie al fantasma della Monroe, anche il postino protagonista di Il mio amico Eric di Ken Loach risolverà i suoi problemi con l’aiuto di un amico immaginario, il calciatore Cantona.
Mentre continua il suo fortunato percorso Cado dalle nubi di Checco Zalone, aspirante musicista pugliese emigrato a Milano, la famiglia, in particolare il rapporto tra padri e figli nell’Italia del Sud degli anni Sessanta, è al centro de L’uomo nero di Sergio Rubini, mentre George Clooney ironizza su vecchi, presunti esperimenti dell’esercito americano in L’uomo che fissa le capre.
PER RIFLETTERE Remake del film danese di Susanne Bier, Brothers di Jim Sheridan racconta di un marine che, dato per morto ma risbucato dall’inferno, ritorna in famiglia profondamente traumatizzato dall’orrore subito.
Ne Il canto delle spose, ambientato nella Tunisi del 1942, Karin Albou propone una storia di conflitti razziali e di oppressione sulle donne, mentre nel documentario Debito di ossigeno di Giovanni Calamari due famiglie confessano il dramma della perdita del lavoro.
Il tema dell’immigrazione clandestina e dell’intolleranza sono invece al centro di Welcome del francese Philippe Lioret.
UN NATALE DIVERSO Per chi detesta i film di Natale a Natale c’è Sherlock Holmes di Guy Ritchie in cui il celebre detective e il suo assistente Watson devono vedersela con un complotto che minaccia l’intera nazione: tra arti marziali e scazzottate i due assomigliano molto a Bud Spencer e Terence Hill.
Delude Amelia di Mira Nair, piatto e stucchevole ritratto dell’aviatrice americana che per prima attraversò l’Atlantico in solitaria, mentre ossessioni e cliché della cultura ebraica sono messi alla berlina dai Coen nella pellicola A Serious Man, e Francis Ford Coppola rivela i Segreti di famiglia di un giovane americano trasferitosi a Buenos Aires.
Michael Mann ridimensiona il mito del gangster John Dillinger in Nemico pubblico, il catastrofico 2012 di Roland Emmerich porta sullo schermo gli effetti della profezia maya e Moon di Duncan Jones affronta il tema del doppio in un film di fantascienza teorico e concettuale.
da Avvenire 19 12 2009

E viene Natale

AGOSTINO MANTOVANI, E viene Natale.
Pensieri e riflessioni, Infinito Edizioni, Castel Gandolfo (RM), 2009,  Isbn: 78-88-89602-68-3,  pp.118, Euro 12,00 Natale che viene, tempo di auguri.
Ci sono stati altri Natali che ricordiamo, perché il tempo passa.
Ce ne saranno altri.
Succede da oltre duemila anni.
Chissà come saranno i prossimi.
Intanto in questo libro l’autore traccia quarantuno modi inusuali e ricchi di poesia per formulare auguri diversi dal solito, ricordando che il Natale non è e non può essere la celebrazione del consumismo, ma altro.
Ben altro.
“Il Natale è anche poesia e quella di Mantovani è leggera e leggiadra con la neve, gli aceri, i tramonti, le stagioni, i mulini a vento e tante altre immagini suggestive e delicate.
Il Natale è anche mensa famigliare che riunisce gli affetti più cari, è anche festa dei bambini e dei loro balocchi, è anche scambio di doni sotto l’albero, è anche occasione per spargere auguri (come il seminatore spargeva la semente) che talvolta riannodano antiche amicizie dal tempo sfilacciate, è anche solidarietà, anche tenerezza, anche accoglienza, anche…
Purché sia anche”.
(Aldo Ungari) “Ci avviciniamo al Natale e sarebbe cosa bella se riuscissimo a prepararci nel modo giusto: vedendo con occhi nuovi la fragilità dell’uomo – la nostra fragilità e quella degli altri – fino a farne motivo di bontà, di pazienza, di premura.
Come una riproduzione in noi della tenerezza di Dio”.
(Mons.
Luciano Monari) Scarica la scheda del libro Scarica la prefazione del libro Dello stesso genere/autore, ti consigliamo anche: Vicoli in Paradiso Il cielo in una stalla

III Domenica di Avvento anno C

III DOMENICA DI AVVENTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Sofonia 3,14-18          Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura.
In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».
    v  La prima lettura dà il là di intonazione alla liturgia odierna, invitando alla gioia.
Letta in connessione con il Vangelo, la ragione sta nella venuta del Messia, quella storica che riviviamo nel Natale, quella teologica che si attua nella vita veramente cristiana di ogni credente.
     Due minuscole unità compongono il presente brano: un invito alla gioia (vv.
14-15) e una parola di consolazione (vv.
16-18).
Le due parti hanno un comune fondamento, dato dalla presenza di Dio.
Egli non si mostra più giudice, ma amore.
Egli è ciò che il suo Nome esprime: JHWH, il Dio verace, il Dio presente, il Dio salvatore.
Per contestualizzare il brano e capire la sua esplosione festosa, occorre sapere che su Gerusalemme si era abbattuto minaccioso il giudizio divino.
I nemici erano lo strumento nelle mani della divina giustizia per mostrare la scissione avvenuta tra Dio e il suo popolo.
Ora, grazie anche alla predicazione profetica, era venuta una salutare reazione da parte del popolo, pronto alla conversione.
Il profeta gli annuncia: «Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico» (v.
75).
In termini più positivi, il Signore sta in mezzo al suo popolo, segno di una comunione ritrovata.
L’alleanza ha ripreso a palpitare, respirando con i due polmoni, quello di Dio e quello del popolo.
Qui sta primariamente la fonte della gioia, affidata al giubileo del v.
14, di cui risuona una eco nell’annuncio dell’angelo a Maria (cf.
Lc 1,28: da tradurre con «rallegrati» e non con il bolso «ti saluto»).
   L’idea del Dio in mezzo al suo popolo anima pure il brano consolatorio (vv.
16-18).
«In quel giorno» rimanda ad una situazione non facilmente definibile nel tempo, ma non per questo ipotetica.
Il suo carattere escatologico la colloca tra i grandi interventi di Dio, che prenderanno piena forma nel NT.
Dio ha sospeso il giudizio di condanna contro il suo popolo traditore: egli lo vuole salvare, solo in forza dell’incommensurabile amore verso di esso.
Lui si presenta re di Israele, e pure domina su tutti i popoli della terra.
Non si è ancora totalmente manifestata la sua potenza regale, ma l’imminente manifestazione della salvezza diventa segno, inizio e condizione di una signoria completa.
    Anche se il presente risulta difficile, chi ripone la propria fiducia nella potenza di Dio salvatore non deve temere nulla.
Di più, può contare sull’amore di Dio che rinnova e che invita alla festa (cf.
v.
18).
  Seconda: Filippesi 4,4-7          Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti.
La vostra amabilità sia nota a tutti.
Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.  E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
       v Il brano si trova nella parte conclusiva della lettera, quando è il momento delle ultime raccomandazioni, e contiene cinque frizzanti imperativi.
La scelta liturgica si spiega per il binomio gioia-vicinanza del Signore: l’invito alla gioia e l’esortazione a compiere il bene verso tutti sono motivati da Paolo con la frase che il Signore è vicino.
    Il discorso si allarga dai singoli (cf.
i precedenti vv.
2-3) alla comunità.
Questa riceve l’esortazione alla gioia, tema che attraversa tutta la lettera.
Mentre prima erano individuati motivi concreti che causavano la gioia (cf.
1,18; 2,17-18), ora l’appello è generale e insistito.
La gioia ha tre aspetti: una radice interiore, un’espressione esterna e una causa ben precisa.
La radice è il Signore: sempre si tratta di gioia in Lui («rallegratevi nel Signore»), per distinguerla nettamente da realtà che portano lo stesso nome ma che hanno contenuto diverso: qui Paolo si preoccupa di bloccare le imitazioni.
La gioia che invade l’intimo dell’individuo e della comunità, investe pure l’esterno, tutti gli altri, sotto forma di «affabilità».
Infine viene indicata la causa, consistente nell’avvicinarsi del Signore.
Questa precisazione orienta e determina il contenuto della gioia cristiana; è la presenza di Cristo che garantisce e assicura una condizione di benessere per sé e per gli altri: «L’attesa della parusia è per l’apostolo un motivo parenetico centrale» (J.
Ernst).
    La vicinanza del Signore, già reale presenza per molti aspetti, funge da deterrente contro ansie incontrollate: chi lascia operare nella propria vita la semplice parola ‘il Signore è vicino’, esperimenta già ora la pace di Dio.
Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio.
Il cri-stiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia irretire da lacci che frenano il suo impegno o che smorzano la sua serenità di fondo.
Anche sotto questo punto si comprende il precedente invito alla gioia.
Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell’esistenza cristiana ed è già stato chiaro, alludendo fin dall’inizio alle sue catene (cf.
1,13).
Ma è altrettanto convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini (cf.
in greco il verbo merimnao, lo stesso di Mt 6,25.31.34) che bloccano e rendono improduttivi; positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio di cui la «pace» del v.
7 è la sacramentalizzazione.
La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a Lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti».
Non è certo un ‘far conoscere’ qualcosa che non sa, ma è il modo per l’uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla Sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a Lui.
Colui che è capace di pregare e di ringraziare depone il suo affanno in Dio.
    Potrebbero sembrare belle parole di circostanza, se non venissero dalla vita stessa di Paolo che ha dimostrato di leggere tutto, persecuzione compresa, con gli occhi illuminati dalla luce della Provvidenza (cf.
1,15-20).
Paolo si trova in prigione quando scrive la presente lettera.
Egli pensa alla sua comunità di Filippi e pensa altresì a Cristo che ha sempre riempito la sua vita.
Egli pensa al ritorno di Cristo, mediante la morte che può giungere da un momento all’altro.
Paolo ha detto il suo sì anche a questa situazione estrema e rimane un uomo felice pur nella catena e nella incertezza del suo futuro.
L’incontro con Cristo trasforma in aurora di vita quello che, umanamente parlando, ha il sapore crepuscolare del fallimento o della repentina conclusione.
  Vangelo: Luca 3,10-18        In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?».
Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?».
Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?».
Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
       Esegesi      Nei versetti che precedono il nostro brano avevamo assistito a un vigoroso appello alla conversione, non privo di toni forti, tipici della personalità e del messaggio del Battista.
Ora il tono in parte si smorza, senza perdere vigore, e trapassa nella consolante esortazione che tutti possono concorrere a preparare degnamente la venuta del Messia.
    Il brano ha un marcato carattere esortativo.
Distinguiamo una prima parte (vv.
10-14), in cui Giovanni sollecita tre gruppi a comportarsi correttamente, da una seconda (vv.
15-17), con la testimonianza che il Precursore dà su Gesù, esortando implicitamente a seguirlo.
Il v.
18 mantiene una funzione conclusiva e sembra pure un passaggio del testimone da Giovanni a Gesù, grazie al verbo ‘evangelizzare’ («annunciava la buona novella»).
    Giovanni svolge una duplice attività: predica e battezza.
La prima è funzionale alla seconda, in quanto le sue parole devono portare le persone al pentimento.
Segno visibile di quella volontà di cambiare vita è l’acqua che i pellegrini ricevono dal Battista.
Non si tratta certo di battesimo in senso cristiano, ma comunque di ‘battesimo’, se prendiamo la parola nel suo significato etimologico di ‘immersione’.
Il battesimo-sacramento sarà possibile solo dopo la morte e risurrezione di Gesù; per il momento ci si prepara ricevendo il battesimo di Giovanni.
Esso è molto più di un semplice gesto esteriore perché implica la buona volontà di migliorare la propria esistenza alla luce della predicazione.
Non basta una decisione interiore di cambiar vita: occorre vedere anche all’esterno la novità.
Da qui l’esigenza di assumere comportamenti concreti che si indirizzano secondo le indicazioni del Battista che ha il primario compito di «dare al suo popolo la conoscenza della salvezza» (Lc 1,77).
    Nella esemplificazione dei comportamenti da tenere, passiamo a un nuovo registro dove impressiona il calore di una comprensione che apre le porte a tutti.
Non è certo ‘indulgenza’ del predicatore, ma coerenza con il messaggio che egli annuncia: un messaggio che vuole raggiungere tutti indistintamente, superando le antiche barriere che creavano steccati e divisioni: non solo tra popolo eletto e altre nazioni, ma pure all’interno degli stessi ebrei.
Incontriamo una pacata istruzione che ha tutta l’aria di essere un minicatechismo oppure un vademecum di teologia e di saggezza, di comprensione e di incoraggiamento.
Luca lascia trasparire anche qui la sua sensibilità universalista («le folle interrogavano Giovanni») Se ha una preferenza, questa va tutta per gli emarginati.
    Infatti mette sul palcoscenico del suo interesse le categorie che noi diremmo ‘a rischio’: odiati esattori di tasse che collaboravano con l’occupante romano e che spesso calcavano la mano sulla povera gente diventando autentici strozzini (cf.
5,30; 19,7), oppure soldati mercenari che facevano il gioco dei potenti.
La salvezza non ha ‘colore’ o ‘tessera di appartenenza’ come qualcuno amava, e qualche volta anche oggi ama, far credere.
La salvezza è dono di Dio, quindi espressione della gratuità del suo amore che, in quanto tale, non ha ‘corsie privilegiate’.
Tutti sono potenziali destinatari di tale dono e lo saranno effettivamente nella misura in cui si apriranno nella disponibilità della loro vita.
È a questa apertura che punta Giovanni, invitando e sollecitando tutti.
I segni di rinnovamento vertono esclusivamente sull’amore al prossimo: la gente deve imparare a condividere, i pubblicani a praticare la giustizia, i soldati a trattare con umanità.
     Oltre alla universalità, altro dato interessante per entrare nella sfera della salvezza è la normalità.
Non sono richiesti miracoli né atteggiamenti di eccezione per fruire del dono della salvezza: solo il corretto esercizio della propria professione.
È come dire che le persone si santificano nel tessuto della loro storia quotidiana, facendo bene quello che devono.
Viene valorizzata al massimo una ‘sana laicità’ intendendo per laicità l’inserimento nel tessuto della storia.
A meno che si tratti di un’attività manifestamente disonesta (per esempio il furto o la prostituzione), tutte le professioni hanno una dignità che va onorata con il proprio impegno.
Giovanni non richiede a nessuno di cambiare mestiere, esige piuttosto di vivere bene la propria vocazione.
Ottima preparazione per attendere degnamente il Messia.
     Di Lui Giovanni parla con vigore, alzando le note nel rigo della sua testimonianza.
Compito di Giovanni è solo preparatorio, preparare «un popolo ben disposto» (Lc 1,17).
Egli prepara la strada a chi viene dopo di lui, al Messia.
Egli si dimostra ben vaccinato contro il virus da protagonismo e dichiara apertamente di non essere il Messia.
Questi gode di una dignità che non ha confronto.
Essa viene espressa negativamente con la distinzione tra i due, e positivamente per il contenuto della missione di Gesù.
La distanza abissale che separa Giovanni dal Messia viene affidata dapprima all’immagine dello sciogliere i lacci dei sandali.
Era questo il compito riservato abitualmente allo schiavo.
Giovanni non si ritiene nemmeno degno di essere lo schiavo del Messia.
Quindi la sostanza arriva nei versetti successivi che conservano un colorito palestinese e aprono a una prospettiva escatologica.
Prendendo lo spunto dalla pratica del contadino che sull’aia utilizzava il ventilabro (attrezzo di legno a forma di pala con il quale si gettava in aria il grano: questo, più pesante, cadeva a terra e la pula era portata via dal vento) per separare il grano dalla pula, Giovanni presenta Gesù come ‘il giudizio di Dio’, colui che distingue e che determina.
In termini semplificati: è Gesù l’elemento discriminante e decisivo, colui per il quale occorre impegnarsi se si vuole raggiungere la salvezza; il rifiuto di Gesù equivale al rifiuto della salvezza.
  Meditazione      Nel nostro cammino di attesa dell’avvento del Signore Gesù, siamo ancora accompagnati, in questa terza domenica, dalla figura di Giovanni il Battista e dalla sua parola.
Quest’uomo austero e senza compromessi, che ha scelto il deserto arido come sua dimora perché si rivelasse in tutta sua forza l’unica parola che è capace di rendere feconda la vita dell’uomo, continua a parlare anche a noi, ad invitarci a preparare nelle nostre esistenze, nel nostro cuore, la via del Signore perché possiamo vedere la sua salvezza.
Afferrato dalla parola di Dio che è scesa su di lui nel deserto per consacrarlo ad esser profeta del Messia, Giovanni ha sentito con forza tutta la radicalità e l’urgenza di una scelta che sia unicamente per il Signore.
E con toni forti e taglienti l’ha proclamata perché ogni uomo potesse prenderne coscienza: la parola infuocata che esce dalle labbra del Battista mette a confronto l’uomo con l’imminente giudizio di Dio e non lascia spazio a compromessi e ipocrisie.
A coloro che andavano a fasi battezzare, Giovanni dice: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione…
La scure è posta alla radice degli alberi, perciò ogni albero che non da buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Lc 3,7-9).
Dio è ‘Colui che viene’, colui che è immediatamente ‘vicino’ e che chiama l’uomo all’ultima presa di coscienza seria e responsabile.
Di fronte a Lui non c’è possibilità di scampo, né in un rito rassicurante (il battesimo) , né nella presunzione di possedere già la salvezza («non cominciate a dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre…»: cfr.
8).
Non è possibile mascherarsi dietro un rito, svuotandolo del suo contenuto; il battesimo ricevuto, per inverarsi, deve avere come conseguenza un mutamento di vita.
     L’attesa del Messia che Giovanni annuncia è infuocata e certamente ciascuno sente il timore di incontrare il volto di giustizia di Colui che viene a portare la salvezza.
La radicalità di questa parola profetica, d’altra parte, contrasta con l’annuncio di gioia che questa terza domenica di Avvento ci invita ad accogliere (e forse per questo i vv.
7-9 di Lc 3 sono stati omessi nella lettura liturgica).
Le parole di consolazione che risuonano nell’annuncio del profeta Sofonia aprono il cuore di Gerusalemme alla gioia, accogliendo il Signore che viene: «…il tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17).
E anche per Paolo l’imminente venuta del Signore non può produrre altro che gioia nel cuore del credente: «Siate sempre lieti nel Signore…
Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5).
La testimonianza del Battista è così estranea a questa gioia? Quale salvezza attendeva il Battista? Che cosa pensava del Messia? Si è sbagliato? Giovanni non si è sbagliato: il Messia che ha annunciato è quello atteso, ma ogni venuta del Signore ha sempre qualcosa di imprevisto.
Giovanni era chiamato a preparare la via e dunque il suo compito era quello di richiamare l’uomo alla sua responsabilità, alla urgenza e alla serietà di una reale conversione.
E anche se l’annuncio del Precursore è veramente carico di minaccia, la meta ultima non è il castigo, bensì l’insistente richiamo alla conversione che deve concretizzarsi nei frutti degni (v.
8).
Questo è il compito di Giovanni.
Sarebbe toccato poi al Signore Gesù rivelare tutta la gioia che scaturisce dalla compassione e dal perdono di Dio per coloro che riconoscono il loro bisogno di salvezza, per i piccoli e i poveri, per gli affaticati e gli oppressi, per i pubblicani e le prostitute.
E il volto di Dio che Gesù ha annunciato non è in contrasto con quello che Giovanni proclamava nel deserto; semplicemente è un volto altro, al di là e sopra ogni giustizia.
È il volto della misericordia.
Giovanni, nel profondo della sua esistenza così simile al deserto nel quale dimorava, ha avuto la grazia di intravedere, come da lontano, questo volto.
A quest’uomo così essenziale, tale visione è bastata per riempire di gioia la sua vita (cfr.
Gv 3,29) e comprendere che la parola di Dio è certamente giudizio, ma è soprattutto e prima di tutto evangelo, annuncio pieno di gioia.
E lo vediamo proprio nei versetti di Luca che seguono l’invito alla conversione (vv.
10-15).
Giovanni nel deserto predica una conversione, e lo fa con toni infuocati.
Ma tutta il suo annuncio diventa consolazione e gioiosa notizia.
Tutto è riportato alla bellezza dell’evangelo, tutto è in relazione con quella gioiosa parola di salvezza che è Gesù.
E anzitutto Giovanni orienta tutta la sua vita a quell’unica parola che salva.
La sua persona non ha importanza e la sua voce è solo prestata all’unica parola che dona salvezza: «Viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali» (v.
16).
Il tono di Giovanni allora diventa umile, pacato, pieno dello Spirito consolatore: è come un fratello maggiore che ci prende per mano e ci guida a Gesù: è lui che è il più forte, è lui l’Agnello che prende su di sé il peccato del mondo, è lui che può perdonare.
Si potrebbero porre sulle labbra di Giovanni le parole di Sofonia: «Non temere Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te…» (Sof 3, 16-17).
     E coloro che, forse un po’ spaventati dalle parole dure uscite dalla bocca di Giovanni, domandano: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?» (v.
12), si sentono rivolgere una risposta profondamente semplice ed evangelica, che indica loro un cammino possibile, quotidiano, di conversione.
Giovanni non invita gli uomini a fuggire nel deserto, a rivestirsi di peli di cammello e a nutrirsi di miele selvatico e di locuste.
L’itinerario proposto dal Battista per portare frutti degni di conversione è nella linea dei profeti: il luogo della conversione è la vita in cui deve prendere forma la parola di Dio.
La solidarietà e la condivisione, la giustizia e la lealtà sono i frutti degni che maturano in una vita che ha accolto seriamente la parola di Dio.
In fondo, ciò che Giovanni propone a coloro che domandano – «che cosa dobbiamo fare?» (vv.
10.12.14) – è semplicemente calare la gioia del vangelo, la misericordia e il perdono di Dio, il suo amore, nei gesti che ogni giorno ognuno è chiamato a compiere, nel lavoro che è chiamato a svolgere, nei rapporti che deve intessere, nel mondo in cui vive.
Ognuno vedrà la salvezza di Dio se la sua vita, nelle dimensioni più semplice e quotidiane, si convertirà alla novità e alla gioia che il Messia dona con la sua venuta.
     E, in fondo, così è anche vissuto Giovanni il Battista, quest’uomo così austero e senza compromessi.
La gioia è diventata il tono profondo della sua vita.
Anche se il suo volto e la sua parola erano dure e infuocate, il suo cuore viveva costantemente immerso nella gioia.
Anzi la gioia è stato il frutto maturo della sua vita radicalmente donata e affidata alla parola di Dio, una vita per questo essenziale, dura e allo stesso tempo umile e gioiosa.
Da una parte l’umiltà di Giovanni è quasi drammatica; ma proprio per questo riesce già a camminare nella luce della gioia evangelica.
E questa umiltà trasforma la violenza e la du-rezza del suo linguaggio in consolazione ed evangelo: «Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo» (v.
18).
Quella gioia a cui oggi anche la liturgia ci invita, è stata, a dispetto di tutto, la vocazione di Giovanni.
         Preghiere e Racconti   Domenica gaudete Questa domenica, la terza del tempo di Avvento, è detta “Domenica gaudete”, “siate lieti”, perché l’antifona d’ingresso della Santa Messa riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”.
E subito dopo aggiunge la motivazione: “Il Signore è vicino” (Fil 4,4-5).
Ecco la ragione della gioia.
Ma che cosa significa che “il Signore è vicino”? In che senso dobbiamo intendere questa “vicinanza” di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro.
Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2).
Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la “vicinanza” di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino.
In questa luce, è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei “Bambinelli”, le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe.
Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri “Bambinelli”, che ora benedico.
Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera: Dio, nostro Padre, tu hai tanto amato gli uomini da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù, nato dalla Vergine Maria, per salvarci e ricondurci a te.
Ti preghiamo, perché con la tua benedizione queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi, siano, nelle nostre case, segno della tua presenza e del tuo amore.
Padre buono, dona la tua benedizione anche a noi, ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici.
Apri il nostro cuore, affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia, fare sempre ciò che egli chiede e vederlo in tutti quelli che hanno bisogno del nostro amore.
Te lo chiediamo nel nome di Gesù, tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen.
(Le parole del Papa, Benedetto XVI, alla recita dell’Angelus, 14-XII-2008).    Il Vangelo della gioia «Il Signore è fedele per sempre rende giustizia agli oppressi, da il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge lo straniero».
(Sal 145)   C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.
Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.
«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5).
Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.
Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia.
Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.
  Umiltà Qualche finezza etimologica non guasta.
E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.
II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile.
Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra.
E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale.
Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.
Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole? E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale? E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato? E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).
Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore? Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?   Fedeltà La gioia cristiana deriva da due fontane.
La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse.
Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro.
Il nostro, insomma, è un Dio di parola.
«Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.
«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».
È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore.
La gioia non tarderà ad irrompere.
La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».
Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.
A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.
  Utopia «Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10).
È la più osata battuta di Isaia.
La più incredibile.
Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.
Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra? O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze? O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»? (Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72) Porto una responsabilità       Anche se come singolo non posso ottenere che tutto vada per il meglio, posso portare il mio contributo perché qualche cosa in questo mondo migliori.
Non posso sottrarmi alla responsabilità con la scusa che gli altri dominano il mondo.
Ognuno lascia una traccia in questo mondo con la sua vita.  E da queste tracce il mondo viene plasmato.
Ho la responsabilità di lasciare là dove vivo un traccia buona e feconda.
Posso e devo contribuire perché  il mondo intorno a me diventi migliore, perché in me e attraverso di me il bene diventi visibile in questo mondo.
Non posso lasciare questo compito ad altri.
Devo cominciare da me.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 140).
Preghiera Mi sorprende anche quest’anno la tua promessa, Signore: mentre sono in cammino con la Chiesa, per prepararmi al natale, sentire che sei tu ad aprirmi una strada per la conversione.
Mi apri una strada raggiungendomi con la tua Parola: mentre io la ascolto spesso stancamente e senza entusiasmo, tu mi ricordi che l’incontro con essa è più forte della potenza degli imperi e dei grandi di questo mondo e che trasforma anche la mia vita in storia di salvezza.
Insegnami ad ascoltare, insegnami il silenzio.
Mi apri una strada promettendo di abbattere monti e colmare valli.
Se non fosse perché lo dici tu, sarei tentato di pensare che si tratti per me di una battaglia persa in partenza: che io non smetta, Signore, di lottare contro le montagne dell’orgoglio, dell’ira, dei vizi e non mi spaventi per le lacune della mia risposta poco generosa.
Mi apri una strada indicandomi i tanti deserti che trovo intorno a me e gli spazi vuoti che la nostra carità non sa mai colmare: che io possa, Signore, fare la mia parte, senza scoraggiarmi per il tanto che non posso e non so fare.
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.