Cardinale vicario Agostino Vallini: Serve una Chiesa più coraggiosa

Ai politici, agli amministratori, raccomanda “una speciale attenzione ai poveri” e di “non dimenticare di prendersi cura della loro anima e del loro rapporto con Dio”; alla Chiesa chiede invece di essere “più coraggiosa e testimoniante”, con un’adesione più profonda agli orientamenti del concilio Vaticano ii.
Anche perché i giovani “non ci seguono più, sono culturalmente e sensibilmente lontani dai valori cristiani”.
Il cardinale vicario Agostino Vallini traccia un primo bilancio della sua esperienza pastorale alla guida della diocesi di Roma, a distanza di poco meno di due anni dalla nomina, avvenuta il 27 giugno 2008.
La capitale, i suoi cittadini, i suoi fedeli, costituiscono una realtà particolare, una comunità nella quale scorre ancora una “linfa di autentica civiltà”, che fa sì che “gli episodi di intolleranza verso gli immigrati siano rari e apertamente condannati dalla gente”.
Insomma, Roma è ancora a pieno titolo una città profondamente cristiana, nonostante le profonde trasformazioni che ha subìto in particolare negli ultimi decenni.
Tuttavia, c’è molto da fare.
Il cardinale – in questa intervista a “L’Osservatore Romano” – illustra le linee della pastorale diocesana, dalla quaestio fidei alla preparazione dei sacerdoti, dalla formazione cristiana degli adulti alle indicazioni che Benedetto XVI fornisce, costantemente, al suo vicario.
  L’intervista  Eminenza, pochi giorni fa, il 14 febbraio, la visita di Benedetto XVI alla Caritas presso la stazione Termini.
È noto che fra i più poveri, i più bisognosi, figurano gli immigrati.
Lei crede che in futuro possano verificarsi anche a Roma episodi di forte tensione fra cittadini e comunità straniere, come è accaduto altrove? La visita del Papa all’ostello della Caritas alla stazione Termini, nell’anno dedicato dal Parlamento e dalla Commissione europea alla lotta alla povertà e all’esclusione sociale, è stata una intensa esperienza di pastorale sollecitudine del Papa verso i poveri, ricambiata dai presenti, molti dei quali immigrati, con grande emozione e sincera gratitudine.
Un’esperienza di alto valore umano e spirituale che ha trasmesso alla città – ne ho avuta vasta eco nei giorni successivi – un forte messaggio per una cultura che consideri la presenza degli immigrati non come fonte di problemi, ma come persone meno provvedute e come noi titolari di diritti.
Una cultura che la Caritas e le altre istituzioni ecclesiali di carità e di solidarietà presenti a Roma diffondono silenziosamente da anni, dimostrando concretamente che l’emarginazione può essere contrastata e vinta dall’amore e dalla giustizia, in nome della carità di Cristo e della dignità da riconoscere e garantire a ogni persona umana.
Le numerose opere di carità a favore degli immigrati parlano alla città con la volontà anche di riparare in tanti casi alla giustizia negata.
Non dimentichiamo peraltro l’apporto positivo di lavoro e di contribuzione all’economia del Paese dato dagli stessi immigrati, inseriti nella vita sociale.
Questa linfa di autentica civiltà fa sì che a Roma gli episodi di intolleranza verso gli immigrati siano rari e apertamente condannati dalla gente.
In futuro si potranno avere problemi di rapporto e confronto con le comunità religiose diverse da quelle cristiane? Tendo a escluderlo.
Non dobbiamo dimenticare che siamo a Roma e che, per quanto i processi storico-culturali che sembrano dominanti influiscano sul modo di pensare e sui comportamenti delle persone, il tessuto sociale è impregnato di valori cristiani, che sono il rispetto della persona umana e delle idee di ciascuno, il riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, lo spirito ecumenico.
La presenza del Papa e della Santa Sede, che costantemente richiamano i valori non solo religiosi ma umani e civili, fa sì che i primi destinatari di questi messaggi siano i romani.
Come è cambiata la città? L’immigrazione, le nuove periferie, le ricadute sociali della crisi economica mondiale ne hanno mutato realmente le caratteristiche? Sì, in modo evidente.
Negli ultimi quarant’anni Roma è progressivamente cambiata.
A quel tempo c’era il centro città con la sua identità di metropoli e le borgate che crescevano.
Una città “a doppia spinta” – dicono i sociologi – dove chi stava bene stava sempre meglio e chi era povero diventava sempre più marginale.
Oggi non è più così:  non c’è più un centro, gli emarginati sono aumentati, non si evidenziano ragioni di coagulo.
“Il vero vizio – è stato detto – è la mancanza di spirito comunitario e di socializzazione”.
A Roma “la gente non si incontra più, non sa dove farlo” e “ciò vale per il centro storico come per la periferia”.
Roma dunque, come ha spiegato Giuseppe De Rita [segretario generale del Censis], sta perdendo la propria identità diventando “un agglomerato di quartieri diversi, che le periodiche ondate migratorie hanno trasformato in maniera strutturale”.
Negli ultimi 60 anni la città è cresciuta di un milione di abitanti, di cui l’8 per cento sono stranieri.
Tutto ciò è aggravato dalla crisi economica, che ha colpito tante famiglie.
Nel complesso si può dire che Roma sia ancora una città profondamente cristiana o, a livello culturale, la città ha ormai assunto i caratteri tipici, più secolari, delle grandi metropoli europee? È cambiato di conseguenza anche il modo di essere pastore di una realtà come quella romana? Non sono ancora in grado di valutare lo spessore cristiano del popolo romano.
Nelle visite alle parrocchie incontro comunità vive e operose, laici impegnati e generosi, presenza attiva degli istituti di vita consacrata e dei movimenti, ma non crederei che Roma sia indenne dal ciclone perdurante della secolarizzazione.
La realtà è sotto gli occhi di tutti.
Si pensi solo all’invadenza nella vita familiare di un certo tipo di televisione e di internet, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani.
Nondimeno rispetto ad altre metropoli europee i segni distintivi della presenza cristiana nella vita della maggioranza della popolazione sono chiari e influenti, seppure non possiamo più fidarci solo della tradizione.
Il mondo è soggetto a continuo cambiamento e la comunità ecclesiale è chiamata ad adeguare la sua azione pastorale alle esigenze dei tempi.
I grandi orientamenti del concilio Vaticano ii devono penetrare di più nel corpo ecclesiale e far maturare una coscienza di Chiesa più coraggiosa e testimoniante.
Così pure, contro la frammentazione, è da promuovere il convergere delle varie forze apostoliche a una maggiore unità nella Chiesa locale.
Di conseguenza cambia anche il modo di esercitare il servizio pastorale.
Cosa prevede il programma pastorale diocesano per il prossimo futuro? Dopo il Grande giubileo del 2000, a cui la diocesi si preparò con grande impegno, vivendo un momento di forte identità e visibilità con la missione cittadina in tutti gli ambienti, in questo primo decennio l’attenzione pastorale è stata concentrata su ambiti importanti, quali la famiglia, i giovani e l’educazione.
Con l’incoraggiamento del Papa, è parso opportuno fare una verifica pastorale, partendo da una domanda:  “Come i nostri fedeli hanno coscienza di essere chiesa e sentono la responsabilità di annunciare il Vangelo?” Cinque sono gli ambiti della pastorale ordinaria presi in esame:  l’Eucaristia domenicale, la testimonianza della carità, l’iniziazione cristiana, la pastorale giovanile e la pastorale familiare.
I primi due vengono affrontati questo anno, gli altri nei prossimi anni.
Sono convinto che, non potendo presupporre la fede in tanti battezzati, dobbiamo dare a tutta la pastorale una forte impronta missionaria.
Sui principi siamo tutti d’accordo, ma la traduzione concreta richiede impegno soprattutto sul piano della formazione degli operatori pastorali, a cominciare dai sacerdoti e dai seminaristi.
A un anno dalla sua lettera agli educatori scolastici “Educare con speranza”, si può fare un bilancio della mobilitazione che ha coinvolto anche la Chiesa di Roma in risposta alla cosiddetta emergenza educativa?   La “Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione”, che Benedetto XVI ci ha indirizzato il 21 gennaio 2008, come è noto, ha avuto una grande risonanza e una vasta accoglienza.
L’autorevole appello del Papa a rendere la nostra città “un ambiente più favorevole all’educazione” è stato sostenuto molto dalla diocesi e tradotto in iniziative capaci di coinvolgere in un lavoro d’insieme i diversi educatori interessati, a cominciare dalla famiglia, spronando tutti a non dimenticare mai che educare è soprattutto un impegno d’amore e, come ogni vero impegno, costa.
Nella mia lettera – seguendo le indicazioni di Benedetto XVI – ho ribadito la necessità di partire, nella difficile arte di educare, dalla testimonianza umana e cristiana che deve accompagnarsi alla competenza professionale e alla dedizione al bene dei ragazzi e dei giovani.
Mi pare che l’emergenza educativa oggi sia molto avvertita.
Per dare seguito a tutto ciò il prossimo 6 marzo celebreremo presso la Pontificia Università Lateranense un convegno sul tema “Progettare la vita.
La Chiesa di Roma incontra la città per un  rinnovato  impegno  educativo”.
Rimanendo sempre nel tema educativo, si sottolinea la necessità di fornire ai giovani “modelli credibili”.
Questi modelli mancano o si ha difficoltà a portarli a conoscenza delle nuove generazioni? È vero, la prima via educativa è la testimonianza credibile degli educatori, che – grazie a Dio – non mancano, anche se non bastano mai.
Lo affermava già Paolo vi nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, nel 1975.
Ma aggiungerei che, accanto alla testimonianza dei singoli, è necessaria quella della comunità ecclesiale.
Dobbiamo aiutare i fedeli a prendere sempre più coscienza che non si è cristiani solo per se stessi, ma anche per annunciare agli altri la fede, testimoniandola là dove si vive.
Inoltre, va ripensata la proposta formativa.
È necessario offrire una formazione umano-cristiana più robusta così da formare cristiani adulti, uomini e donne, che a loro volta siano punto di riferimento per le nuove generazioni.
La pastorale ordinaria è chiamata ad aggiornare metodologie e contenuti, a cominciare dai linguaggi con cui annunciamo il Vangelo.
Tanti ragazzi e giovani non ci capiscono più, sono culturalmente e sensibilmente lontani dai valori cristiani, bombardati quotidianamente da mille altri messaggi e inviti, nonostante abbiano ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Vanno aiutati a scoprire la risposta cristiana alle grandi domande di senso della vita, la bellezza della preghiera con la Parola di Dio, a vivere l’esperienza liberante della confessione e della direzione spirituale e uno stile di vita aperto al servizio di carità.
In tal senso ci sono a Roma esperienze molto promettenti, ma dobbiamo fare di più.
Essere sacerdote a Roma:  quali sono le difficoltà, i problemi, i disagi che i parroci le segnalano? È un grande onore essere sacerdote a Roma, ma, per certi aspetti, è anche più impegnativo.
Considerata la fisionomia della nostra diocesi, a cominciare dalla grandezza della maggioranza delle parrocchie e delle altre realtà pastorali, il sacerdote romano ha bisogno di una forte tempra psicologica e di una levatura spirituale alta, capaci di fronteggiare molti problemi, tipici del contesto metropolitano attuale.
Siamo certamente aiutati dal fatto che i sacerdoti, salvo eccezioni, vivono insieme nelle canoniche e ciò permette lo scambio e il sostegno reciproco.
Anche le prefetture (i vicariati foranei previsti dal codice canonico), dove il piano pastorale diocesano trova concreta applicazione locale, svolgono una funzione preziosa per i sacerdoti e di coordinamento del lavoro pastorale.
Lei è stato docente di diritto canonico e di diritto pubblico ecclesiastico, ausiliare di Napoli, poi vescovo di Albano e infine prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica.
Quali di queste esperienze si sta rivelando più preziosa nel suo attuale impegno pastorale? Direi che tutti i ministeri che mi sono stati affidati sono di aiuto nello svolgimento del compito di cooperare con Benedetto XVI nel governo pastorale della diocesi di Roma.
Le varie esperienze sono preziose in una realtà complessa e delicata qual è quella di Roma.
Come cittadino, quali richieste ritiene sarebbe legittimo e comprensibile rivolgere agli amministratori? Mi piacerebbe molto che quanti esercitano il gravoso compito della cosa pubblica abbiano sempre come stella polare del loro mandato il bene comune dei cittadini, con una speciale attenzione ai poveri e a chi soffre.
Mi rendo conto che il loro servizio è difficile, per questo quando li incontro raccomando di non dimenticare di prendersi cura anche della loro anima e del rapporto con Dio, di cui sono rappresentanti; ma anche io, come pastore, non manco di pregare per loro.
Si confronta spesso con il Papa sulla vita della diocesi? Benedetto XVI segue la vita della diocesi.
Ci è molto vicino.
Ho il privilegio di poterlo incontrare spesso, lo informo delle questioni più importanti, delle linee pastorali che intendiamo seguire e ne ricevo indicazioni.
Ogni anno visita il seminario e alcune parrocchie, incontra i sacerdoti all’inizio della Quaresima e apre il convegno diocesano annuale con un discorso che orienta il cammino pastorale.
Senza dimenticare i momenti liturgici più significativi, nel quale il Papa ci è maestro della fede.
Qual è il suo rapporto con la città di Roma? Le mie origini sono di questa terra, a Roma ho trascorso molti anni e adesso, come vescovo, sono a più diretto contatto con la gente, visitando le parrocchie e le altre realtà anche civili.
Roma è una città che, pur nella sua complessità, affascina.
Svolgere il ministero episcopale per i suoi abitanti mi onora e mi impegna molto per ciò che Roma è e significa nel mondo.
E quale invece il rapporto dei cittadini di Roma con il loro pastore vicario? La gente è accogliente e cordiale, dovunque trovo disponibilità, anzi desiderio di rendere le comunità ecclesiali centri di autentica vita cristiana.
Mi sembra che si sia stabilito un buon rapporto con tutti.
Qual è l’evento che le torna alla mente con più frequenza di questo primo periodo trascorso come vicario di Roma? Tra i tanti momenti belli di questi quasi due anni, l’esperienza che più mi ha dato gioia e speranza è stata l’ordinazione presbiterale conferita da Benedetto XVI l’anno scorso a 19 nostri giovani sacerdoti.
Il motivo è facilmente comprensibile.
In conclusione, quale questione pastorale la preoccupa maggiormente? Senza dubbio è quella che chiamerei quaestio fidei, vale a dire come “aggiornare” – nel senso dato a questo termine dal concilio Vaticano ii – l’azione pastorale diocesana e parrocchiale affinché la gente possa aprire il cuore a Cristo e vivere con gioia nella Chiesa.
(©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)

“In tutto mi accomodai a loro”

Nessuna strategia predeterminata da seguire, ma una costante attenzione agli spiragli di apertura, curiosità reciproca e fiducia che di volta in volta si venivano ad aprire lungo il cammino, unita a una grande capacità di ascoltare i bisogni dell’altro e muoversi di conseguenza; è probabilmente questo il segreto del successo sorprendente di Matteo Ricci nel dialogo con gli intellettuali del Grande Regno del Dragone, nella seconda metà del Cinquecento fino al 1610, l’anno della morte.  In fondo, a ben vedere, una delle modalità in cui si declina la caritas cristiana in chi da essa si lascia investire, visto che l’amore, come scriveva Nicolás Gómez Dávila, è l’organo con cui percepiamo l’inconfondibile individualità degli esseri.
“In tutto mi accomodai a loro” scrive Matteo Ricci di se stesso, con una frase che sintetizza in una battuta lunghi anni di difficoltà, fatiche e pericoli, ma anche di gioie inaspettate e di fecondo lavoro intellettuale; acquistare prestigio e credibilità nelle “cose mechaniche” crea un clima di interesse e simpatia umana da cui può nascere un confronto interessante per entrambe le parti in causa.
“In tutto mi accomodai a loro” è anche il titolo del convegno che si è aperto il 2 marzo alla Pontificia Università Gregoriana e proseguirà fino a giovedì nell’ateneo di Macerata; un’occasione per rileggere i suoi libri più famosi e il suo epistolario.
Analizzare nel dettaglio le opere composte da Ricci e dare uno sguardo alla sua “officina letteraria” permette di capire meglio il suo metodo.
Il Xiguo jifa, la mnemotecnica occidentale da lui tradotta in cinese, per esempio, è un tentativo di adattare il proprio messaggio alle esigenze culturali della civiltà che aveva di fronte.
Gli intellettuali cinesi che aspiravano a qualche carica burocratica nell’impero avevano bisogno di sapere a memoria i classici confuciani, per questo Ricci mise al loro servizio tutte le conoscenze che aveva in merito, rielaborandole in modo per loro comprensibile; sperava così che, riconoscendo l’eccezionalità del metodo di memorizzazione, fossero portati in seguito ad approfondire anche le verità della fede cristiana.
Per la composizione di questo trattato, come di molte altre opere gesuitiche in cinese, furono inventati termini ad hoc per indicare la terminologia specifica e tecnica legata alla filosofia e alla religione occidentali.
Questo lessico è modellato, però, identificando termini che possano avvicinarsi a quelli legati alla filosofia e al divino della cultura cinese e richiese un lavoro notevole di acquisizione ed elaborazione della cultura ospitante.
È in particolare per la rielaborazione delle immagini che Ricci attinge a piene mani alla tradizione linguistico-etimologica cinese; vengono usati i caratteri cinesi, viene utilizzata la loro suddivisione classica in famiglie e i criteri di suddivisione attraverso metodi semantico-associativi e fonetici.
La struttura stessa del testo rispecchia quella della lingua locale.
Il Xiguo jifa, come e forse più del trattato sull’amicizia (quello che oggi potremmo chiamare un instant-book agile e “di servizio”), è un esempio significativo di come padre Matteo accolse e si lasciò modellare dalla cultura che lo accoglieva, accettando di dedicare tutte le sue energie a quest’opera e di “mobilitare” tutte le sue competenze, dalla passione per la musica – un esempio tra i tanti:  compose ed eseguì otto canzoni per gli alti dignitari dell’imperatore – alle conoscenze di “cose mechaniche”.
L’intuizione di Matteo Ricci è stata quella di applicare anche in Cina l’esperienza dei Padri della Chiesa, l’innesto rigoglioso e fecondo del cristianesimo nella cultura antica, soprattutto ellenistica e romana; poté così confrontarsi positivamente con il confucianesimo – ma è bene precisare che si tratta del confucianesimo “antico”, non influenzato dal buddismo – mentre altri avevano fallito perché intendevano sovrascrivere il messaggio cristiano senza tener conto del retroterra culturale locale, rischiando di spazzare via i “germogli appena spuntati” del dialogo in atto.
La stima verso il popolo del Grande Regno del Dragone in padre Matteo era sincera, non frutto di una strategia e neanche di una “dissimulazione onesta”.
La grande cultura cinese lo aveva impressionato positivamente; per il gesuita Nanchino e Pechino non avevano niente da invidiare alla Firenze dell’epoca.
Forse è proprio per questo rispetto autentico e non simulato che il missionario marchigiano è tuttora molto amato e conosciuto in Cina – insieme a Marco Polo è l’unico straniero presente nel monumento del millennio a Pechino – e nel nostro tempo di dialogo tra religioni e culture profondamente diverse resta un simbolo attuale a cui richiamarsi.
di Silvia Guidi (©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)

‘Dio oggi: con Lui o senza di Lui cambia tutto’

 COMITATO DEL PROGETTO CULTURALE (a cura): Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto, Ed.
Cantagalli, Siena, 2010,  pp.
236, Euro 15.50 Da molto tempo, specialmente in Occidente, il panorama culturale appare segnato dalla tendenza a ridurre Dio a un prodotto della nostra mente.
Questo libro, nel quale sono raccolte le relazioni principali presentate all’evento internazionale su ‘Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto’, organizzato a Roma  dal 10  al 12 dicembre 2009, rilancia invece la questione di Dio come questione decisiva per ridare carne e sangue alle umane aspirazioni di verità, bellezza, libertà e giustizia.
Come ha richiamato di recente Benedetto XVI, ‘la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio’.
Non un Dio qualsiasi, ovviamente, ma il Dio personale di Gesù Cristo.
Ed è precisamente questa la sfida che filosofi, teologi, storici dell’arte e della cultura, nonché scienziati di diverso orientamento culturale raccolgono in questo libro.
    Indice: – Presentazione, S.
Belardinelli – Messaggio di Sua Santità Benedetto XVI – Saluto del Cardinale Angelo Bagnasco 1.
 Il Dio della fede e della filosofia – Introduzione, A.
Riccardi – Le vie di Dio nella ragione contemporanea, Card.
C.
Ruini – La ragionevolezza della fede in Dio, R.
Spaemann 2.
Il Dio della cultura e della bellezza – Introduzione, L.
Ornaghi – Fine della modernità: eclissi e ritorno di Dio, Card.
A.
Scola – La bellezza e il sacro, R.
Scruton – ‘Nessuna figura voi vedevate […]solo una voce’, Mons.
G.
Ravasi – Ragione e fede nei capolavori dell’arte cristiana, A.
Paolucci 3.
Dio e le religioni – Introduzione, F.
Botturi – La religione e gli dei, R.
Brague – Il problema del monoteismo, M.
Cacciari 4.
Dio e le scienze – Introduzione, U.
Amaldi – Dio creatore di un universo in evoluzione, G.
V.
Coyne sj – Dio e l’evoluzione, M.
Nowak – Dio e la scienza: una prospettica filosofica, P.
Van Inwagen 5.
Conclusioni – ‘Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto’, Mons.
R.
Fisichella Un volume che ripercorre i passaggi fondamentali dell’evento internazionale ”Dio oggi: con Lui o senza di Lui cambia tutto” promosso dal Comitato per il progetto culturale della Cei.
A proporlo, e a mandarlo in libreria da oggi, e’ l’editore Cantagalli.
Nel volume sono raccolti gli interventi piu’ significativi che hanno animato le giornate del convegno svoltosi a Roma tra il 10 e il 12 dicembre dell’anno scorso.
Nelle quattro sessioni plenarie, personalita’ del mondo laico e cattolico si sono confrontate davanti a un pubblico eterogeneo, attento e numeroso, su ”Dio della fede e della filosofia”, Dio della cultura e della bellezza”, ”Dio e le religioni” e ”Dio e le scienze” dando vita a un dibattito la cui ricchezza e profondita’ e’ destinata a lasciare un segno nella cultura del nostro Paese.
Oltre al messaggio di Benedetto XVI, il volume presenta, le relazioni del Cardinale Angelo Bagnasco, di Andrea Riccardi, del Cardinale Camillo Ruini, di Robert Spaemann, di Lorenzo Ornaghi, del Cardinale Angelo Scola, di Roger Scruton, di Monsignor Gianfranco Ravasi, di Antonio Paolucci, di Francesco Botturi, diRemi’ Brague, di Massimo Cacciari, di Ugo Amaldi, di George Coyne, di Martin Nowak, di Peter van Inwagen e di Monsignor Rino Fisichella.
”Da molto tempo, specialmente in Occidente, il panorama culturale appare segnato dalla tendenza a ridurre Dio a un prodotto della nostra mente – ha spiegato Sergio Belardinelli, coordinatore scientifico del Comitato per il progetto culturale della Cei -.
Questo libro rilancia invece la questione di Dio come questione decisiva per ridare carne e sangue alle umane aspirazioni di verita’, bellezza, liberta’ e giustizia.
Come ha richiamato di recente Benedetto XVI, “la priorita’ che sta al di sopra di tutte e’ di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio”.
Non un Dio qualsiasi, ovviamente, ma il Dio personale di Gesu’ Cristo.
Ed e’ precisamente questa la sfida che filosofi, teologi, storici dell’arte e della cultura, nonche’ scienziati di diverso orientamento culturale raccolgono in questo libro”.
18/02/2010.
(Adnkronos) –

Invictus

Accade a volte che un evento sportivo assuma significati che vanno oltre l’aspetto agonistico.
Così se per la maggior parte della gente la finale della Coppa del mondo di rugby del 1995 disputata all’Ellis Park Stadium di Johannesburg fu solo un’avvincente partita, peraltro con un risultato sorprendente, per il Sud Africa rappresentò un momento cruciale della storia nazionale.
Grazie alla lungimiranza di un uomo, Nelson Mandela, primo presidente di colore nel Paese, quell’evento divenne esperienza comune di un popolo fino ad allora diviso tra bianchi – pochi ma detentori del potere e della ricchezza – e neri, poveri ed emarginati.
Quell’impensabile convergenza del tifo su una squadra, gli Springboks, sostenuta solo dagli afrikaaners e odiata dai nativi per i colori verde e oro divenuti simbolo della segregazione, aiutò in parte a sanare le ferite del passato e a infondere speranza in un futuro pieno di incognite dopo la vergogna dell’apartheid.
Scegliendo di raccontare questa storia in Invictus, Clint Eastwood, alle soglie degli ottant’anni, prosegue con bravura e sensibilità il suo percorso di regista impegnato a esplorare l’uomo e la società.
E sulla scia di Gran Torino (inno alla non violenza ma anche invito alla tolleranza razziale, contro ogni pregiudizio) affronta i delicati temi del perdono e della riconciliazione.
“Il perdono – fa dire al suo Mandela – libera l’anima, cancella la paura.
Per questo è un’arma tanto potente”.
Probabilmente dietro a queste parole non si cela solo un imperativo morale, ma anche un più pragmatico calcolo politico, segno di una lucida visione della realtà, che però non sminuisce il senso di una scelta coraggiosa.
Nelle sale italiane dal 26 febbraio, Invictus non è, dunque, un film sullo sport in senso stretto, né la biografia di un uomo.
Tuttavia, l’accorta regia di Eastwood e la sceneggiatura di Anthony Peckham tratta dal libro Ama il tuo nemico di John Carlin (Sperling & Kupfer) danno un tono quasi epico alle scene agonistiche caricandole di un pathos che richiama i classici del genere, come Fuga per la vittoria o Momenti di gloria. Così come il fulcro della vicenda sembra perfetto per analizzare i tratti essenziali del carisma politico di Mandela.
Lungi dal voler dipingere un santino del leader dell’African national congress (Anc), che ha trascorso in carcere 27 anni prima di diventare presidente del Paese e un simbolo planetario della lotta per i diritti civili e per la libertà contro ogni oppressione, Eastwood, grazie all’ottima interpretazione di un Morgan Freeman perfetto nel ruolo del protagonista, ne condensa in efficaci quadri la personalità complessa, segnata da un’esistenza durissima.
Emerge così la figura di un uomo intelligente e realista.
“È una domanda lecita” risponde spiazzante ai fedelissimi risentiti per l’astio che si cela dietro il titolo di un giornale l’indomani del voto:  “Ha vinto le elezioni ma sarà in grado di governare?”.
Efficace e convincente nel far passare le sue idee, per quanto apparentemente contraddittorie con la sua storia e con quella dei suoi fratelli neri, capace di vedere oltre la limitata prospettiva dei suoi collaboratori più stretti che lo sconsigliano di occuparsi del rugby e di quella squadra amata soltanto dai bianchi, Mandela comprende invece quanto quel campionato del mondo sia importante.
Il Paese sta vivendo un momento cruciale, l’ombra dell’apartheid ancora incombe nei rapporti tra le persone ed egli sa che occorre fare appello all’orgoglio nazionale; per questo punta sull’unica cosa che in qualche modo può unire la sua gente.
Contro tutti, a costo di apparire persino un traditore della causa per la quale ha pagato in prima persona un altissimo prezzo, Mandela riesce a dissuadere i dirigenti dell’Anc dall’abolire la squadra degli Springboks e dal cancellarne gli odiati colori:  “Il passato è passato.
Guardiamo al futuro adesso”.
E gioca la sua carta più efficace:  portare dalla sua parte il carismatico capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un convincente Matt Damon, e attraverso lui tutti i giocatori.
Lo fa citando una poesia di epoca vittoriana che era stata la sua fonte di ispirazione durante gli anni trascorsi in prigione, Invictus, di William Ernest Henley.
Pienaar, sportivo improvvisamente al centro di una questione politica, comprende che la posta in gioco è ben più alta persino di una coppa del mondo; si appassiona al progetto e controbatte alla diffidenza e alle resistenze dei compagni, uno solo dei quali nero, che convince persino a cantare il nuovo inno nazionale, Nkosi Sikelei i Afrika, cioè “Dio benedica l’Africa” nella lingua dei sudafricani neri:  “Che ci piaccia o no – dice ai suoi – siamo più di una squadra di rugby.
I tempi cambiano.
 Anche  noi  dobbiamo  cambiare”.
La missione che Mandela affida a quei ragazzi è vincere la coppa del mondo che verrà disputata proprio in Sud Africa, ma il vero obiettivo è la pacificazione nazionale sintetizzata nel motto “una squadra, un Paese”.
L’occasione è unica, irripetibile.
Ma anche sportivamente è un’impresa al limite del possibile.
Tuttavia nulla è impossibile se si persegue l’obiettivo con tenacia e convinzione.
“Sentite? Ascoltate il vostro Paese.
È questo.
Questo è il nostro destino”, urla il capitano ai compagni nel momento più difficile della partita della vita, invitandoli a udire il portentoso incitamento degli oltre sessantamila tifosi sugli spalti e di altri 42 milioni di sudafricani bianchi e neri, per la prima volta uniti, incollati davanti alla tv e alla radio.
Pur non essendo allo stesso livello di Gran Torino, di Mystic River o di Letters from Iwo Jima, Invictus è comunque un ottimo film, senza quella retorica che pure sarebbe stata comprensibile visto il tema, che racconta una scommessa rischiosa ma vinta e, soprattutto, una vicenda realmente accaduta.
Una bella lezione della storia, dunque, portata intelligentemente al cinema da un grande regista a beneficio di un più vasto pubblico.
di Gaetano Vallini

Una alternativa alla laicità

DIOTALLEVI LUCA, Una alternativa alla laicita’, Editore: Rubbettino, 2010,  ISBN-13: 9788849823684, pp.
250, € 14,00 È piuttosto raro trovare pronunciamenti critici a proposito della laicità.
A volte se ne ammette un momento di difficoltà, ma per serrare le fila a sua difesa.
La laicità è davvero un valore tra i più condivisi; non solo: spesso è addirittura identificata con la modernità, e quasi sempre con l’identità stessa dell’Europa.
Dello stesso autore de “II rompicapo della secolarizzazione italiana”, questo libro si chiede se non sia il caso di avviare una più attenta discussione sulla laicità, e se non sia il caso di sostituire alcune certezze con altrettante domande.
La ricerca muove dalle spiegazioni del momento difficile attraversato dai regimi di laicità, le quali, curiosamente, sovrastimano il cosiddetto ritorno della religione.
Dopo aver proposto una serie di interrogativi, termina avanzandone un ultimo: serve a qualcosa parlare di laicità “sana”, o “buona”, o “positiva”, o …? E se si trattasse di riconoscere le alternative alla laicità? E dunque di relativizzare la laicità?

I Domenica di Quaresima Anno C

I DOMENICA DI QUARESIMA   Lectio Anno c     Prima lettura: Deuteronomio 26,4-10           Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa.
Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù.
Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi.
Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele.
Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”.
Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».
    v La bella professione di fede recitata dal singolo israelita, quando si presenta al sacerdote presso l’altare per offrire le primizie dei frutti della terra, rievoca sinteticamente la storia passata, scandita da quattro momenti fondamentali, nei quali si alterna per due volte il momento negativo con quello positivo (vv: 5-9): l) mancanza di una terra propria (neg.); 2) discesa in Egitto e crescita demografica (pos.); 3) oppressione da parte degli egiziani (neg.), liberazione con il conseguente dono della terra promessa (pos.).
Così si passa dalla terra non ancora posseduta alla terra ora abitata e coltivata, per dare una motivazione all’offerta dei frutti che da essa si sono ricavati.
       La tentazione poteva essere ora per Israele quella di dimenticare il Signore, che ha dato la terra e i frutti che essa produce; con l’offerta che se ne fa si riconosce questa dipendenza.
«Guardati dunque dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze.
Ricordati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 8,17-18).
     Seconda lettura: Romani 10,8-13           Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo.
Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.
Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso».
Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano.
Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
    v Questo brano è stato scelto perché si parla della «professione di fede» (v.
10) cristiana, in analogia con la professione di fede israelita vista nella Prima lettura.
Il contenuto ora cambia, perché essa si impernia sulla risurrezione di Gesù e sulla sua attuale e definitiva signoria, ma la sua struttura fondamentale è simile.
Si tratta anche ora di un evento che accade nella storia, che è un’opera compiuta in essa da Dio («Dio lo ha risuscitato dai morti», v.
9; cfr.
«il Signore ci fece uscire…
ci condusse…
ci diede», Dt 26,8-9).
     La professione di fede deve essere concepita nel cuore e proclamata con la bocca.
Questo concetto viene scandito, ancora una volta, con la citazione di tre passi dell’AT: Dt 30,14, che parla insieme della «bocca» e del «cuore» (v.
8); Is 28,18, che accenna al «credere», che si concepisce nel cuore (v.
11); Gl 3,5, che menziona l’«invocare», che si esprime con la bocca (v.
13).
È la totalità della persona che così si manifesta nell’atto di fede.
  Vangelo: Luca 4,1-13           In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo.
Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame.
Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane».
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio.
Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».
Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
    Esegesi      La tentazione di Gesù è situata unanimemente dai tre Sinottici subito dopo il battesimo, e tutti e tre mettono questa dimora di Gesù nel deserto in rapporto con il dono dello Spirito Santo, ricevuto da lui immediatamente prima nello stesso battesimo (v.
1).
Ma nel modo di parlarne gli evangelisti presentano delle significative differenze.
Mc riporta in due soli versetti la notizia del digiuno dei quaranta giorni che costituiscono pure, globalmente, tutto il tempo in cui Gesù è tentato (Mc 1,12- 13).
Solo Mt (4,1-11) e Lc (4,1-13) parlano di tre speciali tentazioni che si verificano soltanto alla fine dei quaranta giorni di digiuno, ma rispetto a Mt solo Lc sottolinea che Gesù era tentato anche prima (v.
2), durante i quaranta giorni, come dice pure Mc.
Ma la differenza più significativa tra Mt e Lc consiste nell’inversione che Lc presenta tra la seconda e la terza tentazione rispetto a Mt, la cui sequenza sembra la più logica e la più primitiva.
Infatti, l’adorazione dell’unico Signore a cui si appella Gesù nel respingere l’offerta dei regni della terra si presta meglio a formare l’apice di tutto il racconto che non il rifiuto di tentare Dio, che Lc pone nella terza tentazione.
Con questa inversione Lc conferisce più importanza alla città di Gerusalemme (v.
8), sede dell’ultima tentazione, indicando così in essa il preludio alla suprema tentazione di Gesù nella sua passione.
Ma nello stesso tempo, con questa inversione Lc dà più importanza al tema della tentazione stessa, come si vede dalla sua conclusione dell’episodio (v.
13): «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato».
     Al di là di questo episodio, il verbo «tentare» o «mettere alla prova» (peirazo) ricorre ancora in Mt 16,1; 19,3; 22,18.35, ma nel significato più scialbo della tentazione o prova a cui i farisei sottopongono Gesù rivolgendogli delle domande capziose; qui Lc riprende l’espressione soltanto nel primo e nell’ultimo caso (Lc 11,16; 10,25, con un ordine diverso rispetto a Mt).
Invece l’importanza di questo tema in Lc la si vede meglio se consideriamo l’uso del sostantivo (peirasmos), che lui ha usato già in 4,13.
In parallelo con Mt, il termine ricorre nel Padre nostro (Lc 11,4 = Mt 6,13) e nell’ammonizione di Gesù ai tre discepoli nel Getsemani (Lc 22,46; Mt 26,41; Mc 14,38).
Al di là di questi casi in comune con Mt, Lc introduce il termine di sua iniziativa nella spiegazione della parabola del seminatore (Mt 13,21; Mc 4,17: «tribolazione o persecuzione»; Lc 8,13: «nel tempo della tentazione»).
Ma l’uso forse più interessante del sostantivo in Lc, lo troviamo in queste parole di Gesù ai discepoli dopo l’istituzione dell’eucaristia nell’ultima cena: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie tentazioni (BC: prove) e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno» (Lc 22,28-30a).
In questo detto, tutto il ministero pubblico di Gesù, passato in compagnia dei discepoli, è considerato come un continuo periodo di tentazione, nel quale lui ha avuto il confronto della loro compagnia e della loro condivisione; essa trova il suo culmine nella celebrazione dell’eucaristia, prefigurazione della sua mensa nella pasqua del cielo.
     Ma la suprema tentazione di Gesù doveva aver luogo nel tempo della sua passione.
Nel Getsemani, dopo la preghiera rivolta al Padre perché allontanasse da lui il calice della sua dolorosa morte imminente, Gesù dice a quelli che sono venuti ad arrestarlo: «Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre» (Lc 22,53).
     Nell’AT il tema della tentazione affiora nel definire lo stretto rapporto che intercorre tra Dio ed Israele, specialmente nel tempo del deserto.
Dio «tenta» o «mette alla prova» (ebr.
nissah) Israele, per far emergere quello che c’è nel cuore del suo popolo, come si può vedere da questi passi: «Io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no» (Es 16,4); «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2; cfr.
anche il v.
16).
Ma questa prova o tentazione continua anche dopo, nella terra promessa: «Tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore (che ti vogliono far rivolgere agli dèi stranieri); perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Dt 13,4).
     Come si vede, si aggiunge sempre, con una proposizione finale, il motivo positivo di questa prolungata tentazione a cui il Signore sottopone il suo popolo, che consiste nel desiderio di appurare la consistenza del suo rapporto con lui.
È questo un tipico elemento della parenesi deuteronomica, per cui non ci stupisce che nelle risposte di Gesù a Satana vengano citati tre passi, ripresi tutti dal Deuteronomio.
Vale la pena considerarli ora separatamente, inquadrandoli nel loro contesto originario.
     a) In Lc 4,4 si cita Dt 8,3: «Egli (il Signore) dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore».
Il tempo del deserto consentiva ad Israele di sperimentare la sua dipendenza da Dio, che provvede il cibo della manna con il comando dato dalla sua bocca.
Citato da Gesù, questo detto vuol dire che egli, anche se compirà la moltiplicazione dei pani, attirerà le folle non tanto con il cibo materiale, quanto piuttosto con l’annunzio del regno di Dio e con l’invito alla conversione.
     b) La corrispondenza di Lc 4,8 con il Dt non è evidente: «Guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile.
Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,12-13); qui, «ti presterai» e «adorerai» corrispondono a «temerai» e «servirai» di Dt 6,13.
Si noti come queste diverse ingiunzioni sono precedute dalla raccomandazione a non dimenticare quanto il Signore ha già fatto: ciò che Israele deve fare, è una risposta a quanto Dio ha fatto prima.
     c) Nell’ultima citazione (v.
12) appare l’uso inverso del tema della tentazione, in quanto ora è Israele che tenta Dio, quando lo abbandona e così lo costringe a dargli una punizione: «Non seguirete altri dèi…
L’ira del Signore tuo Dio si accenderebbe contro di te e ti distruggerebbe dalla terra.
Non tenterete il Signore vostro Dio come lo tentaste a Massa.
Os-serverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio…» (6,14-17).
Rilette sullo sfondo dell’AT, le tentazioni di Gesù ci appaiono come la dimostrazione della sua totale adesione a Dio, in contrasto con la condotta indocile d’Israele, cosicché i suoi quaranta giorni di digiuno nel deserto corrispondono ai quaranta anni trascorsi da Israele nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto.
Ma in maniera più specifica, con queste tre tentazioni satana cerca di distogliere Gesù dalla sua missione messianica, che, rifuggendo dai facili e fallaci successi mondani di una popolarità ottenuta con miracoli molto spettacolari, consiste nell’adesione alla via della croce.
     Meditazione      Quaresima.
Quaranta giorni per ricalibrare la nostra vita e le sue relazioni: con Dio, con gli altri, con il creato, con se stessi.
L’esigenza di mettere ordine nella propria esistenza è diffusa, a molti livelli.
I testi biblici che ci vengono oggi proposti offrono alcuni criteri per perseguire tale fine.
     Il celeberrimo e impressionante brano delle tentazioni di Gesù nel deserto si apre con una duplice significativa annotazione: Gesù entra in questa esperienza guidato dallo Spirito – non è altro che il nostro desiderio di ‘riprendere in mano’ la vita – e rifiutando di nutrirsi.
     Perché questo digiuno? Cosa c’entra l’alimentazione con i nostri problemi etici, politici, religiosi, di gestione del tempo e del denaro, degli affetti e delle relazioni? L’odierno imperativo sociale, che richiede un corpo palestrato a tutte le età, già può orientarci verso il ‘sospetto’ che forse uno stato complessivo di benessere della persona non è separabile dalle condizioni del corpo.
Ma Gesù va ben oltre: un digiuno prolungato, di quaranta giorni, segnala l’intenzione di sondare la propria verità, la propria identità ben oltre la percezione superficiale e puntuale di un’esperienza ‘curiosa’.
La testimonianza unanime della pratica ascetica del digiuno, comune a tutte le tradizioni religiose e filosofiche, conferma che la persona che si sottopone ad esso, si apre ad una conoscenza di sé nuova e sorprendente: provare per credere…! Rinunciare ad assumere cibo, quanto cioè ci è di più basilare e necessario per la stessa sussistenza, modifica inevitabilmente la percezione dei nostri valori di riferimento.
E se primissima conseguenza potrebbe risultare la limpida precisazione – e distinzione! – dei termini appetito e fame, che noi, nel nostro opulento occidente, impieghiamo impropriamente come sinonimi, perseverare in un regime alimentare misurato, regolare e sobrio –  questo il contenuto autentico del digiuno – riattiva la sensibilità e la capacità di scelta e chiama in causa i valori più profondi.
L’essenzialità  a cui si è indirizzati rende la persona più attenta e vigile.
È pertanto nella condizione ideale per… riprendere in mano la propria vita e compiere delle scelte nuove! Giungendo così al fine che ci si era proposti e da cui eravamo partiti.
L’«ebbe fame» (Lc 4,2) che Gesù stesso avverte dopo quaranta giorni di digiuno conferma questo stato psichico percettivo, dove si conosce, in modo sensibilmente nuovo, la dipendenza dall’esterno per la propria sopravvivenza: nessuno di noi basta a se stesso! La mia vita dipende da qualcosa al di fuori di me.
Sorgono allora domande nuove: di cosa ho veramente bisogno? Cosa desidero veramente?      Gesù, che nel battesimo (cfr.
Lc 3,21-22) è appena stato riconosciuto come Figlio di Dio, è spinto ora dal diavolo a indagare su come ‘giocare’ la sua identità.
Vuole custodire l’oggettività della gratuità e del dono, che lo lega al Padre e alla storia degli uomini, oppure preferisce rifiutare questa dipendenza e utilizzare le proprie energie per imporsi sulla natura e sugli altri? Significativamente, tra il battesimo e il nostro brano, l’evangelista Luca inserisce una sorprendente genealogia risalente fino ad «Adamo, figlio di Dio» (cfr.
3,23-38), che evidenzia e imprime all’identità di Gesù anche la qualifica di fratello dell’uomo.
Il suo essere figlio di Dio non cancella né ‘divora’ l’essere fratello dell’uomo ma, con genialità compassionevole, si coniuga in una sintesi esigente ma feconda, fonte di vita e di libertà infinita per sé e per tutti.
Gesù non utilizza la propria divinità per opportunità per opprimere gli uomini né si piega ad un umanesimo gaudente che si riconosce come assoluto e svincolato da ogni solidità.
Egli è invece il Figlio di Dio che resta consapevolmente nella dipendenza e nel legame per rinnovare dal di dentro ogni figlio dell’uomo.
Con amore.
     Per resistere alla tentazione dell’individualismo egoistico Gesù si nutre – qualcosa si deve pur mangiare! – della parola di Dio, sapientemente interpretata.
La prima lettura ci  ricorda di richiamare alla nostra mente tutto quanto si è già ricevuto nel passato per continuare a sostenere la lotta verso una libertà sempre più profonda.
Le nostre forze sono, infatti, sempre fragili e quando si è nel digiuno si è ancor più bisognosi di sostegno.
Quale dunque il nostro cibo per orientare e compiere le nostre scelte?          Preghiere e Racconti  Prima domenica di Quaresima In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme.
Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio.
Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr.
Fil 2,6-7).
Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr.
Eb 4,15).
Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.
(BENEDETTO XVI, nell’introdurre la preghiera mariana dell’Angelus: 01.03.2009).
Due re aspirano a regnare Tanto il Figlio di Dio quanto l’Anticristo aspirano a regnare, ma l’Anticristo desidera regnare per uccidere quelli che avrà sottomesso, Cristo regna per salvare.
E su ognuno di noi, se è fedele, regna Cristo, che è la Parola, la Sapienza, la Giustizia, la Verità.
Se invece amiamo i desideri disordinati più di quanto amiamo Dio, su noi regna il peccato di cui l’Apostolo dice: II peccato non regni sul vostro corpo mortale (Rm 6,12).
Due re dunque si affrontano per regnare: il re del peccato, il diavolo sui peccatori; il re della giustizia, Cristo, sui giusti.
Il diavolo sapeva che Cristo sarebbe venuto per sottrargli il suo regno e per cominciare a sottomettere al suo potere quelli che erano sottomessi al potere del diavolo.
Così gli mostra tutti i regni del mondo e degli uomini di questo mondo, gli mostra come su alcuni regna la lussuria, su altri l’avarizia e come alcuni sono trascinati dal soffio della celebrità, altri sono prigionieri delle seduzioni della bellezza.
Non dobbiamo pensare che mostrandogli i regni del mondo gli abbia mostrato il regno della Persia o quello delle Indie; ma gli mostra tutti i regni del mondo, cioè il suo regno, il suo modo di dominare il mondo per invitarlo a fare la sua volontà e cominciare così ad assoggettare Cristo […].
Allora il diavolo disse al Signore: «Sei venuto per lottare contro di me e per strappare al mio potere tutti quelli che io ho soggiogato? Non voglio contendere con te, non voglio che tu ti affatichi, che ti sottoponga alle difficoltà della lotta.
Chiedo una cosa sola: prosternati ai miei piedi e adorami, ricevo l’intero mio regno».
Senza dubbio il nostro Signore e Salvatore desidera regnare e desidera che tutti i popoli gli siano sottomessi perché servano la giustizia, la verità e le altre virtù, ma vuole regnare in quanto è la Giustizia, senza peccato e senza malizia […] Ecco perché risponde: Sta scritto: adorerai il Signore tuo Dio e lui solo servirai (Lc 4,8).
Voglio che tutti costoro mi siano sottomessi perché adorino il Signore Dio e servano lui solo.
Così desidero regnare.
Tu vorresti che il peccato cominciasse da me, quel peccato che sono venuto a distruggere, da cui desidero liberare anche gli altri.
Sappi e riconosci che rimango fedele a ciò che ho detto: che sia adorato solo il Signore Dio e che tutti questi uomini siano sottomessi al mio potere nel mio regno».
Quanto a noi rallegriamoci di essere sottomessi a lui e preghiamo Dio che faccia morire il peccato che regna nel nostro corpo (Rm 6,12) e che solo Cristo Gesù regni in noi.
A lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli ( I Pt 4,11).
(ORIGENE, Omelie sul vangelo di Luca 30,1.3-4, SC 37, pp.
370-374).
Autenticità e verità Per essere autentici occorre essere fedeli a se stessi ma, nello stesso tempo, diffidare di sé.
C’è un necessario legame con se stessi, ma un’altrettanta necessaria esigenza di superarsi.
Il cammino versa la vita autentica consiste quindi nel procedere su una specie di crinale, nel suscitare la libertà ma anche nel disciplinarla, nel voler essere pienamente liberi perché solo così si è uomini e non servi, ma nel voler altresì che la prima vera libertà sia di tipo interiore e corrisponda al dominio sulle menzogne di cui ognuno si sa capace “in pensieri, parole, opere e omissioni”.
[…] La libertà si compie solo nella misura in cui ci si dedica a qualcosa di più grande di sé o, meglio, del sé: una grandezza che il pensiero umano nomina in vari modi, di cui i principali sono giustizia, bene, verità.
Io sostengo che l’uomo autentico è l’uomo giusto, è l’uomo che vive per attuare il bene dentro e fuori di sé, è l’uomo che ama sopra ogni cosa la verità.
(Vito MANCUSO, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, 2009, Milano, 15-16).
  Non ci indurre in tentazione «Nostro Signore mi fa fare questa domanda nel Pater perché essa mi è necessaria in tutte le ore, perché deve trovarsi come grido dell’anima cento volte in ogni preghiera, e per insegnarmi a lanciare incessantemente verso di Lui, in tutte le ore, questo grido: “Aiuto”».
(CHARLES DE FOUCAULD, Opere spirituali, Roma, Pauline, 1984).
  Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società.
Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo.
Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita.
E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…
La solitudine è la fornace della trasformazione.
Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra

Ceruti: «Il cristianesimo laicizza la storia. Ripartiamo da Girard»

L’intervista «Oggi la funzione culturale del cristianesimo è di non stabilirsi come religione civile ma fare esercizio e pratica dell’incontro e dell’ascolto dell’altro».
Mauro Ceruti, docente di epistemologia genetica all’università di Bergamo, rilancia nel campo «laico»  la portata secolarizzante del messaggio cristiano per un dialogo fruttuoso.
In «Le due paci» (Cortina) lei scrive che la secolarizzazione non va perduta come risultato positivo della storia.
Ma cosa non ha funzionato se oggi cresce l’indifferenza religiosa e l’ostracismo laicista? «Si è avuta una progressiva banalizzazione di tre processi: la secolarizzazione, la cui enfasi positiva è una delle scoperte del Concilio Vaticano II; in secondo luogo, la laicità che spesso viene contrapposta alla Chiesa mentre essa è frutto della rivoluzione di un Dio che regna dalla Croce, e non da un trono; lo spirito scientifico, che nasce da una desacralizzazione della natura».
Come mai allora questi valori “cristiani” si manifestano oggi come anticristiani? «La secolarizzazione è prevalsa in una sua deriva, ovvero quella consumistica delle società avanzate in un disincanto del mondo in cui non matura più la domande del trascendente.
Prevale solo il consumo e questo causa un’asfissia spirituale generando l’esperienza di voler tutto e subito.
Questo ha annullato ogni processo verso l’Oltre, un processo umano prima che religioso.
In Europa questo si è trasformato in un laicismo riduttivo che presume di far vivere la laicità nello spazio pubblico privo di simboli religiosi, per cui la stessa natura del simbolo dell’uomo viene azzerata».
Quando questo è avvenuto? «La data-soglia è il 1989, anno fino al quale – anche tra i credenti – era scontato pensare che le religioni avrebbero avuto un ruolo di sempre minor influenza sulla realtà: era condiviso lo schema marxista per cui la religione fa parte della sovrastruttura.
Poi dopo il 1989 le religioni hanno fatto una nuova, straordinaria irruzione nella storia.
Va sottolineata l’intuizione di Karol Wojtyla che già nel 1986 chiamò a pregare insieme ad Assisi i rappresentanti della diverse religioni (fatto poi ripetuto nel 2002) in un momento in cui le religioni parevano al lumicino.
Il secondo incontro di Assisi fu pure profetico perché si era sull’orlo di guerre in nome della religione (che qualcuno pure fece).
Queste invocazioni di Dio hanno dimostrato quanto sia stato decisivo il processo laicizzante del cristianesimo nelle vicende della comunità umana.
In quegli anni Samuel Huntington teorizzava lo scontro di civiltà in nome delle differenti religioni.
E si è troppo dimenticato quanto Giovanni Paolo II fece perché non si compisse nemmeno un passo verso il conflitto di civiltà su base religiosa».
Lei è un grande conoscitore di René Girard.
Può la proposta del grande pensatore francese diventare un alfabeto per il “cortile dei gentili”? «Sì.
Ho trovato in Girard una lettura antropologica dei testi del Nuovo e Antico Testamento, come cifra adatta per esplicitare un confronto con i gentili su quel grande Codice dell’umanità che è la Bibbia.
Nei nostri colloqui mi diceva: “Nei miei libri non aggiungo nulla al vangelo, faccio solo un tentativo di lettura antropologica, in base alla sola ragione, di quel messaggio evangelico che è teologico”.
Il vangelo introduce nella storia un punto di discontinuità dal punto di vista razionale visto che racconta dal punto di vista della vittima e non del carnefice.
Per questo auspico nell’atrio dei gentili la possibilità di usare la ragione figlia del cristianesimo, ovvero un dialogo che è accoglienza dell’altro.
Quindi questo “cortile” può diventare uno spazio laico e razionale in cui per il cristiano vi è il compito non di affermazioni dogmatiche bensì di testimoniare».
in “Avvenire” del 19 febbraio 2010

Dizionario di Ecclesiologia

GIANFRANCO CALABRESE, PHILIP GOYRET E ORAZIO F.
PIAZZA,  Dizionario di Ecclesiologia, Città Nuova, Roma, 2009, pp.
1350, Euro 140 Un nuovo Dizionario di Ecclesiologia è stato presentato alla Pontificia Università Lateranense.
Si tratta di un corposo volume curato da Gianfranco Calabrese, Philip Goyret e Orazio F.
Piazza.
Un fatto importante nell’ambito delle pubblicazioni teologiche.
Non perché manchino dizionari di teologia.
Ve ne sono, anzi, da tempo e di pregevoli.
Se però, la teologia dogmatica e anche quella morale, liturgica, spirituale e pastorale, e poi specialmente la Sacra Scrittura e la teologia biblica avevano non pochi dizionari di riferimento, ciò non era ancora accaduto per l’ecclesiologia.
Non, perlomeno, nella forma articolata e completa con cui si presenta questo dizionario e non con simile ampiezza quanto all’insieme e alle singole voci.
L’ottima – almeno così appare già a prima vista – riuscita di questa iniziativa editoriale non può, dunque, che essere salutata con soddisfazione.
In rapporto all’ecclesiologia stessa, anzitutto.
Lo mette in evidenza nella prefazione l’arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, che esordisce col richiamare il lavoro teologico durante quello che comunemente è conosciuto come “il secolo della Chiesa” (Otto Dibelius), ossia per quell’arco di tempo durante il quale c’è stata “la progressiva scoperta di questo mistero fondamentale della nostra fede e nella nostra vita che, come sappiamo, per secoli non aveva suscitato l’interesse esplicito della teologia” (p.
5).
 Ladaria, poi, mette in luce la dipendenza del dizionario dal magistero del Vaticano ii, che sulla scia di precedenti interventi magisteriali (fra cui, anche temporalmente più vicina al concilio, la Mystici corporis di Pio XII), ha collocato il mistero della Chiesa al centro dei suoi interessi.
Di ciò questo dizionario intende essere un’approfondita sintesi e una fedele esposizione.
Espressamente, difatti, si dichiara che l’impianto portante dell’intera opera ha come riferimento principe il binomio Lumen gentium e Gaudium et spes due testi che, considerati nella loro reciprocità, danno vita a quella dimensione missionaria da cui sono qualificate tutte le voci e che costituisce il paradigma ermeneutico per la loro lettura.
Sul crinale, infine, di un processo storico, che ha il suo acme nel Vaticano II, il dizionario ha l’ambizione “di sostenere una sua dinamica ricezione nel variegato scenario della ecclesiologia contemporanea” e di “presentare una chiave di lettura, di indagine e di comprensione della realtà misterico-strutturale della Chiesa” (p.
7).
Tra gli altri scopi che giustificano la preparazione di ogni buon dizionario, in questo caso c’è pure quello di raccogliere in una prospettiva disciplinare le diverse questioni che interpellano l’ecclesiologia.
Sotto questo profilo è il caso di aggiungere e sottolineare alcune particolarità volute sin dal principio per questo dizionario.
Si consideri, dunque, anzitutto la provenienza dei molti autori delle voci.
Sono ben 114, legati in vario modo a 52 istituzioni tra università, atenei pontifici e facoltà teologiche operanti sia in Roma, sia nelle altre regioni d’Italia.
È, dunque, in gran parte la “teologia italiana” quella che qui s’esprime, per quanto non manchino i contributi di teologi di diversa nazionalità e attivi in istituti non italiani.
Ciò sia detto al fine di mettere in luce e onorare la profondità e la vivacità della ricerca teologica presente nelle Chiese d’Italia.
L’idea del Dizionario, peraltro, nacque nel contesto del secondo Colloquio nazionale dei docenti di ecclesiologia, che si svolse a Telese Terme nell’aprile 2004.
Coglieva, dunque, nel segno l’arcivescovo Rino Fisichella quando, in occasione della presentazione alla Lateranense, affermava che il presente dizionario, nel quadro dell’odierno bisogno di fare sintesi, si presenta come un singolare e armonico mosaico ecclesiologico.
Si riconoscerà, d’altronde, che raccogliere il trattato ecclesiologico in 161 voci non è stata impresa facile, tenuto conto dello sviluppo che esso ha conosciuto specialmente dopo il Vaticano II.
All’appuntamento conciliare, difatti, l’ecclesiologia era giunta con una grande ricchezza di studi e con una molteplicità di proposte ecclesiologiche senza, tuttavia, avere raggiunto un consenso rispetto alla struttura, ai contenuti e alla metodologia.
Dal Vaticano ii in avanti, però, l’interesse per la costruzione di un trattato di ecclesiologia è stato ed è ancora oggi in crescendo.
È stata, allora, opera davvero meritoria quella dei curatori nell’integrare i vari temi (biblici, storici, liturgico, ecumenico, pastorale, canonico, e così via) d’interesse ecclesiologico in una (non esclusiva) prospettiva storico-dogmatica, preoccupandosi che ogni voce conservasse la sua specificità disciplinare e al tempo stesso rimanesse aperta a una positiva interazione critica per un efficace discorso teologico-sistematico.
Un’ultima caratteristica è giusto mettere in luce ed è quella su cui indirizza l’attenzione anche l’arcivescovo Ladaria.
È la disposizione “modulare” delle singole voci.
La proposta è evidenziata nelle pagine iniziali dove sono presentati ventiquattro “moduli”, ciascuno dei quali suggerisce al lettore la possibilità di selezionare ambiti specifici di ricerca.
“La lettura modulare, secondo moduli appositamente non titolati per non condizionarne concettualmente il contenuto – avvertono i curatori – favorisce la duplice possibilità di fruire, contestualmente, di specificità disciplinare e integrazione critica, per cui ogni voce è idealmente collocata all’interno di una unità tematica e si sviluppa in armonia con le altre voci presenti nel modulo” (pp.
7-8).
Va da sé, in ogni caso, che nel dizionario le voci sono materialmente disposte in rigoroso ordine alfabetico e perciò facilmente rintracciabili.
Ciascuna di esse, però, fornita di aggiornata e completa, per quanto essenziale, bibliografia, è previamente qualificata, a seconda dei casi, come voce “fondativa”, o “secondaria”, o “esplicativa”.
Distinzione senza dubbio utile, almeno perché aiuta, magari il principiante, a scegliere secondo l’aureo principio contenuto nella breve lettera De modo studendi, che se non è di san Tommaso, come si è ritenuto, si armonizza stupendamente con la sua metodologia:  ut per rivulos, non statim in mare, eligas introire, quia per faciliora ad difficiliora oportet devenire.
Altrimenti detto, la diversa qualificazione delle “voci” aiuta il lettore a individuare subito ciò che è davvero alle fondamenta dell’ecclesiologia.
di Marcello Semeraro Vescovo di Albano

“Shutter Island”

Con Shutter Island Martin Scorsese firma uno psyco-thriller ad alta tensione.
E lo fa con la solita maestria, magari con qualche incongruenza narrativa, confezionando un film gotico, cupo, enigmatico, a tratti claustrofobico, ricco di suspense e di colpi di scena; una pellicola che sicuramente rispecchia bene l’idea di film che il regista si era fatto dopo aver letto l’omonimo romanzo di Dennis Lehane, già autore di Mistic River, portato sugli schermi da Clint Eastwood e premiato con un Oscar:  un puzzle in cui i pezzi si incastrano non seguendo un ordine preciso e che resta incomprensibile fino a quando l’ultimo tassello non viene messo al suo posto.  Scorsese voleva fare un film sulla follia, senza però limitarsi a questo.
Infatti Shutter Island – presentato sabato in anteprima mondiale al festival di Berlino, nelle sale americane il 19 febbraio e in quelle italiane il 5 marzo – è soprattutto un viaggio nelle paure interiori, le più nascoste e inconfessabili.
Quelle che accompagnano, nell’autunno del 1954, l’agente federale Teddy Daniels (un credibile Leonardo Di Caprio) sull’inaccessibile e sorvegliatissima isola Shutter, al largo di Boston, sede dell’ospedale psichiatrico di Ashecliffe nel quale sono detenuti pericolosi criminali psicopatici.
Il suo incarico, e quello del collega Chuck Aule (il sempre più apprezzato Mark Ruffalo), è di trovare Rachel Solando, rinchiusa per aver ucciso i suoi tre figli, misteriosamente scomparsa.
Mentre compiono la loro indagine – di cui il mondo esterno sembra non sapere nulla e che pian piano stringe gli investigatori in una morsa di inquietudine, di paura e di confusa irrazionalità – sull’isola si abbatte una tempesta di eccezionale violenza che rende tutto più tetro.
Sospetti e misteri si moltiplicano, in un crescente vortice di tensione in cui si fanno strada ipotesi di sordidi complotti – siamo negli anni segnati dalla paranoia della guerra fredda e dal maccartismo – e di disumani esperimenti sui pazienti cui gli enigmatici medici (i bravi Ben Kingsley e Max von Sydow) sembrano avere parte.
Teddy in particolare accusa il peso di quanto avviene, costretto com’è a entrare in un mondo in cui la psiche umana ha perso totalmente il controllo e nel quale vengono alla luce segreti sconvolgenti, così come verità orribili che sembravano sepolte per sempre.
Fedele al romanzo, la sceneggiatura di Laeta Kalogridis intreccia realtà e fantasia, verità e illusione, proponendo numerosi flashback che riportano alla mente di Teddy le agghiaccianti immagini della liberazione del campo di concentramento di Dachau, in cui è stato come soldato, e le allucinazioni sulla giovane moglie morta nell’incendio della casa.
E proprio quest’ultimo evento lega l’agente a quell’ospedale psichiatrico:  egli non è lì per caso; sa che in quel luogo si trova il responsabile di quel rogo.
La creatività di Scorsese in Shutter Island sembra segnare il passo, sottomessa alla rigidità del soggetto scelto.
Tuttavia ogni cosa appare credibile nella narrazione di Scorsese, grazie anche alla realistica ricostruzione dell’atmosfera e della vita degli ospedali psichiatrici americani del tempo firmata da Dante Ferretti e soprattutto alla plumbea, penetrante fotografia di Robert Richardson.
Tutto collima e il racconto sembra seguire una sua logica, per quanto complessa.
Solo alla fine, guardando all’indietro, si possono notare, come già accennato, possibili incongruenze, situazioni non proprio lineari.
Ma il risultato filmico è notevole, pur non essendo di fronte a un’opera memorabile.
Del resto se è vero che in un thriller ciò che conta è restare incollati alla poltrona fino alla fine in attesa che il mistero venga svelato, ebbene Scorsese – che da cinefilo appassionato conosce alla perfezione i meccanismi della visione – riesce con bravura nell’intento, raccontando una storia in cui la realtà cambia in continuazione e i piani si confondo.
Un film sulla follia e sulla paura, dunque, ma anche sulle radici della violenza, che percorre questa pellicola trasversalmente.
Per sua stessa ammissione, Scorsese considera la violenza il cuore del suo cinema, dove centrale appaiono i tentativi dell’uomo di controllarla.
Chi non ci riesce o impazzisce o vive nella finzione, attraverso compromessi, come ha già raccontato agli inizi in Mean street e ultimamente in The departed.
E come in queste pellicole, anche in Shutter Island viene offerta la possibilità di redenzione dal male.
L’ancora di salvezza qui risiede nella scienza; una scienza non proprio ortodossa, persino disumana, ma a suo modo rozzamente efficace.
Il protagonista della storia, Teddy, ne è consapevole, per questo ne diffida; del resto ha vissuto situazioni di grande sofferenza, di orrore addirittura inimmaginabile alle quali la scienza non è stata del tutto estranea.
Fortunatamente alla maggior parte della gente ciò è risparmiato, ma Scorsese sembra dirci che tutti in qualche misura nascondiamo nel profondo una Shutter Island che contiene i semi di violenza, nonché le paure, i segreti inconfessabili, le cose che si vorrebbero cancellare dalla memoria.
Ma invita altresì a prendere coscienza che solo accettando la nostra natura umana, con le sue debolezze ma anche con le sue infinite risorse, è possibile costruire un futuro di speranza.
“Siamo noi a decidere come vivere – ha detto di recente – e la via del riscatto è la consapevolezza”.
Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 15-16 febbraio 2010)

Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso

Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso   Convegno di studio sull’IRC: 13-14 marzo 2010   Sabato 13 marzo   ore 9.00          Lodi      ore 9.15         Dire Dio in una scuola secolarizzata                                          Prof.
Michele Marchetto   ore 10.
45       Intervallo   ore 11.15         Dire Dio secondo l’approccio psicologico                          e psicanalitico         Prof.
Massimo Diana   ore 13.00         Pranzo   ore 15.00        Il volto di Dio nella Canzone                                         Prof.
Fabio Pasqualetti   ore 17.00        Intervallo   ore 17.30        Il volto di Dio nella Bibbia                                          Prof.
Cesare Bissoli                          Il volto di Dio nelle Grandi Religioni                                         Prof.  Cyril De Souza                                         Domenica 14 marzo              ore 9.00       Dire Dio in una cultura ermeneutica                                         Prof.
Zelindo Trenti               ore 10.30       Intervallo   ore 11.00        Costruire il volto di Dio a Scuola                                         Prof.
Roberto Romio                           Una esemplificazione didattica                                         Prof.
Lucillo Maurizio.
  ore 12.30       Conclusione                         Pranzo       Obiettivo del Corso   Il Linguaggio tradizionale su Dio rischia l’insignificanza.
La diversità delle appartenenze etniche, la molteplicità delle culture, la diversità delle religioni impongono una rivisitazione puntuale del linguaggio circa il cardine stesso dell’esperienza religiosa.
Il Convegno si propone come spazio privilegiato per la riflessione personale e per l’intervento educativo del docente di religione cattolica.
  Iscrizioni e informazioni   Segreteria Istituto di Catechetica.
    Università Pontificia Salesiana Piazza Ateneo Salesiano, 1 00139 ROMA   Tel 06 87290.651; Fax 06 87290.354  martedì e venerdì ore 9,00-12,00