Prego Dio che mi liberi da Dio.

VANNINI MARCO,  Prego Dio che mi liberi da Dio.
La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano, 2010, ISBN: 8845264130, pp.192, € 16.00 Il dibattito tra credenti e non credenti, atei e cristiani, laici e laicisti infiamma tutti i settori della società.
Eppure esso si svolge per lo più a un livello di superficie, tanto che si ha l’impressione che i ruoli si confondano: che i veri credenti siano gli atei, che i laici portino avanti ragioni che i chierici dimenticano e che le motivazioni dei laicisti combacino, per una strana alchimia, con quelle dei cattolici più ortodossi.
Questi paradossi, come mostra Marco Vannini in questa riflessione, hanno radici profonde e non sono per nulla casuali: consistono nella dimenticanza di una serie di categorie che hanno attraversato la tradizione più alta dell’Occidente, a partire dalla filosofia greca, attraverso i mistici e i filosofi della modernità, sino a personalità come Simone Weil.
Che Dio sia Spirito; che la religione sia essenzialmente un rapporto nello Spirito in cui Dio e uomo si muovono l’uno verso l’altro, l’uno nell’altro; che la vera religione sia uno spogliarsi della propria volontà, liberarsi dalla costrizione delle cose del mondo per entrare in una dimensione di libertà, di grazia.
Questi concetti si sono via via eclissati a favore di rappresentazioni più comode di Dio e della religione, spesso ridotta a una dottrina morale, a una serie di precetti fisici, addirittura sessuali.
E di questo oblio colpevoli non sono tanto i laici o gli atei ma, piuttosto, chi di questa tradizione doveva farsi depositario e custode: la Chiesa.
 Se il mistico cristiano non ama gli ebrei di Vito Mancuso Ciò che più colpisce nell’ultimo libro di Marco Vannini è la violenza.
Convinto che «ai nostri giorni la religione sia tornata a essere oggetto di grande interesse», in Prego Dio che mi liberi da Dio (Bompiani) l’insigne studioso della mistica occidentale intende separare all’interno della religione la verità dalla menzogna, e lo fa sostenendo che il cristianesimo è frutto di due componenti, una buona che è quella greca e più precisamente platonica, e una cattiva che è quella ebraica.
Infatti mentre «il platonismo dà il regno di Dio, ossia verità e giustizia», «la mitologia biblica dà un Dio esteriore, creatore e signore – un Dio speculare a un’idolatria del corpo, del sangue, della razza», da cui occorre liberarsi per giungere a «un cristianesimo purificato dall’eredità di Israele».
Con tale obiettivo Vannini attacca duramente la teologia, la Bibbia e ogni dimensione istituzionale: «teologie, cerimonie, sinagoghe, chiese, con le loro implicite ma non troppo implicazioni razziste di popolo eletto, comunità di santi ecc., fonte continua di discriminazione e di odio».
Spesso lo fa con un livore che contrasta con quel “distacco” da lui posto al cuore dell’esperienza mistica, come quando dice che la teologia «è menzogna e peccato, anzi qualcosa di animalesco», un «prodotto della gula spiritualis con una finalità appropriativa, goditiva, golosa».
Il discorso raggiunge toni da invettiva soprattutto contro la Bibbia ebraica, per Vannini «serie di falsità create per un’ideologia razziale».
Vi sono persino parole che non dovrebbero essere più scritte dopo la Shoah, come quelle secondo cui «gli ebrei, dopo aver fatto uccidere Gesù, perseguitarono sin dall’inizio i suoi seguaci»; oppure quelle secondo cui «figli del demonio, che è padre della menzogna, sono chiamati i giudei da Gesù».
In realtà basta leggere i vangeli con attenzione per vedere che Gesù non ha mai definito gli ebrei in quanto tali “figli del demonio”, perché il testo precisa che si rivolgeva così a quegli ebrei «che avevano creduto in lui» (Gv 8,31), non al popolo ebraico in quanto tale.
Né è lecito dire che furono “gli ebrei” a uccidere Gesù, perché è noto che fu l’aristocrazia sacerdotale del tempio, del partito collaborazionista dei sadducei, a consegnare Gesù al potere romano, che poi giustiziò Gesù in quanto minaccia allo status quo.
A uccidere Gesù non furono “gli ebrei”, ma il potere religioso e il potere politico uniti in comuni interessi (come spesso accade nella storia).
Ma come si fa, ancora oggi, a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù su un intero popolo dicendo che “gli ebrei” fecero uccidere Gesù? E sarebbe questo il cristianesimo purificato? In realtà ripetere questi stereotipi, i medesimi dell’antigiudaismo religioso alla base dell’antisemitismo etnico che ha prodotto Auschwitz, è (come minimo) un errore, significa ignorare del tutto i risultati della più accreditata storiografia ed esegesi storico-critica.
Ma è tutta l’impostazione di Vannini a lasciare perplessi, non solo il suo sinistro antigiudaismo.
Parlare di teologia, di Bibbia, di Chiesa al singolare, è sbagliato.
Vi sono diverse teologie, diversi aspetti delle chiese, diversi libri biblici.
E che tra queste variegate realtà ve ne siano di negative è vero, verissimo, e occorre criticarle, guai a non farlo.
Ma non esercitare la sapienza della distinzione facendo di ogni erba un fascio, significa venir meno al principale compito del pensiero, significa non consegnare alla società ciò che solo il pensiero può darle, cioè la decantazione delle passioni e la luce calma dell’intelligenza.
Dire che la teologia in quanto tale è «negazione della religione vera» significa ignorare la storia della teologia del ‘900, nella quale vi sono stati uomini di una grandezza spirituale unica, non inferiori ai maestri medievali cari a Vannini, si pensi a Florenskij, Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, teologi che hanno pagato con la vita (martirio rosso e martirio verde) la loro dedizione alla ricerca e al bene del mondo.
Come si fa, dimenticandoli, a parlare della teologia nei modi spregiativi e sommari di Vannini? Ma la vera radice del suo errore consiste, a mio avviso, nel concetto di spirito.
Spirito per Vannini è correttamente inteso solo come opposizione ad anima, sorge solo come “distacco”, come “rimozione di tutti i contenuti-legami psichici”, come “morte dell’anima”: perché un uomo possa vivere l’esperienza dello spirito, deve morire nella sua individualità psichica.
In questa opposizione tra spirito e anima, e tra anima e corpo, rivive la tradizione dell’agostinismo radicale col suo disprezzo del mondo, in particolare della natura umana.
Così Vannini: «La natura umana è la fonte da cui derivano tutti i mali dell’uomo, per cui chi si fonda esclusivamente sull’umano non può essere altro che malvagio»; e ancora, l’uomo deve sapere che «tutto quello che procede da se stesso, dalla volontà propria, è menzogna e procede dal demonio».
In fondo per lui la vera menzogna, ben oltre teologia chiesa ebraismo, è la natura umana.
Attualizzando il gelido pessimismo antropologico del tardo Agostino che faceva dell’umanità una “massa dannata” e collocava tutti i non battezzati all’inferno, Vannini sostiene mediante il concetto di “distacco” che si entra nell’esperienza dello spirito solo negando la natura umana.
Se il cristianesimo fosse davvero così, Nietzsche avrebbe ragione a definirlo odio verso la salute, la forza, la bellezza dell’esistenza naturale.
E che vi siano elementi in tal senso è vero, l’agostinismo radicale lo mostra.
Ma per Gesù l’anima non deve morire, ma deve essere salvata, custodita, coltivata; e tutto ciò va fatto in amore con il mondo e con ogni frammento di essere, non nel distacco ma nella comunione (unione-con), con la gioia della fratellanza verso ogni forma di vita, perché, come insegna la Bibbia ebraica, viviamo all’interno di «un’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne» (Genesi 9,16).
in “la Repubblica” del 19 gennaio 2010 ”Io, la religione e la lettura biblica” di Marco Vannini Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo.
È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael).
Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità.
Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come “animalesca”: non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso.
È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro – e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di “sinistro antigiudaismo”? Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di “ebrei”, senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso.
È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre – bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni.
Che la storia biblica sia costruita su falsità – invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc.
– e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia.
Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid.
p.
391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa.
Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità.
Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di “farsi simili a Dio” nella giustizia.
Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una conversione, di una “morte dell’anima”, ossia di un radicale distacco dall’egoità.
Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima – ed è su questo che il cristianesimo si è fondato – e che la mistica – unica vera erede della filosofia greca – ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo “gelido pessimismo”, come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi.
Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
in “la Repubblica” del 26 gennaio 2010 Il dibattito tra credenti e non credenti è sempre più vivo, specialmente in questi ultimi anni.
Marco Vannini esce nelle librerie con un nuovo libro che si aggiunge a questo eterno dibattito “Prego Dio che mi liberi da Dio.
La religione come verità e come menzogna”.
La quarta di copertina: “Il dibattito tra credenti e non credenti, atei e cristiani, laici e laicisti infiamma tutti i settori della società.
Eppure esso si svolge per lo più a un livello di superficie, tanto che si ha l’impressione che i ruoli si confondano: che i veri credenti siano gli atei, che i laici portino avanti ragioni che i chierici dimenticano e che le motivazioni dei laicisti combacino, per una strana alchimia, con quelle dei cattolici più ortodossi.
Questi paradossi, come mostra Marco Vannini in questa riflessione, hanno radici profonde e non sono per nulla casuali: consistono nella dimenticanza di una serie di categorie che hanno attraversato la tradizione più alta dell’occidente, a partire dalla filosofia greca, attraverso i mistici e i filosofi della modernità, sino a personalità come Simone Weil.
Che Dio sia Spirito; che la religione sia essenzialmente un rapporto nello Spirito in cui Dio e uomo si muovono l’uno verso l’altro, l’uno nell’altro; che la vera religione sia uno spogliarsi della propria volontà, liberarsi dalla costrizione delle cose del mondo per entrare in una dimensione di libertà, di grazia.
Questi concetti si sono via via eclissati a favore di rappresentazioni più comode di Dio e della religione, spesso ridotta a una dottrina morale, a una serie di precetti fisici, adirittura sessuali.
E di questo oblio colpevoli non sono tanto i laici o gli atei ma, piuttosto, chi di questa tradizione doveva farsi depositario e custode: la Chiesa”.

II Domenica del tempo ordinario (Anno C).

         Preghiere e Racconti Il vino della festa Sí, il vino: è lui, non l’uva, il vero”frutto” della vigna.
E come la vigna è ricco di doni concreti e, al contempo, denso di rimandi simbolici.
Da sempre, “dai tempi di Noè” appunto, accanto al pane del bisogno, al pane quotidiano necessario per vivere, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa: una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, la gioia condivisa, l’amicizia ritrovata… Il vino: bevanda che, bevuta in solitudine, ne stordisce l’amarezza solo per accentuarne la tristezza, ma anche bevanda che, gustata nell’intimità di un’amicizia, ne esalta il sapore e ne affina il piacere.
Bevanda esigente, anche, perché richiede a chi la beve lo sforzo di liberarsi dalla schiavitù dell’efficienza esasperata per abbandonarsi alla gratuità senza la quale la vita è priva di sapore: bevanda che invita a cantare la vita, a immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire sí alla vita.
Forse è per tutti questi aspetti – oltre che per il discernimento che richiede nel conoscere se stessi, i propri limiti e quelli degli altri -, è per questa lettura dell’esistenza nel segno della gratuità e della gioia condivisa che il vino è divenuto nella Bibbia e in altre tradizioni spirituali il simbolo della sapienza.
Sapienza perché dà “sapore” alla vita, ma anche perché il vino sa sciogliere il cuore e farne emergere ciò che davvero lo abita, sa trasformare la semplice assunzione di cibo in un banchetto, così come la fermentazione ha trasfigurato l’umile succo d’uva in bevanda inebriante.
[…] non a caso Gesù stesso porrà il suo primo “segno” alle nozze di Cana sotto il sigillo di una gioia condivisa grazie al vino migliore e lascerà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore attorno al “segno” di un pane spezzato e di una coppa di vino versato perché tutti abbiano la vita in pienezza.
(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 50-51).
  La fonte divina dell’amore Di questa fonte inesauribile parla Giovanni nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-12).
Il nostro vino, il nostro tentativo di amare, vede molto presto la fine.
Non possiamo dare nessuna garanzia delle nostre emozioni.
Prima o poi i nostri sentimenti di amore si volatilizzano e allora crediamo di non riuscire più ad amare l’altro.
Questo capita a molti coniugi che assistano stupiti all’esaurirsi del loro amore.
Questo capita anche alla coppia che celebra le nozze a Cana.
Viene a mancare il vino, il loro amore viene a mancare, già il terzo giorno essi non hanno più né vino, né amore.
Allora Gesù trasforma in vino sei otri d’acqua, in modo che il vino non abbia più a finire.
Sei è il numero dell’imperfezione e gli otri di pietra rimandano a quanto di duro e di impietrito vi è in noi.
Nella loro incapacità di amare veramente, nelle loro durezze e nei loro blocchi, Gesù mostra agli sposi un’altra fonte d’amore, la fonte divina, che mai smette di sgorgare.
Gesù pronuncia la sua parola d’amore in quanto in noi è divenuto sciapo e senza sentimento, in quanto in noi è imperfetto e indurito.
Se noi ci fidiamo di questa parola, anche in noi tutto può mutarsi in amore.
D’improvviso noi possiamo amare con le nostre forze e le nostre debolezze, con le nostre imperfezioni e i nostri errori, con le nostre contrazioni e i nostri indurimenti.
Tutto in noi può irradiare l’amore divino, così che intorno a noi possa svolgersi la festa della vita.
(A.
GRÜN, Abitare nella casa dell’amore, Brescia, Queriniana, 2000, 67-68).
  Riempi d’acqua il tuo otre vuoto Adesso sono un otre vuoto! Bisogna consumare tutto il proprio vino per accorgersi che non era vino buono.
Bisogna consumare tutto il proprio vino per desiderare, finalmente, il vino di Gesù.
Madre della compassione, Madre che ti accorgi da sempre, anche per me, dici a Gesù: “non ha più gioia!”.
Non ho più gioia.
Otre vuoto io sono, anche di speranza.
E tu, sicura come chi ha già ottenuto, con gli occhi che tradiscono una gioia più grande di quella che sarà la mia, supplichi: “fa tutto quello che Lui ti dirà!”.
E Lui: “riempi d’acqua il tuo otre!”.
Da dove attingere, Signore, per colmare fino all’orlo? Dalla mia mente deserta? Dal mio cuore inaridito? Dalla mia innocenza consumata? Fammi, Signore, il dono delle lacrime: siano esse l’acqua che con abbondanza tu trasformi, e mentre bevo a piene mani, sento che Le dici: “Donna, ecco tuo figlio!”.
  «Non hanno più vino» Il vino è la gioia di vivere che non può essere comprata ne fabbricata ed è difficile starne senza.
È Gesù, questo vino, di cui gli sposi hanno bisogno, ma che non potrebbero mai darsi, questo vino Gesù lo ‘crea’ dall’acqua, perché si tratta di un vino nuovo.
Giovanni vuole dirci che il vino nuovo e buono, mai gustato prima, è Gesù stesso.
Il vino è significativo come dono di Gesù:  esso è alla fine; è buono; è abbondante.
È segno del tempo della salvezza.
Il vino è così il «sangue versato» da Cristo per noi, è il segno della carità, del dono di sé, così importante per poter vivere da cristiani.
Il vino delle nozze di Cana, questo buon vino atteso, è il dono della carità di Cristo, il segno della gioia che la venuta del Messia realizza.
Le feste degli uomini hanno la conclusione ben descritta dal maestro di tavola: la tristezza del lunedì.
Gesù, invece, è «il sabato senza sera», come diceva sant’Agostino: quando si pensa che la festa finisca – «Non hanno più vino» -, salta fuori il vino buono, conservato fino allora, il vino nuovo mai gustato prima (Cf.
A.S.
BESSONE, Prediche della domenica, Anno C, Biella, 1992, 185-190).
  Maria, donna del vino nuovo Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali! È il vino della festa che vien meno.
Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano.
Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame.
Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.
Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio.
Le scorte di senso si sono esaurite.
Non abbiamo più vino.
Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo.
Le vecchie cantine non fermentano più.
E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto.
Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose.
Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’orlo di significati ultimi.
E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.
Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.
Perché è proprio dei giovani percepire l’usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.
Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili.
Dalle piccole conversioni sottocosto.
Dai rattoppi di comodo.
Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall’uso idolatrico della tradizione.
Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l’avvedutezza di sostituire i contenitori.
Quando prevale in noi il fascino dello «status quo», rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti.
Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi.
E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l’adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.
Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: «Fate tutto quello che egli vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.
E ci affidi il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte.
(Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000, 66-68).
  Preghiera Padre, che hai voluto fare del tuo Figlio l’Uomo nuovo, ricolmo del tuo Spirito, e per mezzo suo lo effondi nei cuori degli uomini rinnovandoli radicalmente, ti chiediamo con fiducia e insistenza, come egli stesso ci ha insegnato a farlo, di voler riempire i nostri cuori della sua presenza e della sua forza.
Se tu ce lo doni, noi potremo uscire dalla condizione di uomini vecchi, mossi dall’egoismo che ci rinchiude in noi stessi, e potremo diventare davvero uomini nuovi.
Saremo capaci di amare te come figli e gli altri uomini e donne come fratelli e sorelle.
E la gioia profonda della nostra nuova condizione riempirà ogni momento della nostra giornata.
Non lasciare che altri spiriti entrino nei nostri cuori: lo spirito dell’orgoglio, della vanità, dell’invidia, dell’avidità…
Essi sono spiriti del mondo vecchio che portano alla morte e noi vogliamo vivere.
Tu, che sei «amante della vita», strappa da noi tali spiriti perché possa occupare tutto il nostro spazio interiore lo Spirito vivificante che viene da te attraverso il tuo Figlio diletto.
      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.


Omelie sul Vangelo di Luca

UNIVERSITÀ PONTIFICIA SALESIANA con la collaborazione del GRUPPO ITALIANO DI RICERCA SU “ORIGENE E LA TRADIZIONE ALESSANDRINA” XIV LETTURA DI ORIGENE – 2010 OMELIE SUL VANGELO DI LUCA Lunedì 11 gennaio  2010, ore 17.00 presso Istituto Salesiano Sacro Cuore, Via Marsala 42 – ROMA Enrico dal Covolo Il “Magnificat” di Maria (HLc.
VIII) Presiede la Prof.ssa Emanuela Prinzivalli, coordinatrice del GIROTA (= GRUPPO ITALIANO DI RICERCA SU “ORIGENE E LA TRADIZIONE ALESSANDRINA Prossime riunioni: Lunedì 15 marzo 2010, ore 17,00 Istituto Sacro Cuore, Via  Marsala 42 – ROMA XVII omelia, Simeone e Anna incontrano Gesù: Stefano Tampellini Lunedì 15 febbraio 2010, ore  17,00: Istituto Sacro Cuore, Via Marsala 42 – ROMA XIII omelia, La nascita di Gesù: Leonardo Lugaresi Martedì 13 aprile 2010, ore  19,30: Sant’ Ivo alla Sapienza, Corso Rinascimento 40 – ROMA XVIII e XIX omelia Quando Gesù ebbe dodici anni: Antonio Grappone Martedì 4 maggio 2010, ore 19,30: Sant’ Ivo alla Sapienza, Corso Rinascimento 40 – ROMA XXXIX omelia, Insegnamenti di Gesù: Emanuela Prinzivalli Coordinatori: Mario Maritano, Enrico dal Covolo, Emanuela Prinzivalli Università Pontificia Salesiana – P.za dell’Ateneo Salesiano, 1 – 00139 Roma – tel.
06/872901 Dipartimento di Studi Storico-Religiosi, P.zale A.
Moro 5 -000185 ROMA–Tel.
06/49913705 e-mail: maritano@unisal.it;   enrico@unisal.it; prinzivalli@iol.it; I primi tre incontri si tengono presso l’Istituto «Sacro Cuore», via Marsala 42 – ROMA , Roma (accanto alla Stazione Termini; alloggio su prenotazione: tel.
06/44.63.353, ospitalità; 49.27.221, centralino), gli ultimi due  a Sant’ Ivo alla Sapienza, Corso Rinascimento 40 – ROMA (per eventuali informazioni ulteriori, riguardo a questi due ultimi incontri, rivolgersi al prof.
don Mauro Mantovani: <mantovani@unisal.it>).
I tempi della lettura rispecchiano l’originalità e l’impegno dell’iniziativa.
Ogni incontro sarà di almeno un’ora piena, e consterà di tre momenti: a) breve sintesi del testo in esame; b) lettura e commento dei passi più importanti; c) discussione.
 ü  Si farà riferimento alla traduzione italiana: Origene, Commento al Vangelo di Luca di Origene, a cura di S Aliquò – C.
Failla, Città Nuova, Roma 1969, rist.
1974.

Italo-marocchina.

Il libro: Anna Mahjar-Barducci, “Italo-marocchina.
Storie di immigrati marocchini in Europa”, prefazione di Vittorio Dan Segre, Diabasis, Reggio Emilia, 2009.
__________ Anna Mahjar-Barducci ha fondato e presiede in Italia l’Associazione Arabi Democratici Liberali, il cui sito è anche in inglese: > www.arabidemocraticiliberali.com L’Associazione opera assieme a un istituto di ricerca di Erbil, nel Kurdistan iracheno, nato per promuovere il dialogo religioso e inter-etnico: > www.tolerancy.org Gli scritti prodotti dall’Associazione Arabi Democratici Liberali escono su media arabi come la tv Al-Arabiya, il quotidiano saudita con base a Londra “Al-Awsat”, il settimanale marocchino “Tel Quel”, il libanese “Daily Star” e il settimanale iracheno “Al-Ahali”- __________ Lo scorso 21 ottobre, sul settimanale “Tempi”, Anna Mahjar-Barducci è intervenuta a proposito delle discussioni in corso in Italia sull’integrazione degli immigrati e sulla concessione in tempi più brevi della cittadinanza: > “Sono italo-marocchina…” L’articolo termina così: “Quando leggo sulle pagine dei quotidiani italiani il dibattito sulla concessione della cittadinanza agli immigrati dopo soli cinque anni di residenza, rimango un po’ attonita.
Infatti, dalle dichiarazioni di questi giorni sembra che dimezzare il tempo di attesa sia di per sé un elemento che faciliti automaticamente l’integrazione dell’immigrato.
Ma forse altro non è che un escamotage per non trattare in maniera appropriata vere politiche di integrazione, che ancora mancano.
C’è invece la necessità, per esempio, di promuovere corsi di italiano e di alfabetizzazione gratuiti, di creare modelli e attività sociali per i figli di immigrati, di istituire centri di aiuto e di empowerment per le donne immigrate, di controllare le moschee, di formare imam che abbraccino scuole di pensiero moderno, eccetera.
Senza l’adozione di politiche reali che permettano all’immigrato di fare propria l’identità italiana, tutto rimarrà uguale, non importa che la cittadinanza venga data prima o dopo.
Continueremo soltanto a vantarci inutilmente di vivere in un’Italia ‘multiculturale’, quando il multiculturalismo senza integrazione ha sempre creato soltanto ghettizzazione.
E avremo altri padri come quello di Sanaa, che uccideranno le loro figlie, ma questa volta con la cittadinanza italiana”.
__________ Sul riconoscimento del “volto” dell’altro, che può essere anche il musulmano, Benedetto XVI ha impostato la sua omelia di Capodanno: > “Nel primo giorno del nuovo anno…” ANNA MAHJAR-BARDUCCI, “Italo-marocchina.
Storie di immigrati marocchini in Europa”, prefazione di Vittorio Dan Segre, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, ISBN 978-88-8103-610-3,  pp.
160, Euro 12,00 Un viaggio estivo in Marocco – la terra della madre, della nonna materna e di molti altri parenti – è il pretesto che dà l’avvio al racconto autobiografico di Anna Mahjar-Barducci.
L’autrice ricostruisce le vicende della propria famiglia attraverso il doppio filtro della sua identità culturale, araba ed europea, italiana e marocchina, alla luce di ciò che accade durante il suo soggiorno.
Amori, tradimenti, disgrazie, rovine economiche e umane sono lo sfondo di questo breve romanzo sulle radici culturali: radici che si perdono e troppo tardi si riscoprono (la “nonna” che muore portandosi via un pezzo di storia sconosciuto) o che si ricercano nel posto sbagliato (lo zio Karim che simpatizza con i fondamentalisti).
Con uno stile fresco e lineare l’autrice, che sposa un israeliano, fornisce ai lettori una testimonianza importante del melting pot mediterraneo contribuendo a comprendere i motivi e le difficoltà dell’immigrazione.
L’autrice Anna Mahjar-Barducci è una scrittrice e giornalista italomarocchina.
Ha studiato in Pakistan ed è cresciuta tra la Versilia, il Marocco e la Tunisia.
Ha anche vissuto parte della sua infanzia in Zimbabwe e Senegal.
Ha lavorato per il redattore capo del quotidiano panarabo «Asharq Al-Awsat» negli Stati Uniti, e i suoi articoli sono apparsi su vari media mediorientali tra cui il «Daily Star» (Libano) e «Al-Arabiya» (Dubai).
Ha intervistato leader politici internazionali, incluso l’ex premier pakistana Benazir Bhutto poco prima del suo assassinio.
I suoi quadri secondo la tradizione dell’arte islamica sono stati esposti in vari paesi africani.
Nel 2007, ha fondato l’Associazione Arabi Democratici Liberali, con sede a Roma.
È sposata con un israeliano, ex consigliere per il premier Yitzhak Rabin.
Questo è il suo primo romanzo.
Islam individuale di Anna Mahjar-Barducci (Da “Italo-marocchina.
Storie di immigrati marocchini in Europa”, pp.
91-94) La mattina, Zaynab mi svegliò con un urlo.
Era andata presto a comperare i biglietti per il concerto di Cheb Khaled a Casablanca.
Sicuramente una delle notizie migliori della giornata.
Non vedevo l’ora di vederlo dal vivo.
Lamia andò fuori casa a parlare al cellulare.
Zaynab mi disse che stava chiamando Fahd: si trovava a Casablanca per qualche giorno e avrebbe potuto rivederlo al concerto.
Quando tornò in camera, non ci raccontò nulla.
Poi la vidi indossare la jillabah sopra la maglietta di Zinedine Zidane e mettersi il velo.
Andò nella stanza accanto e iniziò a pregare.
Ero confusa.
Suo padre poteva averla contagiata.
Nessuno nella mia famiglia aveva mai pregato, a parte Karim, che non era certo un esempio da seguire.
Rachid, quando la vide, fece una faccia perplessa: “Lamia!”, urlò lo zio dal divano.
“Stai pregando verso l’America! La Mecca è dall’altra parte”.
Scoppiammo tutti in una risata.
La mia famiglia era composta principalmente da donne.
Tutte noi ci consideravamo musulmane; ma ognuna aveva il suo modo di interpretare la religione.
Ognuna, infatti, aveva il suo islam personale.
Per mia madre, essere musulmana significava semplicemente credere in Dio.
Per mia zia Samia, significava avere un’identità.
Per Zaynab e Maryiam voleva dire non dimenticare le proprie origini.
Osservare i precetti religiosi per noi era secondario.
Eppure, vedere Lamia pregare mi aveva impressionato.
Rispettavo la sua scelta personale, ma, dopo la visita del marabut, avevo paura che si chiudesse al mondo, come aveva fatto suo padre.
Rachid, invece, era un panarabista, e la religione non gli interessava.
Diceva di essere musulmano per nascita e ateo per scelta.
Pochi anni prima, avevo incontrato a Venezia Abdennour Bidar, un professore francese di filosofia, di fede islamica.
Mesi dopo, mia cugina Zaynab mi spedì dalla Francia un libro di Bidar, intitolato “Self Islam”: ovvero l’islam dell’individuo, come io stessa lo definivo.
Cominciai immediatamente a leggerlo, sicura che vi avrei trovato la descrizione della mia famiglia.
[…] Leila e le mie cugine rispettavano il Ramadan.
Mia zia Samia, invece, durante quel periodo continuava a mangiare; ma nessuno della mia famiglia avrebbe osato dirle che per questo non era musulmana.
Dopo tutto, la maggior parte dei nostri vicini, a Groupe Six, formalmente digiunavano durante il Ramadan, ma poi mangiavano di nascosto tappati in casa.
Prima di uscire, però, con molta ipocrisia si grattavano leggermente la lingua con le unghie per farla diventare bianca, come se avessero digiunato.
C’era invece chi il Ramadan lo rispettava per tutto il mese; e poi durante gli altri giorni dell’anno beveva vino e superalcolici.
Nella mia famiglia, inoltre, la umma non sapevano nemmeno che cosa fosse.
Zaynab, presa a volte da pulsioni panarabiste, diceva “noi arabi”; ma l’unico “noi” che era sempre esistito a casa mia era la nostra famiglia.
In Marocco eravamo tutti sunniti; e a Groupe Six non sapevano nemmeno cosa fossero gli sciiti.
Quando ero piccola, però, il giorno dell’ashura, a Kenitra sembrava di essere a Teheran.
Uomini vestiti di bianco si battevano la testa con coltelli fino a quando non usciva loro il sangue, come facevano i seguaci di Ali.
Pensai che forse eravamo anche noi sciiti senza saperlo.
Non ne avevo le prove, ma mi piaceva quella combinazione di tradizioni.
Mia madre, però, quando vedeva un uomo con la barba da fondamentalista, lo chiamava Ayatollah.
Quella, era per lei il massimo dell’offesa.
Mio zio Rachid, alzandosi dal divano per uscire a fumare, guardò nuovamente Lamia pregare con l’indice puntato verso l’alto.
Poi si avvicinò verso di me in cucina, per parlarmi.
“Tu mi accusi sempre di aver sostenuto Oufkir.
Sei anche convinta che, se Ben Barka fosse stato vivo, la storia del Marocco sarebbe stata migliore”, mi disse sottovoce.
“Il vero pericolo per il paese ce l’abbiamo in casa.
Quelli come quell’asino di tuo zio Karim prima rovinano la vita alla famiglia, poi si fanno un bernoccolo in fronte pregando, e per redimersi pensano di poterci togliere le nostre libertà.
Non lo vedi?”.
Quella fu la conversazione più lunga che ebbi mai con mio zio Rachid.
Lo guardai uscire dalla porta, sedersi sullo scalino e accendersi nervosamente una sigaretta con un fiammifero, guardandosi intorno pensieroso.
__________  Il nuovo anno si apre con l’ansia di nuovi attacchi terroristici di musulmani all’Occidente.
Anche ad opera di nemici cresciuti in casa, in quell’Europa nella quale si sono stabiliti, ma senza integrarsi.
Nell’opinione diffusa, islam e islamismo rischiano sempre più di diventare sinonimi.
Il “volto” pubblico dell’immigrato musulmano finisce schiacciato su un profilo radicale e violento.
Ma che la realtà del mondo musulmano sia molto diversa, ci vien detto e mostrato in modo convincente da questo stesso mondo, se appena lo si guarda e ascolta senza pregiudizi.
Una delle voci musulmane più significative è, tra le tante, quella di Khaled Fouad Allam, italo-algerino, professore alle università di Trieste e di Urbino.
In un editoriale dello scorso 9 settembre sul quotidiano dei vescovi italiani, “Avvenire”, Allam ha scritto che l’islamismo violento non è affatto in espansione, oggi, tra i musulmani, nemmeno in un paese come l’Algeria dove pure negli scorsi decenni ha fatto migliaia di vittime: “Certo, esiste la frangia magrebina di Al Qaeda, capace sempre di colpire.
Ma oggi, rispetto al passato, questo e altri movimenti sono divenuti movimenti di élite, formati da intellettuali precarizzati o da giovani attratti dalla narrazione ideologica, e non hanno più la base sociale di cui godevano quindici anni fa.
Oggi  i ragazzi algerini sognano l’Occidente e l’Europa non solo perché cercano una vita agiata, come i loro genitori negli anni Sessanta e Settanta, ma in quanto libertà.
E mentre in vari Stati musulmani i governi spingono a una reislamizzazione in senso ortodosso, in questi stessi Stati avanzano i processi di secolarizzazione, che investono la fede religiosa.
La Turchia è esemplare in questo senso”.
Khaled Fouad Allam è un analista e interprete di notevole acutezza di ciò che avviene nella cultura e nella pratica musulmana.
Un anno fa fu sul punto di diventare una firma regolare de “L’Osservatore Romano” proprio per scrivere di questi temi.
Ma a un primo articolo, pubblicato il 30 novembre 2008, non ne seguirono più altri.
* Un’altra voce musulmana assolutamente da ascoltare è quella di Anna Mahjar-Barducci (nella foto), residente in Italia, giornalista e scrittrice, nata da madre marocchina e da padre italiano, sposata a un ebreo israeliano di nome David.
Agli occhi dell’islam ortodosso, il matrimonio suo e quello di sua madre con un uomo di altra religione sono inaccettabili, un’apostasia.
Ma in Marocco l’opinione prevalente non è affatto così rigida.
Nel 2006, il film più visto in quel paese fu “Marock”, una storia d’amore tra una giovane musulmana che vuole liberarsi dai dogmi religiosi e un attraente ragazzo ebreo.
Da poche settimane è in libreria in Italia un racconto autobiografico, scritto da Anna Mahjar-Barducci, dal titolo “Italo-marocchina.
Storie di immigrati marocchini in Europa”.
Il libro è un vivido affresco del quartiere della città del Marocco in cui abitano i numerosi famigliari della scrittrice, di cui si raccontano le storie.
Alcuni di questi suoi parenti vanno e vengono tra il Marocco e l’Europa.
Ma ciò che più sorprende del racconto è che nessuno di loro assomiglia a un altro.
Sono tutti musulmani, ma diversissimi.
Il breve capitolo riprodotto più sotto mostra nel modo più efficace la realtà di questo multiforme “islam individuale”.
Tutti sognano l’Europa.
Ma nessuno di loro riesce a integrarsi nel paese in cui emigra.
Neppure l’autrice, che pure è cittadina italiana.
In un altro capitolo del libro, ella racconta che in Italia, ad aggravare questa separatezza, sono proprio altri suoi correligionari immigrati: “Quando vedo un magrebino per la strada, mi tocca cambiare tragitto.
Comincia a salutarmi in arabo e mi fissa come se fossi di sua proprietà.
Una volta che ero in una pizzeria con un compagno di scuola, un marocchino mi chiamò ‘sharmuta’, prostituta, e mi disse che non potevo uscire con un italiano.
Dovette intervenire il padrone del locale, per mandarlo via.
In Marocco non succederebbe mai una cosa del genere”.
In altri suoi scritti, Anna Mahjar-Barducci ha spiegato che le difficoltà ad integrarsi nei paesi europei provocano in molti musulmani emigrati una “perdita d’identità”.
E questo li può far cadere nella rete degli islamisti radicali, che offrono loro proprio una identità forte e sicura, che li fa sentire non più soli, ma parte di grande comunità.
“Così si possono vedere a Milano ragazzi di origine magrebina che neppure parlano più l’arabo, ma con barbe lunghe e con abiti che in Marocco nessuno di loro indosserebbe”.
Il capitolo qui riprodotto di “Italo-marocchina” mostra anche questo.
Tra i personaggi descritti, il solo che si è fatto islamista radicale lo è diventato per contraccolpo di una disordinata vita da emigrato in Francia.
Ma ecco altri dettagli per seguire con più facilità il racconto.
Le sorelle Zaynab e Lamia sono due giovani cugine dell’autrice del libro.
Leila è la loro madre.
Loro padre, Karim, dopo una vita dissoluta si è convertito al fondamentalismo.
Rachid, altro zio dell’autrice, è un ex militare del generale Oufkir, autore nel 1972 di un fallito rovesciamento della monarchia in Marocco e prima ancora, nel 1965, dell’eliminazione del leader socialista Ben Barka.
Groupe Six è il quartiere della città marocchina di Kenitra ove l’autrice del libro è tornata a incontrare i suoi parenti.
La jillabah è una tunica larga indossata in vari paesi arabi, che in Marocco ha il cappuccio.
L’ashura è la principale festa dei musulmani sciiti.
I marabut sono guide religiose che vanno di casa in casa.
La umma è l’insieme di tutti i musulmani del mondo.
Sandro Magister

Soul Kitchen: La cucina dell’anima

Domande & Risposte   Fatih Akin, regista elegante, si era assicurato una buona fama tra le  giurie internazionali, però voleva “provarci” con la commedia, magari anche triviale, il cui menu prevede finezze estetiche e risate irrefrenabili, battutacce, tripli sensi e sciabolate politicamente ed etnicamente perfette.
Da sentirsi appagati.
Fatih, come l’ha impegnata la scrittura di questo film? E’ stato davvero molto difficile.
Mettere in fila ogni elemento perché tornasse è stato complicatissimo.
Abbiamo lavorato alla sceneggiatura per mesi se non per anni, l’abbiamo rivista innumerevoli volte.
Scrivere in maniera umoristica è molto più difficile rispetto alla scrittura drammatica.
Inoltre scrivere secondo determinate convenzioni è più difficile di quando comunemente si immagini.
Il protagonista soffre di ernia al disco…
Come mai ha scelto proprio l’ernia? Il protagonista secondo la mia visione porta il peso del mondo, quindi la sua infermità è dovuta anche a una dimensione psichica.
E’ un po’ il simbolo del personaggio.
Tra l’altro il sistema “traumatico” che viene usato per curare il personaggio è davvero adoperato, ad esempio in Turchia, e offre autentici benefici.
Posso garantirlo! Come mai è passato alla commedia dopo tanti film d’autore? Avevo l’esigenza di fare un film completamente diverso.
Avevo l’impressione di dover fare un sacrificio per andare oltre, e lo spunto mi è stato dato da un momento doloroso, la morte di un mio caro amico che è stato anche mio produttore.
Lui voleva fortemente che io facessi questo film, ma io resistevo, avevo paura di fare cose che non fossero serissime.
Ma dopo questo triste evento ho capito che dovevo sperimentare.
Del resto mi annoiano i registi che hanno sempre lo stesso stile.
Poi ho capito un’altra cosa, che ridere è parte della vita e non è una cosa da respingere.
Com’è nato il personaggio del cuoco? Questo personaggio è stato ampliato da Birol Uenel, all’inizio non aveva tutta questa importante.
Birol durante le riprese veniva sul set citando Rimbaud, un suo libro che aveva sempre con sè.
E parlava del concetto di svendersi.
Dopo 40-50 volte che ho sentito citazioni di questo genere ho capito che Birol stava parlando del film, del concetto di svendere, svendere cibo, svendere vite.
E ho capito che il cuoco era una specie di Don Chisciotte che combatteva per un mondo migliore.
Com’è stato lavorare con Bousdoukos(l’interprete principale)? E’ l’uomo più forte che conosco: lui è davvero in grado di sollevare il mondo e di giocarci, come Charlot.
La colonna sonora del film Soul Kitchen ,è coinvolgente, come l’avete scelta? Volevamo che la macchina da presa fosse musicale: sul set ascoltavamo sempre le canzoni della colonna sonora, in modo da sentire l’atmosfera giusta per i movimenti di macchina e da sperimentare con essa.
La colonna sonora è composta da molti brani strumentali soul degli anni ’70, come quelli di Quincy Jones e di Kool & The Gang, che danno trasparenza a ogni cosa.
Mi piace usare le canzoni come commento, per inserire un secondo o terzo livello di lettura.
Alla fine del film, quando, durante la vendita all’asta del Soul Kitchen, il concorrente di Zinos si strozza con un bottone, si sente in sottofondo “The Creator Has A Master Plan” di Louis Armstrong.
È una scena comica, ma ha anche qualcosa di divino.
Io credo in questo, credo in un’energia che rende possibili cose di questo genere.
Punti molto sul dialogo e l’incontro, anche tra le culture, cosa possono generare? Uno dei temi principali è proprio quello della comunicazione.
Tutti ne parlano , ma non ce n’è molta.
Quello della comunicazione è davvero un problema in questo mondo globalizzato.
Per questo ho usato tre lingue nel film.
Le tensioni spesso, anche in Turchia, nascono proprio da problemi di comunicazione e io come artista ho cercato solo di usare gli strumenti a mia disposizione per rappresentare il mondo come vorrei.
     È nato il 25/08/1973 ad Amburgo.
Ha studiato Comunicazione Visiva al College of Fine Arts di Amburgo.
I suoi genitori sono emigrati dalla Turchia in Germania nel 1960.
Sposato con Monique, hanno un figlio.
Membro della giuria del Festival del Film Internazionale a Berlino nel 2001, e nel 2005 del Festival di Cannes.
A volte fa il DJ come Superdjango.
Tedesco di seconda generazione, Fatih Akin esprime nelle sue pellicole un mondo delicato, poetico e al tempo stesso ironico e crudo.
Racconta conflitti culturali, identità violate, vite on the road, aspri drammi quotidiani.
Il suo non è solo cinema d’emigrazione, sebbene nelle sue opere il distacco tra la patria d’accoglienza e quella d’origine sia sempre un tema forte e sentito.
Nelle strade affollate della Germania, nei vicoli bui, nei silenzi e nei rumori sconfinati, sembrano rivivere le bellezze e le contraddizioni della Turchia.
Con uno stile che poggia su tregue temporali, stabili impalcature narrative, improvvise esplosioni passionali, spunti satirici al limite del grottesco, frammentazioni dei punti di vista, il regista si impone sin da subito come moderno cantore di tradizioni e differenze, conflitti e integrazioni.
Il primo corto Sensin – Du bist es! (Sensin – You’re the One!, 1995) vince il premio del pubblico al Hamburg International Short Film Festival.
L’esordio nel lungometraggio arriva nel 1997 con Kurz und schmerzlos (Short Sharp Shock), un puzzle denso e colorato sulle vite di tre immigrati (un turco, un serbo e un greco) ad Amburgo.
Il film ottiene il Pardo di Bronzo al Festival di Locarno e il premio come miglior esordiente ai Bavarian Awards di Monaco.
Im Juli (In July, 2000) è un road movie che vede protagonista un professore in viaggio nell’Europa dell’Est, con meta ultima Istanbul.
Obiettivo agognato per riscoprire le proprie origini, porsi uno scopo, ritrovare la coscienza delle radici.
Un filo rosso che unisce tanti emigrati di seconda generazione.
Una rincorsa verso l’identità d’origine che torna prepotente nella terza regia Wir haben vergessen zurückzukehren (I Think About Germany: “We Forgot to Go Back” , 2001), un progetto molto intimo, documentario sul ritorno dei genitori del regista dalla Germania alla Turchia, che diventa pretesto per esplorare sentimenti comuni a tutte le persone lontane dalla propria casa, non necessariamente quella d’origine.
Solino (2002) è un’altra storia di immigrazione, questa volta di una famiglia pugliese trasferitasi a Duisburg negli anni 60.
La Germania vive un profondo cambiamento, è il cinema stesso a guidare i sogni e le aspirazioni dei due fratelli protagonisti.
Conflitti e incomprensioni non potranno scalfire la vita condotta insieme, quando il ritorno al paese natale serve da sguardo e ricognizione verso il passato comune.
Nel 2003 il regista fonda con l’amico Klaus Maek una piccola casa di produzione, la Corazón International.
La società realizza i suoi film ed è il preludio al successo internazionale che Akin ottiene nel 2003: La sposa turca (Gegen die wand, Head-On) vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino.
La completezza formale è raggiunta, nella vicenda di Cahit e Sibel emerge un duro realismo, un sentito mal di vivere, una tensione crescente.
Un dramma interetnico che si muove tra la difficoltà di rimanere fedele alle tradizioni e la voglia di abbracciare il nuovo.
Il tutto è sottolineato dagli intervalli musicali di una immobile banda che suona sulle rive del Bosforo.
Ed è proprio la musica al centro del successivo Crossing the Bridge – The Sound of Istanbul (2004), documentario presentato a Cannes, flusso sonoro sulla scena rock, hip hop e folk della grande città turca.
Il ponte da attraversare è quello tra le due culture che si intrecciano, Oriente e Occidente.
A guidare l’occhio della macchina da presa tra club, dance hall, bar fumosi, periferie e balere, Alexandre Hacke, già autore delle musiche di La sposa turca e membro della industrial band tedesca Einststürzende Neubauten.
Il ritorno alla fiction è del 2007 con Ai confini del Paradiso (Auf der anderei Seite, The Edge of Heaven), seconda parte della trilogia su Amore, Morte & il Diavolo e premiato per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes.
Sei personaggi che si incrociano, ognuno alla ricerca di qualcosa.
Tra Amburgo, Brema, Istanbul, Trabzon, sradicamento, confusione esistenziale, solitudine, compongono un dedalo, una ragnatela di relazioni che ammalia e frastorna, donando soltanto allo spettatore la chiave per ricostruire drammi privati e attrazioni/repulsioni politiche.
Perché si può restare separati dai propri ideali, così come superarli e poi arrivare “dall’altra parte”.
E poi è arrivato: Soul Kitchen , Premio della Giuria internazionale di Venezia’66 L’eccentrico chef di Soul Kitchen, Shayn Weiss, apre le porte della sua cucina e svela i segreti che rendono i suoi piatti così appetitosi: si inizia con il gaspacho andaluso per passare agli gnocchetti di tofu, alle sardine fritte e ai fagottini con salsa allo yogurt.
Per gli amanti della carne non manca l’agnello con ratatouille, mentre chi è goloso di dolci non potrà resistere alla delicatezza della “schiuma di Venere”.
Nonostante si tratti di ricette particolari, Shayn ci dimostra che con gli ingredienti giusti e un pizzico di pazienza anche noi possiamo ricreare un elegante menu soul.
Volete provarci??? (Tutte le ricette del film)   1)Papillon di gaspacho andaluso alla maniera di Shayn Soul-ingredienti 4 fette di pane bianco 600 g di pomodori maturi 2 peperoni 1 cetriolo 3-4 spicchi d’aglio 150 ml di olio d’oliva Sale Pepe macinato fresco 2-3 cucchiai da minestra di aceto di Sherry 2 uova sode 2 scalogni Preparazione Tagliate via la crosta dalle due fette di pane e sbriciolatele grossolanamente, imbevetele d’acqua e lasciate inumidire.
Nel frattempo pelate i pomodori.
Privateli dei semi e tagliateli in piccoli pezzi uniformi.
Fate lo stesso con i peperoni e il cetriolo.
Sbucciate l’aglio e tagliatelo grossolanamente.
Conservate in due piccole ciotole una parte dei pomodori e dei peperoni: vi serviranno più tardi come guarnizione.
Prendete il cetriolo, i pomodori e i peperoni restanti e passateli assieme all’aglio nel mixer.
Aggiungete il pane e 125 ml d’olio, mischiate ulteriormente e passate dunque al setaccio.
Versatevi ora abbastanza acqua (o brodo) fino a ottenere la consistenza desiderata.
Aggiustate di sale e pepe e fate raffreddare per due ore in frigorifero.
Con il pane restante tagliate dei dadini e fateli abbrustolire nell’olio.
Sminuzzate lo scalogno e le uova sode e conservate il pane abbrustolito, lo scalogno e le uova in tre ciotoline separate.
Servite la zuppa molto fredda.
Come accompagnamento porterete in tavola le ciotoline con le verdure e il pane bruscato, così come quelle con le uova e lo scalogno.
Ogni commensale ne aggiungerà a suo piacimento alla zuppa.
  Zuppa del maestro dell’agopuntura Soul-ingredienti Per la minestra: 90 g di burro 30 g di scalogno 250 g di rape rosse 6 dl di brodo chiarificato di pollo o vegetale 1 dl di panna Il succo di mezzo limone Sale, pepe, noce moscata, zucchero   Per gli gnocchetti: 130 g di tofu 35 g di burro 45 g di pane bianco grattugiato 3 rossi d’uovo Sale, pepe, limone Erba cipollina fresca per “agopunturizzare” gli gnocchetti Grattugiate il tofu.
Mescolate il burro ed il rosso d’uovo fino ad ottenere una spuma.
Aggiungete il pane bianco e amalgamate il tofu.
Condite con sale, pepe e limone.
Mettete in freddo.
Tritate finemente lo scalogno.
Lessate le rape rosse pelate e tagliate in piccoli pezzi.
In un pentolino portate ad ebollizione dell’acqua leggermente salata.
Scaldate in una pentola 50 g di burro per poi soffriggere dolcemente lo scalogno.
Aggiungete le rape rosse, fate soffriggere brevemente e stemperate infine versando il brodo nella pentola.
Lasciate cuocere per tre minuti.
Con le mani impastate dei piccoli gnocchetti di tofu che farete cuocere nell’acqua per 5 minuti.
Tagliate l’erba cipollina uniformemente, in “aghi d’agopuntura” delle dimensioni di un fiammifero.
Frullate la zuppa, aggiungetevi la panna, lasciate poi riposare vicino al fornello.
Una volta cotti gli gnocchetti, “agopunturizzateli” con gli steli d’erba cipollina.
Riportate brevemente ad ebollizione la zuppa e, aggiungendo un po’ di burro, rendetela spumosa mescolando.
Servite in un piatto tenuto caldo, adagiando con attenzione nella zuppa gli gnocchetti “agopunturizzati”.
  Sardine fritte “dell’agente immobiliare” su letto di lattuga romana Soul-ingredienti 1 kg di sardine fresche 100 g di farina di mais fina 1 cucchiaino da tè di Pul Biber (fiocchi di paprika macinati grossolanamente) Sale Il succo di un limone Olio di mais per friggere 2 cespi di lattuga romana Un ciuffo di prezzemolo 3 porri 2 scalogni 2 piccoli lime 3 cucchiai da minestra d’olio d’oliva Desquamate (se necessario) le sardine e lavatele in acqua fredda.
Asportate ad ogni pesciolino la testa e praticate un’incisione all’altezza della pancia per ripulire le interiora.
Lasciate i pesci per circa un’ora sotto acqua corrente fredda.
Asciugateli poi su carta da cucina, salate e versatevi sopra alcune gocce di succo di limone.
Spianate su di un piatto la farina di mais, un po’ di sale e il Pul Biber.
Scaldate olio di mais a sufficienza in una padella.
Impanate con cautela i pesci e friggeteli dorati da entrambi i lati.
Assorbite l’unto in eccesso con della carta da cucina.
Lavate i cespi d’insalata in acqua fredda.
Scolate le foglie e tagliatele in piccoli pezzi.
Fate lo stesso con il prezzemolo.
Sbucciate lo scalogno e tagliatelo ad anelli sottili insieme al porro.
Mischiate tutti gli ingredienti in un’insalatiera.
Condite poi con olio d’oliva ed il succo dei lime.
Servite le sardine in un vassoio assieme all’insalata e decorate con il prezzemolo e qualche spicchio di limone.
Accompagnate con del pane.
Fagottini dello “spaccaossa” con salsa allo yogurt Soul-ingredienti   Per l’impasto: 400 g di farina 1 uovo ca.
200 ml di acqua 1 cucchiaino da tè di sale Farina per la lavorazione Per il ripieno: 150 g di macinato magro di agnello 1 cipolla 1 mazzetto di prezzemolo Pepe nero macinato 1 cucchiaino da tè di paprika dolce Una manciata di cumino stellato 1 cucchiaino da tè di sale Per la salsa: 375 g di yogurt greco 2 spicchi d’aglio senza buccia Extra: 80 g di burro 1 cucchiaino da tè di paprika piccante Menta fresca per decorare Impasto: setacciate la farina e mischiatela con il sale, l’uovo e l’acqua.
Lavorate l’impasto fino ad ottenere un composto uniforme e solido.
Ricoprite l’impasto e fate riposare per 20 minuti.
Ripieno: mettete la carne macinata in una ciotola.
Insieme grattugiatevi finemente la cipolla.
Lavate il prezzemolo, asciugatelo e tagliatene finemente le foglie.
Aggiungete alla carne il prezzemolo, la paprika dolce, il cumino, il sale, il pepe macinato e impastate con cura.Salsa: versate lo yogurt in una scodella.
Aggiungete l’aglio spremuto, amalgamate con la frusta fino a rendere lo yogurt cremoso.
Fate raffreddare la salsa in frigorifero.
Dividete l’impasto in quattro parti.
Su di un ripiano che avrete infarinato in precedenza stendete la pasta fino a ottenere una sfoglia molto sottile che taglierete in quadrati di quattro centimetri di lato.
Su ogni quadrato di pasta ponete un cucchiaino da tè del ripieno.
Pressate i quattro angoli della sfoglia ed anche i bordi così da formare dei fagottini ben sigillati.
In una pentola capiente scaldate acqua a sufficienza salandola con un cucchiaio da minestra di sale.
Fate quindi bollire i fagottini a fuoco moderato e senza coperchio per 4-5 minuti.
Scolate con attenzione aiutandovi con un setaccio.
Sciogliete il burro in un pentolino aggiungendovi la polvere di paprika.
Servite i fagottini in piatti fondi, versatevi sopra un po’ della salsa allo yogurt, qualche goccia di burro alla paprika e decorate con della menta fresca.
Prelibatezza d’agnellino da latte “meeh” con ratatouille Soul-ingredienti 12 costolette di agnellino 100 ml di aceto balsamico 5 cucchiai da minestra di olio d’oliva 1 limone Rosmarino Origano Timo 1 spicchio d’aglio 1 piccolo peperoncino Sale, pepe 3 peperoni (rosso, verde, giallo) 1 zucchina Mezza melanzana 2 scalogni 1 spicchio d’aglio 3 pomodori Sale, pepe Olio d’oliva Timo Origano Lavate velocemente le costolette e tamponatele con della carta da cucina.
Incidete con il coltello in più punti il margine di grasso e raschiate via con cura le ossa dalla carne.
Per la marinata versate l’olio, l’aceto balsamico e il succo di limone in una scodella.
Aggiungetevi gli odori lavati e sfilacciati grossolanamente.
Schiacciate poi uno spicchio d’aglio sbucciato.
Dividete a metà il peperoncino, privatelo dei semi e tritatelo finemente.
Mischiate bene aggiungendo pepe e sale.
Mettete le costolette in una padella e ricopritele con la marinata.
Lasciate riposare il tutto ricoperto per circa 3-4 ore in frigorifero, preoccupandovi di voltare più volte le costolette.
Scolate le costolette e rosolatele in una padella con dell’olio caldo oppure sulla griglia tenendole dai 3 ai 5 minuti per lato.
Infine aggiustate di sale e pepe.
Dopo averla cotta, lasciate riposare ancora un po’ la carne.
Per la ratatouille mondate la verdura e tagliatele in pezzi d’uguale grandezza.
Sbucciate gli scalogni e l’aglio e tritate finemente.
Pelate e private i pomodori dei semi per poi tagliarli a loro volta.
Fate appassire a fuoco dolce gli scalogni e l’aglio e aggiungeteci a mano a mano i peperoni, le zucchine e le melanzane.
Insaporite con il timo, l’origano, il sale e il pepe, lasciando cuocere e accertandovi che le verdure mantengano la cottura al dente.
Infine aggiungete i pomodori e fate terminare brevemente la cottura girando bene.
Disponete sul fondo del piatto la ratatouille e adagiatevi sopra tre costolette per porzione.
Decorate con del rosmarino fresco.
Festosa schiuma di Venere su un letto di “soul” uva passa Soul-ingredienti 150 g di glassa bianca 3 uova 1 stecca di vaniglia 2 fogli di gelatina 250 g di panna non troppo montata 0,5 cl di Rum 0,5 cl di Grand Marnier uva passa una ciotola di fragole menta fresca Ammorbidite la gelatina in acqua fredda e sciogliete la glassa a bagnomaria.
Separate poi il bianco di una delle tre uova.
Montatelo a neve con un pizzico di sale assicurandovi che sia sufficientemente compatto da non fuoriuscire dalla ciotola capovolta.
In una seconda ciotola montate la panna lasciandola un po’ lenta.
Fate freddare entrambe in frigorifero.
Fate sciogliere lentamente la glassa tagliata in piccole parti fino a renderla liquida.
Estraete l’essenza dalla stecca di vaniglia recisa in due parti per lungo.
Sbattete quindi le due uova ed il giallo restante assieme alla vaniglia e aiutandovi con del vapore rendetele spumose.
Scaldate il Rum e il Grand Marnier in un pentolino e scioglietevi la gelatina ben strizzata.
Procedete ad amalgamare la glassa e la gelatina sciolta con la spuma d’uova ancora calda.
Rigirate e fate freddare.
Aggiungete con molta cautela prima la panna e poi il bianco d’uovo montato al composto d’uovo liquoroso.
Nel fare ciò abbiate cura di non alterare il volume e la spumosità.
Versate tutto in un recipiente che lascerete freddare in frigorifero fino a ottenere una densa spuma di Venere.
Sciacquate e asciugate le fragole.
Conservate 4-6 fragole che userete dopo come decorazione, mentre passate quelle restanti nel mixer e poi al setaccio.
Arricchite la salsa di fragole con dello zucchero a velo e qualche goccia di Grand Marnier.
Lavate ora l’uva e liberatela dai raspi, asciugate.
Passiamo ora alla presentazione: prendete dei bicchieri da cocktail (Martini) o delle piccole ciotole di vetro.
Adagiatevi uno o più chicchi d’uva (regolatevi in base alla grandezza del vetro).
Aiutandovi con un sac à poche con il beccuccio a stella riempite i bicchieri coprendo delicatamente i chicchi d’uva con la spuma di Venere.
Versate poi in superficie un po’ di salsa di fragole, decorate con le restanti fragole e della menta fresca.
N.B.
La presentazione di queste ricette che sono preparate dal cuoco estroso di Soul Kitchen possono- forse- cancellare anche qualche altro stereotipo, tipo “che schifo, il mangiare tedesco, turco, arabo…”, no???   Soul Kitchen, Premio della Giuria internazionale di Venezia’66 [Soul Kitchen , Germania, 2009, Commedia, durata 99′]   Regia di Fatih Akin Con Moritz Bleibtreu, Birol Ünel, Wotan Wilke Möhring, Jan Fedder, Peter Lohmeyer, Dorka Gryllus, Lukas Gregorowicz, Maria Ketikidou, Catrin Striebeck, Marc Hosemann Zinos (Adam Bousdoukos) è il proprietario di origine greca di un ristorante di Amburgo che sta attraversando un periodo di notevoli difficoltà: la sua fidanzata Nadine si è trasferita a Shanghai e ai suoi clienti il nuovo chef che ha assunto non va affatto a genio, tanto che hanno deciso in massa di boicottare il locale.
Per Zinos si tratterà così di intraprendere una lotta su due fronti: riconquistare la fiducia della clientela e il cuore di Nadine.
Due compiti che però non lo spingono decisamente nelle stessa direzione, mettendolo di fronte a scelte complicate.
 “La musica è il cibo dell’anima!” grida un disperato Zinos all’ispettrice dell’Ufficio Imposte mentre esce dal Soul Kitchen con l’impianto stereo che gli ha confiscato perché non ha pagato le tasse.
Il soul è il cuore di questo ristorante di Wilhelmsburg: dai brani strumentali funky di Kool & The Gang, Quincy Jones o Mongo Santamaría alle classiche tracce R&B di Sam Cooke e Ruth Brown.
Ma non c’è solo la musica soul.
La colonna sonora è un mix di hip-hop e sound elettronico di Amburgo, musica rock dal vivo, rebetiko greco e “La Paloma”.
Un tipico DJ-set di Fatih Akin insomma, e naturalmente non può esserci un heimat film ambientato ad Amburgo senza una canzone di Hans Albers, uno dei più grandi e popolari attori-cantanti tedeschi degli anni ’30 e ’40.
Che cos’è la musica soul? Non appena il rhythm ‘n’ blues si affermò come musica nera, diede vita a nuovi stili: il rock ‘n’ roll negli anni cinquanta, la musica soul negli anni sessanta, la musica disco e funk negli anni settanta.
Dal novembre 1963 al gennaio 65 Billboard non pubblicò la hit-parade della categoria Rhythm ‘n’ Blues, dato che c’erano così tanti brani che potevano essere compresi sia nel rhythm ‘n’ blues che nel pop che sembrava superfluo mantenere le due categorie separate.
Un revival del rhythm ‘n’ blues negli anni sessanta ripristinò questa categoria, che da quel momento in poi incluse la musica soul e altri stili di musica nera.
Mentre i temi dominanti nei testi del rhythm ‘n’ blues erano l’amore e i rapporti umani in generale, le parole cantate dagli interpreti di soul toccavano temi quali l’ingiustizia sociale, l’orgoglio dei neri, la militanza nera e altre forme di protesta; la loro musica di conseguenza era più dura, più intensa e più esplosiva del rhythm ‘n’ blues, con maggior enfasi sugli elementi tradizionali (come il gospel, per esempio) e sulle pratiche interpretative.
Alla pari di altri stili di musica nera, la musica soul eludeva una definizione precisa; la maggior parte dei suoi maggiori esponenti apparteneva anche al mondo del gospel, del blues o del rock.
Certamente una lista comprenderebbe, oltre agli individui già citati, James Brown (1933-2006), Ray Charles (1930-2004), Sam Cooke (1931-1964), Aretha Franklin (1942) e Nina Simone (Eunice Kathleen Waymon, 1933-2003).
James Brown, il cui primo grande successo fu Please, Please, Please nel 1956, nei tardi anni sessanta si era già guadagnato il titolo di «padrino del soul» e «Soul Brother No.
1» e divenne particolarmente famoso per il suo manifesto vocale Black is Beautiful: Say It Loud: l’m Black and l’m Proud (1968).
Aretha Franklin che figurava regolarmente al primo posto nei sondaggi gospel, blues e rhythm ‘n’ blues, fu consacrata «regina del soul», mentre Nina Simone si guadagnò l’appellativo di «sacerdotessa del soul».
Sam Cooke passò dalla apprezzatissima posizione di lead singer del gruppo gospel Soul Stirrers a una posizione di uguale rilievo nell’orbita del soul e del rhythm ‘n’ blues.
Esercitò una grande influenza su cantanti quali Marvin Gaye (1939-1984), Al Green (1946), Otis Redding (194| 1967) e Robert «Bobby» Womack (1944).
Altre figure importanti del soul furono «Little» Anthony and the Imperials, Roy Hamilton, Clyde McPhatter, Jackie Wilson e il gruppo femminile The Shirelles(Da: La musica dei neri americani.
Dai canti degli schiavi ai Public Enemy, di Eileen Southern, edizioni il Saggiatore).

“Avatar”

Pubblichiamo quasi integralmente un articolo apparso sul sito in rete della rivista “Mondo e Missione” (www.missionline.org).
La pellicola di James Cameron ha fatto discutere, e molto, anche per il suo rapporto con la religione.
La domanda potrebbe suonare così: di quale religione è Avatar? A dar fuoco alle polveri è stato il commentatore di religious affairs del “New York Times”, Ross Douthat, che dalle colonne del quotidiano liberal l’estate scorsa aveva promosso a pieni voti la Caritas in veritate di Benedetto XVI.
Secondo Douthat, Avatar presenta “un’apologia del panteismo, una fede che rende Dio uguale alla Natura, e chiama l’umanità a una comunione religiosa con il mondo naturale”.
Il commentatore ricorda come questa visione religiosa sia una sorta di cavallo di battaglia dell’Hollywood più recente.
Per Douthat la scelta panteista di Cameron, e dell’industria cinematografica Usa in generale, continua su questa strada perché “milioni di americani vi hanno risposto in maniera positiva”.
E come riconosceva già nell’Ottocento il filosofo francese Alexis de Tocqueville, “il credo americano nell’essenziale unità del genere umano ci porta ad annullare ogni distinzione nella creazione.
Il panteismo apre la strada a un’esperienza del divino per la gente che non si sente a proprio agio con la prospettiva scritturistica delle religioni monoteistiche”.
All’editorialista hanno replicato diversi osservatori.
Sul cliccatissimo giornale online “Huffington Post” Jay Michaelson ha corretto l’interpretazione di panteismo per Avatar, parlando invece di “visione unitaria dell’Essere”.
“I panteisti non pregano, i panessenzialisti sì, come avviene in Avatar”, suona la precisazione di Michaelson.
Un’altra interpretazione viene dal blog “politicsdaily.com”, a firma di Jeffrey Weiss, che invece ha deteologicizzato l’opera di Cameron, affibiandole la qualifica di “allegoria di carattere neurologico, non teologico”: “Il film tende a fare in modo che lo spettatore pensi al modo in cui vuole trattare le persone con cui vive, i valori e le abitudini diverse dalle proprie”.
Dall’Oriente arrivano interpretazioni ancora più “teologiche”.
Il quotidiano “Hindustan Times” ha ospitato una recensione in cui riconosce che i personaggi alieni che abitano Pandora “sono di colore blu, non molto diversi dalle immagini popolari di Shiva”, una delle principali divinità induiste.
A dar man forte all’interpretazione indù del kolossal – che in pratica si sposa bene con la visione panteista del “New York Times” – è anche il sito di “Hinduism Today”, in un articolo dal titolo che più chiaro non si può: “Il nuovo film Avatar getta luce su una parola indù”.
Scrive l’articolista: “La teologia indù elenca dieci tipi di avatar.
Le origini di questa parola vengono dal sanscrito dei sacri testi indù ed è un termine per gli esseri divini mandati a ristabilire la divinità sulla Terra”.
Il sito dà voce a un fedele induista, Anil Dandona: “Il modo in cui la parola avatar viene usata nel film non è una distorsione della mia fede.
È appropriato.
Noi crediamo nell’Essere Supremo mandato presso gli uomini per creare la giustizia.
Questi messaggeri di Dio prendono forme umani, ma hanno qualità divine”.
E il cristianesimo, è assente da Avatar? Mark Silk, sul blog “SpiritualPolitics”, rintraccia il nome “cristiano” di un personaggio del film: Grace Augustine, che per Silk fa riferimento al santo di Ippona e al concetto cristiano di “grazia”.
Sarà Grace a spiegare al protagonista, l’ex marine Jake Sully, i significati nascosti del mondo di Avatar, come quello di “rinascere due volte”, che Silk rilegge cristianamente secondo il dettato evangelico dei born again.
“Per questo – conclude il blogger di “SpiritualPolitics” – è possibile affermare che Cameron ha unito la vecchia teologia cristiana della grazia e della redenzione alla sua parabola anti-imperialista”.
Il dibattito, come si vede, è più aperto che mai.
di Lorenzo Fazzini Tanta stupefacente tecnologia da incantare, ma poche emozioni vere, emozioni umane per intendersi, in un mondo di alieni pur eccezionalmente immaginato e rappresentato.
Tuttavia l’attesissimo film di James Cameron Avatar – che uscirà il 15 gennaio in Italia con un mese di ritardo rispetto al resto del mondo – non deluderà le aspettative degli appassionati del filone fantascientifico.
Infatti con Avatar, la pellicola più costosa della storia (oltre 400 milioni di dollari, lancio compreso), la magia del cinema si rinnova in tutta la sua forza immaginifica.  Del resto la rilevanza del film sta nell’impatto visivo più che nella storia, piuttosto scontata, e nei messaggi peraltro non nuovi, già al centro, talvolta con ben altro spessore, di diverse pellicole alle quali il regista si richiama più o meno apertamente, da Piccolo grande uomo a Balla coi lupi, da Un uomo chiamato cavallo a Pocahontas.
L’innovativo 3D, unito alla rivoluzionaria tecnica performance capturing che coglie anche le espressioni degli attori per trasporle in animazione digitale, porta l’esperienza visiva a livelli mai visti.
A cominciare dalla qualità dell’ambiente in cui si svolge l’azione, con una tridimensionalità che non punta a “bucare” lo schermo, ma a rendere la scena avvolgente, con una profondità che avvicina molto alla realtà e una maggiore nitidezza di dettagli.
D’altra parte Cameron ha tenuto questo progetto nel cassetto per 10 anni – la prima idea è del 1995, la realizzazione è iniziata nel 2005 – proprio perché allora non c’erano i mezzi tecnici per rendere sullo schermo quanto da lui immaginato.
E siccome è uno sperimentatore, il regista non si è limitato a usare tecniche di computer grafica già conosciute, ma ne ha inventate altre.
E il risultato è affascinante.
La storia si svolge nel 2154.
Protagonista è Jake Sully (Sam Worthington), un marine rimasto paralizzato alle gambe spedito sul pianeta Pandora, mondo primordiale ricco di materie prime preziose di cui gli umani vogliono impossessarsi e abitato dai Na’vi, giganteschi uomini blu, razza guerriera determinata a difendere il proprio territorio.
Su Pandora non c’è ossigeno e gli uomini non potrebbero sopravvivere.
Per avvicinare i nativi vengono utilizzati degli “avatar”, Na’vi artificiali creati dalla scienziata Grace Augustine (Sigourney Weaver), che possono essere “indossati” da ospiti umani attraverso un travaso della coscienza.
Per Jake è l’occasione per recuperare l’uso delle gambe e tornare in prima linea.
Presto, però, il marine si innamora dell’indigena Neytiri (Zoë Saldana), comincia a comprendere la sua civiltà e le cose per cui lotta, finendo per passare dalla parte dei Na’vi e a combattere contro gli invasori umani.
Cameron punta, dunque, su un racconto di portata universale, facilmente condivisibile nella sua semplicità ed efficacia, che narra un evento più volte ripetutosi nella storia dell’umanità:  le violenze e i soprusi, non di rado sfociati in genocidio, compiuti da civiltà considerate più avanzate per soppiantare o sottomettere, per smania di potere e ancor più per interesse, le culture indigene.
Un tema che negli Usa si riflette nel mito della frontiera e nella guerra dei bianchi contro le popolazioni dei nativi, ma che può essere fatto risalire ad altre colonizzazioni e adattabile anche a più recenti guerre.
Ma Cameron, più concentrato sulla creazione del fantastico mondo di Pandora, sceglie un approccio blando; racconta senza approfondire e finisce per cadere nel sentimentalismo.
Il tutto si riduce a una parabola antimperialista e antimilitarista facile facile, appena abbozzata, che non ha lo stesso mordente di pellicole più impegnate su questo fronte.
Analogamente il sotteso ecologismo si impantana in uno spiritualismo legato al culto della natura che ammicca non poco a una delle tante mode del tempo.
La stessa identificazione dei distruttori con gli invasori e degli ambientalisti con gli indigeni appare poi una semplificazione che sminuisce la portata del problema.
Ciò detto, resta l’indubbio valore del film per il suo eccezionale impatto visivo.
Se serviva una nuova frontiera per il cinema di fantascienza, Avatar l’ha segnata, spostandola molto in avanti.
E il record di incassi – che peraltro appartiene a un altro lavoro di Cameron, Titanic (1997) – potrebbe essere superato.
Del resto lo spettacolo vale il prezzo del biglietto.
di Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 10 gennaio 2010)

La vita benedettina

ROBERTO NARDIN E ALFREDO SIMÓN, La vita benedettina, Roma, Città Nuova Editrice, 2009, pagine 170, euro 10 La vita benedettina: così venne chiamato il documento conclusivo del Congresso degli abati che il 30 settembre 1967 si tenne a Roma, nell’abbazia primaziale di Sant’Anselmo.
Si tratta di un testo ritenuto fondamentale – quasi una magna charta – in quanto in esso fu condensata la prima applicazione del concilio Vaticano II alla vita monastica.
La vita benedettina è diventato così un punto di riferimento per la stesura, richiesta dal rinnovamento conciliare, delle nuove costituzioni delle varie congregazioni monastiche.
La nuova traduzione italiana del documento – che all’epoca venne pubblicato in francese – è ora disponibile in una versione, curata da Enrico Mariani, che tiene anche conto del testo in latino che, poco più di quarant’anni or sono, fu approvato sempre dallo stesso Congresso.
Il testo è contenuto in un volume ( da poco in libreria realizzato da due studiosi benedettini docenti in diverse università ecclesiastiche, tra cui il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo.
Nel libro la nuova versione de La vita benedettina è accompagnata da alcuni studi che ricostruiscono la genesi storica del documento, ne analizzano il testo e sinteticamente ripropongono lo sviluppo della spiritualità monastica dalle lontane origini ai giorni nostri.
Pubblichiamo di seguito la parte conclusiva – intitolata Dal concilio Vaticano II ad oggi – dello studio del primo dei due autori e quasi integralmente la prefazione al volume, a firma dell’abate primate della Confederazione benedettina.
Il concilio Vaticano II presenta la vita monastica in continuità con la sua tradizione:  separata dal mondo e contemplativa.
Al tempo stesso, sono molti e a livelli diversi gli stimoli offerti alla spiritualità monastica dai movimenti di rinnovamento ecclesiale che convergono nel Vaticano II e dal quale si sviluppano.
“Così il movimento biblico ha permesso il recupero della lectio divina come fonte di spiritualità; quello patristico ha stimolato la riscoperta dei Padri come maestri della vita monastica, quello liturgico ha consentito il recupero della centralità e della valenza teologica dell’opus Dei e della celebrazione eucaristica nella vita della comunità e quello ecumenico ha stimolato la comprensione del monachesimo come luogo di comunione e di dialogo” (Robero Nardin, La formazione permanente:  alcune coordinate).
Inoltre, ancora il Vaticano II ha stimolato il monachesimo alla riscoperta delle proprie radici sia in rapporto alla vita ecclesiale, sia attraverso una rilettura attenta delle fonti della vita monastica mediante un’ermeneutica volta all’analisi di tutto un ricco patrimonio documentario agiografico, legislativo ed epistolare alla ricerca del carisma originario, del monachesimo e delle singole tradizioni monastiche.
Si è trattato di un rinnovamento essenziale in quanto “forte era il distacco dalla propria tradizione spirituale e culturale a cui si suppliva mediante una formazione di tipo generico o il ricorso a frasi fatte e a luoghi comuni.
Il ritorno alle proprie fonti auspicato dal Concilio era, specialmente per il monachesimo italiano, un fenomeno ancora lontano e solo grazie all’influsso di dom Jean Leclercq (+ 1993) esso avrebbe avuto inizio a partire dagli anni Settanta” (Gregorio Penco, Monachesimo, chiesa, società alla fine del secondo millennio).
Tra le “frasi fatte” e d’epoca recente la più famosa è ora et labora, espressione questa che, pur non essendo presente nella Regola di san Benedetto, tuttavia ci riporta alle origini del monachesimo in cui per lavoro (labora) s’intendeva il lavoro dell’ascesi e, nel caso specifico, considerato inseparabile dalla preghiera (ora).
Il recupero della lectio divina, quale fonte prioritaria della spiritualità monastica, costituisce il frutto più importante del rinnovamento post conciliare.
La stessa espressione lectio divina, infatti, presente dall’epoca patristica, dal XIII secolo divenne sempre più rara e bisognerà attendere la pubblicazione di due significativi studi degli anni Venti del secolo scorso per riprenderne gradualmente l’uso.
Lo studio del monachesimo antico e medievale, inoltre, permetteva di stimolare sia il recupero della lettura spirituale della Scrittura come fulcro del rinnovamento monastico del Novecento, sia la consapevolezza che la lectio divina costituiva l’elemento essenziale della spiritualità monastica, al di là delle epoche e delle diverse forme con le quali il monachesimo era apparso.
Sembra opportuno, quindi, sintetizzare la vita monastica non tanto nel recente ora et labora, quanto, invece, nell’espressione che ricorda il Liber de modo bene vivendi (1174) del cistercense Tommaso di Froidmont:  ora, lege et labora.
Nella seconda metà del XX secolo, inoltre, il monachesimo rivela la propria fecondità in una duplice direzione.
Da un lato, mostrando la presenza di comunità monastiche in molte Chiese nei Paesi in via di sviluppo, dall’altro, attraverso la nascita di nuove comunità d’ispirazione monastica nei Paesi industrializzati.
In entrambi i casi, pur nelle situazioni diverse, emergono gli stimoli provocati dal Vaticano II.
In particolare la centralità della Parola e l’attenzione ai Padri all’interno d’una rivalutazione della vita monastica quale valore in se stessa e non nella misura in cui è finalizzata a opere particolari:  caritative, educative, pastorali, missionarie, assistenziali o culturali.
Si comprende, pertanto, come il valore della vita monastica non si ponga nei servizi svolti (diakonia), ma nella vitale testimonianza (martyria) della communio quale segno profetico dell’escatologico regno di Dio.
Le nuove comunità monastiche e le diverse collocazioni continentali mettevano e mettono in discussione certezze che venivano considerate assolute nell’ambito del monachesimo, come l’uso dell’abito quale unica veste del monaco, il gregoriano quale unico canto liturgico (ricordo di Cluny), il lavoro manuale, possibilmente agricolo, quale unico lavoro monastico (ricordo di Cîteaux).
Inoltre, l’universale chiamata alla santità ribadita dal Vaticano II faceva emergere la dignità dello stato laicale rispetto a quello clericale, ma anche il valore e la piena dignità della vocazione del monaco rispetto a quella del monaco-sacerdote, con conseguente sempre maggiore consapevolezza della necessità di un unico percorso formativo.
Gli studi sul monachesimo nel Medioevo, poi, mettevano sempre più in luce un sacerdozio monastico, né ministeriale, né missionario.
Più di recente s’è messo in rilievo come la vocazione monastica si ponga nella stessa linea della vocazione cristiana, fondata sul battesimo, e non come una parte migliore di essa.
“Il monaco si rivela insomma anzitutto come un cristiano posto in permanente tensione critica nei confronti del mondo in cui vive senza identificarvisi mai totalmente, perché vive se stesso come un’attesa di pienezza, una tensione che lo apre a un oltre che si realizzerà soltanto nell’escatologia” (Innocenzo Gargano, Spiritualità monastica oggi).
Si tratta d’una tensione verso e nell’eschaton in cui il monaco non solo attende il “non ancora” dell’incontro definitivo, ma vive il “già” della vita in Cristo.
Il monachesimo, allora, realizza nell’oggi del tempo la propria dimensione profetica quale costante epiclesi-epifania invocazione-manifestazione dello Spirito per fecondare segretamente la storia.
Da rilevare, infine, la notevole richiesta di ospitalità monastica degli ultimi decenni.
Si tratta di un fenomeno che, al di là delle mode e del “consumismo spirituale”, manifesta come la spiritualità d’ispirazione monastica sia in sintonia – o si identifichi – con la spiritualità cristiana tout court, in cui le tre dimensioni  evidenziate  per  l’epoca delle origini – conversatio, communio e caritas – appartengono, in realtà, alla spiritualità monastica di tutte le epoche.
(©L’Osservatore Romano – 6 gennaio 2010)

Battesimo del Signore (Anno C).

BATTESIMO DI GESÙ   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 40,1-5.9-11             «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio.
– Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati».
Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato».  Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
       v I versetti 1-11 del capitolo 40 di Isaia fungono da prologo all’intera sezione della seconda parte di Isaia formata dai capitoli 40-55.
Il brano è pervaso da una grande letizia, fondata sulla fede esaltante nel Dio guida del popolo, suo liberatore e salvatore.
«Consolate, consolate il mio popolo»: Dio comanda di consolare Israele e l’imperativo ripetuto due volte suggerisce l’idea dell’urgenza e della sovrabbondanza della consolazione.
Dio può infliggere il «doppio per tutti i suoi peccati», ma non si dimentica del suo popolo e della sua città e torna a rivolgergli parole di salvezza, che parlano al cuore.
     «Una voce grida»: la voce misteriosa del versetto 3 e le altre, che seguono, si possono considerare l’equivalente poetico della formula profetica il «Signore ha parlato».
Con maggiore efficacia il secondo Isaia al comando diretto del Signore fa seguire in forma diretta le voci, che ne ripetono il messaggio.
     I sinottici per spiegare il compito profetico di Giovanni Battista adoperano le parole di Isaia 40,3 (cf.
Mt 3,3; Mc 1,3; Lc 3,4).
Egli è una voce, che ripete il comando del Signore.
Il Signore, che aveva abbandonato insieme al popolo la sua dimora e lo aveva seguito in esilio, vi fa ora ritorno: per lui, e quindi anche per il popolo, si deve preparare una strada agevole, percorribile con facilità.
Si tratta di una strada «nel deserto», come nel deserto era stata la strada dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa.
«La gloria del Signore» (Is 40,5) si rivelerà di nuovo in tutta la sua potenza, come nell’esodo dall’Egitto, momento fondante tutta la storia di Israele.
     I versetti 6-7, che sono stati tolti dalla liturgia di oggi, incentrata sulla rivelazione di Dio, propongono un intermezzo meditativo sulla distanza fra la fragilità dell’essere umano, paragonato all’erba, e la potenza divina.
Questa meditazione aiuta a capire che l’intervento di Dio nelle vicende umane e in particolare in quelle di Israele, dipende interamente dalla sua scelta misteriosa, dettata dall’amore.
     Il Signore avanza con potenza e domina col suo braccio, ma verso il suo popolo si rivela un pastore amoroso: «egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).
     «Il suo braccio » è l’immagine che esprime il suo intervento di castigo e dominio (cf.
in Esodo l’intervento contro il faraone, ma anche il castigo dell’esilio per il popolo), ma anche di perdono e dono gratuito e sovrabbondante di salvezza.
Dobbiamo sempre tenere insieme nel leggere i profeti per non fraintenderli, i messaggi di salvezza, che dipendono sempre dalla bontà misericordiosa di Dio, da quelli di castigo, che sono volti a riportare Israele sulla via del Signore e non vogliono affatto annientarlo: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29).
  Seconda lettura: Tito 2,11-14;3,4-7             Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta sal­vezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’em­pietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli ap­partenga, pieno di zelo per le opere buone.
Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore no­stro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua mise­ricordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spi­rito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella spe­ranza, eredi della vita eterna.
    v In un breve scritto di occasione, volto ad esortare un pastore e la sua comunità a superare i contrasti interni e a tenere una condotta moralmente irreprensibile, l’autore della lettera a Tito richiama l’insegnamento fondamentale dell’apostolo Paolo: la nostra salvezza dipende interamente da Dio, dalla sua bontà (chrestòtes, amore per gli uomini (philan-tropìa) e misericordia (eléos) (Tt 3,4.5).
     Noi non possiamo vantare nessuna pretesa nei confronti di Dio.
Noi, infatti, eravamo «insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degno di odio e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3).
Noi dobbiamo solo accogliere con gratitudine il dono di Dio e rispondere con una condotta che sia conforme alla chiamata di Dio e alla nuova vita che Dio ci ha donato gratuitamente.
     «È apparsa (epiphàne Tt 2,11; 3,4) la grazia di Dio» apportatrice di salvezza per tutti gli esseri umani.
Il greco anthropos comprende uomini e donne senza differenze sessuali (a differenza da aner usato solo per uomo e arsen maschio).
Si tratta di una vera e propria rivelazione, di un intervento fattivo di Dio, che, anche se apparentemente lascia tutto come prima, in realtà ha trasformato la situazione.
     L’incontro di Dio con gli uomini è un incontro potente e rinnovante.
L’autore della lettera attribuisce la stessa potenza salvifica dell’«apparizione» di Dio a Gesù Cristo «nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo».
Si rinnova in lui il miracolo più volte avvenuto nella storia dell’umanità primitiva e in particolare in quella del popolo di Israele dell’intervento salvifico di Dio.
     In questo caso, la salvezza, data in dono gratuito, è legata al battesimo «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo».
I battezzati sono esseri nuovi, che vivono nello Spirito di Dio «effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo».
     La manifestazione della grazia di Dio, effusa per suo volere e senza meriti umani, è, però, strettamente legata all’educazione a fare opere buone.
Questo è un insegnamento tradizionale dell’ebraismo.
La Torà è la «rivelazione-dono» per eccellenza di Dio.
Non possiamo staccare la fede alle opere ammonisce la lettera di Giacomo, che accomuna Abramo che ha creduto, con Raab, la meretrice, salvata per la sua ospitalità (cf.
Ge 2,21-25).
A proposito di Abramo, il modello della fede per eccellenza, fra le diverse parole a lui rivolte da Dio leggiamo: «Io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso» (Gen 18,19).
È Dio che ha scelto Abramo, ma tale scelta comporta una risposta pronta e lo «zelo» per i comandi del Signore.
     Il giudizio finale, secondo il Vangelo di Matteo sarà sulle opere compiute, anche senza il riconoscimento del Signore (cf.
Mt 25,31-37), mentre la conoscenza, senza le opere è motivo di condanna: «Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).
Dobbiamo tenere insieme i due poli del messaggio biblico: l’insistenza sull’iniziativa gratuita di Dio e il richiamo pressante a mettere in pratica i suoi precetti.
     Fra le tante osservazioni che si possono fare sul brano della lettera a Tito scelto per la liturgia di oggi, merita particolare attenzione l’espressione «nella speranza».
Siamo stati giustificati dalla grazia di Gesù Cristo e siamo diventati eredi della vita eterna, ma secondo la speranza.
     La salvezza rivelata da Gesù non è ancora quella definitiva, che non si può più perdere e che si manifesta in gloria e potenza per tutte le creature.
«I cieli nuovi e la terra nuova» sono ancora sperati.
Il regno del nostro Dio ci è dato nel segno della speranza: la sua manifestazione definitiva è nascosta nel mistero della benevolenza di Dio; a noi spetta il grande compito di testimoniare che il dono del regno ci è stato dato, dobbiamo rendere visibile la nostra speranza.
Dobbiamo comportarci da cittadini del regno secondo la condotta dettata dai comandamenti divini.
  Vangelo: Luca 3,15-16.21-22             In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
    Esegesi      Il vangelo di Luca nei versetti 14-16 ci presenta il popolo che è in attesa del messia (l’«unto», christòs in greco).
Coloro che erano accorsi ad ascoltare la predicazione di Giovanni e a ricevere il suo battesimo di purificazione come segno dell’inizio della conversione (metanoia in greco, teshuvà in ebraico), si chiedevano se non fosse proprio lui il Messia.
     Si tratta di una piccola parte degli ebrei di allora, ma Luca parla del popolo in generale e dice «tutti» si ponevano la domanda sul messia e Giovanni risponde a «tutti».
A lui interessa il popolo nella sua dimensione collegiale: al versetto 21 sottolinea: «mentre tutto il popolo veniva battezzato».
È «tutto il popolo» che in analogia all’avvenimento del Sinai forma per così dire il luogo della rivelazione divina.
Gesù, che in Luca è il destinatario della rivelazione: «Tu sei il Figlio mio, l’amato», appare pienamente inserito nel suo popolo Israele.
Senza Israele non c’è la rivelazione del Padre di Gesù Cristo; se stacchiamo Gesù dal suo popolo, suggerisce l’evangelista, non comprendiamo nulla di Lui, perché il Dio, che al battesimo lo consacra «l’amato» con l’investitura dello Spirito Santo, è lo stesso Dio della rivelazione del Sinai a «tutto il popolo», col quale ha stipulato l’alleanza (cf.
Es 24,3; 34,10).
     Giovanni si premura di togliere ogni dubbio sulla sua identità e per chiarire la distanza fra sé e il Messia usa il detto popolare, assai efficace, che egli non è degno neppure di «slegare i lacci dei sandali».
Un’altra caratteristica rilevante del Vangelo di Luca, rispetto al rac-conto analogo degli altri due sinottici, è il legame fatto fra la rivelazione divina e la preghiera di Gesù.
     «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì…» (Lc 3,21-22).
Il Vangelo di Luca mette spesso in rilievo la preghiera di Gesù: «Ma Gesù si ritirava in luoghi deserti e pregava» (Lc 5,16; cf.
Mc 1,35; Lc 6,12; 9,18; 11,2); «in preda all’angoscia Gesù pregava più intensamente» (Lc 22,44); egli si affida al padre appena prima di esalare l’ultimo respiro (Lc 23,46).
     Prima della trasfigurazione, narrazione che si accosta a quella del battesimo, «Gesù salì sul monte a pregare.
E mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto…» (Lc 9,29).
     La preghiera crea la situazione adatta alla rivelazione e nello stesso tempo ci presenta Gesù nella sua piena umanità, bisognoso di affidarsi al padre per comprendere quale sia la sua missione e per portarla a compimento con coraggio.
     Il battesimo è il momento della consacrazione di Gesù, attraverso la quale egli diviene Cristo, cioè unto, messia: «Dio unse (chriò) in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò benedicendo e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38).
Questa consacrazione si presenta come una nuova nascita, resa possibile dalla discesa dello Spirito e dalla manifestazione della paternità divina.
Gesù stesso sperimenta una nuova nascita dall’alto per opera dell’acqua e dello Spirito, secondo le parole del vangelo di Giovanni (cf.
Gv 3,3-6).
Egli inizia al Giordano la strada che indicherà a tutti i discepoli, chiamati ad essere figli di Dio attraverso il dono dello Spirito Santo.
     Meditazione      Il racconto di Luca si apre oggi con l’immagine di un popolo ‘in attesa’ (cfr.
Lc 3,15).
Sembra essere stata questa la missione fondamentale del Battista: suscitare un’attesa e nello stesso tempo distoglierla dalla propria persona per orientarla verso il ‘più forte’ che deve venire (cfr.
v.
16).
È l’attesa che si compiano le promesse dei profeti, quelle che ci vengono ad esempio ricordate da Isaia nella prima lettura: che Dio consoli il suo popolo e che ogni uomo possa vedere il rivelarsi della sua gloria.
Solo chi attende può giungere ad ascoltare la voce che annuncia: «Ecco il vostro Dio!» (cfr.
Is 40,9).
     Nello stesso tempo questa attesa deve rimanere disponibile a lasciarsi purificare e convenire dalla parola del Signore.
Dio infatti compie le sue promesse e colma le nostre attese in modo sempre sorprendente, a volte persino sconcertante.
Giovanni aveva annunziato il venire di uno più forte di lui, che avrebbe battezzato non semplicemente con acqua, ma in Spirito Santo e fuoco.
Eppure, la prima immagine che l’evangelista ci offre di Gesù, dopo il vangelo dell’infanzia, ce lo mostra nel momento in cui ha ricevuto, come tutti gli altri, il battesimo d’acqua da Giovanni.
Il più forte è in mezzo al suo popolo, confuso tra i peccatori, insieme ai quali si è sottoposto al medesimo rito di penitenza e di purificazione.
Chi può battezzare in Spirito Santo e fuoco non si sottrae al battesimo d’acqua di Giovanni.
Ma è proprio mentre è in mezzo al suo popolo, disposto a scendere radicalmente nella fraternità dei peccatori, che Gesù vede il cielo aprirsi, accoglie lo Spirito che scende su di lui, ascolta la voce del Padre che lo conferma nella sua singolare identità:  «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v.
22).
     Tutto in questa scena è in discesa.
Gesù discende dal nord della Galilea verso il sud, dove Giovanni battezza.
Discende nella depressione del Giordano, che scorre circa 400 metri sotto il livello del mare, probabilmente il punto più basso della terra che un uomo possa raggiungere camminando sulle sue gambe.
Una volta giunto al Giordano discende nelle sue acque e soprattutto si immerge nella fraternità dei peccatori.
Ed è in questo cammino di umiltà e di discesa che può vedere il cielo aprirsi e ascoltare la voce del Padre.
Nella scena seguente, che racconta la prova nel deserto, il diavolo farà compiere a Gesù il cammino opposto: dapprima lo condurrà «in alto» (cfr.
Lc 4,5), poi a Gerusalemme lo porrà «sul punto più alto del tempio» (cfr.
Lc 4,9), ma in questa altezza, anziché ascoltare la voce di Dio, si rischia di ascoltare soltanto le suggestioni di Satana.
Per ascoltare la voce di Dio occorre invece percorrere un cammino di discesa, nell’umiltà e nell’obbedienza.
Più volte Gesù ripeterà nei vangeli che chi si umilia sarà esaltato, e chi si innalza sarà umiliato.
Sarebbe riduttivo intendere queste espressioni solamente a un livello morale, o peggio moralistico.
Evocano piuttosto l’autenticità dell’esperienza di Dio, che è sempre un’esperienza pasquale.
Quando raggiungi il punto più basso del tuo cammino esistenziale, quando sei gettato a terra o dal tuo stesso peccato, o dalla violenza che puoi subire da altri, allora incontri lì il Dio della Pasqua che ti rialza e ti dona una vita nuova.
Sarà questa l’esperienza pasquale di Gesù: gettato nella polvere della terra e della morte, disceso nell’oscurità del sepolcro, accoglierà la potenza dell’amore del Padre che lo farà risorgere, innalzandolo nel più alto dei cieli.
Nel suo battesimo Gesù anticipa quella che sarà la sua Pasqua.
Immergendosi nella fraternità dei peccatori, scendendo con loro, lui l’unico giusto, nell’esperienza del peccato e dell’umiliazione in cui il peccato ci getta, ascolterà il Padre che gli dice: «Tu sei il mo Figlio, l’amato».
In questo modo Gesù capovolge la logica perversa di Caino, il figlio primogenito che vuole rimanere solo, e per questo elimina Abele.
Al contrario Gesù è il figlio Unigenito che non vuole rimanere solo, ma ci vuole in lui tutti fratelli e figli dello stesso Padre, e per questo dona la sua stessa vita fino alla Croce, nell’attesa di riceverla rigenerata dall’amore di Dio.
     Il cammino pasquale di Gesù è già tutto incluso nelle parole che ascolta presso il Giordano, molto essenziali ma incredibilmente ricche di contenuto.
Almeno tre testi del Primo Testamento vi risuonano.
«Tu sei mio figlio» evoca il Salmo 2: «Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio”» (v.
7).
«L’amato» riprende, nel testo greco, lo stesso termine che nel Primo Testamento risuona solo in Genesi 22 a proposito di Isacco, che viene definito il figlio ‘amato’ di Abramo (cfr.
Gen 22,2).
«In te ho posto il mio compiacimento» cita le espressioni iniziali del primo canto del servo sofferente del Signore che leggiamo in Isaia 42: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui» (v.
1).
Tutta l’identità di Gesù è qui delineata, l’intero suo cammino storico e pasquale già trat-teggiato.
Gesù è il Figlio unigenito che dovrà vivere la sua identità filiale facendosi servo nella forma di Isacco.
Lui è il vero Isacco di Dio, il figlio che non viene chiesto ad Abramo, ma che Dio stesso offre per la salvezza di tutti.
È lui il vero capretto donato da Dio, l’Agnello di Dio offerto in sacrificio perché ogni uomo possa vedere la salvezza del Signore.
     «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», promette Giovanni.
Ci farà condividere, cioè, la sua stessa esperienza pasquale, rendendoci partecipi della sua morte per condividere con noi la potenza della sua risurrezione e la novità della sua vita.
«L’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo», come Paolo definisce il battesimo nella lettera a Tito (3,5), ci consente di ascoltare insieme a Gesù le parole del Padre come rivolte personalmente a ciascuno di noi.
Anche a noi Dio dona il suo Spirito, che è lo Spirito del Figlio, e ci conferma il suo amore di predilezione e il suo compiacimento.
La condizione per ascoltare questa parola di Dio rimane anche per noi la disponibilità a vivere, come Gesù, un cammino di discesa, di umiltà, di obbedienza.
Solo così la nostra attesa sarà colmata, e potremo riconoscere, come sempre Paolo scrive a Tito, che «egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia» (3,5).
  Preghiere e Racconti   Battesimo di Cristo come metafora «Un tentativo di rendermi conto dell’amore di Dio è stato per me la meditazione sul battesimo di Gesù (Lc 3,21s.).
Gesù si cala nel Giordano, nell’acqua che è carica della colpa dei molti che si sono fatti battezzare nel fiume da Giovanni.
Mentre entra in acqua, il cielo si apre sopra di lui.
E Dio gli dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».
Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho sovrapposto consapevolmente la frase «Tu se il mio figlio prediletto» alla paura, all’oscurità, al fallimento, alla mediocrità, alla menzogna esistenziale in me.
Ho tentato di calarmi nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre in cui ho rimosso tutto quanto fugge alla luce del sole, ciò che non mi va di guardare alla luce del giorno.
Per me è una bella immagine del battesimo di Gesù il fatto che il cielo sopra di lui si sia aperto proprio quando egli si è calato nelle profondità del Giordano.
Il cielo vuole aprirsi anche sugli abissi della mia anima.
Ma devo avere il coraggio di calarmi in tali abissi, per percepire là in fondo, con un suono nuovo, le parole: «Tu sei il mio figlio prediletto»; «Tu sei la mia figlia prediletta».
Solo quando ho sovrapposto alla mia esistenza concreta la frase secondo cui sono il figlio prediletto, essa mi ha toccato nell’intimo, donandomi la pace interiore.
Ogni parlare che si fa dell’amore di Dio ci lascia indifferenti se non giunge alle esperienze della nostra vita quotidiana.
Gesù si cala nei flutti della colpa, nell’inconscio, nella pulsionalità, negli elementi della terra, come lo rappresentano sempre le icone.
Calandosi in essi, prega tanto intensamente che il cielo si apre sopra di lui, che quanto è essenziale prorompe e la luce di Dio risplende sopra di lui.
È un profondo desiderio anche mio quello di saper pregare in modo tale che il cielo si apra sopra di me, che l’amore di Dio rifulga nelle profondo del mio inconscio, negli abissi della mia colpa.
E anelo a saper pregare anche per gli altri, in modo tale che il cielo si apra sopra di loro.
Pregare significa aprire il cielo sopra le persone, in modo che sia loro consentito di sentire il rapporto con Dio come la loro unica salvezza.
Gesù sente dal cielo aperto la voce di Dio che è rivolta a lui: «Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11).
Questo è anche il mio anelito più profondo, l’essere il figlio prediletto di Dio, non essere rispettato, ammirato e amato solo dagli esseri umani, bensì da Dio, la causa prima di ogni esistenza, il creatore del mondo».
(A.
GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 20-23).
La parola è “Amato” […] Come cristiano, ho scoperto per la prima volta questa parola nella storia del battesimo di Gesù di Nazareth.
«Non appena Gesù uscì dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba.
E sentì una voce dal cielo: “Tu sei mio Figlio, l’Amato, in te mi sono compiaciuto”».
[…] Sì, è quella voce, la voce che parla dall’alto e da dentro i nostri cuori, che sussurra dolcemente o dichiara con forza: “Tu sei il mio Amato, in te mi sono compiaciuto”.
Non è certamente facile ascoltare quella voce in un mondo pieno di altre voci che gridano: “Tu non sei buono, sei brutto; sei indegno; sei da disprezzare, non sei nessuno – e non puoi dimostrare il contrario.”.
Queste voci negative sono così forti e così insistenti che è facile credere loro.
Questa è la grande trappola.
È la trappola del rifiuto di noi stessi.
(Henri J.M.
NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 23-24).
  La lotta spirituale come esigenza battesimale La lotta spirituale è organica alla vita cristiana tout-court: essa riguarda tutti i cristiani, non certo solo i monaci o altre “categorie” di iniziati…
La necessità di tale lotta discende dal battesimo, è inerente la vita cristiana in quanto tale, e questo secondo tutto il NT e la tradizione cristiana.
Il NT definisce «bella» questa lotta (1 Timoteo 1,18; 6,12; 2 Timoteo 4,7), cioè positiva, di altro ordine rispetto alle guerre e contese mondane, ma altrettanto dura ed esigente.
È la «lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), insita cioè nell’adesione a Cristo e nella sua sequela, e riguarda ogni cristiano: essa infatti è connessa al battesimo, che sigilla la conversione, la rottura con il paganesimo e immette in una nuova vita.
Per Paolo, il rivestirsi di Cristo nel battesimo comporta l’impegno di rivestirsi di un abito di vita rigenerata per entrare nella gloria di Dio, e poiché ciò non è realizzabile senza una continua tensione morale che si può paragonare ad una lotta o ad un combattimento, con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, ad indossare cioè quelle che Paolo chiama «armi della giustizia» (Romani 6,13-14) e «armi della luce» (Romani 13,12).
Si tratta delle armi della fede, della preghiera, dell’ascolto della Parola di Dio, della docilità all’azione dello Spirito, che consentono al credente di veder agire in sé la forza di Dio stesso.
Come Gesù, appena battezzato, ha affrontato l’assalto di Satana e ha combattuto le tentazioni (cfr.
Matteo 4,1-11; Luca 4,1-13; Marco 1,12-13), così il cristiano dovrà attendersi, dopo il suo battesimo, una dura lotta contro l’Avversario.
Chiamato a entrare per la porta stretta (Luca 13,24), posto di fronte all’impossibilità di servire due padroni (Luca 16,13), il battezzato, cosciente dell’urgenza dell’ora escatologica instaurata dal Signore Gesù, deve attuare una scelta di campo mettendosi a servizio di Dio e non del peccato (Romani 6,12-14).
Il NT definisce il cristiano «soldato di Gesù Cristo» (2 Timoteo 2,3) e afferma che deve sforzarsi di «piacere a chi l’ha arruolato» (2 Timoteo 2,4).
Questa lotta assicura l’incessante dinamismo della vita cristiana ed è diretta contro «il peccato che ci assedia» (Ebrei 12,1), contro «il Maligno» (Efesini 6,16), contro quelle potenze indicate con nomi differenti (Efesini 6,12), ma che designano cumulativamente quelle forze negative, presenti nell’uomo e fuori di lui, che tendono a far ricadere il cristiano nella situazione pre-battesimale.
È dunque una lotta che si combatte con armi spirituali: vigilanza e perseveranza (Efesini 6,18; Ebrei 12,1), sobrietà (1 Tessalonicesi 5,6.8), temperanza (I Corinzi 9,25), rinuncia e dominio di sé (1 Corinzi 9,27), capacità di soffrire per il Signore (Filippesi 1,29-30; Ebrei 10,32-33), pazienza ed esercizio alla pietà (1 Timoteo 4,8), e soprattutto preghiera (Efesini 6,18-20; cfr.
Sapienza 18,21).
Il messaggio neotestamentario è dunque esplicito sul carattere battesimale di questa lotta: vi è un rigoroso aut-aut che accompagna il cristiano nella sua vita e che gli contesta qualsiasi compromesso con la mondanità e con il peccato.
È la vita cristiana stessa che è una battaglia, una lotta: essa esige lotta contro le tentazioni, ascesi della mente e del corpo per acquisire il necessario dominio di sé, la vigilanza costante sulle relazioni con sé e con gli altri, la disciplina del tempo e degli impegni, la purificazione delle relazioni.
Contro che cosa si combatte? Possiamo riprendere le parole di Ilario di Poitiers che, scritte nel corso di quel IV secolo che ha visto il progressivo passaggio del cristianesimo dalla condizione di religione dei martiri a religione ufficiale, di Stato, si adattano molto bene alla nostra attualità: «Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga…
Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci da la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro» (Ilario di Poitiers , Liber contra Constantium, 5).
(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI /PIEMONTE-VALLE D’AOSTA, Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 139-140.
Il battesimo di Gesù I nuovi tempi sono già iniziati, i tempi nuovi che il mondo attendeva fin dall’origine, gli ultimi tempi: e fu la voce dal cielo a bandirli.
  «Questi è il mio Figlio, l’amato da sempre, nel quale ho posto la mia compiacenza»: così è spuntata l’aurora del mondo e fu l’inizio di nuova creazione.
  Ma tu sei venuto a battezzarci in Spirito santo e fuoco: non vale l’acqua soltanto ma l’acqua e il sangue che sgorga dal tuo costato, Signore: così sia il nostro battesimo affinché i cieli si aprano anche su di noi.
Amen.
  E cielo e fiume insieme si aprirono: è il nuovo esodo e il patto per sempre! Come colomba lo Spirito scese e fu la quiete seguita al silenzio.
  David Maria Turoldo          Preghiera Ancora e sempre sul monte di luce                                    Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
  Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
  In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
  Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
  Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.
M.
Turoldo)   * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
 

1º GENNAIO 2010: MARIA SS. MADRE DI DIO.

SANTA  MADRE DI DIO   Lectio Anno c     Prima lettura: Numeri 6,22-27        Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca.
     Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
       v La formula di benedizione che i sacerdoti devono ripetere è composta da tre stichi ciascuno dei quali comprende due emistichi.
Nella prima parte di ogni verso è ripetuto il nome ineffabile JHWH, che dà solennità al contesto e nello stesso tempo sottolinea che proprio da Dio viene ogni benedizione.
Secondo una tradizione ebraica tutte le volte che nella Bibbia compare questo nome si intende sottolineare l’attributo della misericordia di Dio (cf.
Es 34,5-6).
Nella benedizione la misericordia e la condiscendenza del Signore sono sperimentate in modo eminente.
La benedizione del Signore è un atto della sua grazia misericordiosa, del suo beneplacito.
     Il Signore ha l’iniziativa e «custodisce» il popolo che si è scelto, ma l’avverarsi concreto della benedizione è anche legato strettamente alla risposta degli uomini e delle donne di Israele, che hanno accettato il patto e si sono impegnati a metterne in pratica le norme (cf.
Deut 28,2-14).
     L’auspicio dell’azione favorevole e premurosa del Signore del v.
24 è rafforzato dalle metafore dei due versetti seguenti.
L’immagine della luce del volto come simbolo di felicità in contrapposizione al volto «oscuro», simbolo di lutto di tristezza, di sfiducia è un’immagine comune trasferita a Dio.
Spesso, soprattutto nei Salmi, si usano le immagini del «mostrare il volto» e «nascondere il volto», da parte di Dio per indicare i frutti della felicità o dell’infelicità.
     La faccia, lo sguardo di Dio rivolto in maniera favorevole è portatore di pace (shalom), vale a dire liberazione da ogni male e concordia totale fra gli uomini, le donne, le creature e l’intero creato.
     Il versetto 27 ci mostra come la triplice invocazione divina fa parte di un atto liturgico: i sacerdoti, mentre pronunziano il nome del Signore, alzano le mani verso l’assemblea con un gesto che accompagna e illustra agli occhi del popolo le parole pronunciate: «Voi mettete il mio nome sopra il popolo ed io vi benedirò».
     Il salmo 67 (66) riprende le immagini della benedizione sacerdotale e le mette in bocca ai fedeli come invocazione.
     La pietà e la benedizione del Signore, illustrate con lo splendore del volto del Signore, come nelle parole che Dio mette in bocca ai sacerdoti, sono invocate da Israele come segno per le genti (gojim).
La luce del volto del Signore si trasforma in radice di «conoscenza» per tutte le genti (cf.
Is 11,9).
Questa conoscenza è un’esperienza complessa fatta di intelligenza, di sentimento, di volontà e di azione destinata a tutta la terra; essa ha un oggetto preciso, la via di Dio cioè la sua stessa vita, i suoi progetti, il suo comportamento amoroso e benefico (Sal 77,14; 138,5; 98,2); tale infatti è l’accezione dell’ebraico derek «via» e tale è il senso suggerito dal parallelo « salvezza ».
     La via e la salvezza del Signore operanti in Israele vengono ora profeticamente annunziate al mondo intero.
Israele è perciò il testimone privilegiato e l’apostolo dell’amore divino per l’intera umanità.
Il coro universale dei popoli è invitato ad associarsi al cantico che si leva da Israele.
L’antifona del Salmo presuppone una risposta positiva delle nazioni.
Esse hanno visto la benedizione di Dio ad Israele, ed essa viene riconosciuta come opera di Dio.
Il Dio di Israele è riconosciuto Dio di tutte le nazioni, che egli governa e giudica con giustizia.
Dalla conoscenza di Dio nasce da parte dei popoli la risposta a Dio, risposta di lode, di ringraziamento, di «benedizione», tipica della tradizione di Israele.
     Alla conoscenza e alla lode subentra ora la gioia universale espressa attraverso due verbi classici della felicità quello dell’esultanza interiore (samah) e quello dell’esaltazione frenetica (ranan).
Sembra quasi di assistere all’apertura di un’era messianica (cf.
Is 9,1-2).
Egli è colui che «giudica con rettitudine»; il giudizio giusto è l’attività politica primaria del vero sovrano (Is 11,3-4).
Dio ha nelle sue mani tutta la trama della storia…
L’umanità intera in un entusiasmo universale (Sal 48,12; 97,8) e cosmico (96,11-13; 98,7-9; 99,4; 148) celebra la via storia del Signore, cioè il suo progetto giusto contro cui si accaniscono gli empi.
     L’umanità percepisce il primato trascendente di Dio.
Si potrebbe allegare a commento la mirabile dichiarazione dell’inno a Sion di Is 2,3: «Verranno molti popoli e diranno:.
venite saliamo al monte di JHWH, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri» (cf.
G.
RAVASI, Il Libro dei Salmi, vol.
II, EDB 1983, p.
355s).
  Seconda lettura: Galati 4,4-7     Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.  E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
    v I pochi versetti della lettera ai Galati che la liturgia ci fa leggere oggi ci aprono qualche spiraglio nella comprensione del mistero della persona di Gesù e della sua opera di salvezza.
«Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio» (Gal 4,4).
Che significa la «pienezza del tempo»? È un’immagine per esprimere il tempo in cui la storia si incontra con l’azione diretta di Dio.
Siamo di fronte al paradosso dell’incontro del tempo con l’eterno di Dio; c’è un intervento diretto di Dio nella storia, che però lascia che la storia continui ancora con il suo divenire fatto di bene e di male.
Siamo in un momento dentro e fuori del tempo stesso.
Un paradosso strettamente legato all’immanenza di Dio, che però non viene meno alla sua trascendenza, e insito nell’incarnazione del Verbo, Figlio di Dio di cui sta parlando Paolo.
     Dio ha mandato suo Figlio, che è Dio come Lui, ma è «nato da donna» è quindi creatura umana.
È «nato sotto la legge», cioè è nato ebreo, appartenente al popolo di Dio, «per riscattare quelli che erano sotto la Legge» cioè gli ebrei.
     Paolo ha smesso qui i toni polemici verso la legge, che si avverano in altre parti della lettera.
Là infatti si trattava di distogliere i cristiani da interpretazioni indebite dei precetti della legge, qui, invece, egli usa il termine «sotto la legge» come sinonimo di ebreo, la cui identità non è definibile a prescindere dal riferimento alla legge (Torah) di Dio.
Paolo si limita a rilevare dei dati di fatto, senza commentarli.
Dio ha mandato suo Figlio, lo ha fatto nascere ebreo e gli ha dato una missione nei confronti degli ebrei.
Quando si riflette sulla persona di Gesù e la sua missione non si può prescindere da questi dati.
     Il fine ultimo della missione di Gesù «perché ricevessimo l’adozione a figli» passa, per volere di Dio, attraverso il farsi uomo ebreo, per riscattare gli ebrei, da parte del Figlio.
Chi trasforma gli uomini e le donne in figli e figlie di Dio è lo Spirito del Figlio, donato dal Padre.
Si tratta di un mutamento profondo, che Paolo qui sintetizza nella capacità di rivolgersi a Dio come Padre, con completa fiducia e in piena libertà.
  Vangelo: Luca 2,16-21         In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori.
Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.          Esegesi      Il brano che leggiamo oggi ci presenta due episodi distinti: l’incontro dei pastori col neonato Gesù (Lc 2,16-20) e la sua circoncisione (21).
Come Maria (Lc 1,39) raggiunta dall’annuncio dell’angelo, i pastori vengono «affrettandosi» (Lc 2,16; cf.
19,5-6); essi hanno intuito che sono stati raggiunti da un invito divino, a cui bisogna rispondere subito, senza indugi.
     I pastori trovano Maria, Giuseppe e il neonato posto in una mangiatoia (brefos keimenon ev te fante Lc 2,16), che è il «segno» indicato dall’angelo; perché potessero riconoscere la verità delle loro parole (Lc 2,12).
     I pastori raggiunti dall’annuncio e avutane la conferma, si fanno a loro volta annunciatori.
Quanti ascoltano sono presi da stupore mentre i pastori, reagiscono lodando Dio per quello che hanno «udito e visto».
     L’ascolto è il modo normale di accostarsi alla rivelazione divina, la fede scaturisce dall’ascolto della parola ed è fede autentica quando c’è la risposta.
     All’«udire» viene da Luca affiancato anche un «vedere», che è un vedere interiore, non l’esperienza di un prodigio strepitoso.
È comunque un’esperienza coinvolgente, e chi la prova sente l’esigenza di condividerla con i vicini.
     Gli atteggiamenti sottolineati nel momento dell’annuncio e conseguenti all’intuizione che si tratta di una rivelazione divina, nei pastori e nei loro uditori sono: lo stupore, il bisogno di condivisione e l’atteggiamento di lode verso il Signore.
     Per riuscire, però, a leggere interiormente quanto si è «udito e visto» bisogna aggiungere l’atteggiamento di Maria, che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.
51).
Anche Maria aveva provato stupore, era corsa in fretta a «vedere il segno», che le aveva indicato l’angelo, aveva fatto partecipe Elisabetta della sua rivelazione e aveva innalzato le lodi del Signore.
Tutto questo deve però diventare vita di tutti i giorni e per riuscire a farlo con lo stesso spirito e sicuri di fare la volontà del Signore bisogna meditare continuamente la parola di Dio e applicarla alle nuove situazioni.
     Il versetto 21 ci porta in un’altra scena, di cui è protagonista la famiglia di Gesù: la circoncisione, narrata da Luca come una assoluta normalità.
In base a quanto è prescritto dalla legge (Gen 17,12; 21,4; Lev  12,3) all’ottavo giorno viene circonciso Gesù.
Con questo gesto Gesù viene introdotto a pieno titolo nel popolo della «santa alleanza».
     La circoncisione infatti trae origine dall’alleanza (Gen 17,10-11) ed è il modo con cui essa si prolunga di generazione in generazione: «Così la mia alleanza sussisterà, nella vostra carne quale alleanza perenne» (Gen 17,13).
Alludono a questo significato profondo della circoncisione le parole dell’inno che Luca mette in bocca a Zaccaria, quando riprende la parola in occasione della circoncisione di Giovanni.
     Egli benedicendo il Signore per i suoi doni dice fra l’altro: «Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua alleanza santa (diatheke haghia), del giuramento fatto ad Abramo nostro padre…» (Lc 1,72-73).
     Al momento della circoncisione viene scelto il nome del bambino, che, come per Giovanni (Lc 1,31), è il nome indicato dall’angelo.
Questa annotazione ci indica che si tratta di un bambino sul quale la presenza e l’appartenenza a Dio è particolare e il suo futuro è segnato completamente da questa appartenenza.
I genitori, rinunciando a scegliere il nome, si mostrano pronti a rispettare la volontà di Dio sul bambino.
     Meditazione      Due tematiche confluiscono nella liturgia odierna.
A otto giorni dalla celebrazione del Natale, questa solennità riprende la rivelazione della Parola fatta carne nel mistero della nascita del Figlio di Dio, concentrando in particolare l’attenzione sulla divina maternità di Maria (la Theotokos, secondo l’antica formula coniata dal concilio di Efeso del 431).
Ma collocata all’inizio dell’anno civile, questa festa, attraverso i testi liturgici e scritturistici, assume anche una particolare connotazione ‘augurale’, strappando l’inizio di un nuovo anno ad una pura successione cronologica per collocarlo all’interno del tempo stesso di Dio, tempo di pienezza e di compimento.
Queste due tematiche non sono semplicemente giustapposte; il linguaggio simbolico-liturgico ha la forza di congiungerle e rivelarci così una particolare visione teologica del tempo che ogni credente è chiamato a vivere.
Il tempo di Dio è un tempo di salvezza, un tempo compiuto; ma salvezza e compimento hanno un nome e un volto Gesù Cristo.
Come ci ricorda Paolo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge…
perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4).
     La liturgia della Parola mette in rilievo un’espressione biblica che rivela in modo sorprendente questa irruzione del tempo di Dio nel tempo dell’uomo.
Si tratta del concetto di benedizione.
«Ti benedica il Signore e ti custodisca…»: così inizia la solenne benedizione di Nm 6,22-27, scelta dalla odierna liturgia come prima lettura.
Nel linguaggio scritturistico, la benedizione di Dio non è un semplice augurio carico di sacralità e neppure comunica solo una particolare appartenenza di una realtà (persona, spazio, tempo) al mondo di Dio (come una ‘consacrazione’).
Indica piuttosto un’azione di Dio che porta l’uomo alla pienezza e alla felicità.
L’uomo benedetto da Dio è colui che sa vivere le relazioni con le varie dimensioni della vita nella prospettiva stessa di Dio e, in un certo senso, è testimone di Dio.
La sua riuscita nella vita è la prova che Dio è con lui, che agisce nel mondo e vuole il pieno sviluppo dell’uomo.
Il testo di Nm 6 usa alcune immagini per esprimere questa relazione positiva tra Dio e uomo.
La benedizione diventa così la consapevolezza di essere custoditi da Dio (v.
24) e di essere guardati nella totale gratuità (v.
25), uno sguardo che è sorgente di vita e di pace (v.
26).
Ed è proprio la pace (altro tema che si inserisce in questa festa liturgica) la pienezza dei beni che Dio offre all’uomo.
     Tuttavia una vita contrassegnata dal successo e dalla felicità non è automaticamente prova decisiva di amicizia con Dio.
Già la Scrittura è consapevole della ambiguità di questi segni (cfr.
tutta la visione presente nel libro di Giobbe).
La benedizione di Dio attraversa tutta la storia di Israele, e dell’umanità intera, aprendo orizzonti sempre più vasti e lasciando intravedere una pienezza che è data dalla scelta di Dio stesso di abitare con l’uomo.
Il frutto maturo dell’alleanza, la pienezza di ogni benedizione è Gesù.
Così si esprime Elisabetta nell’incontro con Maria: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo» (Lc 1,42).
È il frutto del grembo di Maria colui che riceve la pienezza di ogni benedizione.
E in Maria, in colei che ha dato al Figlio di Dio il volto dell’uomo, è l’umanità intera che riceve, nella gratuità, il compimento di ogni dono che scende dall’alto.
Veramente in Cristo, il Padre «ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli» (Ef 1,3).
E, come ci ricorda Paolo in Gal 4,4, il tempo in cui Dio ha pienamente benedetto l’uomo in Gesù (la pienezza del tempo) diventa luogo in cui noi possiamo continuamente fare esperienza di ogni benedizione.
     In questa prospettiva si può allora leggere il testo di Lc 2,21.
Il compimento dell’ottavo giorno, quello prescritto dalla legge di Mosè per la circoncisione, diventa soprattutto il giorno segnato da un nome: «gli fu messo il nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo» (Lc 2,21; cfr.
anche 1,31).
Gesù è un nome che viene dall’alto ed indica il compiersi della salvezza.
E proprio qui è custodita la benedizione di Dio: nella salvezza donata in Cristo, attraverso la quale viene comunicata all’uomo la vita stessa di Dio, anzi viene rivelato all’uomo il suo nome più vero, quello di essere figlio nel Figlio.
L’ottavo giorno è, simbolicamente, il nostro tempo, quella pienezza del tempo con la sua inesauribile carica di benedizione che perdura, nel mistero della Chiesa, sino alla venuta di Cristo.
In questo tempo ogni uomo può entrare in relazione con Dio «nel nome di Gesù» (è la realtà profonda del battesimo) e in lui riceve ogni ‘benedizione’.
     Possiamo allora dire che la liturgia, collocando questa pienezza di benedizione all’inizio dell’anno, quando riprendiamo in qualche modo il cammino di fronte al tempo, ci offre uno sguardo di speranza.
     È anzitutto la speranza in un Dio che ci chiama ad essere suoi figli, che ci accoglie presso di lui e ci dona la sua comunione: ci ha donato ciò che ha di più caro, il Figlio; ci ha donato la sua stessa vita nello Spirito; è continua a farlo a ciascuno di noi, ad ogni uomo, con il suo perdono, con il suo desiderio di vedere tutta l’umanità radunata alla sua mensa, nel suo Regno.
Ma è anche la speranza che hanno saputo vedere i pastori nel volto del bambino a Betlemme e hanno saputo comunicarla nella lode e nella gioia.
I pastori ci insegnano che la speranza che siamo chiamati ad annunciare (l’evangelo) non è così evidente: solo se si va senza indugio e se si hanno occhi per vederla, questa speranza si disvela a noi.
La speranza che dobbiamo cercare è quella di Dio, è quella del bambino di Betlemme.
E Dio preferisce nascondere la sua speranza come un seme: non nella potenza o nella grandezza (questa è la speranza degli uomini), ma nell’umiltà di un inizio che porta in sé tutta la bellezza e la novità di un compimento.
Colui che è benedetto è veramente testimone di questa speranza: «riferirono ciò che del bambino era stato detto loro…
I pastori se ne tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto» (Lc 2,17.20).
     E, infine, possiamo imparare da Maria a vivere di questa speranza.
«Maria – ci testimonia Luca – custodiva queste cose, meditandole nel suo cuore» (v.
19).
Maria ha saputo raccogliere tutti quei semi di speranza che vedeva e udiva attorno a sé; li ha nascosti nel suo cuore e sono diventati oggetto di lunga e paziente attesa.
Nonostante le sconfitte e le delusioni che ha incontrato nel suo cammino di fede, questi semi di speranza hanno trasfigurato lo sguardo di Maria, esso ha saputo sempre andare oltre ed è per questo che è rimasta presso la croce assieme al discepolo amato, colui che custodisce la speranza dell’amore.
Così nel massimo del fallimento e della esperienza di morte, la croce, Maria, che «custodiva queste cose, meditandole nel suo cuore», ha potuto scorgere ciò che fa nuove tutte le cose, quell’amore di un Dio che ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio.
     

II Domenica dopo Natale anno C

II DOMENICA DI NATALE   Lectio Anno c     Prima lettura: Siracide 24,1-4.8-12, neo-vulg.24,1-4.12-16             La sapienza fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria.
Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria, in mezzo al suo popolo viene esaltata, nella santa assemblea viene ammirata, nella moltitudine degli eletti trova la sua lode e tra i benedetti è benedetta, mentre dice: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti” .
      Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion.
Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere.
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso dimora».
       v Il capitolo 24 del Siracide è un poema con protagonista la sapienza, che presenta se stessa, come in Proverbi 8.
    Nel brano che leggiamo oggi la presentazione è su due piani: la terra e il cielo.
La sapienza loda se stessa e si glorifica (kauchaomai) in mezzo al suo popolo e nell’assemblea dell’Altissimo.
I verbi greci sono al futuro uno di questi: kauchesetai è uguale sia in mezzo al popolo che nell’assemblea dell’Altissimo.
L’autopresentazione su due piani è tipica di una certa letteratura del medio giudaismo, che personalizza la Sapienza e la Legge, che il Siracide identifica come un’unica realtà, e ne pone la preesistenza presso Dio, prima della creazione del mondo.
    La Sapienza può lodare se stessa, perché è uscita «dalla bocca dell’Altissimo».
L’origine della sapienza è da Dio e il suo insegnamento viene da Lui.
    È da Dio che la Sapienza riceve il mandato in mezzo ad Israele.
Essa partecipa della potenza divina, è una mediatrice privilegiata, che partecipa direttamente di alcune qualità dell’Altissimo.
Le immagini per dire il suo essere vicina a Dio e nello stesso tempo in Israele riprendono quelle dell’Esodo: «ho ricoperto come nube la terra…
il mio trono era una colonna di nubi» (Sir 24,3-4; cf Es 13 21-22; 14,19-20; 33,9-11; 40,38).                La Sapienza cerca un luogo fra tutti i popoli, come dimora; il creatore le comanda: «fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele».
      L’immagine della tenda rimanda di nuovo ad Esodo, come la nube (cf.
Es 25,8-9; 26,1-37).
Nella tenda la sapienza diventa «sacerdote di Dio», e in questa veste si stabilisce in «Gerusalemme» (Sir 24,11 cf 1Re 8,10-13; Is 6,1-4, la città amata (cf.
Sal 50,2).
Israele, popolo glorioso, eredità del Signore (Sir 24,12 cf.
Deut 32,9; Zac 2,16) diventa dimora privilegiata della «sapienza» divina.
La Sofia (sapienza in greco) acquista i tratti della shekinà ebraica, vale a dire l’immanenza di Dio nel suo popolo, di cui condivide le sorti.
  Seconda lettura: Efesini 1,3-6.15-18           Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
Perciò anch’io [Paolo], avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.
    v «Benedetto sia il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione…» (Ef l,3).
Innalzare un inno di benedizione a Dio per i doni che ci ha concesso è tipico della tradizione ebraica seguita anche da Luca che mette in bocca a Maria il «Magnificat» e a Zaccaria un inno dall’inizio molto simile a questo: «Benedetto il Signore Dio di Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo» (Lc 1,68).
     Il verbo greco eulogeo, che traduciamo con benedire, significa nella letteratura extrabiblica: dire bene di qualcuno, sinonimo di ringraziare glorificare, cantare gli elogi.
Nel LXX e nel NT è usato nel senso del verbo ebraico, barak che ricorre sia per Dio che benedice, sia per l’uomo che canta le lodi di Dio.
     Il Padre del nostro Signore Gesù Cristo è il Dio di Israele, che si può benedire, perché egli stesso ha preso l’iniziativa di benedire.
L’inno paolino è costruito su questa circolarità: da Dio agli uomini in Cristo e dagli uomini in Cristo a Dio.
     L’iniziativa divina è sottolineata con forza; la scelta di farci diventare «figli» nel «figlio» e la conseguente possibilità di «essere puri e immacolati al cospetto di Dio» è atto di pura grazia divina.
Come Cristo è in Dio preesistente alla creazione, così noi siamo scelti da lui «prima della creazione del mondo».
Tutto quello che siamo, tutto quanto compiamo dipende dal beneplacito (eudokía) della volontà divina.
    Il termine greco eudokía è lontano da qualsiasi idea di arbitrarietà; esso veicola l’idea del piacere e del desiderio buoni.
Dio è per così dire «affettivamente» coinvolto nella scelta degli uomini e delle donne, che nel Figlio Gesù diventano figli e figlie adottive.
Il Dio biblico non è un Dio distaccato, ma un Dio, se così si può dire, che si compiace, gioisce, è geloso, si adira, si pente…
Egli è infinitamente superiore alle creature, ma si china su di loro con lo sguardo amoroso e compiacente di un padre e una madre.
Consci di questa vicinanza e resi figli in Cristo eleviamo il nostro inno di benedizione «a lode dello splendore della sua grazia» (Ef 1,6).
    L’inno prosegue fino al v.
14, ma la liturgia ne sospende la lettura alla prima strofa e la riprende al v.
15 fino al 18, nei quali Paolo esprime le motivazioni che lo inducono ad elevare continui ringraziamenti e suppliche al Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria.
Egli ringrazia per la fede e l’amore verso «tutti i santi» (i cristiani) dei destinatari della sua lettera.
Egli invoca per loro lo spirito di sapienza e di rivelazione, che li renda capaci di una sempre maggiore conoscenza di Dio.
  Vangelo: Giovanni 1,1-18         In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
       Esegesi      «In principio» richiama l’inizio di tutte le Scritture (bereshit, greco ev archè Gen 1,1, Gv 1,1) e fa da inclusione ai primi due versetti del prologo di Giovanni, che formano così una strofa.
L’accostamento alle Scritture continua con l’insistenza di Giovanni sui termini luce e tenebre (Gv 1,4-5 – Gen 12-5).
Il «principio» di cui parla Giovanni allude sicuramente all’inizio delle Scritture, ma allude a una dimensione ancora più profonda di quella a cui si riferisce la Genesi, perché si pone prima dell’inizio del creare di Dio.
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».
Il titolo «il Verbo» (o logos) per indicare la persona di Gesù è usato in forma assoluta solo nel prologo e con delle specificazioni solo nella letteratura giovannea (Il Verbo della vita in 1Gv 1,1 e il Verbo di Dio in Ap 19,13).
     Gli esegeti non sono d’accordo sull’origine di questo titolo.
Il contenuto teologico del Logos giovanneo è molto vicino alla riflessione giudaica sulla Sapienza, che è presentata come mediatrice della creazione e della salvezza (Pv 8,22; Sap 9,1; Sir 24,1-7).
La terminologia sapienziale era già in uso nella chiesa primitiva (cf.
Mt 11,19; 1Co 1,30), ma Giovanni evita il termine «Sapienza» e sceglie «Logos».
     L’esclusione di sapienza è dettata, dicono alcuni studiosi di Giovanni, prima di tutto dal fatto che si tratta di un termine femminile che sarebbe suonato male in ambiente ellenistico, dove invece era corrente il termine Logos, diffuso anche in ambiente giudeo-ellenistico attraverso l’opera di Filone Alessandrino, che presenta il Logos come mediatore della creazione e della salvezza, una specie di causa esemplare del mondo (cf.
G.
Segalla, Giovanni, Nuovissima Versione della Bibbia Paoline, p.
141).
     La riscoperta del termine Sofia come titolo cristologico è recente e frutto della riflessione femminista e può, se non usato in maniera acritica ed esclusiva, aiutare a scoprire gli attributi per così dire «femminili» di Dio, presentati dalle Scritture.
     Il «Verbo era presso Dio»: il greco esprime la vicinanza a Dio del Verbo con una preposizione pros che non indica la posizione statica di vicinanza, ma l’orientamento verso.
Il «Verbo era Dio» è il punto di arrivo delle tre affermazioni sul Verbo, che portano a contemplare il mistero intradivino.
     Il Verbo era rivolto verso Dio, il suo sguardo e la sua vita erano tutte intradivine, ma Giovanni, affermando che «il mondo è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3; cf.
Gn 1,1; Col 1,15-16; Eb 1,2-3), spezza la «circolarità» intradivina per orientare lo sguardo di Dio, anzi la sua parola, verso l’altro da sé.
Il Verbo di Dio diviene così la parola creatrice (Gn  1,1.3.6.9.14.20.24.26; Sal 33,6-9), cioè parola capace di uscire dalla fecondità di Dio per dare vita al mondo.
     Il primo capitolo di Giovanni ricorre all’immagine della luce e delle tenebre (collegata dalla Genesi all’origine del mondo) anche per «attualizzare» drammaticamente nel tempo le «opere del principio».
Luce e tenebre divengono infatti il luogo dell’accoglimento o, all’opposto, il luogo del rifiuto (Gv 1,5.10)».
(Piero Stefanini, Sia santificato il tuo nome.
Commento ai Vangeli della domenica.
Anno A, p.
44).
     Il Verbo deve fare i conti con il rifiuto, perché è una «luce» particolare, che non abbaglia, ma lascia alle «tenebre» la possibilità di non scomparire; fuor di metafora il Verbo si rivela come vita e rivela il Padre (Gv 1,18), ma in modo da lasciare la libertà di accoglierlo o di rifiutarlo.
     La risposta deve essere libera, perché il risultato dell’accoglienza è diventare «figli di Dio» (Gv 1,12-13; cf 1Gv 5,13; Ga 3,26).
Per questo il Verbo «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
     Dentro al quadro di accoglimento e rifiuto fatto in termini generali, l’evangelista richiama la figura di Giovanni il Battista, come modello di accoglienza della luce, che si è rivelata ed è venuta nel mondo.
Egli ha accolto il mandato di Dio ed è diventato testimone della luce (Gv 1,6- 8.15; cf.
Mt 3,1; Mc 1,4.7; Lc 1,13-17.57-80).
  Meditazione      Torniamo in questa domenica a fissare lo sguardo sul mistero dell’incarnazione aiutati dal Prologo di Giovanni, che la liturgia, dopo averlo proclamato nella Messa del giorno di Natale, ci fa ascoltare anche oggi, questa volta alla luce della Sapienza di Dio, come viene descritta dal Siracide (prima lettura).
Di fatto, il capitolo 24 del Siracide, insieme al capitolo 8 del libro dei Proverbi, costituiscono il principale punto di riferimento antico-testamentario per l’inno con cui si apre il Quarto Vangelo.
     L’origine della Sapienza è in Dio; creata fin dal principio, rimane in eterno.
Dopo aver riempito di sé l’intera creazione, dall’alto dei cieli fino agli abissi della terra, ha fissato la sua tenda in Israele, ha posto le sue radici nella storia di questo popolo.
Presente nel cosmo e nella storia, rivela il mistero di Dio, mostrandone tanto la trascendenza quanto la prossimità alle vicende degli uomini.
Colei che ha la sua dimora lassù, e il suo trono su una colonna di nubi, è la stessa Sapienza che abita in Gerusalemme, e pone la sua tenda tra le tende degli uomini.
Dio è il Trascendente e il Prossimo, l’Altro e il Somigliante, lo Straniero e il Vicino.
La sua Parola discende dall’alto dei cieli e nello stesso tempo sale dall’esperienza storica dei figli dell’uomo.
     Secondo la tradizione giudaica, la rivelazione fondamentale di Dio, la Torah contenuta nei cinque libri di Mosè (il nostro Pentateuco, dalla Genesi al Deuteronomio), trova il suo commento e la sua interpretazione nei Profeti e negli Scritti sapienziali.
La Profezia è spesso paragonata alla manna del deserto, un pane che discende dal cielo; la Sapienza all’acqua che sgorga dalla roccia, dalla terra.
C’è una parola di Dio che viene dall’alto e che possiamo ascoltare perché c’è un profeta che ce l’annuncia in suo nome, così come c’è una parola di Dio che sale e matura dal di dentro dell’esperienza umana, e che possiamo riconoscere a condizione di saper rileggere con sapienza e discernimento la nostra vita e la nostra storia.
     Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo prega per gli Efesini, chiedendo che «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (v.
18).
Possiamo forse intendere così queste parole: abbiamo bisogno dello spirito di rivelazione, che ci consenta di ascoltare e comprendere ciò che Dio ci rivela dall’alto, e che spesso rimane indeducibile dall’esperienza che viviamo.
È allora indispensabile un annuncio profetico, una parola che ci colpisce e ci sorprende, che ci dona uno sguardo diverso su noi, sugli altri, sulla realtà nel suo insieme e su tutto ciò che accade.
La rivelazione di Dio è sempre un’illuminazione, che consente a una luce diversa di abitare nei nostri occhi e nel nostro sguardo.
Nello stesso tempo, abbiamo bisogno di uno spirito di sapienza, che ci permetta di discernere quei segni di Dio nascosti nelle pieghe ordinarie della nostra vita.
Per vivere e per credere necessitiamo sia della manna che scende dal cielo, sia dell’acqua che sgorga dalla roccia.
     In Gesù di Nazaret queste due linee, quella discendente della manna e quella ascendente dell’acqua, si incontrano e si unificano.
Non per nulla spesso i testi del Nuovo Testamento ce lo presentano come l’ultimo e definitivo profeta, ma anche come la sapienza incarnata.
Un solo esempio fra i tanti: all’inizio del vangelo di Matteo, nel suo primo grande discorso, «Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: beati…» (Mt 5,1-2).
Gesù sale su ‘il monte’ (con l’articolo, non è un monte qualsiasi) come il nuovo Mosè, e si mette a parlare, ma più esattamente il testo greco narra che ‘aprì la sua bocca’, con un tipico modo di dire sapienziale.
Nella grande proclamazione delle beatitudini, segno della prossimità del Regno, Gesù parla come il compimento insuperabile di tutta la Profezia e di tutta la Sapienza di Israele, e la sua parola non abolisce, ma porta a compimento la Torah di Mosè.
     Su questi aspetti insiste anche il prologo giovanneo.
Gesù è il Figlio Unigenito, colui che dal principio è rivolto verso il seno del Padre; solo lui lo conosce e può rivelarcelo.
Non possiamo fare a meno della sua rivelazione per conoscere in verità il volto di Dio.
Non ci è dato di giungervi per altre vie, che presumano di poter fare a meno di lui e della sua parola, della sua persona, della sua storia.
È lui la vera manna, il pane vero che discende dal cielo per dare la vita al mondo (cfr.
Gv 6).
     Nello stesso tempo, come fa la Sapienza descritta dal Siracide, Gesù pone la sua tenda in mezzo a noi.
Anche se traduciamo «venne ad abitare in mezzo a noi» (v.
14), il testo greco evoca espressamente questo suo attendarsi tra noi.
Non solo tra noi, ma in noi, perché ora la tenda di Dio è la carne di un uomo.
Ed è proprio nella debolezza, nella fragilità, nella mortalità di questa carne (sarx in greco), che noi possiamo contemplare tutta la gloria di Dio.
Anche la carne dell’uomo, ciò che nell’uomo appartiene maggiormente alla terra, dalla terra viene e alla terra ritorna, diventa luogo epifanico di Dio.
Non solo l’acqua sgorga dalla roccia, ma potremmo dire simbolicamente che la roccia stessa diviene acqua.
E Gesù, se è manna che scende dal cielo, per Giovanni è anche roccia, pozzo che può donare alla nostra vita l’acqua vera che ci disseta in eterno (cfr.
Gv 4).
Innalzato sulla Croce e percosso dal colpo di lancia, così come Mosè aveva percosso la roccia, Gesù dona alla nostra sete l’acqua viva nel suo Spirito e nel suo sangue.
     È lui la luce vera, quella che illumina ogni uomo (cfr.
Gv 1,9).
Non solo per orientare il nostro cammino, ma per consentirci di riconoscere anche nella nostra carne i segni discreti della presenza gloriosa di Dio in noi.
     In principio era il Verbo, scrive Giovanni, era il Logos, la Parola.
Al principio di tutto, nel disegno originario di Dio, c’è il desiderio di comunicarsi, di rivelarsi, di dialogare.
E Dio sa ricorrere a molteplici linguaggi per entrare in relazione con noi: il linguaggio della storia e quello della natura, il linguaggio profetico della rivelazione e quello più universale della sapienza, il linguaggio della memoria e quello dell’attesa.
Che ci sia davvero donato, come prega Paolo, uno spirito di rivelazione e uno spirito di sapienza, perché possiamo imparare ad ascoltare e a capire questi molteplici modi con cui Dio parla e si rivela, e impariamo a nostra volta a parlarli per divenire, come Giovanni, testimoni credibili della luce vera che viene nel mondo, illumina ogni uomo, senza esclusioni o restrizioni di sorta, e non è vinta, neppure quando pare che le tenebre siano incapaci di accoglierla.
    Preghiere e Racconti IN MEZZO A NOI «Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi».
(Ef 1, 18)   «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere Di diventare figli di Dio».
(Gv 1, 11-12)   Dobbiamo rimeditare il mistero del Natale in termini forse meno emotivi e più sapienziali.
Vengono adoperati, infatti, testi biblici pacati e solenni, frutto essi stessi di elaborate sedimentazioni tecnologiche teologiche.
Sembra quasi che la chiesa, preoccupata che le feste natalizie abbiano preso una piega un tantino più allegra del dovuto, voglia provocarci a supplementi di riflessione, a scavi interiori e a più esigenti prese di posizione.
Non possiamo, ovviamente, consumare tutte le vivande che ci vengono approntate sulla tavola della Parola.
C’è ne sono in abbondanza come non mai: non per nulla siamo ancora nel clima del Natale! Faremo perciò una selezione, resa obbligatoria dall’esigenza di dovercene andare con un forte tema generatore nella mente, che non ci lasci disorientati in mezzo a tanta ricchezza e ci nutra per l’intera settimana.
Svilupperemo, allora, questo messaggio: «Gente, Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
Siamo liberi di accoglierlo o di rifiutarlo.
Se lo accogliamo, però, la vita finalmente acquisterà senso per tutti!».
  Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi   È un messaggio che, se non ci fa trasalire più, è perché non scorre sulle coordinate del coinvolgimento esistenziale, della carica emotiva e dell’intuizione del dono.
Diciamocelo con franchezza: quello della coabitazione, anzi della «inabitazione» di Dio tra gli uomini, è un annuncio spento per molti cristiani.
Se una comunità di sieropositivi si insedia tra i palazzi dei ricchi, si scatena il rifiuto.
Un centro di accoglienza per tossicodipendenti provoca reazioni per chi vi abita accanto.
Quando una famiglia di marocchini viene ad abitare in un condominio, spesso è tutto il palazzo che si ribella.
Quando gli zingari impiantano i carrozzoni nelle adiacenze di ville appartenenti a persone «perbene», è un’iradiddio generale.
Per il verso contrario, si fa a gara per accaparrarsi, accanto alle proprie abitazioni i servizi più importanti; si specula al limite della illegalità pur di avere un impianto che valorizzi la zona dove si abita.
A chi chiede l’indirizzo di casa si aggiunge con fierezza che a pochi metri di distanza c’è la villa di Gianni Morandi o il residence di Maradona.
Ma la notizia che Dio diventa nostro coinquilino non ci fa organizzare ne cortei di protesta né i fuochi d’artificio per la gioia.
Perché questa apatia? Come ricogliere lo stupore dell’annuncio che Dio «ha posto la sua tenda in mezzo a noi»? Oggi è il momento buono per far comprendere tutto lo spessore di questa notizia che rasenta l’assurdo, anzi lo sorpassa.
  Liberi di accoglierlo o di rifiutarlo   Ecco che all’improvviso siamo posti con le spalle al muro, nella crocifissione della scelta più radicale della nostra vita: accogliere o rifiutare che Dio collochi la sua «tenda in mezzo a noi».
Stringi stringi, è il vero «caso serio» dell’esistenza.
Che fare di fronte a questa provocazione? Denunciare Gesù come abusivo? Aizzargli contro il malumore popolare perché disturba la quiete pubblica? Rimetterlo in croce o metterlo in ridicolo? Far finta di niente, tanto prima o poi si stancherà e andrà via? Oppure accoglierlo con i segni della festa e sperimentare con lui i misteri gaudiosi, gloriosi e dolorosi della vita? Oggi, di fronte al macigno che ci ruzzola addosso le parole di Giovanni: «Venne tra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11) tutto ci è permesso fuorché rimanere neutrali.
  Se lo si accoglie, la vita acquisterà senso A quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio».
È in questa accoglienza che si gioca il senso del vivere.
Più che senso, è meglio dire sapienza.
Cioè sapore, gusto.
Il sale nella minestra: quello che manca oggi.
Se Maria presenziasse con Gesù, come un giorno in Cana di Galilea, ai nostri banchetti, non direbbe più: «Figlio, non hanno più vino» (Gv 2,3), ma direbbe: «Figlio, non hanno più sale».
Si recupera a questo punto tutto il messaggio sulla sapienza.
Essa è un dono che Dio manda sulla terra perché, «dopo aver officiato nella tenda santa davanti a lui», venga finalmente a fare compagnia agli uomini e «fissi la tenda in Giacobbe» (Sir 24,8).
Di questo senso, di questo orientamento decisivo, di questo intimo significato delle cose, di questo profondo perché, oggi sentiamo tutti un incredibile bisogno.
 Scoprire, sotto lo scorrere dei grani del tempo, il filo nascosto che articola i giorni, senza frantumarli in monadi chiuse.
Leggere, sotto la scorza degli avvenimenti, tristi o luttuosi, la tensione ultima che li lega al Regno.
Udire la voce segreta che geme nell’universo, sofferente per i travagli del parto.
Intuire che i frammenti di gioia che si sperimentano quaggiù fanno parte di un mare di felicità, in cui un giorno faremo tutti naufragio.
Percepire che il nostro vuoto può essere riempito solo «dalla sua pienezza» (Gv 1, 16).
È così grande il dono, che san Paolo sente il bisogno di chiedere per tutti da Dio questo «spirito di sapienza» (Et 1, 17).
A noi non resta che augurarci che «possa egli davvero illuminare gli occhi della nostra mente per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati».
Se le cose stanno così, benvenuta «tenda di Dio in mezzo a noi» !   (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 91-96).
È Natale É Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano; ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare un altro; ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.
È Natale ogni volta che permetti al Signore di amare gli altri  attraverso di te.
Preghiamo di essere capaci di accogliere Gesù a Natale non nella fredda mangiatoia del nostro cuore, ma in un cuore pieno di amore e di umiltà, un cuore caldo di amore reciproco.
(Madre Teresa di Calcutta) Il giovane e il vecchio C’era una volta un uomo seduto all’ingresso di una città….
un giovane si avvicinò e gli chiese: –     “sono nuovo di qui, com’è la gente che abita in questa città?”  Il vecchio rispose: –     “dimmi, com’era la gente nella città da dove vieni?” –     “egoista e cattiva, ed è perciò che ero contento di andare via” –     “Troverai la stessa gente anche qui”  rispose il vecchio.
Qualche tempo dopo, un altro giovane si avvicinò e fece la stessa domanda: –    “sono appena arrivato, dimmi com’è la gente di questa città?”.
Il vecchio rispose allo stesso modo: –     “dimmi, ragazzo, com’era  la gente della città da dove vieni?” –     “era gente buona, accogliente, benevola e onesta.
Ho molti amici là e ho fatto fatica a lasciarli”.
–     “Troverai la stessa gente anche qui”   – rispose il vecchio.
Un mercante che aveva ascoltato le due conversazioni, appena il secondo giovane si allontanò, rimproverò il vecchio: –     “come puoi dare risposte così diverse alla stessa domanda posta da due persone?” Il vecchio rispose: “figlio mio, ognuno porta il proprio universo nel cuore: Non importa da dove provenga: colui che non ha trovato nulla di buono nel passato, non troverà niente neanche qui.
Inoltre colui che aveva amici nell’altra città, troverà qui amici leali e fedeli.
Perché, vedi, le persone sono nei nostri confronti ciò che noi troviamo in loro”.
  Preghiera al padre della verità, della sapienza e della felicità “O Dio, creatore dell’universo, concedimi prima di tutto che io ti preghi bene, quindi che mi renda degno di essere esaudito, e infine di ottenere da te la redenzione.
O Dio, per la cui potenza tutte le cose che da sé non sarebbero, si muovono verso l’essere; o Dio, che non permetti che cessi d’essere neanche quella realtà i cui elementi hanno in sé le condizioni di distruggersi a vicenda; o Dio, che hai creato dal nulla questo mondo, di cui gli occhi di tutti avvertono l’alta armonia; o Dio, che non fai il male ma lo permetti perché non avvenga il male peggiore; o Dio, che manifesti a pochi, i quali si rivolgono a ciò che veramente è, che il male non è reale; o Dio, per la cui potenza l’universo, nonostante la parte non adatta al fine, egualmente lo raggiunge; o Dio, dal quale la dissimilitudine non produce l’estrema dissoluzione, poiché le cose peggiori si armonizzano con le migliori; o Dio, che sei amato da ogni essere che può amare, ne sia esso cosciente o no; o Dio, nel quale sono tutte le cose, ma che la deformità esistente nell’universo non rende deforme, né il male meno perfetto, né l’errore meno vero; o Dio, che hai voluto che soltanto gli spiriti puri conoscessero il vero; o Dio, padre della verità, padre della sapienza, padre della vera e somma vita, padre della felicità, padre del buono e del bello, padre della luce intelligibile, padre del nostro risveglio e della nostra illuminazione, padre del pegno che ci ammonisce di tornare a te! Te invoco, Dio verità, fondamento, principio e ordinatore della verità di tutti gli esseri che sono veri; o Dio sapienza, fondamento, principio e ordinatore della sapienza di tutti gli esseri che posseggono sapienza, o Dio vera e somma vita, fondamento, principio e ordinatore della vita degli esseri che hanno vera e somma vita; Dio beatitudine, fondamento, principio e ordinatore della beatitudine di tutti gli esseri che sono beati; o Dio bene e bellezza, fondamento, principio e ordinatore del bene e della bellezza di tutti gli esseri che sono buoni e belli; o Dio luce intelligibile, fondamento, principio e ordinatore della luce intelligibile di tutti gli esseri che partecipano alla luce intelligibile; o Dio, il cui regno è tutto il mondo che è nascosto al senso; o Dio, dal cui regno deriva la legge per i regni della natura; o Dio, dal quale allontanarsi è cadere, verso cui voltarsi è risorgere, nel quale rimanere è avere sicurezza; o Dio, dal quale uscire è morire, al quale avviarsi è tornare a vivere, nel quale abitare è vivere; o Dio, che non si smarrisce se non si è ingannati, che non si cerca se non si è chiamati, che non si trova se non si è purificati; o Dio, che abbandonare è andare in rovina, a cui tendere è amare, che vedere è possedere; o Dio, al quale ci stimola la fede, ci innalza la speranza, ci unisce la carità; o Dio, per mezzo del quale trionfiamo dell’avversario: ti scongiuro! O Dio, che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale; o Dio, da cui siamo stimolati alla vigilanza; o Dio, col cui aiuto sappiamo distinguere il bene dal male; o Dio, col cui aiuto fuggiamo il male e operiamo il bene; o Dio, col cui aiuto non cediamo ai perturbamenti; o Dio, col cui aiuto siamo soggetti con rettitudine al potere e con rettitudine l’esercitiamo; o Dio, col cui aiuto apprendiamo che sono anche di altri le cose che una volta reputavamo nostre e sono anche nostre le cose che una volta reputavamo di altri; o Dio, col cui aiuto non ci attacchiamo agli adescamenti e irretimenti delle passioni; o Dio, col cui aiuto la soggezione al plurimo non ci toglie l’essere uno; o Dio, col cui aiuto il nostro essere migliore non è soggetto al peggiore; o Dio, col cui aiuto la morte è annullata nella vittoria; o Dio, che ci volgi verso di te; o Dio, che ci spogli di ciò che non è e ci rivesti di ciò che è; o Dio, che ci rendi degni di essere esauditi; o Dio, che ci unisci; o Dio, che ci induci alla verità piena; o Dio, che ci manifesti la pienezza del bene e non ci rendi incapaci di seguirlo né permetti che altri lo faccia; o Dio, che ci richiami sulla vita; o Dio, che ci accompagni alla porta; o Dio, che fai sì che si apra a coloro che picchiano; o Dio, che ci dai il pane della vita; o Dio, che ci asseti di quella bevanda, sorbendo la quale non avremo più sete; o Dio, che accusi il mondo sul peccato, la giustizia e il giudizio; o Dio, col cui aiuto non siamo influenzati da coloro che non credono; o Dio, col cui aiuto riproviamo coloro i quali affermano che le anime non possiedono alcun merito dinanzi a te; o Dio, col cui aiuto non diveniamo adoratori degli elementi inetti e impotenti; o Dio, che ci purifichi e ci prepari ai premi divini: viemmi incontro benevolo! In qualsiasi modo io possa averti pensato, il Dio uno sei tu, e tu vieni in mio aiuto, una eterna e vera essenza, dove non ci sono discordia, oscurità, cangiamento, bisogno, morte, ma somma concordia, somma chiarezza, somma costanza e durata, somma pienezza, somma vita; dove nulla manca, nulla ridonda, dove colui che genera e colui che è generato sono una medesima cosa; Dio, cui sono soggette tutte le cose prive di autosufficienza, cui obbedisce ogni anima buona; per le cui leggi ruotano i poli, le stelle compiono le loro orbite, il sole rinnova il giorno, la luna mitiga la notte, e tutto il mondo, mediante le successioni e i ritorni dei tempi, conserva, per quanto la materia sensibile lo comporta, la grande uniformità dei fenomeni, attraverso i giorni con l’alternarsi del giorno e della notte, attraverso i mesi con le lunazioni, attraverso gli anni con i ritorni di primavera, estate, autunno e inverno, attraverso i lustri col compimento del corso solare, attraverso i secoli col ritorno delle stelle alle loro origini; o Dio, per le cui leggi esistenti per tutta la durata della realtà non si permette che il movimento difforme delle cose mutevoli sia turbato, ma che venga ripetuto, sempre secondo uniformità, nella dimensione rotante dei tempi; per le cui leggi è libera la scelta dell’anima e sono stati stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi con leggi fisse e universali; o Dio, da cui provengono a noi tutti i beni e sono allontanati tutti i mali; o Dio, sopra del quale, fuori del quale e senza il quale non c’è nulla; o Dio, sotto il quale è il tutto, nel quale è il tutto, col quale è il tutto; che hai fatto l’uomo a tua immagine e somiglianza, il che può comprendere chi conosce te stesso: ascolta, ascolta, ascolta me, mio Dio, mio Signore, mio re, mio padre, mio fattore, mia speranza, mia realtà, mio onore, mia casa, mia patria, mia salvezza, mia luce, mia vita; ascolta, ascolta, ascolta me nella maniera tua, soltanto a pochi ben nota!” (Agostino, Soliloqui, 1,1.2-4)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).