I DOMENICA DI QUARESIMA Lectio Anno c Prima lettura: Deuteronomio 26,4-10 Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa.
Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù.
Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi.
Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele.
Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”.
Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».
v La bella professione di fede recitata dal singolo israelita, quando si presenta al sacerdote presso l’altare per offrire le primizie dei frutti della terra, rievoca sinteticamente la storia passata, scandita da quattro momenti fondamentali, nei quali si alterna per due volte il momento negativo con quello positivo (vv: 5-9): l) mancanza di una terra propria (neg.); 2) discesa in Egitto e crescita demografica (pos.); 3) oppressione da parte degli egiziani (neg.), liberazione con il conseguente dono della terra promessa (pos.).
Così si passa dalla terra non ancora posseduta alla terra ora abitata e coltivata, per dare una motivazione all’offerta dei frutti che da essa si sono ricavati.
La tentazione poteva essere ora per Israele quella di dimenticare il Signore, che ha dato la terra e i frutti che essa produce; con l’offerta che se ne fa si riconosce questa dipendenza.
«Guardati dunque dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze.
Ricordati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 8,17-18).
Seconda lettura: Romani 10,8-13 Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo.
Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.
Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso».
Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano.
Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
v Questo brano è stato scelto perché si parla della «professione di fede» (v.
10) cristiana, in analogia con la professione di fede israelita vista nella Prima lettura.
Il contenuto ora cambia, perché essa si impernia sulla risurrezione di Gesù e sulla sua attuale e definitiva signoria, ma la sua struttura fondamentale è simile.
Si tratta anche ora di un evento che accade nella storia, che è un’opera compiuta in essa da Dio («Dio lo ha risuscitato dai morti», v.
9; cfr.
«il Signore ci fece uscire…
ci condusse…
ci diede», Dt 26,8-9).
La professione di fede deve essere concepita nel cuore e proclamata con la bocca.
Questo concetto viene scandito, ancora una volta, con la citazione di tre passi dell’AT: Dt 30,14, che parla insieme della «bocca» e del «cuore» (v.
8); Is 28,18, che accenna al «credere», che si concepisce nel cuore (v.
11); Gl 3,5, che menziona l’«invocare», che si esprime con la bocca (v.
13).
È la totalità della persona che così si manifesta nell’atto di fede.
Vangelo: Luca 4,1-13 In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo.
Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame.
Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane».
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio.
Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».
Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
Esegesi La tentazione di Gesù è situata unanimemente dai tre Sinottici subito dopo il battesimo, e tutti e tre mettono questa dimora di Gesù nel deserto in rapporto con il dono dello Spirito Santo, ricevuto da lui immediatamente prima nello stesso battesimo (v.
1).
Ma nel modo di parlarne gli evangelisti presentano delle significative differenze.
Mc riporta in due soli versetti la notizia del digiuno dei quaranta giorni che costituiscono pure, globalmente, tutto il tempo in cui Gesù è tentato (Mc 1,12- 13).
Solo Mt (4,1-11) e Lc (4,1-13) parlano di tre speciali tentazioni che si verificano soltanto alla fine dei quaranta giorni di digiuno, ma rispetto a Mt solo Lc sottolinea che Gesù era tentato anche prima (v.
2), durante i quaranta giorni, come dice pure Mc.
Ma la differenza più significativa tra Mt e Lc consiste nell’inversione che Lc presenta tra la seconda e la terza tentazione rispetto a Mt, la cui sequenza sembra la più logica e la più primitiva.
Infatti, l’adorazione dell’unico Signore a cui si appella Gesù nel respingere l’offerta dei regni della terra si presta meglio a formare l’apice di tutto il racconto che non il rifiuto di tentare Dio, che Lc pone nella terza tentazione.
Con questa inversione Lc conferisce più importanza alla città di Gerusalemme (v.
8), sede dell’ultima tentazione, indicando così in essa il preludio alla suprema tentazione di Gesù nella sua passione.
Ma nello stesso tempo, con questa inversione Lc dà più importanza al tema della tentazione stessa, come si vede dalla sua conclusione dell’episodio (v.
13): «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato».
Al di là di questo episodio, il verbo «tentare» o «mettere alla prova» (peirazo) ricorre ancora in Mt 16,1; 19,3; 22,18.35, ma nel significato più scialbo della tentazione o prova a cui i farisei sottopongono Gesù rivolgendogli delle domande capziose; qui Lc riprende l’espressione soltanto nel primo e nell’ultimo caso (Lc 11,16; 10,25, con un ordine diverso rispetto a Mt).
Invece l’importanza di questo tema in Lc la si vede meglio se consideriamo l’uso del sostantivo (peirasmos), che lui ha usato già in 4,13.
In parallelo con Mt, il termine ricorre nel Padre nostro (Lc 11,4 = Mt 6,13) e nell’ammonizione di Gesù ai tre discepoli nel Getsemani (Lc 22,46; Mt 26,41; Mc 14,38).
Al di là di questi casi in comune con Mt, Lc introduce il termine di sua iniziativa nella spiegazione della parabola del seminatore (Mt 13,21; Mc 4,17: «tribolazione o persecuzione»; Lc 8,13: «nel tempo della tentazione»).
Ma l’uso forse più interessante del sostantivo in Lc, lo troviamo in queste parole di Gesù ai discepoli dopo l’istituzione dell’eucaristia nell’ultima cena: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie tentazioni (BC: prove) e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno» (Lc 22,28-30a).
In questo detto, tutto il ministero pubblico di Gesù, passato in compagnia dei discepoli, è considerato come un continuo periodo di tentazione, nel quale lui ha avuto il confronto della loro compagnia e della loro condivisione; essa trova il suo culmine nella celebrazione dell’eucaristia, prefigurazione della sua mensa nella pasqua del cielo.
Ma la suprema tentazione di Gesù doveva aver luogo nel tempo della sua passione.
Nel Getsemani, dopo la preghiera rivolta al Padre perché allontanasse da lui il calice della sua dolorosa morte imminente, Gesù dice a quelli che sono venuti ad arrestarlo: «Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre» (Lc 22,53).
Nell’AT il tema della tentazione affiora nel definire lo stretto rapporto che intercorre tra Dio ed Israele, specialmente nel tempo del deserto.
Dio «tenta» o «mette alla prova» (ebr.
nissah) Israele, per far emergere quello che c’è nel cuore del suo popolo, come si può vedere da questi passi: «Io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no» (Es 16,4); «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2; cfr.
anche il v.
16).
Ma questa prova o tentazione continua anche dopo, nella terra promessa: «Tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore (che ti vogliono far rivolgere agli dèi stranieri); perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Dt 13,4).
Come si vede, si aggiunge sempre, con una proposizione finale, il motivo positivo di questa prolungata tentazione a cui il Signore sottopone il suo popolo, che consiste nel desiderio di appurare la consistenza del suo rapporto con lui.
È questo un tipico elemento della parenesi deuteronomica, per cui non ci stupisce che nelle risposte di Gesù a Satana vengano citati tre passi, ripresi tutti dal Deuteronomio.
Vale la pena considerarli ora separatamente, inquadrandoli nel loro contesto originario.
a) In Lc 4,4 si cita Dt 8,3: «Egli (il Signore) dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore».
Il tempo del deserto consentiva ad Israele di sperimentare la sua dipendenza da Dio, che provvede il cibo della manna con il comando dato dalla sua bocca.
Citato da Gesù, questo detto vuol dire che egli, anche se compirà la moltiplicazione dei pani, attirerà le folle non tanto con il cibo materiale, quanto piuttosto con l’annunzio del regno di Dio e con l’invito alla conversione.
b) La corrispondenza di Lc 4,8 con il Dt non è evidente: «Guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile.
Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,12-13); qui, «ti presterai» e «adorerai» corrispondono a «temerai» e «servirai» di Dt 6,13.
Si noti come queste diverse ingiunzioni sono precedute dalla raccomandazione a non dimenticare quanto il Signore ha già fatto: ciò che Israele deve fare, è una risposta a quanto Dio ha fatto prima.
c) Nell’ultima citazione (v.
12) appare l’uso inverso del tema della tentazione, in quanto ora è Israele che tenta Dio, quando lo abbandona e così lo costringe a dargli una punizione: «Non seguirete altri dèi…
L’ira del Signore tuo Dio si accenderebbe contro di te e ti distruggerebbe dalla terra.
Non tenterete il Signore vostro Dio come lo tentaste a Massa.
Os-serverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio…» (6,14-17).
Rilette sullo sfondo dell’AT, le tentazioni di Gesù ci appaiono come la dimostrazione della sua totale adesione a Dio, in contrasto con la condotta indocile d’Israele, cosicché i suoi quaranta giorni di digiuno nel deserto corrispondono ai quaranta anni trascorsi da Israele nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto.
Ma in maniera più specifica, con queste tre tentazioni satana cerca di distogliere Gesù dalla sua missione messianica, che, rifuggendo dai facili e fallaci successi mondani di una popolarità ottenuta con miracoli molto spettacolari, consiste nell’adesione alla via della croce.
Meditazione Quaresima.
Quaranta giorni per ricalibrare la nostra vita e le sue relazioni: con Dio, con gli altri, con il creato, con se stessi.
L’esigenza di mettere ordine nella propria esistenza è diffusa, a molti livelli.
I testi biblici che ci vengono oggi proposti offrono alcuni criteri per perseguire tale fine.
Il celeberrimo e impressionante brano delle tentazioni di Gesù nel deserto si apre con una duplice significativa annotazione: Gesù entra in questa esperienza guidato dallo Spirito – non è altro che il nostro desiderio di ‘riprendere in mano’ la vita – e rifiutando di nutrirsi.
Perché questo digiuno? Cosa c’entra l’alimentazione con i nostri problemi etici, politici, religiosi, di gestione del tempo e del denaro, degli affetti e delle relazioni? L’odierno imperativo sociale, che richiede un corpo palestrato a tutte le età, già può orientarci verso il ‘sospetto’ che forse uno stato complessivo di benessere della persona non è separabile dalle condizioni del corpo.
Ma Gesù va ben oltre: un digiuno prolungato, di quaranta giorni, segnala l’intenzione di sondare la propria verità, la propria identità ben oltre la percezione superficiale e puntuale di un’esperienza ‘curiosa’.
La testimonianza unanime della pratica ascetica del digiuno, comune a tutte le tradizioni religiose e filosofiche, conferma che la persona che si sottopone ad esso, si apre ad una conoscenza di sé nuova e sorprendente: provare per credere…! Rinunciare ad assumere cibo, quanto cioè ci è di più basilare e necessario per la stessa sussistenza, modifica inevitabilmente la percezione dei nostri valori di riferimento.
E se primissima conseguenza potrebbe risultare la limpida precisazione – e distinzione! – dei termini appetito e fame, che noi, nel nostro opulento occidente, impieghiamo impropriamente come sinonimi, perseverare in un regime alimentare misurato, regolare e sobrio – questo il contenuto autentico del digiuno – riattiva la sensibilità e la capacità di scelta e chiama in causa i valori più profondi.
L’essenzialità a cui si è indirizzati rende la persona più attenta e vigile.
È pertanto nella condizione ideale per… riprendere in mano la propria vita e compiere delle scelte nuove! Giungendo così al fine che ci si era proposti e da cui eravamo partiti.
L’«ebbe fame» (Lc 4,2) che Gesù stesso avverte dopo quaranta giorni di digiuno conferma questo stato psichico percettivo, dove si conosce, in modo sensibilmente nuovo, la dipendenza dall’esterno per la propria sopravvivenza: nessuno di noi basta a se stesso! La mia vita dipende da qualcosa al di fuori di me.
Sorgono allora domande nuove: di cosa ho veramente bisogno? Cosa desidero veramente? Gesù, che nel battesimo (cfr.
Lc 3,21-22) è appena stato riconosciuto come Figlio di Dio, è spinto ora dal diavolo a indagare su come ‘giocare’ la sua identità.
Vuole custodire l’oggettività della gratuità e del dono, che lo lega al Padre e alla storia degli uomini, oppure preferisce rifiutare questa dipendenza e utilizzare le proprie energie per imporsi sulla natura e sugli altri? Significativamente, tra il battesimo e il nostro brano, l’evangelista Luca inserisce una sorprendente genealogia risalente fino ad «Adamo, figlio di Dio» (cfr.
3,23-38), che evidenzia e imprime all’identità di Gesù anche la qualifica di fratello dell’uomo.
Il suo essere figlio di Dio non cancella né ‘divora’ l’essere fratello dell’uomo ma, con genialità compassionevole, si coniuga in una sintesi esigente ma feconda, fonte di vita e di libertà infinita per sé e per tutti.
Gesù non utilizza la propria divinità per opportunità per opprimere gli uomini né si piega ad un umanesimo gaudente che si riconosce come assoluto e svincolato da ogni solidità.
Egli è invece il Figlio di Dio che resta consapevolmente nella dipendenza e nel legame per rinnovare dal di dentro ogni figlio dell’uomo.
Con amore.
Per resistere alla tentazione dell’individualismo egoistico Gesù si nutre – qualcosa si deve pur mangiare! – della parola di Dio, sapientemente interpretata.
La prima lettura ci ricorda di richiamare alla nostra mente tutto quanto si è già ricevuto nel passato per continuare a sostenere la lotta verso una libertà sempre più profonda.
Le nostre forze sono, infatti, sempre fragili e quando si è nel digiuno si è ancor più bisognosi di sostegno.
Quale dunque il nostro cibo per orientare e compiere le nostre scelte? Preghiere e Racconti Prima domenica di Quaresima In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme.
Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio.
Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr.
Fil 2,6-7).
Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr.
Eb 4,15).
Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.
(BENEDETTO XVI, nell’introdurre la preghiera mariana dell’Angelus: 01.03.2009).
Due re aspirano a regnare Tanto il Figlio di Dio quanto l’Anticristo aspirano a regnare, ma l’Anticristo desidera regnare per uccidere quelli che avrà sottomesso, Cristo regna per salvare.
E su ognuno di noi, se è fedele, regna Cristo, che è la Parola, la Sapienza, la Giustizia, la Verità.
Se invece amiamo i desideri disordinati più di quanto amiamo Dio, su noi regna il peccato di cui l’Apostolo dice: II peccato non regni sul vostro corpo mortale (Rm 6,12).
Due re dunque si affrontano per regnare: il re del peccato, il diavolo sui peccatori; il re della giustizia, Cristo, sui giusti.
Il diavolo sapeva che Cristo sarebbe venuto per sottrargli il suo regno e per cominciare a sottomettere al suo potere quelli che erano sottomessi al potere del diavolo.
Così gli mostra tutti i regni del mondo e degli uomini di questo mondo, gli mostra come su alcuni regna la lussuria, su altri l’avarizia e come alcuni sono trascinati dal soffio della celebrità, altri sono prigionieri delle seduzioni della bellezza.
Non dobbiamo pensare che mostrandogli i regni del mondo gli abbia mostrato il regno della Persia o quello delle Indie; ma gli mostra tutti i regni del mondo, cioè il suo regno, il suo modo di dominare il mondo per invitarlo a fare la sua volontà e cominciare così ad assoggettare Cristo […].
Allora il diavolo disse al Signore: «Sei venuto per lottare contro di me e per strappare al mio potere tutti quelli che io ho soggiogato? Non voglio contendere con te, non voglio che tu ti affatichi, che ti sottoponga alle difficoltà della lotta.
Chiedo una cosa sola: prosternati ai miei piedi e adorami, ricevo l’intero mio regno».
Senza dubbio il nostro Signore e Salvatore desidera regnare e desidera che tutti i popoli gli siano sottomessi perché servano la giustizia, la verità e le altre virtù, ma vuole regnare in quanto è la Giustizia, senza peccato e senza malizia […] Ecco perché risponde: Sta scritto: adorerai il Signore tuo Dio e lui solo servirai (Lc 4,8).
Voglio che tutti costoro mi siano sottomessi perché adorino il Signore Dio e servano lui solo.
Così desidero regnare.
Tu vorresti che il peccato cominciasse da me, quel peccato che sono venuto a distruggere, da cui desidero liberare anche gli altri.
Sappi e riconosci che rimango fedele a ciò che ho detto: che sia adorato solo il Signore Dio e che tutti questi uomini siano sottomessi al mio potere nel mio regno».
Quanto a noi rallegriamoci di essere sottomessi a lui e preghiamo Dio che faccia morire il peccato che regna nel nostro corpo (Rm 6,12) e che solo Cristo Gesù regni in noi.
A lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli ( I Pt 4,11).
(ORIGENE, Omelie sul vangelo di Luca 30,1.3-4, SC 37, pp.
370-374).
Autenticità e verità Per essere autentici occorre essere fedeli a se stessi ma, nello stesso tempo, diffidare di sé.
C’è un necessario legame con se stessi, ma un’altrettanta necessaria esigenza di superarsi.
Il cammino versa la vita autentica consiste quindi nel procedere su una specie di crinale, nel suscitare la libertà ma anche nel disciplinarla, nel voler essere pienamente liberi perché solo così si è uomini e non servi, ma nel voler altresì che la prima vera libertà sia di tipo interiore e corrisponda al dominio sulle menzogne di cui ognuno si sa capace “in pensieri, parole, opere e omissioni”.
[…] La libertà si compie solo nella misura in cui ci si dedica a qualcosa di più grande di sé o, meglio, del sé: una grandezza che il pensiero umano nomina in vari modi, di cui i principali sono giustizia, bene, verità.
Io sostengo che l’uomo autentico è l’uomo giusto, è l’uomo che vive per attuare il bene dentro e fuori di sé, è l’uomo che ama sopra ogni cosa la verità.
(Vito MANCUSO, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, 2009, Milano, 15-16).
Non ci indurre in tentazione «Nostro Signore mi fa fare questa domanda nel Pater perché essa mi è necessaria in tutte le ore, perché deve trovarsi come grido dell’anima cento volte in ogni preghiera, e per insegnarmi a lanciare incessantemente verso di Lui, in tutte le ore, questo grido: “Aiuto”».
(CHARLES DE FOUCAULD, Opere spirituali, Roma, Pauline, 1984).
Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società.
Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo.
Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita.
E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…
La solitudine è la fornace della trasformazione.
Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Ceruti: «Il cristianesimo laicizza la storia. Ripartiamo da Girard»
L’intervista «Oggi la funzione culturale del cristianesimo è di non stabilirsi come religione civile ma fare esercizio e pratica dell’incontro e dell’ascolto dell’altro».
Mauro Ceruti, docente di epistemologia genetica all’università di Bergamo, rilancia nel campo «laico» la portata secolarizzante del messaggio cristiano per un dialogo fruttuoso.
In «Le due paci» (Cortina) lei scrive che la secolarizzazione non va perduta come risultato positivo della storia.
Ma cosa non ha funzionato se oggi cresce l’indifferenza religiosa e l’ostracismo laicista? «Si è avuta una progressiva banalizzazione di tre processi: la secolarizzazione, la cui enfasi positiva è una delle scoperte del Concilio Vaticano II; in secondo luogo, la laicità che spesso viene contrapposta alla Chiesa mentre essa è frutto della rivoluzione di un Dio che regna dalla Croce, e non da un trono; lo spirito scientifico, che nasce da una desacralizzazione della natura».
Come mai allora questi valori “cristiani” si manifestano oggi come anticristiani? «La secolarizzazione è prevalsa in una sua deriva, ovvero quella consumistica delle società avanzate in un disincanto del mondo in cui non matura più la domande del trascendente.
Prevale solo il consumo e questo causa un’asfissia spirituale generando l’esperienza di voler tutto e subito.
Questo ha annullato ogni processo verso l’Oltre, un processo umano prima che religioso.
In Europa questo si è trasformato in un laicismo riduttivo che presume di far vivere la laicità nello spazio pubblico privo di simboli religiosi, per cui la stessa natura del simbolo dell’uomo viene azzerata».
Quando questo è avvenuto? «La data-soglia è il 1989, anno fino al quale – anche tra i credenti – era scontato pensare che le religioni avrebbero avuto un ruolo di sempre minor influenza sulla realtà: era condiviso lo schema marxista per cui la religione fa parte della sovrastruttura.
Poi dopo il 1989 le religioni hanno fatto una nuova, straordinaria irruzione nella storia.
Va sottolineata l’intuizione di Karol Wojtyla che già nel 1986 chiamò a pregare insieme ad Assisi i rappresentanti della diverse religioni (fatto poi ripetuto nel 2002) in un momento in cui le religioni parevano al lumicino.
Il secondo incontro di Assisi fu pure profetico perché si era sull’orlo di guerre in nome della religione (che qualcuno pure fece).
Queste invocazioni di Dio hanno dimostrato quanto sia stato decisivo il processo laicizzante del cristianesimo nelle vicende della comunità umana.
In quegli anni Samuel Huntington teorizzava lo scontro di civiltà in nome delle differenti religioni.
E si è troppo dimenticato quanto Giovanni Paolo II fece perché non si compisse nemmeno un passo verso il conflitto di civiltà su base religiosa».
Lei è un grande conoscitore di René Girard.
Può la proposta del grande pensatore francese diventare un alfabeto per il “cortile dei gentili”? «Sì.
Ho trovato in Girard una lettura antropologica dei testi del Nuovo e Antico Testamento, come cifra adatta per esplicitare un confronto con i gentili su quel grande Codice dell’umanità che è la Bibbia.
Nei nostri colloqui mi diceva: “Nei miei libri non aggiungo nulla al vangelo, faccio solo un tentativo di lettura antropologica, in base alla sola ragione, di quel messaggio evangelico che è teologico”.
Il vangelo introduce nella storia un punto di discontinuità dal punto di vista razionale visto che racconta dal punto di vista della vittima e non del carnefice.
Per questo auspico nell’atrio dei gentili la possibilità di usare la ragione figlia del cristianesimo, ovvero un dialogo che è accoglienza dell’altro.
Quindi questo “cortile” può diventare uno spazio laico e razionale in cui per il cristiano vi è il compito non di affermazioni dogmatiche bensì di testimoniare».
in “Avvenire” del 19 febbraio 2010
Dizionario di Ecclesiologia
GIANFRANCO CALABRESE, PHILIP GOYRET E ORAZIO F.
PIAZZA, Dizionario di Ecclesiologia, Città Nuova, Roma, 2009, pp.
1350, Euro 140 Un nuovo Dizionario di Ecclesiologia è stato presentato alla Pontificia Università Lateranense.
Si tratta di un corposo volume curato da Gianfranco Calabrese, Philip Goyret e Orazio F.
Piazza.
Un fatto importante nell’ambito delle pubblicazioni teologiche.
Non perché manchino dizionari di teologia.
Ve ne sono, anzi, da tempo e di pregevoli.
Se però, la teologia dogmatica e anche quella morale, liturgica, spirituale e pastorale, e poi specialmente la Sacra Scrittura e la teologia biblica avevano non pochi dizionari di riferimento, ciò non era ancora accaduto per l’ecclesiologia.
Non, perlomeno, nella forma articolata e completa con cui si presenta questo dizionario e non con simile ampiezza quanto all’insieme e alle singole voci.
L’ottima – almeno così appare già a prima vista – riuscita di questa iniziativa editoriale non può, dunque, che essere salutata con soddisfazione.
In rapporto all’ecclesiologia stessa, anzitutto.
Lo mette in evidenza nella prefazione l’arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, che esordisce col richiamare il lavoro teologico durante quello che comunemente è conosciuto come “il secolo della Chiesa” (Otto Dibelius), ossia per quell’arco di tempo durante il quale c’è stata “la progressiva scoperta di questo mistero fondamentale della nostra fede e nella nostra vita che, come sappiamo, per secoli non aveva suscitato l’interesse esplicito della teologia” (p.
5).
Ladaria, poi, mette in luce la dipendenza del dizionario dal magistero del Vaticano ii, che sulla scia di precedenti interventi magisteriali (fra cui, anche temporalmente più vicina al concilio, la Mystici corporis di Pio XII), ha collocato il mistero della Chiesa al centro dei suoi interessi.
Di ciò questo dizionario intende essere un’approfondita sintesi e una fedele esposizione.
Espressamente, difatti, si dichiara che l’impianto portante dell’intera opera ha come riferimento principe il binomio Lumen gentium e Gaudium et spes due testi che, considerati nella loro reciprocità, danno vita a quella dimensione missionaria da cui sono qualificate tutte le voci e che costituisce il paradigma ermeneutico per la loro lettura.
Sul crinale, infine, di un processo storico, che ha il suo acme nel Vaticano II, il dizionario ha l’ambizione “di sostenere una sua dinamica ricezione nel variegato scenario della ecclesiologia contemporanea” e di “presentare una chiave di lettura, di indagine e di comprensione della realtà misterico-strutturale della Chiesa” (p.
7).
Tra gli altri scopi che giustificano la preparazione di ogni buon dizionario, in questo caso c’è pure quello di raccogliere in una prospettiva disciplinare le diverse questioni che interpellano l’ecclesiologia.
Sotto questo profilo è il caso di aggiungere e sottolineare alcune particolarità volute sin dal principio per questo dizionario.
Si consideri, dunque, anzitutto la provenienza dei molti autori delle voci.
Sono ben 114, legati in vario modo a 52 istituzioni tra università, atenei pontifici e facoltà teologiche operanti sia in Roma, sia nelle altre regioni d’Italia.
È, dunque, in gran parte la “teologia italiana” quella che qui s’esprime, per quanto non manchino i contributi di teologi di diversa nazionalità e attivi in istituti non italiani.
Ciò sia detto al fine di mettere in luce e onorare la profondità e la vivacità della ricerca teologica presente nelle Chiese d’Italia.
L’idea del Dizionario, peraltro, nacque nel contesto del secondo Colloquio nazionale dei docenti di ecclesiologia, che si svolse a Telese Terme nell’aprile 2004.
Coglieva, dunque, nel segno l’arcivescovo Rino Fisichella quando, in occasione della presentazione alla Lateranense, affermava che il presente dizionario, nel quadro dell’odierno bisogno di fare sintesi, si presenta come un singolare e armonico mosaico ecclesiologico.
Si riconoscerà, d’altronde, che raccogliere il trattato ecclesiologico in 161 voci non è stata impresa facile, tenuto conto dello sviluppo che esso ha conosciuto specialmente dopo il Vaticano II.
All’appuntamento conciliare, difatti, l’ecclesiologia era giunta con una grande ricchezza di studi e con una molteplicità di proposte ecclesiologiche senza, tuttavia, avere raggiunto un consenso rispetto alla struttura, ai contenuti e alla metodologia.
Dal Vaticano ii in avanti, però, l’interesse per la costruzione di un trattato di ecclesiologia è stato ed è ancora oggi in crescendo.
È stata, allora, opera davvero meritoria quella dei curatori nell’integrare i vari temi (biblici, storici, liturgico, ecumenico, pastorale, canonico, e così via) d’interesse ecclesiologico in una (non esclusiva) prospettiva storico-dogmatica, preoccupandosi che ogni voce conservasse la sua specificità disciplinare e al tempo stesso rimanesse aperta a una positiva interazione critica per un efficace discorso teologico-sistematico.
Un’ultima caratteristica è giusto mettere in luce ed è quella su cui indirizza l’attenzione anche l’arcivescovo Ladaria.
È la disposizione “modulare” delle singole voci.
La proposta è evidenziata nelle pagine iniziali dove sono presentati ventiquattro “moduli”, ciascuno dei quali suggerisce al lettore la possibilità di selezionare ambiti specifici di ricerca.
“La lettura modulare, secondo moduli appositamente non titolati per non condizionarne concettualmente il contenuto – avvertono i curatori – favorisce la duplice possibilità di fruire, contestualmente, di specificità disciplinare e integrazione critica, per cui ogni voce è idealmente collocata all’interno di una unità tematica e si sviluppa in armonia con le altre voci presenti nel modulo” (pp.
7-8).
Va da sé, in ogni caso, che nel dizionario le voci sono materialmente disposte in rigoroso ordine alfabetico e perciò facilmente rintracciabili.
Ciascuna di esse, però, fornita di aggiornata e completa, per quanto essenziale, bibliografia, è previamente qualificata, a seconda dei casi, come voce “fondativa”, o “secondaria”, o “esplicativa”.
Distinzione senza dubbio utile, almeno perché aiuta, magari il principiante, a scegliere secondo l’aureo principio contenuto nella breve lettera De modo studendi, che se non è di san Tommaso, come si è ritenuto, si armonizza stupendamente con la sua metodologia: ut per rivulos, non statim in mare, eligas introire, quia per faciliora ad difficiliora oportet devenire.
Altrimenti detto, la diversa qualificazione delle “voci” aiuta il lettore a individuare subito ciò che è davvero alle fondamenta dell’ecclesiologia.
di Marcello Semeraro Vescovo di Albano
“Shutter Island”
Con Shutter Island Martin Scorsese firma uno psyco-thriller ad alta tensione.
E lo fa con la solita maestria, magari con qualche incongruenza narrativa, confezionando un film gotico, cupo, enigmatico, a tratti claustrofobico, ricco di suspense e di colpi di scena; una pellicola che sicuramente rispecchia bene l’idea di film che il regista si era fatto dopo aver letto l’omonimo romanzo di Dennis Lehane, già autore di Mistic River, portato sugli schermi da Clint Eastwood e premiato con un Oscar: un puzzle in cui i pezzi si incastrano non seguendo un ordine preciso e che resta incomprensibile fino a quando l’ultimo tassello non viene messo al suo posto. Scorsese voleva fare un film sulla follia, senza però limitarsi a questo.
Infatti Shutter Island – presentato sabato in anteprima mondiale al festival di Berlino, nelle sale americane il 19 febbraio e in quelle italiane il 5 marzo – è soprattutto un viaggio nelle paure interiori, le più nascoste e inconfessabili.
Quelle che accompagnano, nell’autunno del 1954, l’agente federale Teddy Daniels (un credibile Leonardo Di Caprio) sull’inaccessibile e sorvegliatissima isola Shutter, al largo di Boston, sede dell’ospedale psichiatrico di Ashecliffe nel quale sono detenuti pericolosi criminali psicopatici.
Il suo incarico, e quello del collega Chuck Aule (il sempre più apprezzato Mark Ruffalo), è di trovare Rachel Solando, rinchiusa per aver ucciso i suoi tre figli, misteriosamente scomparsa.
Mentre compiono la loro indagine – di cui il mondo esterno sembra non sapere nulla e che pian piano stringe gli investigatori in una morsa di inquietudine, di paura e di confusa irrazionalità – sull’isola si abbatte una tempesta di eccezionale violenza che rende tutto più tetro.
Sospetti e misteri si moltiplicano, in un crescente vortice di tensione in cui si fanno strada ipotesi di sordidi complotti – siamo negli anni segnati dalla paranoia della guerra fredda e dal maccartismo – e di disumani esperimenti sui pazienti cui gli enigmatici medici (i bravi Ben Kingsley e Max von Sydow) sembrano avere parte.
Teddy in particolare accusa il peso di quanto avviene, costretto com’è a entrare in un mondo in cui la psiche umana ha perso totalmente il controllo e nel quale vengono alla luce segreti sconvolgenti, così come verità orribili che sembravano sepolte per sempre.
Fedele al romanzo, la sceneggiatura di Laeta Kalogridis intreccia realtà e fantasia, verità e illusione, proponendo numerosi flashback che riportano alla mente di Teddy le agghiaccianti immagini della liberazione del campo di concentramento di Dachau, in cui è stato come soldato, e le allucinazioni sulla giovane moglie morta nell’incendio della casa.
E proprio quest’ultimo evento lega l’agente a quell’ospedale psichiatrico: egli non è lì per caso; sa che in quel luogo si trova il responsabile di quel rogo.
La creatività di Scorsese in Shutter Island sembra segnare il passo, sottomessa alla rigidità del soggetto scelto.
Tuttavia ogni cosa appare credibile nella narrazione di Scorsese, grazie anche alla realistica ricostruzione dell’atmosfera e della vita degli ospedali psichiatrici americani del tempo firmata da Dante Ferretti e soprattutto alla plumbea, penetrante fotografia di Robert Richardson.
Tutto collima e il racconto sembra seguire una sua logica, per quanto complessa.
Solo alla fine, guardando all’indietro, si possono notare, come già accennato, possibili incongruenze, situazioni non proprio lineari.
Ma il risultato filmico è notevole, pur non essendo di fronte a un’opera memorabile.
Del resto se è vero che in un thriller ciò che conta è restare incollati alla poltrona fino alla fine in attesa che il mistero venga svelato, ebbene Scorsese – che da cinefilo appassionato conosce alla perfezione i meccanismi della visione – riesce con bravura nell’intento, raccontando una storia in cui la realtà cambia in continuazione e i piani si confondo.
Un film sulla follia e sulla paura, dunque, ma anche sulle radici della violenza, che percorre questa pellicola trasversalmente.
Per sua stessa ammissione, Scorsese considera la violenza il cuore del suo cinema, dove centrale appaiono i tentativi dell’uomo di controllarla.
Chi non ci riesce o impazzisce o vive nella finzione, attraverso compromessi, come ha già raccontato agli inizi in Mean street e ultimamente in The departed.
E come in queste pellicole, anche in Shutter Island viene offerta la possibilità di redenzione dal male.
L’ancora di salvezza qui risiede nella scienza; una scienza non proprio ortodossa, persino disumana, ma a suo modo rozzamente efficace.
Il protagonista della storia, Teddy, ne è consapevole, per questo ne diffida; del resto ha vissuto situazioni di grande sofferenza, di orrore addirittura inimmaginabile alle quali la scienza non è stata del tutto estranea.
Fortunatamente alla maggior parte della gente ciò è risparmiato, ma Scorsese sembra dirci che tutti in qualche misura nascondiamo nel profondo una Shutter Island che contiene i semi di violenza, nonché le paure, i segreti inconfessabili, le cose che si vorrebbero cancellare dalla memoria.
Ma invita altresì a prendere coscienza che solo accettando la nostra natura umana, con le sue debolezze ma anche con le sue infinite risorse, è possibile costruire un futuro di speranza.
“Siamo noi a decidere come vivere – ha detto di recente – e la via del riscatto è la consapevolezza”.
Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 15-16 febbraio 2010)
Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso
Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso Convegno di studio sull’IRC: 13-14 marzo 2010 Sabato 13 marzo ore 9.00 Lodi ore 9.15 Dire Dio in una scuola secolarizzata Prof.
Michele Marchetto ore 10.
45 Intervallo ore 11.15 Dire Dio secondo l’approccio psicologico e psicanalitico Prof.
Massimo Diana ore 13.00 Pranzo ore 15.00 Il volto di Dio nella Canzone Prof.
Fabio Pasqualetti ore 17.00 Intervallo ore 17.30 Il volto di Dio nella Bibbia Prof.
Cesare Bissoli Il volto di Dio nelle Grandi Religioni Prof. Cyril De Souza Domenica 14 marzo ore 9.00 Dire Dio in una cultura ermeneutica Prof.
Zelindo Trenti ore 10.30 Intervallo ore 11.00 Costruire il volto di Dio a Scuola Prof.
Roberto Romio Una esemplificazione didattica Prof.
Lucillo Maurizio.
ore 12.30 Conclusione Pranzo Obiettivo del Corso Il Linguaggio tradizionale su Dio rischia l’insignificanza.
La diversità delle appartenenze etniche, la molteplicità delle culture, la diversità delle religioni impongono una rivisitazione puntuale del linguaggio circa il cardine stesso dell’esperienza religiosa.
Il Convegno si propone come spazio privilegiato per la riflessione personale e per l’intervento educativo del docente di religione cattolica.
Iscrizioni e informazioni Segreteria Istituto di Catechetica.
Università Pontificia Salesiana Piazza Ateneo Salesiano, 1 00139 ROMA Tel 06 87290.651; Fax 06 87290.354 martedì e venerdì ore 9,00-12,00
VI Domenica Tempo Odinario Anno C.
Preghiere e Racconti Beatitudini dell’oggi BEATI quelli che sanno ridere di se stessi: non finiranno mai di divertirsi.
BEATI quelli che sanno distinguere un ciottolo da una montagna: eviteranno tanti fastidi.
BEATI quelli che sanno ascoltare e tacere: impareranno molte cose nuove.
BEATI quelli che sono attenti alle richieste degli altri: saranno dispensatori di gioia.
BEATI sarete voi se saprete guardare con attenzione le cose piccole e serenamente quelle importanti: andrete lontano nella vita.
BEATI voi se saprete apprezzare un sorriso e dimenticare uno sgarbo: il vostro cammino sarà sempre pieno di sole.
BEATI voi se saprete interpretare con benevolenza gli atteggiamenti degli altri anche contro le apparenze: sarete giudicati ingenui, ma questo è il prezzo dell’amore.
BEATI quelli che pensano prima di agire e che pregano prima di pensare: eviteranno certe stupidaggini.
BEATI soprattutto voi che sapete riconoscere il Signore in tutti coloro che incontrate: avete trovato la vera luce e la vera pace.
Beati i miti Il nostro campo è invaso dall’ingiustizia.
Tutte le risposte del mondo all’ingiustizia sono violenza attiva o consentita.
Opporvi la dolcezza del Cristo è scandalo.
Chi può misurare il coraggio richiesto a coloro che accettassero questo scandalo della mitezza? Ma c’è scandalo più grande – ed autentico, questo – dello scandalo dei cristiani che hanno lasciato a un Gandhi la responsabilità di levare nel mondo una massa di uomini che si affidavano alla forza incoercibile di quella mitezza? E tuttavia, ancora una volta, non c’è scelta.
Il Cristo “mite ed umile di cuore” è un fatto.
Non possiamo né rettificarlo né adattarlo.
(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 123).
Gli infelici Non si deve contrarre la misericordia secondo la moda del giorno.
Bisogna che la presa di coscienza della infelicità economica delle masse non ci trascini a sprezzare altre forme di infelicità, a disinteressarci di queste.
La misericordia del Cristo per i poveri si inserisce in una misericordia tanto vasta quanto tutte le infelicità umane.
È misericordia verso i peccatori, misericordia verso gli ammalati, misericordia verso tutti coloro che piangono i loro morti, misericordia verso i prigionieri, misericordia verso tutto ciò che è piccolo.
A motivo di una nozione materializzata della povertà si rischia assai spesso di dimenticare che vi sono altri poveri che non gli economicamente poveri, altri piccoli che non il proletariato.
Vi sono ammalati morali o psicologici.
Poveri di doni, di attrattive, di amore.
Accanto alle classi oppresse vi sono gli “inclassificabili”.
I poveri e i piccoli non sono soltanto nel proletariato.
Ed il proletariato stesso non è composto esclusivamente di militanti, quei militanti ricchi già di una speranza, di una ricchezza di cuore, di una formazione spirituale.
Il cuore del Cristo, neppure lui può essere rettificato: è di tutti, ed è a tutti che dobbiamo darlo.
Questo amore personale del Cristo “chiama ciascuno con il suo nome”, non chiama una categoria.
Conosce ciascuno “come il Padre conosce il Figlio”.
Dobbiamo ritrovare quest’amore personale di qualcuno verso qualcuno.
Quest’amore è mutilato dalle definizioni “sociali” che attacchiamo sui nostri fratelli ed in base a quella che diamo di noi stessi.
Noi non sappiamo più incontrarci come un uomo incontra un uomo nella sua semplicità individuale.
Non sappiamo più chiamarci per nome.
(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 125-126).
L’insegnamento di un Maestro ebreo? «Il Mahatma Gandhi, padre dell’India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il “discorso della montagna”, diceva che gli era andato dritto al cuore: “The Sermon on the Mount went straight to my heart…”.
E aggiungeva: “È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù”.
Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l’incontro col Profeta galileo e il suo messaggio.
Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo».
(Mons.
Bruno FORTE, Il discorso della montagna e il dialogo ebraico-cristiano, dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner, 18 GENNAIO 2010).
Le Beatitudini Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali.
È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città.
Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono.
Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati.
Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo.
La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza.
A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità.
E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.
Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili.
Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana.
Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.
Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).
Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.
(A.
MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato 1992,542s.).
Beati voi! «Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”.
“Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri.
Beati voi!”.
E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità.
Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio.
Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita.
Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.
“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana.
È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio.
Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore.
Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo.
(…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente.
E la santità non è questione di età.
La santità è vivere nello Spirito Santo”.
Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza.
Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.
(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella la GMG 2002).
Le beatitudini e la felicità Le beatitudini indicano il cammino della felicità.
E, tuttavia, il loro messaggio suscita spesso perplessità.
Gli Atti degli apostoli (20,35) riferiscono una frase di Gesù che non si trova nei vangeli.
Agli anziani di Efeso Paolo raccomanda di «ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”».
Da ciò si deve concludere che l’abnegazione sarebbe il segreto della felicità? Quando Gesù evoca ‘la felicità del dare’, parla in base a ciò che lui stesso fa.
È proprio questa gioia – questa felicità sentita con esultanza – che Cristo offre di sperimentare a quelli che lo seguono.
Il segreto della felicità dell’uomo sta dunque nel prender parte alla gioia di Dio.
È associandosi alla sua ‘misericordia’, dando senza nulla aspettarsi in cambio, dimenticando se stessi, fino a perdersi, che si viene associali alla ‘gioia del cielo’.
L’uomo non ‘trova se stesso’ se non perdendosi ‘per causa di Cristo’.
Questo dono senza ritorno è la chiave di tutte le beatitudini.
Cristo le vive in pienezza per consentirci di viverle a nostra volta e di ricevere da esse la felicità.
Resta tuttavia il fatto, per chi ascolta queste beatitudini, che deve fare i conti con una esitazione: quale felicità reale, concreta, tangibile viene offerta? Già gli apostoli chiedevano a Gesù: « E noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che ricompensa avremo?» (Mt 19,27).
Il regno dei cieli, la terra promessa, la consolazione, la pienezza della giustizia, la misericordia, vedere Dio, essere figli di Dio.
In tutti questi doni promessi, e che costituiscono la nostra felicità, brilla una luce abbagliante, quella di Cristo risorto, nel quale risusciteremo.
Se già fin d’ora, infatti, siamo figli di Dio, ciò che saremo non è stato ancora manifestato.
Sappiamo che quando questa manifestazione avverrà, noi saremo simili a lui «perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2).
(J.-M.
LUSTIGER, Siate felici, Genova, 1998, 111-117 passim).
Preghiera Signore Gesù Cristo, custodisci questi giovani nel tuo amore.
Fa’ che odano la tua voce e credano a ciò che tu dici, poiché tu solo hai parole di vita eterna.
Insegna loro come professare la propria fede, come donare il proprio amore, come comunicare la propria speranza agli altri.
Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo, in un mondo che ha tanto bisogno della tua grazia che salva.
Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini, perché siano sale della terra e luce del mondo all’inizio del terzo millennio cristiano.
Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida questi giovani uomini e giovani donne del ventunesimo secolo.
Tienili tutti stretti al tuo materno cuore.
Amen.
(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno c Prima lettura: Geremia 17,5-8 Così dice il Signore: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamarisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti».
v Geremia è un profeta perseguitato.
Chiamandolo il Signore gli aveva promesso di renderlo un muro inespugnabile (1,5-10); di fatto è oggetto di ire e di attacchi da parte di tutti, i familiari (12,6), i concittadini (12,1-5), gli abitanti di Gerusalemme, il re, la corte (36,21-26) e finisce in una prigione (38,6).
La sua salvezza è la sua fede in un Dio giusto giudice (12,1), che punisce il male e premia il bene.
È l’assioma che si trova alla base della teologia deuteronomistica (cioè presente nel libro del Deuteronomio) di cui Geremia è un esponente.
Tuttavia l’«uomo che confida nell’uomo» non è chiunque fa ricorso all’aiuto del proprio simile, ma l’israelita che vuole risolvere i suoi problemi nazionali e militari appoggiandosi agli stranieri invece che a JHWH.
Le alleanze con i popoli vicini, assiri, babilonesi, egiziani, non sono mai state ben viste dai profeti, quindi neanche da Geremia, perché sottindendevano una carenza di fede nel Dio dei padri, colui che li aveva sottratti, con braccio potente, dalla schiavitù egiziana e aveva messi nelle loro mani i cananei.
Il discorso si fa più ampio nella contrapposizione tra l’agire secondo la carne e l’agire secondo lo spirito.
La «carne» nella tradizione biblica designa la fragilità creaturale dell’uomo.
Vivere o agire secondo la carne significa seguire gli istinti dell’egoismo o dell’orgoglio più che la voce di Dio e la sua volontà.
In altre parole è dare spazio alle scelte più facili, di comodo, che soddisfano più la passione che la ragione.
Se l’«uomo» non sa lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio, sono le conseguenze del suo agire carnale che dovrebbero portarlo al ravvedimento, i castighi che l’hanno colpito o stanno per colpirlo.
I buoni suggerimenti, le riflessioni sapienzali non valgono sempre a cambiare l’uomo, ma il bene e il male che consegue il suo agire dovrebbero portarlo a resipiscenza.
È quanto il profeta si augura.
Il richiamo alle conseguenze del ricordo e della dimenticanza di Dio può essere opportuno ma non gli si può dare un peso sicuro, poiché molte volte la «maledizione» non cade sempre sugl’iniqui, né la «benedizione» raggiunge solo i buoni.
La fede non è un calcolo matematico.
Seconda lettura: 1Corinzi 15,12.16-20 Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.
Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
v La risurrezione è una proposta cristiana che non ha avuto sempre facile accoglienza (cf.
At 17,32;26,24).
Sono le difficoltà che Paolo incontra tra i convertiti di Corinto.
L’apostolo si è appellato alle prove storiche, ai testimoni cioè della risurrezione di Gesù (vv.
3-11), ora fa ricorso anche alle ragioni teologiche.
La risurrezione è la garanzia unica ed esclusiva non tanto della credibilità di Gesù Cristo, quanto della validità della sua missione ovvero della sua azione redentiva.
Se egli non fosse risorto non solo non avrebbe dato la giusta prova di quello che aveva predicato, ma non avrebbe dimostrato e avviato il processo di rigenerazione e di rinascita di quelli che muoiono.
Se ciò fosse vero non c’è futuro, non c’è speranza di una vita nuova in quelli che hanno chiuso l’esperienza terrestre.
L’argomentazione di Paolo è tuttavia più complessa poiché concepisce la morte di Cristo come un sacrificio di espiazione per i peccati dell’umanità.
Egli è il capro che porta su di sé i peccati di tutti (cf.
Rm 3,21-28) come Giovanni dice che è l’agnello che toglie i peccati del mondo (1,29).
La risurrezione prova che Gesù è entrato nel mondo di Dio, quindi ha offerto al Padre il risarcimento che aspettava dagli uomini e da lì ora attende quelli che hanno creduto in lui.
È evidente che se non fosse risorto, né lui né i suoi seguaci sarebbero mai entrati nel regno della vita, non sarebbero quindi salvi.
La risurrezione è, si può dire, un termine convenzionale, equivalente a continuità nell’esistenza.
Gesù risorto significa che egli vive, non è nel regno dei morti, ma dei vivi.
Solo che è un trapasso senza prove, senza verifiche; si può accettare affidandosi alla parola di Dio trasmessa da Gesù Cristo.
Gesù è la primizia dei dormienti (v.
20), il primogenito tra molti fratelli (Rom 8,29), ma se non si è verificato in lui il trapasso nella nuova vita, non si verificherà in nessuno, nemmeno in quelli che vivono con tale fede in lui.
Anzi questi che coltivano tali illusioni, accanto a privazioni e sacrifici di ogni genere, sono alla fine da compiangere più degli altri.
L’apostolo nemmeno accetta queste supposizioni e chiude ogni possibile riserva riaffermando categoricamente la sua fede nella risurrezione (v.
20).
Vangelo: Luca 6,17.20-26 In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante.
C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete, perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.
Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».
Esegesi Il brano di Lc 6,20-26 è parallelo a Mt 5,1-12.
Si tratta in entrambi i casi di un grande discorso programmatico di Gesù, solo che nel primo caso esso è tenuto «in un luogo pianeggiante», nel secondo «su un monte».
In Matteo Gesù apre la sua predicazione, per Luca invece l’ha aperta nella sinagoga di Nazaret (4,18-22), ma con un annunzio che è identico a quello del discorso della montagna o in pianura.
Anzi è più esplicito e forse più genuino.
«Lo Spirito di Dio è su di me» per questo mi ha inviato ad evangelizzare i poveri, a liberare i carcerati, gli oppressi, a guarire i ciechi, a proclamare l’anno di grazia del Signore (cf.
Is 61,1-2; Lc 4,18-22).
La «buona notizia» che i poveri attendono è che la loro infelice condizione abbia a finire, non in un giorno che nessuno sa quale, ma presto, subito, si può aggiungere.
«Oggi si è adempiuta questa Scrittura che avete udito», dichiara Gesù ai suoi concittadini che l’ascoltano sbigottiti e offesi (4,20,28).
La povertà non è un bene che Dio ha contemplato nel suo disegno creativo; è addirittura un male, una carenza, come tale è la malattia e qualsiasi altro ostacolo che intralcia il cammino dell’uomo, destinata a scomparire.
L’era messianica doveva segnare l’avvio di una siffatta realizzazione, insieme a un rinnovamento dei rapporti dell’uomo con Dio.
Il giardino delle origini (Gen 2) era per Gesù il regno dei cieli o di Dio di cui era arrivata la realizzazione.
Il programma di Gesù guarda a tutto l’uomo, al suo corpo come al suo spirito, ai rapporti con Dio ma anche con i propri simili; abbraccia tutto e tutti senza escludere nessuno, ma le sue attenzioni, quasi le sue preferenze, vanno agli umili, ai piccoli, agli indigenti, ai malati, in una parola ai «poveri», perché ne hanno più bisogno.
Anche i messi del Battista gli chiedono di qualificarsi: «Sei tu colui che deve venire o un altro?».
Egli non fa che rispondere appellandosi alle stesse parole del profeta Isaia (61,1-2;26,19;29,18;35,5) e anche qui la risposta è: «I poveri sono evangelizzati» e accanto ad essi sono i ciechi, i lebbrosi, gli storpi, i sordi.
In questo senso Gesù si proclama il salvatore degli uomini più che dei propri connazionali.
I figli di Abramo attendono prima di tutto l’affrancamento dal giogo straniero che pesa sulle loro spalle da circa sei secoli (dal 587 a.
C.), ma Gesù guarda alle aspirazioni e aspettative di tutti gli uomini: tutti egualmente figli dello stesso comune padre.
Egli è un israelita, ma la sua missione supera i confini d’Israele, come materialmente li sta superando nel corso della sua predicazione.
Il suo sogno è arrivare a una convivenza tra ebrei, samaritani, fenici, greci e romani, in un regno di piena, perfetta giustizia e pace.
Il «primato» d’Israele o di qualsiasi altro popolo, come di un uomo sull’altro, è sempre satanico perché nasce dal desiderio di sopraffazione non dallo Spirito di Dio di cui egli si sente ricolmo (Lc 4,18; 1,35:3,22).
Gesù è un profeta non un dottore della legge e meno ancora uno stratega; egli cerca di aiutare gli uomini a scoprire i disegni di Dio nascosti nelle profondità del loro cuore o che si esplicano nel corso della storia.
Il messaggio che ha lasciato ai suoi ascoltatori è troppo insolito, ardito per essere subito capito ed accettato dai suoi stessi seguaci, per questo con il passare del tempo ne tentano una loro reinterpretazione.
I vangeli registrano quella delle chiese di Marco e Matteo, di Luca e Giovanni.
&nb
«Il nostro mondo»
Nel solco delle due precedenti mostre – “Acqua, aria, fuoco, terra” e “Madre Terra” che focalizzavano l’attenzione sulla biodiversità puntando soprattutto su natura e ambiente, senza nascondere i problemi del pianeta – la rassegna curata da Guglielmo Pepe, direttore di National Geographic Italia, stavolta racconta l’avventura umana.
Così, dopo aver raccontato le conseguenze dei cambiamenti climatici e le difficoltà di sopravvivenza di numerose specie animali, i fotografi della prestigiosa National Geographic Society hanno puntato i loro obiettivi esclusivamente sull’uomo per mostrare la ricchezza della diversità.
Il risultato è diviso in quattro capitoli: bambini, uomini, donne, genti.
Persone colte in alcune situazioni che ne caratterizzano l’esistenza: la famiglia, la vita in città e nei villaggi d’origine, il rapporto con la natura, il lavoro.
E come sempre, quando si documenta l’uomo, il risultato è affascinante e ambivalente.
Da una parte le immagini esaltano la bellezza della vita, dall’altra testimoniano anche le condizioni di estremo disagio in cui ancora vivono numerose popolazioni.
Secondo Pepe, “l’umanità messa in mostra ci aiuta a guardare la nostra specie con occhi diversi, ad avere compassione, ad essere partecipi, a condividere felicità e dolore, a sentirci meno soli, a non stare alla finestra, a capire noi stessi e i nostri simili”.
Perché ciò che emerge con forza dal lavoro dei quarantotto fotografi che hanno scattato le foto presentate sono soprattutto i volti.
Volti gioiosi, pensierosi, mesti, affaticati, ascetici, preoccupati; volti che si aprono alla vita o segnati dallo scorrere del tempo; volti che raccontano storie, testimoni di un’esistenza passata ma anche premonitori di un futuro.
Scorrendo lo sguardo da un’immagine all’altra si colgono i contrasti – etnici, sociali, religiosi, economici – ma allo stesso tempo si scorgono le caratteristiche che accomunano i membri della famiglia umana.
E non si tratta solo di esperienze, come il lavoro, lo studio, la quotidianità, la festa, la malattia, l’emergenza di una catastrofe inattesa o di una guerra che non sfocia mai nella pace.
Si tratta in particolare di emozioni.
Sono le emozioni che ci fanno entrare in empatia con gli altri, in qualche modo ci spingono a condividere, a sentirci più vicini.
E come potrebbe essere altrimenti di fronte al sorriso contagioso della piccola boscimane ritratta nel villaggio di Nhorma, in Namibia; o agli occhi intensi e interrogativi delle “piccole donne” – una giovanissima sherpa che porta in spalla un’altra bimba – nel villaggio di Phakding, in Nepal.
O davanti al corpo scavato dall’Aids di un malato di Lusikisiki, in Sudafrica; oppure dinanzi agli sguardi affamati e imploranti dei poveracci che si accalcano per comprare carcasse di pesce marcio in un mercato della Tanzania.
O, ancora, fissando lo sguardo sull’uomo che nella propria rassegnazione spera comunque di trovare dell’oro in un sacco di terra di scarto di una miniera di Serra Pelada, in Brasile; infine incrociando il volto sereno di una donna con il suo neonato nella provincia dello Yunnan, in Cina.
Come si legge nel testo introduttivo del catalogo della mostra, “difficilmente i fotografi National Geographic vi diranno che il loro lavoro può contribuire a cambiare lo stato delle cose.
Eppure può accadere.
Soprattutto quando noi non ci limitiamo a essere spettatori, e se cerchiamo di capire, prima di giudicare”.
Ecco, quello che giunge da queste novantuno immagini è un invito a capire; a comprendere l’altro e a scoprire in lui un pezzo di se stessi.
E se alla fine di questo viaggio tra le genti del pianeta il visitatore avrà iniziato a vedere l’altro con occhi nuovi, più limpidi, senza le spesse lenti del pregiudizio, delle sovrastrutture culturali, allora questa mostra avrà raggiunto il suo scopo.
Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 8-9 febbraio 2010) Novantuno immagini inedite per raccontare l’uomo e il suo mondo.
Novantuno scatti nei diversi continenti per descrivere la condizione umana nel nostro pianeta.
E scoprire che, pur con il cambiare delle latitudini, le similitudini sono superiori alle differenze.
L’uomo è uomo, dovunque si trovi, qualunque sia la sua cultura.
Gioisce e soffre allo stesso modo.
È questo il messaggio più profondo della mostra fotografica “Il nostro mondo” allestita da National Geographic Italia al Palazzo delle Esposizioni di Roma e visitabile gratuitamente fino al 2 maggio.
V Domenica del tempo ordinario (Anno C).
Preghiere e Racconti Chiamati a qualcosa di più L’insuccesso mostra all’uomo lo scarto tra l’infinità dei suoi desideri e la possibilità di realizzarli.
La pesca infruttuosa suscita nei discepoli l’amara sensazione che non basta dire di andare a pescare per riuscire a pescare.
C’è uno scarto tra la potenza dei desideri e la loro realizzazione effettiva.
Quanti sogni di gioventù restano castelli in aria proprio per lo scarto tra ciò che noi vorremmo essere nella vita e ciò che poi si realizza! Vorremmo essere come il tale o il tal’altro, il nostro “io ideale” si proietta e alla fine vediamo che c’è una differenza enorme; l’insuccesso mostra la distanza tra l’infinità dei desideri e la possibilità di realizzarli.
La pesca infruttuosa diventa il simbolo di questo scarto, ed è una delusione salutare perché ci permette di riappropriarci con ordine dei nostri desideri.
Ma può essere anche molto pericolosa: scatena reazioni negative e drammatiche.
Ricordo il caso di un uomo molto per bene che non riuscì ad accettare l’umiliazione di essere retrocesso nella carriera e per questo giunse a uccidere.
L’insuccesso aveva provocato in lui lo scatenamento di desideri, che c’erano ma che prima riusciva a dominare perfettamente.
È un’immagine di ciò che l’insuccesso provoca, per la violenza delle forze che si agitano dentro di noi, e che gli antichi chiamavano le passioni dell’uomo.
Le passioni non sono soltanto la sensualità; sono anche l’invidia, l’ambizione, l’orgoglio e i risentimenti più forti; come pure sono passioni l’amore, la fedeltà, l’impegno, il coraggio, l’entusiasmo e la perseveranza.
Queste sono le forze dell’uomo che dobbiamo imparare a conoscere e a dominare.
Anche se non arriviamo a casi drammatici, dobbiamo però dire che la pesca infruttuosa si ripete spesso nella nostra vita.
Viene ad esempio, magari in giovanissima età, una malattia che immobilizza ed ecco tutta una serie di sogni che crollano.
E uno passa due, tre, quattro anni prima di riuscire, se riesce, a ricomporre la profondità dei suoi desideri con la realtà che sta vivendo.
Conosco situazioni in cui da questa ricomposizione è venuta fuori una forza speculare formidabile.
Ma quanta fatica per arrivare a questa ricomposizione! Anche un’amicizia che sfuma è spesso fonte di grande delusione; un posto non ottenuto, un posto di lavoro sul quale avevamo puntato, soprattutto in situazioni in cui c’è una carriera quasi obbligata.
È la notte sul lago di Tiberiade.
E il Vangelo non dice tutto; ma quando cominciavano a tirar su la rete vuota, sarà cominciata la litania delle colpe: «È colpa tua, quanto mai siamo venuti, chi ci ha fatto uscire, chi ha avuto questa idea».
Cioè vengono fuori tutti i sentimenti negativi.
Dobbiamo riflettere per capire, come gli apostoli, che in fondo l’importante non è “andare a pescare”, che si è chiamati a qualcosa di più grande e che il Signore può farci conoscere quel “qualcosa di più” attraverso l’insuccesso.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 42-43).
Da peccatore a pescatore (Lc 5,1-11) Quando finisce di parlare, Gesù da un ordine a Simone: « Prendi il largo e calate le reti per la pesca » (Lc 5, 4).
E Simone risponde: «Signore, avendo faticato tutta la notte nulla abbiamo preso» (Lc 5,5): il verbo usato da Luca è kopiasantes (part.
aor.
di kopiao), che in Atti si riferisce alla fatica apostolica, la fatica di annunciare il Vangelo.
È la fatica di chi, pur avendo speso molte energie, pur avendo messo in opera tutte le proprie forze, non ottiene alcun risultato.
E Simone decide di rischiare ancora una volta, di ignorare la fatica che lo opprime, di rischiare il ridicolo: «ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5).
È l’immagine dell’Apostolo che supera la prova di fiducia, che non cade nella delusione e nella disperazione, ma trova la forza di provarci ancora una volta…
«sulla tua parola».
Simone diventa immagine dell’uomo che rischia se stesso anche in situazioni piccole ma che esigono decisione e coraggio.
Santo è colui che sa rischiare, che si butta fuori, che non agisce in base a ragionamenti soltanto di convenienza.
Non sarà la sola fatica umana, neanche il calcolo o gli interessi ma l’amore che permetterà a Pietro di buttarsi, di andare fuori, di saper rischiare con e per Gesù.
E Gesù ripaga la fatica di Simone: «E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano» (Lc 5,6).
Giunti a riva, Simone davanti a tutta la folla «si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”» (Lc 5,8).
La potenza della parola di Gesù gli ha aperto gli occhi sulla propria condizione di peccatore.
Posto dinanzi alla potenza di Gesù, Simone riconosce la propria fragilità e trova la sua autorealizzazione.
E Gesù, accogliendo il peccatore, lo trasfigura in…
pescatore di uomini! Butto la rete Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita.
Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto Pensieri e lettre spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005).
Sono pronta a partire «Sono pronta a partire, e il mio desiderio con vele spiegate aspetta il vento.
Solo un altro respiro respirerò in quest’aria calma, solo un altro sguardo d’amore volgerò all’indietro, e poi sarò tra voi, un navigante tra naviganti.
E tu vasto mare, madre insonne, unica pace e libertà per fiumi e rivi solo un’altra svolta farà questa corrente, solo un altro mormorio in questa radura, e poi io verrò da te, una goccia sconfinata in uno sconfinato oceano» Tuffati profondo! La perla di gran prezzo giace nascosta giù nel profondo.
Come un pescatore di perle, anima mia, tuffati, tuffati profondo, tuffati ancora più profondo e cerca! Può darsi che non trovi nulla la prima volta, Come un pescatore di perle, anima mia, senza stancarti, persisti e persisti ancora, tuffati profondo, sempre più profondo, e cerca! Quelli che non conoscono il segreto si prenderanno gioco di te e tu ne sarai rattristata.
Ma non perderti di coraggio, pescatore di perle, anima mia! La perla di gran prezzo è proprio nascosta là nascosta proprio in fondo.
E’ la tua fede che ti aiuterà a trovare il tesoro, è essa che permetterà che ciò che era nascosto sia finalmente rivelato.
Tuffati profondo, tuffati ancora più profondo, come un pescatore di perle, anima mia, e cerca, cerca senza stancarti.
(Swami Parmánanda).
«Amore» Il Signore ha bisbigliato una parola all’orecchio di un fiore e questo si è aperto in tanti petali colorati.
Il Signore ha bisbigliato una parola ad una pietra, e questa ha assunto i colori iridescenti e le sfumature del diamante.
Il Signore ha bisbigliato una parola al ruscello, ed esso è sgorgato con la freschezza di una sorgente d’acqua viva e perenne.
Il Signore, alla fine, si è chinato all’orecchio dell’uomo e gli ha sussurrato dolcemente una sola parola: amore.
(Gilal Ed-Din Rumi, monaco sufita del XIII secolo).
Solo Gesù può liberarmi totalmente Nel Nuovo Testamento la presenza di Gesù con le sue parole e i suoi gesti diviene una fonte inesauribile d’ispirazione per la preghiera: è Gesù che mi si accosta e m’interpella.
Gesù è il Buon Pastore alla ricerca della pecora smarrita, e io lo seguo.
Gesù è la vigna; Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati perché io possa dare buoni frutti.
Alla moltiplicazione dei pani, è Gesù che m’invita a offrirgli la mia povertà – cinque pani e due pesci – perché egli se ne serva per compiere meraviglie.
Alla pesca miracolosa, è Gesù che mi chiede una fiducia assoluta nella sua parola più che nei miei mezzi umani.
In occasione di numerose guarigioni, Gesù mi rammenta che lui solo può liberarmi totalmente.
(Jean -Jacques Gareau).
Preghiera Signore Gesù, Tu ci chiami a seguirTi, nel Tuo cammino di croce; Tu sconvolgi i nostri sogni e i nostri progetti: eppure, Tu sei la nostra pace… Accettaci con le nostre paure e le esitazioni del cuore; accogli il nostro umile amore, capace di darTi soltanto il poco che siamo.
ConvertiTi a noi, Signore, e noi ci convertiremo a Te, lasciandoci condurre dove forse non avremmo voluto, ma dove Tu ci precedi e ci attendi, perforo delle povere storie della nostra vita e del nostro dolore la Tua storia con noi.
Amen.
Alleluia.
(Bruno Forte) * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
V DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno c Prima lettura: Isaia 6,1-2.3-8 Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio.
Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali.
Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria».
Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo.
E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti».
Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare.
Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato».
Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?».
E io risposi: «Eccomi, manda me!».
v Vocazione e mandato, ovvero affidamento di un compito da svolgere, nell’Antico Testamento sono sempre strettamente congiunti.
Talvolta tuttavia la chiamata è semplicemente supposta ed è indicato solo il mandato di Dio all’uomo: è questo ciò che accade ad Abramo (Gn 12,1).
Nel caso di Mosè, la chiamata e il mandato vengono ampiamente e di-stintamente descritti, nella lunga e drammatica cornice di una teofania (Es 3,2-4,17).
Altre volte la vocazione non è affatto descritta, ma è soltanto ricordata dall’interessato (Amos 7,14-15) oppure dallo stesso Dio, p.
es., nella scena che descrive ampiamente il mandato affidato al profeta Geremia (1,4-5: «La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: Prima che io ti formassi nel grembo, ti ho conosciuto…»).
La chiamata di Isaia al ministero profetico richiama in qualche modo la chiamata e il mandato di Mosè descritti nel libro dell’Esodo, ma con un ritmo e un linguaggio molto più concentrati ed essenziali.
Nell’uno e nell’altro caso, tutto comincia con una teofania, che sorprende gli interessati.
Essi si dichiarano profondamente turbati dalla manifestazione di Dio e consapevoli della loro personale indegnità.
Da questo punto in poi, le due situazioni hanno però un diverso sviluppo: Mosè continua a protestare la sua incapacità di assolvere il mandato, mentre Isaia, purificato dai carboni ardenti dell’altare, si offre con slancio come inviato del Signore.
Diverso anche, nei due casi, è il contenuto del mandato: in quello di Mosè sta in primo piano l’annunzio della vicina liberazione dalla schiavitù, in quello di Isaia sta in primo piano un annunzio di sventura, mentre è solo appena intravista la fine della sventura medesima.
Nel v.
1, il profeta ci dice che il suo ministero profetico ebbe inizio «Nell’anno in cui morì il re Ozìa (nelle traduzioni dato talvolta come Uzzia e nel libro dei Re è chiamato Azaria), cioè probabilmente tra il 740-739.
Subito dopo è descritta la teofania, fino al v.
4.
Emerge in questa descrizione la santità di Dio, cioè la sua trascendenza, sperimentata come incommensurabilità (i lembi del suo manto riempivano il tempio), maestà reale (seduto su un trono) e santità proclamata a cori alterni dai misteriosi serafini.
Il termine «santità», oltre l’idea della trascendenza, include anche l’idea della suprema rettitudine.
Ciò è indicato esplicitamente dal v.
5, nel quale è descritta la reazione del profeta, il quale dalla stessa visione di Dio è indotto a riconoscere la sua indegnità di peccatore, partecipe dei peccati del suo popolo.
Se la teofania si chiudesse con la confessione del peccato, suo effetto sarebbe la disperazione.
Essa invece prosegue, nei vv.
5-7, con la descrizione di una purificazione, che è anche una santificazione aperta alla speranza.
Nel v.
8, è detto come è bastato al profeta purificato sentire che Dio cercava qualcuno da inviare come suo portavoce, perché egli si offrisse con slancio per quel compito.
Non sono poche le analogie tra questo testo del profeta Isaia e la nostra lettura evangelica.
Seconda lettura: 1Corinzi 15,1-11 Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato.
A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti.
Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli.
Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto.
Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana.
Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.
v Il brano della prima lettera ai Corinzi che costituisce la nostra seconda lettura contiene l’inizio della risposta di Paolo a quello che probabilmente era l’ultimo quesito postogli da quella comunità, riguardante il problema della risurrezione dei morti.
Nei vv.
1-2 c’è un moderato elogio dei Corinzi, per avere essi accolto il vangelo che egli stesso aveva loro presentato e per avere resistito a quelli che avrebbero voluto corromperlo o deformarlo.
Essi hanno anche sperimentato la forza salvifica che c’è in quel vangelo.
Nei vv.
3-7, l’apostolo riassume l’insegnamento centrale del Vangelo, che egli predica, in piena concordia con la predicazione della Chiesa: che Gesù Cristo è morto per la remissione dei peccati, che fu sepolto e fu risuscitato, conformemente alle affermazioni delle Scritture, che finalmente è apparso a quelli che poi hanno testimoniato quella risurrezione: rispettando l’ordine gerarchico, vengono nominati Cefa, i Dodici, più di cinquecento fratelli e Giacomo (rappresentante dei «fratelli del Signore»).
Per questo condensato del kèrigma primitivo, sono adoperati i termini tecnici ricevere e trasmettere.
A questo patrimonio comune, nei vv.
8-10, Paolo aggiunge la sua personale testimonianza: anch’egli, ultimo (quasi un aborto, avendo egli prima perseguitato la Chiesa), ha visto il Signore risorto e questa apparizione ha radicalmente cambiato la sua vita, facendolo diventare un apostolo infaticabile.
La conclusione del brano, nel v.
11, è brevissima e solenne: questa e non altra è la fede di tutta la Chiesa, la fede che ha reso cristiani i destinatari della lettera di Paolo.
Solo partendo da questa fede egli potrà affrontare e discutere il problema della risurrezione dei morti.
Vangelo: Luca 5,1-11 In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda.
I pescatori erano scesi e lavavano le reti.
Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra.
Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca».
Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti».
Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano.
Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli.
Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore».
Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone.
Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Esegesi Questo testo di Luca utilizza certamente il racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, che si trova in Mc 16-20 e Mt 18-22, ma non è semplicemente lo stesso racconto con qualche variazione.
Direttamente, il tema del nostro brano è preannunzio del ministero apostolico di Pietro, che egli avrebbe poi svolto insieme agli altri apostoli, qui rappresentati da Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo.
In tal modo, il terzo vangelo ci assicura che il ministero apostolico, guidato dal gruppo dei dodici, è stato voluto e preordinato da Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica e non è scaturito solo dall’entusiasmo del tempo post-pasquale.
Si può pensare che sia questo il motivo per cui nel terzo vangelo non si trova il mandato con cui il Signore risorto affida agli undici la diffusione del vangelo nel mondo (Mt 28,19-20; cf.
Mc 16,15) e il potere di rimettere i peccati (Gv 20,21-23). Le parole con cui Gesù esprime la sua volontà e preannunzia il ministero apostolico di Pietro e dei suoi collaboratori sono preparate da una scena d’insegnamento dello stesso Gesù e dal racconto di un miracolo.
Nella scena di insegnamento (vv.
1-3), Gesù è presentato circondato dalla folla, che vuole ascoltare da lui «la parola di Dio».
Perché a tutti più facilmente arrivi quella «parola», Gesù chiede a Simone di poter utilizzare la sua barca.
Nei vv.
4-7 è raccontato il miracolo di una pesca straordinaria ottenuta su indicazione di Gesù.
Il fatto appare come prodigioso, perché avvenuto su semplice segnalazione di Gesù, in condizioni normalmente sfavorevoli, cioè in pieno giorno (mentre di solito la pesca si fa di notte) e in quantità del tutto inusuale: in tal modo Gesù dimostra di avere autorità sul mare e sui pesci.
Non pare che l’evangelista abbia voluto dare un valore simbolico all’avvenimento della pesca, q
XXV GiornataMondiale della Gioventù
I tre momenti a- Il momento della domanda E’ a tre fasi: il giovane a Gesù, Gesù al giovane, il giovane a Gesù e Gesù al giovane.
* Inizia il giovane (v.
17): non sappiamo il nome, in certo modo porta il nome di ciascuno di noi: Maurizio, Paola, Andrea, Elena… Non comincia con un “buongiorno, Rabbi…Bel tempo oggi” Si tratta di una cosa che sta pienamente nel cuore del giovane: lo si vede dal gesto di fiducia totale: si butta in ginocchio davanti a Gesù, tanto lo stima e lo qualifica come “Maestro buono”, maestro valido, eccellente.
* Ed ecco la domanda: “Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”, ossia raggiungere il traguardo positivo della mia vita così come Dio vuole per me? Due annotazioni al volo: -Occorre avere il coraggio di farsi e fare domande, non dare per scontato di sapere già tutto.
Non è vero, se ci guardiamo dentro.
Tanto più di fronte a Gesù che è il Maestro insuperabile che parla a nome di Dio.
-Le domande possono essere tante, ma quello che conta è che siano sincere, e sono sincere se toccano il profondo della nostra esistenza.
Domande sulla vita che vogliamo bella, buona, felice, per sempre, il che è l’equivalente di ‘vita eterna’ in bocca a Gesù! Una traccia di riflessione Tu che domande vorresti fare a Gesù? Domande vere, che riguardano la vita? A chi ti rivolgi quando hai bisogno di risposte serie e convincenti? * Contro domanda di Gesù (vv.18-19) Prima Gesù vuol metter in chiaro che la sua ”bontà” di maestro non è di origine umana, frutto di studi universitari, ma viene da Dio, perché solo Dio può dare e dà la vita eterna.
Egli intende farlo tramite di Gesù, che afferma: “Io sono venuto perché (tutti) abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
E subito Gesù propone un griglia di verifica: i 10 comandamenti.
Traccia di riflessione Gesù provoca, è da attenderselo, con due precisi compiti, che fanno riflettere -Prima riflessione: io ho una religione vera, so unire Gesù a Dio, o la bontà di Gesù la scambio con l’utile che mi dà? -Una pronta verifica: i comandamenti di Dio, tutti e 10, senza sconti, li tratto come buone esortazioni o linee-guida normative che vengono dal Dio della vita e garantiscono la mia e nostra vita eterna? * Risposta del giovane a Gesù e di Gesù al giovane (vv.20-21) E’ un sì chiaro, solare, a tutto tondo.
Si può quasi vedere il volto luminoso del giovane.
A lui risponde Gesù non con un occhiata di sfuggita, ma lo inquadra nel suo sguardo intenso, continuato, ammirato, commosso che sfocia in un verbo straordinario: “lo amò”.
E’ usato il verbo agapao, che vuol dire gratuità, dedizione piena, fiducia da parte di Gesù, e quindi apertura di nuovi orizzonti da chi è amato così da Gesù, certamente vi rientra il dono della vita eterna.
Non si può mai dimenticare che dove vi è una condotta retta, perché si osserva il decalogo che Gesù stesso sintetizza nel precetto dell’amore di Dio e al prossimo (Mc 12,29), ebbene lì Gesù si commuove di gioia, è felice e con il suo affetto abbraccia letteralmente la persona.
Gesù è sensibilissimo a chi obbedisce a Dio, al Padre che è nei cieli.
Traccia per una riflessione Tu, ti trovi in sintonia con questo giovane del Vangelo? I comandamenti ti fanno da strada per realizzare quell’incontro con Cristo che desiderate entrambi, Lui con te e tu con Lui? Oppure ci cammini ai margini? b- Il momento della proposta * Verrebbe da pensare che a questo punto il giovane si congeda da Gesù e Gesù dal giovane, il quale magari fischiettando torna a casa con la “ vita eterna” in tasca! Ma non è proprio così.
Quello sguardo intenso di amore di Gesù penetra dentro il cuore del giovane.
Gesù vi vede due cose: questo giovane è veramente bravo; e però dentro di lui vi può essere un filo nero, una sorta di finestra chiusa a Dio, che pure sta onorevolmente servendo, una chiusura di cui lui stesso non sa rendersi conto.
Vi può essere ‘mammona’, l’idolo del “possesso di molti beni”. * Gesù vuol verificare e lancia la sua proposta, audace, radicale: “Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” (v.21). E’ la condizione fatta al giovane per diventare suo discepolo, di andare a stare con Gesù.
* La richiesta è triplice – primo: liberarsi dall’idolo di tanti, troppi beni che (come si vede dalla reazione del giovane) gli stanno “intristendo” il cuore; – secondo: non c’é da buttar via niente, ma donare ai poveri perché abbiano la loro dignità di persone, la dignità che Dio vuole per tutti i suoi figli a partire dagli ultimi; – terzo: seguire Gesù, farlo guida sicura e costante della propria esistenza.
* Sono le parole di chiamata dei discepoli: Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni (Mc 1,16-20), di Levi o Matteo (Mc 2,14): abbandono di ciò che non è Gesù per avere tutto Gesù.
Le conseguenze sono forti e chiare: – Gesù prima di chiederci qualcosa di nostro, ci offre sempre qualcosa di suo: un’amicizia, anzi un amore generoso e totale.
Accogliendolo diventiamo suoi discepoli amati, illuminati, protetti, ed anzi ci fa suoi testimoni.
– Perché questo avvenga, Gesù fa una richiesta coraggiosa che Lui ha vissuto per primo: “Va, vendi quello che hai e dallo ai poveri”. Si noterà che il Maestro non vuole che disprezziamo le ricchezze o che non ci impegniamo nel produrre beni, non chiede di buttare via i soldi o le cose che ci stanno a cuore, non ci manda a vivere da miserabili… – Ci impegna invece a fare una grande impresa di ingegneria, più grande ancora del ponte di Messina: con le proprie ricchezze (salute, comodità, sicurezze, talenti) costruire un ponte che vada sull’altra riva della vita, nel mondo dei poveri (malati, sofferenti, orfani, persone sole, stranieri, mendicanti, emarginati…) per stringere loro la mano da amici: salutarli, parlare con loro, aiutarli a poter avere ciò di cui hanno bisogno (medicine, lavoro, cibo, vestito, soldi per l’affitto, compagnia …).
E in questo modo realizzare il bellissimo ‘miracolo’ promesso da Gesù quando facciamo del bene ad un povero: incontriamo Lui (cfr Mt 25, 31-46). – Poi rimane una cosa sola da fare: continuare la strada cominciata, seguire Gesù (è il verbo che egli preferiva).
Vuol dire che Lui sta davanti come il capocordata in una scalata e noi dietro, condividendo in tutto la sua vita.
– Questo non ci porta via dal nostro mondo, dai nostri interessi e aspirazioni, ma ci fa vivere tutto in modo nuovo.
Gesù lo definisce “un tesoro in cielo” che rende liberi e felici già in terra.
Purtroppo non è stato così per il giovane ricco, con cui si chiude l’incontro.
Traccia per una riflessione Ho mai pensato: – che Gesù ama ogni persona che lo cerca? – che aiutare i poveri nelle diverse forme è incontrare Gesù, come nella Messa? – che Gesù, il suo insegnamento, tutta la sua persona, merita di essere ascoltato e seguito fedelmente come il più sicuro Maestro di vita ? c- Il momento della decisione Purtroppo sappiamo che l’incontro, iniziato così bene, è finito in uno scontro.
E non per colpa di Gesù.
Perché? Osserviamo la stringente logica del vangelo.
* Gesù pone il giovane di fronte ad una decisione: accettare di restare con Lui o andarsene.
O sì o no, o con me o contro di me (Mt 12,30). E’ il suo stile di sempre.
La ragione è intuibile: Gesù solo è il salvatore della persona.
* Il giovane, pur amato da Gesù, dice di no; invece i discepoli, tra cui Pietro, subito dopo questo spiacevole episodio, mostrano di avere detto di sì: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mc 10,28).
* La decisione del no si accompagna alla tristezza e diventa allontanamento da Gesù.
Si può pensare che anche Gesù sia diventato triste e pensieroso, tanto che riprende il discorso con i la gente e in particolare con i suoi discepoli (Mc 10,23-31).
– Mette in guardia con gravi affermazioni coloro che hanno un possesso avido ed egoista delle ricchezze: “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio” (Mc 10, 23).
Mentre ai discepoli che gli hanno detto sì, ripete con altre parole la splendida promessa del “tesoro in cielo”, bruciata dal giovane ricco: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratello o sorella o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà” (Mc 10,29-30).
Notiamo le indicazioni che Gesù dà alla vita di una persona che lo voglia seguire.
* Mettiamoci bene in testa: incontra Gesù veramente, non superficialmente, non chi si limita a constatarlo, magari sentendolo un gran bravo, simpatico personaggio, ma chi dall’ammirazione e dall’attrazione passa alla decisione di fare una scelta, naturalmente la scelta di Lui totalmente e con la gioia di seguirlo sempre perché è un amico sempre presente, 24 ore su 24.
Capitasse che mi allontano, Lui non si allontana, mi segue come l’ombra, come lo Sconosciuto con i due fuggiaschi di Emmaus (Lc 24,13-36).
* Gesù soltanto ha parole di vita eterna (cfr Gv 6, 68), è cioè capace di venire incontro alle aspirazioni profonde della persona: verità, giustizia, pace, gioia, amore gratuito e sincero, libertà, coraggio di diventare volontario per gli altri, speranza di futuro, progettualità… * Gesù provoca chi lo incontra e alla luce dell’esperienza fatta con il giovane ricco, afferma chiaramente che con il possedere ricchezze si rischia fatalmente di venire posseduti da esse, esserne imprigionati, diventare schiavi, perdere la libertà e la serenità, minati dalla paura di essere derubati. Concretamente Gesù invita a superare la barriera dell’ego-centrismo con tutti i pesi che trascinano giù: l’attaccamento esagerato alle cose terrene, l’orgoglio, la prepotenza, la cura di star bene da solo, farsi la strada della felicità con la droga, l’alcol, il sesso facile, il pensare di avere sempre ragione, fare il bullo… In termini positivi Gesù invita a fare delle proprie risorse un intelligente investimento di amore operoso per i poveri.
Come abbiamo visto sopra.
* L’incontro con Gesù non può limitarsi a rimanere un racconto evangelico di ieri. Noi siamo giovani oggi e Gesù, il risorto dai morti, è il Signore che vuole incontrarci oggi.
Vi è la triplice via che porta ad un incontro valido e bello con il Signore: – La via dell’incontro con Gesù nella preghiera, che vuol dire soprattutto la Messa domenicale e la Confessione, la lettura della Parola di Dio; – La via di prestare un servizio a chi è nel bisogno, fare un volontariato in cui ci mettiamo le nostre ‘ricchezze’: un po’ del nostro tempo, la nostra amicizia, un aiuto concreto di sostegno, in famiglia e fuori (compagni malati, anziani, disabili, emigrati, barboni…); – La via della riflessione personale per ritirare le decisioni aperte o nascoste dei nostri no a Gesù e maturare quelle del sì, per qualche settore della propria vita (famiglia, scuola, tempo libero, parrocchia, relazione con il ragazzo/a…).
Se ci prepariamo seguendo questa triplice via, allora l’incontro con il Papa sarà un grande momento di libertà, la libertà di dire sì a Cristo, riparando il no triste del giovane ricco.
Un’ultima traccia di riflessione * Gesù invita a fare una scelta nei suoi confronti.
Tu da che parte stai? Gesù è per te una ‘cosa’ che serve al momento opportuno, o una brava persona da contattare ogni tanto, o una persona viva grande come Dio, amico vero cui posso legare la mia vita, il mio futuro? * La ragione del rifiuto fatto dal giovane ricco è logica.
Il suo cuore era già occupato dalle ricchezze materiali, non c’era posto per Gesù e la sua visione di realtà così attenta al mondo dei poveri.
Per questo Gesù disse un giorno: “Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt 6,24).
Cosa posso dire di me? Quali sono le mie ‘ ricchezze’, quelle che fanno i miei desideri, che mi occupano di più (soldi, divertimento, prestigio, facebook, sms…)? Il loro uso è compatibile con le parole di Gesù al giovane ricco? Quanto sono ‘ricco’ di solidarietà, di gratuità, di altruismo, di volontariato? * Qual’é la mia effettiva relazione con Gesù? Lo incontro nella lettura del vangelo, nei sacramenti, specie l’Eucaristia domenicale, nell’aiuto ai poveri? www.chiesagiovane.it pastoralegiovanile@vicariatusurbis.org Servizio Diocesano per la Pastorale Giovanile di Roma “MAESTRO BUONO, CHE COSA DEVO FARE PER AVERE IN EREDITA’ LA VITA ETERNA?” (Mc 10,17) In CAMMINO VERSO PIAZZA SAN PIETRO Incontro dei giovani con Benedetto XVI 25 marzo 2010 1.
“Poter incontrare Gesù, fare un dialogo con Lui è possibile? Come?” * Sì, è possibile.
Ed è facile, non occorrono visti speciali come quando si va all’estero in certi paesi.
Gesù non vive all’estero, non è un estraneo, sta in mezzo a noi come un amico vivo e giovane.
L’ha detto Lui: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io, in mezzo a loro” (Mt 18,20).
* Viene subito in mente Tor Vergata, quella meravigliosa notte, al tempo della GMG del 2000, eravamo due milioni.
E Gesù c’era, lo sentivamo tutti, in particolare nella persona del Servo di Dio Giovanni Paolo II.
* Ebbene, noi saremo diverse migliaia in Piazza S.
Pietro il prossimo 25 marzo intorno a Benedetto XVI che ci ha convocati in vista della Giornata Mondiale della Gioventù di quest’anno.
E Gesù ci aspetta là, accanto al Papa! 2.
La procedura per l’incontro con Gesù è semplice.
E’contenuta nel libro-guida dei cristiani: il Vangelo.
Lì abbiamo la scaletta sicura, il format di ogni incontro con Lui.
* Vi sono diversi incontri di Gesù con i giovani.
Di due si dice che li ha risuscitati: una ragazza, la figlia di Giairo a Cafarnao (Lc 8,49-50), e un ragazzo, il figlio di una vedova di Naim (Lc 7,11-17).
E’ chiaro: Gesù vuole giovani vivi e li rende tali! * Ma Gesù ha incontrato anche giovani vivi che erano affascinati dalla sua personalità.
Si racconta di uno che ha aiutato Gesù a moltiplicare il pane e il pesce per la gente mettendogli generosamente a disposizione il suo cestino quotidiano (Gv 6,9).
E’ stato ancora un giovane a stargli coraggiosamente accanto nel momento terribile dell’arresto (Mc 14,51).
Tra Gesù e i giovani vi è un feeling speciale, indimenticabile, ieri, oggi e sempre.
3.
Ma qui diventa necessario andare al fondo dei fatti.
Tra amici non basta incontrarsi, è necessario parlarsi, aprirsi l’uno all’altro.
E’ quanto sarà avvenuto sovente nella vita di Gesù.
Ed infatti nel Vangelo è riferito proprio un dialogo prolungato che Gesù ha avuto con un giovane.
Lo riportiamo qui prendendolo dal vangelo secondo Marco al capitolo 10, versetti 17-22.
17 Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”.
18 Gesù gli disse:“Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”.
20 Il giovane (Mt 19,20) allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”.
21 Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”.
22 Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Forse e senza forse la lettura lascia un po’ di amaro in bocca perché questo giovane ha detto di no a Gesù.
E’ la realtà, anche nostra, di certe volte.
Ma non è fatale che sia così.
Molti giovani hanno detto sì: Agnese, Tarcisio, Maria Goretti, Domenico Savio, Piergiorgio Frassati… In un certo modo tocca a noi adesso risarcire lo sgarbo fatto al Maestro.
E’ importante capire bene il contenuto del dialogo.
Ognuno di noi dica: Adesso sono io colui che incontra Gesù ed è incontrato da Lui! 4.
Il racconto comprende tre momenti che dicono la trama di ogni incontro con Gesù.
Il momento della domanda, il momento della proposta, il momento della decisione.
Sono tre tempi tra loro indissolubili e con cui fare i conti.
IV Domenica del tempo ordinario anno C
Parabola orientale Il maestro non amava i discorsi eruditi che gli altri chiamavano invece “perle di saggezza”.
I discepoli gli chiesero: Se sono parole perché le disprezzi? Il maestro replicò: Avete mai visto perle che crescono se seminate in un campo? Questi è davvero il profeta Furono riempite dodici ceste.
Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale.
Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi.
Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo.
Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede.
Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi.
Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29).
Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire.
Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo.
Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14).
[…] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18).
Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà.
E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli.
Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44).
Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta.
Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli.
Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr.
Is 9,6).
E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr.
Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.
(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant’Agostino, pp.
564-566).
Essere profeti Il profeta, Signore, non è un depositario di verità, ma un testimone di bene.
Non sa dire cose sublimi, ma le compie.
Annuncia la speranza nella disperazione, la misericordia nel peccato, l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.
Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza, dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza, ma è anche sereno e coraggioso, perché Dio lo ha scelto e amato.
Il profeta fa la scelta di Dio, vive la comunione intima con lui.
Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione ad una pastorale missionaria, significa essere presenti là dove la gente vive, lavora, soffre, gioisce.
Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza che dobbiamo ascoltare e accogliere.
Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi, i monti, le strade.
Ogni cristiano è profeta, è la tua bocca che evangelizza, che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.
Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera là dove scorre la vita della gente.
(A.
Merico) Preghiera Tu ci parli.
Signore, attraverso profeti pienamente inseriti nelle vicende del loro popolo e del loro tempo e insieme capaci di restare in solitudine o di andare nel deserto per fare riascoltare la tua Parola a coloro che li seguono.
Tu ci parli, Signore, attraverso testimoni in grado di condividere le angosce dei loro fratelli, le paure e i drammi degli uomini e insieme pieni di fede nell’indicare la tua presenza già operante, la tua promessa suscitatrice di vita.
Tu ci parli, Signore, attraverso uomini che sanno contestare coraggiosamente le mode, le abitudini, i pregiudizi, i luoghi comuni dei loro contemporanei e insieme profondamente solidali con loro nel ricercare il tuo volto che salva, nel parlare al cuore di chi dispera.
Guarda, ti preghiamo, alla tua Chiesa, alla Chiesa del nostro tempo, a noi che siamo il tuo popolo, costituiti per tua grazia profeti e testimoni della tua verità: donaci di essere mediatori della tua consolazione nel momento stesso in cui denunciamo le nostre e le altrui ipocrisie.
Nei deserti della nostra società fa’ risuonare la tua Parola, perché anche noi ‘usciamo’, confessando i nostri peccati per essere di nuovo immersi nella grazia del tuo Spirito.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno c Prima lettura: Geremia 1,4-5.17-19 Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».
v La lettura di oggi contiene la chiamata e la missione del profeta Geremia in un «racconto autobiografico» (in prima persona).
La pericope liturgica decurta il testo biblico di circa dieci versetti (mancano i vv.
6-16).
I redattori delle letture di questa domenica hanno voluto ritenere solo quelle parti in cui si esprime il conflitto tra il profeta ed i suoi avversari, in vista del Vangelo di oggi, nel quale assistiamo ad un contrasto analogo tra Gesù ed i suoi ascoltatori nella sinagoga di Nazaret.
— vv.
4-5: «Prima di formarti nel grembo materno…».
Con queste parole ben note Dio rivela al profeta la sua vocazione: esse manifestano l’assoluta, sovrana potenza di Dio nel costituire Geremia profeta in vista della sua futura missione.
Il profeta venne all’esistenza proprio per realizzare la sua missione: in certo senso il suo esistere ed il suo essere mandato formano un’unica ed identica realtà.
Inoltre la chiamata di Dio è come una consacrazione («ti ho consacrato»), una speciale investitura che abbraccia tutta la persona del profeta.
Anche se occorre molto coraggio per essere l’inviato di Dio, la sua forza deriva da questa investitura da parte del Signore.
— vv.
18-19: «una colonna di ferro e un muro di bronzo…».
Il profeta viene paragonato ad una città fortificata, che i nemici assediano senza poterla espugnare.
Immagine (o metafora) marziale, impiegata per mettere in risalto anche la dura battaglia che il profeta è chiamato a sostenere.
—v.
19: «sono con te per salvarti».
Ecco l’unica certezza che sorregge il profeta.
Questa «formula di assistenza», con cui il Signore o il suo angelo promettono l’assistenza indefettibile di Dio agli inviati («Io sono con te…», «Il Signore è con te»), ricorre spesso nella Sacra Scrittura, ad esempio in Es 3,12; Rut 2,4; Lc 1,28, e nella nostra liturgia.
È un invito, rivolto alle persona inviate, ad aver fiducia in Dio.
Costoro devono affidare a Dio la loro missione, e non cercare altrove le loro certezze.
Seconda lettura: 1Corinzi 12,31-13,13 Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi.
E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine.
Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà.
Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo.
Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino.
Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia.
Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità.
Ma la più grande di tutte è la carità! v Solitamente si ama definire la lettura di oggi «l’inno alla carità», uno dei testi più celebri del Nuovo Testamento.
Il brano liturgico va riposto esattamente nel contesto in cui Paolo (nella 1 Cor.) parla dei carismi.
È lo stesso contesto della II Lettura di domenica scorsa.
— vv.
12-31: «desiderate intensamente i carismi più grandi».
I cristiani di Corinto mostrano grande interesse per i doni o carismi, specie quelli più spettacolari, che attirano ed alimentano il loro orgoglio, rappresentando qualcosa di speciale.
Paolo ristabilisce il giusto ordine nella realtà di questi doni.
In tale ordine il posto centrale lo detiene il dono dell’amore.
Chi ha ricevuto questo carisma dell’amore, ha ricevuto il più grande dei doni.
— vv.
1-3: «le lingue degli uomini e degli angeli, ecc.».
Perché il dono dell’amore è realtà centrale rispetto ad ogni altro dono? Paolo ne spiega il motivo, affermando che esso è la condizione che garantisce l’autenticità di tutti gli altri carismi.
Il parlare in lingue misteriose (v.
1), l’esercitare la profezia (v.
2), l’avere la scienza di tutte le realtà più misteriose, come pure l’aver fede e capacità di trasportare le montagne (v.
2), la stessa grazia del martirio non sono valori assoluti e a sé stanti; valgono soltanto se trovano la loro profonda motivazione nel dono dell’amore.
— vv.
4-7: «Magnanima, benevola, non è invidiosa ecc.».
L’Apostolo enumera ben 15 qualità: inizia con due caratteristiche positive, continua con otto negative (ciò che l’amore non è, e non fa), e conclude con cinque positive.
Questo elogio diligentemente strutturato dell’amore mira a sottolineare quelle virtù, opposte alla vanagloria ed alla ricerca di sé, che sono appunto all’origine di quelle spinte segrete che portano molti cristiani di Corinto a desiderare i carismi per sé.
Vogliono avere i carismi per essere diversi e superiori agli altri.
— vv.
8-12: «La carità non avrà mai fine…».
A differenza dei carismi, che prima o poi hanno fine, la carità dura per sempre.
Lo stesso carisma della conoscenza, che pure è permanente, è da considerare provvisorio nel senso che nel tempo presente non può essere che parziale e frammentario, incompleto.
Per questo la conoscenza è paragonata all’immagine sfocata e approssimativa che si vede in uno specchio metallico usato nell’antichità; oppure, è paragonata alla capacità conoscitiva che ha un bambino rispetto a quella di un adulto.
La carità invece si prolunga nell’eternità, senza alterazioni o limitazioni di sorta.
Inoltre, la carità è come un legame che ci congiunge con la vita eterna.
— v.
13: «Ma la più grande di tutte è la carità!».
Fede, speranza e carità in quanto appartengono al rapporto dell’uomo con Dio, sono importanti.
Ma di queste tre, è l’amore a valere di più, perché ci avvicina maggiormente a Dio, da lui verrà maggiormente stimata e ricambiata e resterà in eterno.
Vangelo: Luca 4,21-30 In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».
Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso.
Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».
Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria.
Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne.
C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno.
Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù.
Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Esegesi Il brano del vangelo odierno è la seconda parte della cosiddetta «pericope di Nazaret», ad immediato seguito della prima parte, letta domenica scorsa.
Mentre nella I parte si riferiva l’accoglienza positiva di Gesù da parte dei suoi compaesani (elogi, stupore), nella II parte ci troviamo invece di fronte all’aspetto negativo di tale accoglienza: rifiuto e ostilità.
L’evangelista Luca ha voluto fare di questo episodio un momento emblematico della missione di Gesù, presentando fin d’ora la divisione degli spiriti che si opera di fonte a lui, sempre.
— v.
22: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».
La meraviglia si traduce in delusione e ostilità.
In realtà la sua persona «delude» le aspettative dei presenti, perché egli socialmente non appare diverso da loro.
Ma anche il suo messaggio li delude, in quanto non prospetta alcun benessere terreno, alcun cambiamento politico e neanche l’esaltazione di Israele.
Inoltre a Nazaret Gesù non compie i miracoli che ha compiuto altrove, specie a Cafarnao.
— v.
23: «Medico, cura te stesso».
Cosciente di tale delusione, dovuta in particolare all’assenza di segni spettacolari, Gesù mette in bocca ai compaesani il proverbio, noto anche presso i rabbini: « Medico, cura te stesso ».
La sua potenza taumaturgica, Gesù avrebbe dovuto metterla in mostra specialmente nella sua patria, e non lontano da essa.
— v.
24: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria».
Al proverbio che rispecchia il pensiero dei suoi ascoltatori, Gesù ne contrappone un altro, che spiega perché egli non compia miracoli a Nazaret.
Se, come tutti i profeti, non è riconosciuto e accettato nella sua patria, non può compiere prodigi semplicemente per avvalorare la sua identità e indurli a credere.
La fede che esige miracoli non è vera fede.
— vv.
25-27: «C’erano molte vedove…
molti lebbrosi».
Con i due esempi veterotestamentari, la vedova di Zarepta e Naaman il Siro, Gesù esprime due dimensioni essenziali della sua missione: a) la sua patria, per volere divino, passa in secondo ordine di fronte agli stranieri; b) la elezione di Dio non si ferma a vincoli di patria o familiari, ma è rivolta a tutti.
— vv.
28: «Si riempirono di sdegno».
Gli esempi addotti da Gesù, con l’universalismo che dichiarano, determinano sdegno e rifiuto ostile da parte dei compaesani.
Se quel profeta non compie nulla per la sua patria, anzi mostra di offrire agli stranieri i suoi benefici, non appartiene più ad essa: va ripudiato.
Stando al testo del Dt.
13,2, un profeta che non vuole garantire la sua missione con segni, merita la morte.
Perciò lo conducono fuori, per ucciderlo.
— v.
30: «si mise in cammino».
Come spesso il Vangelo di Giovanni sottolinea il fatto che i Giudei non poterono catturare Gesù «perché non era ancora giunta la sua ora» (Gv 7,30; 8,20:10,39), così qui Luca vuol dire che Gesù passa liberamente in mezzo a coloro che lo hanno condotto fuori della città non tanto per fare un miracolo (che finora ha rifiutato) quanto per affermare la sua sovrana libertà di fronte alla morte.
Tale «momento» arriverà, non per fatalità, per effetto di complotti umani o sdegno di popolo, ma per sua libera scelta.
Alla luce di ciò, acquista particolare spessore teologico il verbo finale: «si mise in cammino».
Respinto e rifiutato dalla sua patria, Gesù a sua volta se ne va, le volta le spalle, la ripudia, per portare altrove l’annuncio di salvezza.
Meditazione La liturgia ci fa ascoltare in due domeniche successive quanto avviene nella sinagoga di Nazaret.
Domenica scorsa abbiamo interrotto la narrazione di Luca nel momento in cui Gesù, dopo aver proclamato la lettura dal rotolo del profeta Isaia, ne afferma il suo compimento oggi.
In questa domenica leggiamo la seconda parte del racconto, che si sofferma sulla reazione dei suoi concittadini presenti alla preghiera sinagogale.
La meraviglia iniziale si trasforma presto in sdegno, sino al punto di cacciarlo fuori dalla città e tentare di ucciderlo buttandolo giù da precipizio (cfr.
v.
29).
La meraviglia dei nazaretani diventa così lo stupore di noi ascoltatori: come mai questo diverso e addirittura contrapposto atteggiamento? Cosa fa passare dalla meraviglia allo sdegno? Diversamente da quanto accade nel racconto degli altri Sinottici, in Luca queste contrastanti reazioni nascono entrambe dall’ascolto della parola di Gesù.
Descrivono due opposte conseguenze dell’ascoltare, o meglio due differenti modi di ascoltare.
Non soltanto la meraviglia per le parole di grazia che escono dalla bocca di Gesù, ma anche lo sdegno nasce «all’udire queste cose» (v.
28).
C’è dunque un aspetto di questa parola che affascina e stupisce, e che siamo disposti ad accogliere volentieri; ma c’è anche un altro taglio più duro da accettare, che esige una conversione delle nostre attese, perché la Parola si compie sempre nel modo che non immaginavamo.
Di conseguenza, o siamo disposti a lasciarci sorprendere e convertire, o altrimenti ne restiamo scandalizzati.
Gesù discerne cosa c’è nel cuore dei suoi concittadini, lo intuisce e lo porta in piena luce.
«Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso.
Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”» (v.
23).
Innanzitutto tra i tuoi, per quelli della tua casa.
Tu che sei il figlio di Giuseppe, uno di noi, guarda anzitutto ai nostri bisogni.
Nel cuore dei nazaretani c’è la tentazione di requisire e circoscrivere l’azione di Gesù.
Ciò che si manifesta in questa pretesa non è soltanto il rifiuto del carattere universale della salvezza.
Che Gesù compia prodigi a Cafarnao o altrove ai nazaretani sta anche bene, purché li compia anzitutto ‘nella sua patria’.
La tentazione più grave consiste nel non riconoscere i segni della salvezza là dove germogliano perché essi non sono il soddisfacimento immediato del proprio bisogno personale.
Occorre invece rallegrasi per i segni della salvezza anche se sono per altri perché comunque testimoniano la vicinanza di Dio al suo popolo; annunciano che la misericordia del Signore diviene un oggi nella nostra storia.
Gesù cita due proverbi: «Medico, cura te stesso» e subito dopo «Nessun profeta è ben accetto nella sua patria».
Vi risuonano due appellativi, entrambi riferiti a Gesù: ‘medico’ e ‘profeta’.
Il primo sembra più esprimere il punto di vista dei nazaretani e l’idea che hanno maturato di Gesù, o l’attesa che nutrono nei suoi confronti.
Il secondo indica piuttosto come Gesù interpreta la propria missione e desidera compierla.
Per i cittadini di Nazareth Gesù è il medico che deve curare le loro infermità e colmare i loro bisogni.
Gesù invece afferma di essere anzitutto un profeta, vale a dire un uomo che compie sì segni e guarigioni, ma non semplicemente per appagare un bisogno, ma per rivelare che la promessa di Dio, custodita dalla sua Parola, ha iniziato ad attuarsi nella storia.
Per il profeta il segno rinvia alla Parola, la quale a sua volta esige un affidamento e un atto di fede che oltrepassa il segno stesso.
Si riconosce il segno, ma per credere nella Parola.
I nazaretani, al contrario, hanno saputo dei segni già operati da Gesù, ma essi, anziché nutrire la fede nella sua persona, li conducono a pretendere altri segni che risolvano i loro problemi.
Questa è la tua casa, la tua patria, qui c’è la tua gente e i tuoi parenti: tutto ciò ci offre un diritto e una pretesa nei tuoi confronti.
Fa’ anche qui, nella tua patria, quanto vai facendo altrove.
Tra questi nazaretani ci sono certamente molti bisogni veri, numerose infermità da guarire e oppressioni da liberare, le stesse che Gesù incontrerà e sanerà altrove; il problema è che tutto ciò viene vissuto nella forma della pretesa e non in quella dell’affidamento.
Con l’atteggiamento dei ricchi, dunque, e non con il cuore dei poveri.
Ma è ai poveri che viene annunciato l’evangelo della salvezza, come Gesù ha appena affermato citando il profeta Isaia.
Gesù legge nei cuori dei nazaretani l’invito a compiere «anche qui, nella tua patria, quanto hai fatto a Cafarnao» (cfr.
v.
23).
Luca, in verità, non lo ha ancora raccontato, lo racconterà nei capitoli seguenti del suo vangelo.
Ma forse questa non è tanto una svista narrativa, quanto un modo raffinato per invitare il suo lettore ad andare a vedere ciò che Gesù opera a Cafarnao.
Tra i vari miracoli si staglia la guarigione del servo del centurione narrata all’inizio del capitolo settimo (vv.
1-10).
Un episodio che aiuta a capire, in un gioco di contrasti, proprio ciò che accade nella sinagoga di Nazaret.
Il centurione è un pagano che si riconosce indegno di ricevere Gesù nella sua casa.
Il suo è un atteggiamento completamente diverso da quello dei concittadini di Gesù.
Questi ultimi vantano dei diritti su Gesù, perché era uno di loro.
Questo pagano non solo non avanza pretese, ma per ben due volte, con insistenza, afferma di non essere degno, mentre al contrario i Giudei presentano a Gesù le sue credenziali: «egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano – perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga» (vv.
4-5).
«Egli merita» – «Io non sono degno»: davvero forte è il contrasto tra il punto di vista dei G