Pastorale giovanile interculturale

Nell’ambito del progetto di ricerca interdisciplinare sulla pastorale giovanile interculturale, portato avanti dall’Istituto di Teologia Pastorale, lunedì 22 marzo 2010, dalle 15.00 alle 18.00,) avrà luogo presso l’Aula VI dell’UPS il seminario su “Pastorale giovanile interculturale: le risorse africane”.
Il prof.
Martin Nkafu Nkemnkia (dell’Università Gregoriana) esaminerà le risorse africane per l’interculturalità dalla prospettiva antropologica e filosofica, mentre, il prof.
Aimable Musoni (dell’UPS), presenterà le risorse africane per l’interculturalità dalla prospettiva ecclesiologica e teologica.
Un panel di professori costituito da Damasio Medeiros, Krzysztof Owczarek e Francis-Vincent Anthony, reagiranno alle relazioni dalla prospettiva del contesto rispettivamente latinoamericano, europeo e asiatico per stimolare il dibattito in assemblea.
Al seminario e al dibattito sono invitati a partecipare docenti, dottorandi, studenti, pastoralisti e catecheti.
Il seminario si colloca in continuità con quello realizzato il 23 novembre dello scorso 2009 che aveva tracciato un quadro teorico-pratico sulla “Pastorale giovanile interculturale” dalla prospettiva educativo-culturale e pedagogico-sociale.
Nei prossimi anni si spera di continuare sulla medesima linea, analizzando le risorse per la pastorale giovanile interculturale nel contesto asiatico, latinoamericano, est-europeo, ecc.
In questo modo si cerca di mettere in relazione le questioni di pastorale giovanile con le acquisizioni dei sinodi e delle conferenze episcopali continentali nella prospettiva interecclesiale e interculturale.
Si tratta di un progetto di ricerca che vuole prendere in considerazione anche gli orientamenti del Capitolo Generale XXVI dei Salesiani di Don Bosco, in modo particolare quello della prospettiva interculturale e interreligiosa della pastorale giovanile.

Immagini dell’uomo immagini di Dio

Continuando a pensare con Giuseppe Barbaglio e dopo i convegni sui mille volti di Gesù e sull’attualità dell’apostolo Paolo, vorremmo ora guardare i volti dell’uomo di oggi e al loro confronto tornare a scrutare le immagini di Dio.
Carla Busato Barbaglio, Rossana Rossanda, Alfio Filippi, Yann Redalié, Severino Dianich e Raniero La Valle. Immagini dell’uomo immagini di Dio   Convegno 2010   Roma 20 e 21 Marzo 2010 Aula Magna della facoltà Valdese Via Pietro Cossa, 42   Clicca per il programma

Dentro la solitudine.

CASTELLAZZI VITTORIO L.,  Dentro la solitudine.
Da soli felici o infelici?,  Ma.
Gi., Roma, 2010,  ISBN: 8874870302, pp.136, Euro 12.00 L’atteggiamento nei confronti della solitudine, oggi, è piuttosto contraddittorio.
La si cerca, ma allo stesso tempo la si teme.
Si sogna il ritiro in luoghi di meditazione nella speranza di ritrovare se stessi, ma una volta immersi nel silenzio ci si sente afferrati da un inquietante smarrimento, per cui si ritorna in tutta fretta alle detestate relazioni di sempre.
Mentre ci si preoccupa di favorire ed eventualmente curare le relazioni interpersonali ai fini di un maggiore benessere, non si registra uguale attenzione all’importanza del raggiungimento della capacità di stare soli con se stessi.
In realtà, soltanto chi è in grado di sperimentare la solitudine senza angoscia non corre il rischio di annullarsi nell’altro o di rivolgersi all’altro in modo fagocitante, strumentalizzante, ricattatorio o vittimistico.
Il riconoscimento e l’accettazione di sé, che una positiva esperienza di solitudine comporta, sta alla base della disponibilità a riconoscere e accettare gli altri.
Il successo di una buona relazione con gli altri poggia dunque sulla capacità di essere soli.
Vittorio Luigi Castellazzi, psicologo clinico, psicoterapeuta e psicoanalista, da più di trent’annì insegna Tecniche psicodiagnostiche proiettive e diagnosi della personalità all’Uni­versità Salesiana di Roma.
Già docente di Psi­copatologia dell’infanzia e dell’adolescenza, ha tenuto corsi di Psicologia dello sviluppo e Psicopatologia dello sviluppo all’Università Lumsa e all’Università degli Studi di Roma Tre. E’ membro della Society for Personality Asses­sment e dell’International Rorschach Society.
Ha fondato la «Scuola Rorschach e altre tecni­che proiettive» dell’Università Salesiana.
Otre a numerosi articoli e saggi comparsi nei lavori collettanei, è autore di numerosi volumi, editi per i tipi delle Edizioni Las, tra cui ri­cordiamo Psicoanalisi e infanzia.
La relazione oggettuale in M.
Klein (1974), Psicopatologia del­Infanzia e dell’adolescenza: Le Psicosi (1991) – La Depressione (1993) – Le Nevrosi (2′ ed.
2000), In­trodsrzione alle tecniche proiettive (3′ ed.
2000); Il Test di Rorschach.
Manuale di siglatura e d’interpretazione psicoanalitica (2004); Quando il bambino gioca.
Diagnosi e psicoterapia (2′ ed.
2~); L’abuso sessuale all’infanzia (2007); Il Test del Disegno della Figura Umana (3′ ed.
2010); Il Test del Disegno della Famiglia (4′ ed – 2008). Il suo volume La stanza della felicità ;(2002) è stato tradotto in spagnolo, portoghe­e polacco.
  Indice Introduzione   I I volti della solitudine 13 II Il senso di solitudine 19 III La nostalgia come coscienza dell’essere soli 25 IV La capacità di essere solo 31 V La solitudine come ritrovamento di sé 41 VI Essere se stessi come esperienza     di solitudine 49 VII Solitudine e creatività 53 VIII Apertura al nuovo, disponibilità     alla verità e solitudine 57 IX Solitudine e comunicazione 63 X       Solitudine e silenzio 67 XI La solitudine come isolamento cercato 75 XII La solitudine come isolamento subìto 8 i XIII La solitudine del narcisista 87 XIV La solitudine dell’invidioso 91 XV La solitudine dello schizoide 95 XVI La solitudine del depresso 99 XVII La solitudine dello psicotico 101 XVIII La fuga dalla solitudine 103   Il conformismo.  La bulimia del fare gruppo».
    l’altruismo a oltranza, l’iperattività   XIX Solitudine felice e infelice 117 XX Conclusioni     Stare soli, stare con gli altri 127 Bibliografia 131 Introduzione Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi.
Sarebbe una pazzia affidarvi a voi stessi, se non vi sapete ,governare.
C’è modo di fallire nella solitudine come nella compagnia.
M.E.
DE MONTAIGNE Oggi l’atteggiamento nei confronti della solitudine è piuttosto contraddittorio.
La si cerca.
ma allo stesso tempo la si teme, per cui ci si tuffa tra la folla.
Ci si trova in difficoltà a stare con gli altri, ma ugualmente si soffre se si è soli’.
Si è turbati sia dalla vicinanza che dalla lontananza.
Se, come afferma Garcin nel dramma teatrale Porta chiusa (Sartre, 1945, ed.
it.
p.
165), “l’inferno sono gli altri”, è an¬che vero che si vive come un inferno la loro assenza (2).
Per il mancato equilibrio tra solitudine e socialità, l’uomo d’oggi si trova senza dimora.
Non sta bene a casa propria; non sta bene a casa degli altri.
In entrambe le situazioni è sfiorato da una sotterranea inquietudine.
Nei casi estremi oscilla tra un’esperienza di solitudine disperata è la pratica di una socialità forzata.
Sopraffatto ogni giorno da mille stimoli, nella realtà lavorativa si sente travolto da relazionì puramente funzionali e anonime.
mentre nel consumo del tempo libero avverte tutto il peso della massificazione e della irregiinentazione.
In questo contesto, anche se non è sempre percepito in modo chiaro, è giustificato il desiderio struggente di stare in solitudine.
Si sogna perciò il ritiro in luoghi di meditazione.
Nei periodi di vacanza si bussa perfino alla porta della foresteria dei monasteri nella speranza di ritrovare se stessi, di dialogare con il proprio mondo interiore.
Tuttavia, una volta immersi nel silenzio, ci si sente afferrati da un inquietante smarrimento, per cui si ritorna in tutta fretta alle detestate relazioni di sempre.
Il problema si pone dunque su entrambi i versanti: quello della solitudine e quello della socialità.
Tuttavia.
si deve constatare che, mentre ci si preoccupa di favorire ed eventualmente curare le relazioni interpersonali ai fini di un maggiore benessere, non si registra uguale attenzione all’importanza del raggiungimento della capacità di stare soli con se stessi.
È senz’altro vero che bisogna saper andare incontro alle esigenze della società di cui si fa parte, che si ha bisogno di vivere in gruppo, che insieme ci si salva e insieme ci si perde: ciononostante è fondamentale tenere presente anche l’importanza dello stare in solitudine.
Il successo di una buona relazione con gli altri poggia anche sulla capacità di essere soli.
Soltanto chi è in grado di sperimentare la solitudine senza angoscia non corre il rischio di annullarsi nell’altro o di rivolgersi all’altro in modo fagocitante, strumentalizzante, ricattatorio o vittimistico.
Il riconoscimento e l’accettazione di sé.
che una positiva esperienza di solitudine comporta, sta insomma alla base della disponibilità a riconoscere e ac¬cettare gli altri.
Tra le due esperienze, quella sociale e quella dell’essere soli.
attualmente è comunque quest’ultima a essere avver¬ tita come la più scomoda.
La si associa facilmente alla per¬dita, all’abbandono.
all’isolamento, all’emarginazione, in¬somma a qualcosa di negativo, se non addirittura di di¬sgregante e di terrificante.
Soprattutto, l’esperienza della solitudine è oggi percepi¬ta come una condanna.
Ciò sembra determinato da una certa fragilità psichica, per cui si è incapaci di fare i conti con se stessi.
Risulta sempre più difficile entrare in contat¬to con il proprio mondo interiore.
Come saggiamente suggerisce Montaigne (1580, ed.
it.
p.
325), per non avere paura della solitudine occorre pre¬pararsi a riceversi.
Ma tale itinerario non è affatto agevole: «L’uomo ha bisogno di molto aiuto per non diventare pazzo, quando capita nelle vicinanze del mistero della solitudine» (Werfel, cit.
in Lotz, 1956, ed.
it.
p.
164).
Trovarsi soli con se stessi è per certi versi paragonabile a una travagliata discesa agli inferi.
Anche se Freud (191517, ed.
it.
p.
30) ci rassicura che, pur avendo la solitudine i suoi pericoli, «ciò non vuol dire che non possiamo mai sopportarla a nessuna condizione, neanche per un momento».
Al riguardo, la psicoanalisi ci segnala che ogni esperienza di solitudine si riaggancia alla prima solitudine, come ogni esperienza d’incontro evoca il pruno incontro.
Ciò significa che sono fondamentali le vicende relazionali «madre-bambino» vissute nella prima fase di vita.
È infatti in quel periodo che, attraverso il processo di separazione-individuazione, si sperimentano per la prima volta sia la solitudine che l’incontro.
All’inizio, osserva Freud, il lattante «non distingue ancora il proprio Io dal mondo esterno (…) apprende a farlo gradualmente» (1929, ed.
it.
pp.
559-560).
È sulla base della progressiva separazione dalla madre che egli scopre l’esistenza di un me e di un non-me.
Una simile presa di coscienza avvia sia all’esperienza della solitudine che della socialità.
E ciò per l’essere umano è fonte di gioia e di benessere, se la relazione madre-bambino è positiva, oppure di terrore e di catastrofe, se è carente o addirittura assente.
Entro quest’ottica possiamo quindi giustamente dire che da prima esperienza di solitudine è carica di pericolo come la prima esperienza dell’altro» (Phillips, 1987, ed.
it.
p.
29).
Del resto, S.
Freud per primo, ma successivamente R.
Spitz, M.
Klein, A.
Freud.
D.W.
Winnicott.
M.
Dlahler, D.
Meltzer, W.R.
Bion e tanti altri psicologi e psicoanalisti hanno ampiamente dimostrato che un rapporto distorto del bambino con la madre nel primo anno di vita comporta delle conseguenze disastrose per il futuro dell’individuo, sia nella capacità di star soli che nel piacere di stare con gli altri.
Ebbene, il presente saggio vuole essere il filo di Arianna che aiuta a conoscere.
a scandagliare e a percorrere il suggestivo labirinto della solitudine, senza tuttavia esporsi al rischio di non trovare la via di uscita.
In altre parole, intende essere un’occasione per scoprire l’importanza della solitudine senza perdere di vista il valore della relazione con gli altri.
Note 1 Un sintomo vistoso è l’attuale instabilità di coppia delle giovani ge¬nerazioni.
2.
Negli scritti sartriarli non c’è possibilità di relazione: o l’uno divora l’altro oppure è divorato.
L’uomo sartriano è condannato a essere solo.
Nello stesso dramma citato, Ines, uno dei tre personaggi, dichia¬ra: •Il boia è ciascuno di noi per gli altri due» (ed.
it.
p.
131).
L’incontro tra due individui si configura inesorabilmente come negazione reci¬proca.
Ciò vale anche per il rapporto uomo-Dio: «Se Dio esiste l’uomo è nulla, esclama Goetz.
(…) Dio non esiste.
(…) Se n’è andato.
(…) Finalmente soli!» (Sartre.
1951, ed.
it.
pp.
162-165).
Entro quest’ottica.
sia la relazione che la solitudine sono entrambe mortali.
Se la relazione uccide, la solitudine non offre alcuna via d’uscita.
3.
Secondo S.
Freud, il bambino nello stadio precoce dell’infanzia.
prima di scegliere gli oggetti esterni.
assume se stesso come oggetto d’a¬more.
Un simile investimento affettivo è denominato narcisismoprirnario.
Secondo M.
Kletn, invece.
il bambino possiede un lo, sia pure rudimentale, fin dalla nascita.
per cui è già in grado di vivere una re¬lazione con l’oggetto esterno, la madre.

Il sistema educativo italiano di istruzione e di formazione

MALIZIA GUGLIELMO – CARLO NANNI, Titolo Il sistema educativo italiano di istruzione e di formazione – Le sfide della società della conoscenza e della società della globalizzazione, LAS Editrice, Roma 2010, EAN 9788821307393, pp.256,  € 17,00 Il volume è nato a seguito della collaborazione, formalizzata nel 2008 con opportuna convenzione, tra la Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana e il Centro Seeco di Hangzhou (Cina), in collegamento con il College of Education della Zhejiang University.
Uno dei primi atti stipulati è stato quello di dare inizio ad una collana di pubblicazioni dal titolo gItalia-Cina Educazioneh.
Il presente volume è il primo della serie ed esso corrisponde un testo parallelo per il sistema educativo cinese.L’opera, articolata in tre parti, mira a ricostruire la parabola della scuola italiana dallfunificazione del Paese (1861) ai giorni nostri.
La prima sezione fornisce il quadro di riferimento della società della conoscenza e della globalizzazione e aiuta a comprendere lfevoluzione del sistema educativo di istruzione e di formazione dellfItalia fino alla soglia del XXI secolo.
La seconda parte illustra il gdecennio delle riformeh (2000-2009), soffermandosi in particolare su quelle globali di Berlinguer (2000) e della Moratti (2003), per poi ricostruire analiticamente gli approcci più pragmatici dei ministri Fioroni e Gelmini (2006-2009).
Ai capitoli dedicati allfevoluzione del sistema scolastico e della istruzione/formazione professionale, fa seguito un capitolo specifico sulla evoluzione dellfuniversità in Italia.
La terza sezione presenta le conclusioni generali, proponendo una visione dfinsieme attraverso cui si prova a mettere in risalto le linee di fondo che – al di là della stessa riuscita delle azioni di riforma – possono sorreggere, oggi, il sistema educativo di istruzione e di formazione italiano nel suo evolversi secondo una fondamentale prospettiva umanistica, in corrispondenza allo sviluppo del paese-Italia.
Questa parte finale è fatta seguire da una appendice che riporta i dati della situazione dellfultimo decennio.

III Domenica di Quaresima Anno C

  Lectio Anno c     Prima lettura: Esodo 3,1-8.13-15           In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.  L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto.
Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?».
Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».
E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe».
Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze.
Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”.
Mi diranno: “Qual è il suo nome?”.
E io che cosa risponderò loro?».  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!».
E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”».
Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”.
Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
    v Nei primi due capitoli del libro dell’Esodo abbiamo storie di oppressioni e violenze ai danni di un popolo che vive in schiavitù.
D’altra parte, anche l’iniziativa «autonoma» di Mosè fallisce perché offuscata da sospetti, ombre, paure.
Storia di miserie umane dove Dio non è presente.
Finché non giungiamo alla fine del cap.
2, vv.
23-24 «Gli Israeliti gemettero…
Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo, Giacobbe».
Vocazione e missione di Mosè si pongono ad immediato seguito di questa iniziativa libera e gratuita di Dio.
     — Il racconto della vocazione di Mosè contiene momenti caratteristici e costanti di simili narrazioni bibliche.
Abbiamo uno schema tripartito: a) chiamata di Dio (vv.
1-10); b) obbiezioni del vocato (vv.
11.13); c) il segno e la protezione di Dio (vv.
12.14-15)      Lo stesso schema si ritrova nelle vocazioni di Simeone, Isaia Geremia e nell’annuncio a Maria (Lc 1).
A motivo di un taglio notevole (vv.
8b-12), nella pericope liturgica non si percepisce bene la struttura «dialettica» di questa chiamata.
     Evidenziamo alcuni punti che aiutino alla comprensione ed all’approfondimento del testo:      — Simbolismo del fuoco che brucia senza consumarsi (vv.
2-3).
In Es 19,18 il Signore discende nel fuoco sul Sinai, lo fa tremare, ma non lo distrugge.
Simbolo fondamentale nelle teofanie, il fuoco esprime due aspetti della presenza di Dio: la sua trascendenza (il fuoco che brucia e non consuma è una realtà che non possiamo afferrare e dominare, ma ci sfugge e trascende); la vicinanza di Dio (il suo calore avvolge, illumina, riscalda).
     — Santità del luogo (v.
5).
Spesso ricordata nella Sacra Scrittura: vedi Gn 28,16 (santuario di Betel): Certo il Signore è in questo luogo, ed io non lo sapevo! Non l’uomo ma Dio, con la sua presenza, santifica un certo luogo.
Questo spazio santificato «preesiste alla coscienza dell’uomo» (G.
RAVASI) e questi, per accedervi, deve compiere un gesto di distacco e umiliazione, un gesto che qui si esprime nel togliersi i sandali (cosa che ancora vige nelle moschee).
     — Rivelazione del Nome divino (vv.
13-14).
Il «nome» corrisponde alla realtà stessa di Dio.
Così come viene espresso e spiegato, può aprirsi a vari livelli di comprensione:      • Mistero che sfugge: «Io sono colui che sono» è tautologia enigmatica ed apparentemente evasiva, che comunque lascia il suo essere nel mistero, senza chiarirlo: irraggiungibile e inconoscibile, il mistero di Dio non si lascia usare o definire dall’uomo.
     • La libertà di essere: il giro di frase, per cui si ripete quel che si è già detto (idem per idem) è tipico di alcune affermazioni divine in cui è messa in luce la sua libertà di essere e di agire.
Ad es.
in Es 33 19 Dio dice a Mosè: Faccio grazia a chi faccio grazia, uso misericordia con chi uso misericordia.
In altri termini Dio non si lascia sindacare o condizionare da niente e da nessuno; è misericordioso con chi vuole esserlo, fa grazia a chi vuole.
In tal senso, con l’espressione: Io sono colui che sono, Dio afferma che nel suo essere è determinato solo dal suo «volere»: veramente libero di essere quello che vuole essere!      • Nome di speranza.
Il verbo «essere» (hyh) in ebraico è verbo «attivo»; non indica uno stato, ma una attività.
In tal senso Dio si rivela a Mosè come Colui che è, che agisce e vale (a differenza degli idoli che sono un nulla, perché non contano e non valgono niente).
Alla luce di ciò, il versetto che conclude la nostra lettura assume tutto il suo spessore teologico: «Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”.
Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (v.
15).
«Per sempre», Dio è e sarà per il suo popolo quello che è, presente per liberarlo e guidarlo.
Dio, nel rivelare il suo nome, non consegna una definizione filosofica di esso (Io sono l’ESISTENTE), anche se questa verità è in fondo supposta, ma un solido titolo di speranza.
L’Apocalisse di Giovanni augura la grazia e la pace derivanti da «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4).
  Seconda: 1Corinzi 10,1-6.10-12           Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo.
Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore.
Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.
Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
              v Nei capp.
8-10 della Prima Lettera ai Cor., Paolo affronta lo spinoso problema degli «idolotiti», ossia delle carni degli animali sacrificati agli idoli.
I resti di questi sacrifici venivano messi in vendita e regolarmente consumati dalla gente.
Per i cristiani di Corinto si poneva il problema, se fosse lecito o no consumare queste carni.
Pur affermando, da una parte, il principio della fondamentale libertà del cristiano (c.
8), testimoniato col proprio esempio (c.
9), l’Apostolo, d’altra parte, mette in guardia i Corinzi contro il pericolo di contaminazione e «connivenza» con gli ambienti pagani (c.
10).
La nostra pericope si inserisce esattamente al principio di questa lunga ammonizione, che parte dai castighi che colpirono i padri nel deserto a causa della loro infedeltà.
     — Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè…
tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, ecc.
(vv.
1-4).
I fatti principali vissuti da tutto il popolo d’Israele sono riletti alla luce della presente situazione dei cristiani, della loro vita sacramentale (battesimo, eucarestia, presenza del Cristo, ecc.).
Si noti l’insistenza martellante sul «tutti»: a nessuno furono negati i doni della salvezza, che prefigurano quelli del regime attuale dei cristiani.
Questo accostamento si fa in base alla continuità storico-salvifica che Dio stesso stabilisce tra i fatti dell’esodo e quelli della Chiesa.
Il Cristo, preesistente nella storia di Israele, è indicato sia da Mosè («battezzati in Mosè, come noi lo siamo in Cristo), che dalla «roccia» (una tradizione rabbinica voleva che quella roccia, simbolo della sapienza divina, accompagnasse Israele nel deserto).
     — La maggior parte di loro…
furono sterminati nel deserto (v.
5).
Nonostante tali privilegi, la maggioranza degli Israeliti merita il castigo divino.
Alla continuità salvifica si contrappone una «discontinuità» etica da parte di Israele.
     — Ciò avvenne come esempio per noi…» (vv.
6.11).
La parola italiana «esempio» corrisponde al greco «typos», che qui assume un duplice significato: prefigurazione ed esempio ammonitore.
Come prefigurazione, la storia dell’esodo anticipa, prepara ed è in funzione degli eventi vissuti dai cristiani, eventi ultimi e definitivi della storia della salvezza («è arrivata la fine dei tempi», v.
11).
     Come storia ammonitrice, quella dell’esodo ha la funzione di scuotere i corinzi dalla loro illusoria sicurezza («chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere»).
Non si tratta solo di stare in guardia contro la mormorazione (v.
10), ma soprattutto — stando ai vv.
7-9 stranamente omessi nel brano liturgico — di non incorrere nel peccato di idolatria, che equivale a fornicazione, di quanto porta a tradire Dio, per prostituirsi ad altri idoli.
     Pur restando saldo il principio della libertà, occorre evitare il peccato di presunzione, ed essere umili nel ruggire ogni occasione di comunione con gli idoli pagani (v.
14: «Fuggite l’idolatria»).
  Vangelo: Luca 13,1-9           In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici.
Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.
Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo.
Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”.
Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime.
Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
                  Esegesi      La pericope si colloca in quella lunga sezione del vangelo di Luca riguardante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51 – 21,27).
Gesti, insegnamenti, ammonizioni di Gesù sono «segnati» da questa tensione verso il compimento decisivo della sua missione, attraverso la passione, la morte, la risurrezione, e quindi dalla dimensione pasquale.
     In particolare, il vangelo di oggi si inserisce tra due momenti che ne caratterizzano ulteriormente il senso kerygmatico:      — prima, Gesù parla dei «segni dei tempi» invitando ad una condotta che ottenga il giudizio più benevolo possibile da parte di Dio (12,54-59);      — dopo, la guarigione della donna curva (13,10-17), che rivela potenza salvifica di Gesù, superiore allo stesso sabato, a favore di una «figlia di Abramo».
     In tale contesto il richiamo di oggi a due fatti di cronaca e la parabola del fico, assumono, il senso ineludibile di un invito alla conversione, in presenza di Gesù che sale a Gerusalemme e si immola per tutti, disposto ad attendere, ma ancora per poco, che rispondiamo alle sue chiamate.
     — Il vangelo si compone di due brevi sezioni, ognuna con la sua introduzione: la prima, un monito chiaro alla conversione, prendendo occasione da due fatti tragici (vv.
1-5); la seconda, una parabola che invita ad approfittare, finché dura, del tempo della grazia.
     — Tre annotazioni per evidenziare l’aspetto kerygmatico del testo.
     Prima: i due episodi di morte violenta (strage ordinata da Pilato e crollo della Torre di Siloe) hanno lo scopo di sottolineare come non sempre è da cercare un nesso diretto tra colpa e morte, peccato e infortunio (cf.
Gv 9 3) essi devono interpellare chi ascolta, e indurlo a conversione, per non essere impreparato se travolto da eventualità del genere.
     Seconda: in base al Lv 19,23 i frutti di un albero si possono cogliere solo al quarto anno.
Se il proprietario dice: «sono tre anni che vengo a cercare frutti» vuol dire che sono passati almeno sei anni da quando il fico è stato piantato.
Ma a parte questo lungo tempo, il fico gode del privilegio di essere piantato dentro il vigneto.
Albero di poco conto e ingombrante, il fico veniva solitamente piantato altrove, fuori della vigna per non sfruttare il buon terreno destinato alle viti.
Il che sottolinea sia la bontà del proprietario, sia il diritto che ha di aspettarsi dei frutti.
     Terza: concimare il terreno di un vigneto, di per se già di buona qualità è operazione insolita.
Il fatto che la proposta del vignaiolo non venga respinta – come sarebbe normale – ma accolta dal proprietario, sta ad indicare che egli non vuole risparmiare, ma è disposto a accordare tempi lunghi e a fare tutto il possibile per mettere il fico in condizione di portare frutti.
   — Queste concessioni gratuite e generose contengono una lezione chiara per ogni cristiano: se il giudizio di Dio «ritarda» e se la nostra vita e i benefici di Dio si prolungano nel tempo, tutto questo va letto come «segno» di un tempo di grazia, che urge mettere a frutto, prima che sia tardi.
       Meditazione      Ogni parola che Dio rivolge all’uomo esige non solo un ascolto attento e disponibile, ma soprattutto una scelta di vita che sia conseguente alla parola udita.
Non è importante il luogo che Dio sceglie per rivolgere la sua parola all’uomo: può essere un luogo misterioso e pieno di fascino in cui si può incontrare Dio nell’intimità di un dialogo e di uno sguardo pieno di stupore (è l’esperienza di Mosè sull’Oreb, narrata nel testo di Es 3,1-8); può essere la vicenda quotidiana dell’uomo con i suoi eventi drammatici e inquietanti, che esigono un discernimento per cogliere in essi un senso, una presenza che interpella, una parola di vita (cfr.
Lc 13,1-9).
Ma nel momento in cui l’uomo accoglie nella sua esistenza questa parola, la sua vita deve cambiare: c’è come uno ‘spostamento’, una ‘inversione di rotta’, una conversione.
     Così è avvenuto per Mosè nel terribile e affascinante incontro con quella misteriosa voce che lo chiamava dal roveto ardente.
Avvicinarsi a Dio (Es 3,3), essere da Lui chiamati e co-nosciuti per nome (v.
4), essere consapevoli dell’alterità e della santità di Dio (v.
5), accogliere la rivelazione del suo volto e del suo ineffabile nome (vv.
6.14-15), velarsi il viso consapevoli della propria indegnità (v.
6), essere inviati a testimoniare la compassione di Dio per il suo popolo (vv.
7-8), sono le tappe di una radicale conversione che Mosè deve compiere a partire da quella parola pronunciata da Dio dal fuoco del roveto.
E dal mo- mento in cui questa parola gli viene rivolta, Mosè ha un diverso rapporto con Dio, con il popolo, con se stesso.
Prende a cuore il progetto di Dio, la condizione del popolo oppresso; la sua stessa vita rimane come ferita da questa parola.
Ha scoperto l’iniziativa divina, che non può esser condizionata dal capriccio dell’uomo.
Non è più lui a decidere, ma è Dio a inviarlo (cfr.
il contrasto con l’episodio narrato in Es 2,11-15).
Mosè è giunto ad ascoltare la verità di Dio; da allora non ascolta più se stesso e come Abramo è costretto a lasciarsi condurre da Dio e dalla sua parola.
In Mosè il cammino di conversione alla parola di Dio sarà continuo e incessantemente ritmato da due domande che lo aprono alla consapevolezza della propria povertà e dell’infinita grandezza di Dio: «Chi sono io per andare dal farao-ne…?» (v.
11) e «Quale è il suo nome?» (v.
13).
     Lo stesso cambiamento di vita a partire da una parola udita è il messaggio che ci propone il testo di Lc 13,1-9.
La parola di Gesù di fronte a due avvenimenti di cronaca e la breve parabola del fico che non porta frutto, richiamano la necessità di saper leggere le parole di Dio negli eventi della storia per entrare e collocarsi in essa in una verità di vita, nella vigilanza e nel discernimento.
Si tratta di passare da una vita ‘in superficie’ a una vita ‘in profondità’, a una vita convertita alla logica di Dio.
Ecco perché di fronte alla negatività della storia, il discepolo di Cristo non può accontentarsi di una semplice cronaca o di un giudizio affrettato e rassicurante.
Con un tono che non lascia scampo, proprio a partire da due eventi drammatici noti a tutti (alcuni rivoltosi galilei uccisi da Pilato e alcune persone morte in seguito al crollo di una torre), Gesù pone ciascuno di fronte alla propria responsabilità e alla propria vita: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo steso modo» (v.
3).
Ogni segno presente nella storia, ricorda Gesù, ha sempre un risvolto personale: è un invito a cogliere l’importanza decisiva del tempo, la necessità di accogliere l’of-ferta di perdono da parte di Dio resa attuale nella parola e nella persona di Gesù.
E così di fronte a un evento drammatico, il discepolo è chiamato a esercitare un discernimento in cui deve lasciarsi coinvolgere come credente.
C’è un discernimento illusorio che divide i buoni dai cattivi in nome della giustizia (cfr.
la parabola della zizzania in Mt 13,24-30) o considera il male come inevitabile e fatale.
Il discernimento a cui invita Gesù apre a una lettura della storia in profondità: il tempo che ci è donato è in vista di una salvezza e gli avvenimenti contengono la parola accorata ed insistente di un Dio che ama la vita e ci chiama a condividerla con lui.
Ogni fatto, letto in questa prospettiva può essere un’occasione per mettere in gioco la nostra responsabilità, cambiare modo di pensare e di vivere, ma, soprattutto cambiare il nostro modo di rapportarci a Dio.
     Sotto questa angolatura, il tempo donato all’uomo in vista di una conversione si trasforma in tempo della pazienza (makrothumia) di Dio.
A questo ci orienta la breve parabola del fico sterile (vv.
6-9).
L’agire dei personaggi, in questa parabola, si colloca tra  l’ovvio e il paradossale.
È ovvio, per il padrone di una vigna, tagliare un albero da frutto piantato in mezzo a essa, un fico, che dopo alcuni anni non produce il raccolto desiderato (qui c’è anche un’allusione all’immagine della vigna che produce uva selvatica, in Is 5,1-7): «taglialo, dunque! Perché deve sfruttare il terreno?» (v.
7) dice quel padrone al suo contadino.
È paradossale la risposta del contadino al comando del suo padrone: «lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno…
vedremo se porterà frutti…
se no, lo taglierai» (vv.
8-9).
È una proposta che rasenta l’assurdo: come potrebbe portare ancora frutto questo albero sterile? Eppure quel contadino ha uno sguardo che va oltre il fallimento evidente: una possibilità e un tempo ulteriori, con un supplemento di cure, forse gioverà a quell’albero, tanto da poter dare il frutto sperato.
«Taglialo… lascialo!»: le due battute di questo breve dialogo ricordano quello tra Dio e Abramo a proposito della distruzione delle città del lago (cfr Gen 18,22 ss.).
Come Abramo, quel contadino fa emergere il desiderio di vita che, nonostante la dura e sofferta decisione, rimane nascosto nel cuore di quel padrone.
Fuori metafora, la parabola ci rivela il modo di agire di Dio.
Dio ha pazienza e il suo sguardo va lontano: non toglie gli occhi dal male e solo lui è capace di sopportare il male con tale sicurezza e fiducia, poiché sa come e quando intervenire.
La sua pazienza, allora, e spazio donato per la conversione e la salvezza Ecco perché il comportamento di Dio, proprio alla luce di questa parabola e per noi, così impazienti, tanto assurdo: sfocia nell’impossibile che, per Dio, diventa possibile.
Ma, possiamo ancora aggiungere, la pazienza di Dio ha un volto: Gesù.
Come non riconoscere nel contadino che implora una possibilità ulteriore, lo stile di Gesù che è venuto a chiamare i peccatori a conversione? Nella parabola Gesù rilegge la propria missione: tre anni di annuncio, di attesa perché il popolo porti frutto e alla fine un ultimo ed estremo tentativo…
«Gerusalemme, Gerusalemme quante volte ho voluto raccoglierei tuoi figli…
e voi non avete voluto!» (13,34).
     La parabola rimane aperta: non dice quale sia stato il risultato finale.
Tutto è rimandato alla responsabilità e alla capacità di accogliere questa possibilità e questo tempo donati.
Sta qui la serietà della conversione.
Lo spazio che ci è concesso non ha altra ragione di essere se non nel cuore stesso di Dio.
E non c’è altra forza che provochi una reale conversione se non la pazienza, la misericordia di Dio.
Possiamo invertire la rotta di un modo di essere sbagliato, non attraverso uno sforzo eroico di volontà, ma se impariamo a guardare noi stessi e gli altri con lo sguardo vasto, infinito di Dio.
Uno sguardo che va oltre i confi-ni delle nostre possibilità, del nostro giudizio, del nostro cuore Dio e abituato a vedere le cose in grande; come un contadino sa portare il peso del tempo dell’attesa, non rinuncia a lavorare, ha fiducia nelle potenzialità del terreno, pensa al frutto che può maturare.
Non ha piantato l’albero per tagliarlo, ma per raccoglierne i frutti.
        

Cardinale vicario Agostino Vallini: Serve una Chiesa più coraggiosa

Ai politici, agli amministratori, raccomanda “una speciale attenzione ai poveri” e di “non dimenticare di prendersi cura della loro anima e del loro rapporto con Dio”; alla Chiesa chiede invece di essere “più coraggiosa e testimoniante”, con un’adesione più profonda agli orientamenti del concilio Vaticano ii.
Anche perché i giovani “non ci seguono più, sono culturalmente e sensibilmente lontani dai valori cristiani”.
Il cardinale vicario Agostino Vallini traccia un primo bilancio della sua esperienza pastorale alla guida della diocesi di Roma, a distanza di poco meno di due anni dalla nomina, avvenuta il 27 giugno 2008.
La capitale, i suoi cittadini, i suoi fedeli, costituiscono una realtà particolare, una comunità nella quale scorre ancora una “linfa di autentica civiltà”, che fa sì che “gli episodi di intolleranza verso gli immigrati siano rari e apertamente condannati dalla gente”.
Insomma, Roma è ancora a pieno titolo una città profondamente cristiana, nonostante le profonde trasformazioni che ha subìto in particolare negli ultimi decenni.
Tuttavia, c’è molto da fare.
Il cardinale – in questa intervista a “L’Osservatore Romano” – illustra le linee della pastorale diocesana, dalla quaestio fidei alla preparazione dei sacerdoti, dalla formazione cristiana degli adulti alle indicazioni che Benedetto XVI fornisce, costantemente, al suo vicario.
  L’intervista  Eminenza, pochi giorni fa, il 14 febbraio, la visita di Benedetto XVI alla Caritas presso la stazione Termini.
È noto che fra i più poveri, i più bisognosi, figurano gli immigrati.
Lei crede che in futuro possano verificarsi anche a Roma episodi di forte tensione fra cittadini e comunità straniere, come è accaduto altrove? La visita del Papa all’ostello della Caritas alla stazione Termini, nell’anno dedicato dal Parlamento e dalla Commissione europea alla lotta alla povertà e all’esclusione sociale, è stata una intensa esperienza di pastorale sollecitudine del Papa verso i poveri, ricambiata dai presenti, molti dei quali immigrati, con grande emozione e sincera gratitudine.
Un’esperienza di alto valore umano e spirituale che ha trasmesso alla città – ne ho avuta vasta eco nei giorni successivi – un forte messaggio per una cultura che consideri la presenza degli immigrati non come fonte di problemi, ma come persone meno provvedute e come noi titolari di diritti.
Una cultura che la Caritas e le altre istituzioni ecclesiali di carità e di solidarietà presenti a Roma diffondono silenziosamente da anni, dimostrando concretamente che l’emarginazione può essere contrastata e vinta dall’amore e dalla giustizia, in nome della carità di Cristo e della dignità da riconoscere e garantire a ogni persona umana.
Le numerose opere di carità a favore degli immigrati parlano alla città con la volontà anche di riparare in tanti casi alla giustizia negata.
Non dimentichiamo peraltro l’apporto positivo di lavoro e di contribuzione all’economia del Paese dato dagli stessi immigrati, inseriti nella vita sociale.
Questa linfa di autentica civiltà fa sì che a Roma gli episodi di intolleranza verso gli immigrati siano rari e apertamente condannati dalla gente.
In futuro si potranno avere problemi di rapporto e confronto con le comunità religiose diverse da quelle cristiane? Tendo a escluderlo.
Non dobbiamo dimenticare che siamo a Roma e che, per quanto i processi storico-culturali che sembrano dominanti influiscano sul modo di pensare e sui comportamenti delle persone, il tessuto sociale è impregnato di valori cristiani, che sono il rispetto della persona umana e delle idee di ciascuno, il riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, lo spirito ecumenico.
La presenza del Papa e della Santa Sede, che costantemente richiamano i valori non solo religiosi ma umani e civili, fa sì che i primi destinatari di questi messaggi siano i romani.
Come è cambiata la città? L’immigrazione, le nuove periferie, le ricadute sociali della crisi economica mondiale ne hanno mutato realmente le caratteristiche? Sì, in modo evidente.
Negli ultimi quarant’anni Roma è progressivamente cambiata.
A quel tempo c’era il centro città con la sua identità di metropoli e le borgate che crescevano.
Una città “a doppia spinta” – dicono i sociologi – dove chi stava bene stava sempre meglio e chi era povero diventava sempre più marginale.
Oggi non è più così:  non c’è più un centro, gli emarginati sono aumentati, non si evidenziano ragioni di coagulo.
“Il vero vizio – è stato detto – è la mancanza di spirito comunitario e di socializzazione”.
A Roma “la gente non si incontra più, non sa dove farlo” e “ciò vale per il centro storico come per la periferia”.
Roma dunque, come ha spiegato Giuseppe De Rita [segretario generale del Censis], sta perdendo la propria identità diventando “un agglomerato di quartieri diversi, che le periodiche ondate migratorie hanno trasformato in maniera strutturale”.
Negli ultimi 60 anni la città è cresciuta di un milione di abitanti, di cui l’8 per cento sono stranieri.
Tutto ciò è aggravato dalla crisi economica, che ha colpito tante famiglie.
Nel complesso si può dire che Roma sia ancora una città profondamente cristiana o, a livello culturale, la città ha ormai assunto i caratteri tipici, più secolari, delle grandi metropoli europee? È cambiato di conseguenza anche il modo di essere pastore di una realtà come quella romana? Non sono ancora in grado di valutare lo spessore cristiano del popolo romano.
Nelle visite alle parrocchie incontro comunità vive e operose, laici impegnati e generosi, presenza attiva degli istituti di vita consacrata e dei movimenti, ma non crederei che Roma sia indenne dal ciclone perdurante della secolarizzazione.
La realtà è sotto gli occhi di tutti.
Si pensi solo all’invadenza nella vita familiare di un certo tipo di televisione e di internet, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani.
Nondimeno rispetto ad altre metropoli europee i segni distintivi della presenza cristiana nella vita della maggioranza della popolazione sono chiari e influenti, seppure non possiamo più fidarci solo della tradizione.
Il mondo è soggetto a continuo cambiamento e la comunità ecclesiale è chiamata ad adeguare la sua azione pastorale alle esigenze dei tempi.
I grandi orientamenti del concilio Vaticano ii devono penetrare di più nel corpo ecclesiale e far maturare una coscienza di Chiesa più coraggiosa e testimoniante.
Così pure, contro la frammentazione, è da promuovere il convergere delle varie forze apostoliche a una maggiore unità nella Chiesa locale.
Di conseguenza cambia anche il modo di esercitare il servizio pastorale.
Cosa prevede il programma pastorale diocesano per il prossimo futuro? Dopo il Grande giubileo del 2000, a cui la diocesi si preparò con grande impegno, vivendo un momento di forte identità e visibilità con la missione cittadina in tutti gli ambienti, in questo primo decennio l’attenzione pastorale è stata concentrata su ambiti importanti, quali la famiglia, i giovani e l’educazione.
Con l’incoraggiamento del Papa, è parso opportuno fare una verifica pastorale, partendo da una domanda:  “Come i nostri fedeli hanno coscienza di essere chiesa e sentono la responsabilità di annunciare il Vangelo?” Cinque sono gli ambiti della pastorale ordinaria presi in esame:  l’Eucaristia domenicale, la testimonianza della carità, l’iniziazione cristiana, la pastorale giovanile e la pastorale familiare.
I primi due vengono affrontati questo anno, gli altri nei prossimi anni.
Sono convinto che, non potendo presupporre la fede in tanti battezzati, dobbiamo dare a tutta la pastorale una forte impronta missionaria.
Sui principi siamo tutti d’accordo, ma la traduzione concreta richiede impegno soprattutto sul piano della formazione degli operatori pastorali, a cominciare dai sacerdoti e dai seminaristi.
A un anno dalla sua lettera agli educatori scolastici “Educare con speranza”, si può fare un bilancio della mobilitazione che ha coinvolto anche la Chiesa di Roma in risposta alla cosiddetta emergenza educativa?   La “Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione”, che Benedetto XVI ci ha indirizzato il 21 gennaio 2008, come è noto, ha avuto una grande risonanza e una vasta accoglienza.
L’autorevole appello del Papa a rendere la nostra città “un ambiente più favorevole all’educazione” è stato sostenuto molto dalla diocesi e tradotto in iniziative capaci di coinvolgere in un lavoro d’insieme i diversi educatori interessati, a cominciare dalla famiglia, spronando tutti a non dimenticare mai che educare è soprattutto un impegno d’amore e, come ogni vero impegno, costa.
Nella mia lettera – seguendo le indicazioni di Benedetto XVI – ho ribadito la necessità di partire, nella difficile arte di educare, dalla testimonianza umana e cristiana che deve accompagnarsi alla competenza professionale e alla dedizione al bene dei ragazzi e dei giovani.
Mi pare che l’emergenza educativa oggi sia molto avvertita.
Per dare seguito a tutto ciò il prossimo 6 marzo celebreremo presso la Pontificia Università Lateranense un convegno sul tema “Progettare la vita.
La Chiesa di Roma incontra la città per un  rinnovato  impegno  educativo”.
Rimanendo sempre nel tema educativo, si sottolinea la necessità di fornire ai giovani “modelli credibili”.
Questi modelli mancano o si ha difficoltà a portarli a conoscenza delle nuove generazioni? È vero, la prima via educativa è la testimonianza credibile degli educatori, che – grazie a Dio – non mancano, anche se non bastano mai.
Lo affermava già Paolo vi nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, nel 1975.
Ma aggiungerei che, accanto alla testimonianza dei singoli, è necessaria quella della comunità ecclesiale.
Dobbiamo aiutare i fedeli a prendere sempre più coscienza che non si è cristiani solo per se stessi, ma anche per annunciare agli altri la fede, testimoniandola là dove si vive.
Inoltre, va ripensata la proposta formativa.
È necessario offrire una formazione umano-cristiana più robusta così da formare cristiani adulti, uomini e donne, che a loro volta siano punto di riferimento per le nuove generazioni.
La pastorale ordinaria è chiamata ad aggiornare metodologie e contenuti, a cominciare dai linguaggi con cui annunciamo il Vangelo.
Tanti ragazzi e giovani non ci capiscono più, sono culturalmente e sensibilmente lontani dai valori cristiani, bombardati quotidianamente da mille altri messaggi e inviti, nonostante abbiano ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Vanno aiutati a scoprire la risposta cristiana alle grandi domande di senso della vita, la bellezza della preghiera con la Parola di Dio, a vivere l’esperienza liberante della confessione e della direzione spirituale e uno stile di vita aperto al servizio di carità.
In tal senso ci sono a Roma esperienze molto promettenti, ma dobbiamo fare di più.
Essere sacerdote a Roma:  quali sono le difficoltà, i problemi, i disagi che i parroci le segnalano? È un grande onore essere sacerdote a Roma, ma, per certi aspetti, è anche più impegnativo.
Considerata la fisionomia della nostra diocesi, a cominciare dalla grandezza della maggioranza delle parrocchie e delle altre realtà pastorali, il sacerdote romano ha bisogno di una forte tempra psicologica e di una levatura spirituale alta, capaci di fronteggiare molti problemi, tipici del contesto metropolitano attuale.
Siamo certamente aiutati dal fatto che i sacerdoti, salvo eccezioni, vivono insieme nelle canoniche e ciò permette lo scambio e il sostegno reciproco.
Anche le prefetture (i vicariati foranei previsti dal codice canonico), dove il piano pastorale diocesano trova concreta applicazione locale, svolgono una funzione preziosa per i sacerdoti e di coordinamento del lavoro pastorale.
Lei è stato docente di diritto canonico e di diritto pubblico ecclesiastico, ausiliare di Napoli, poi vescovo di Albano e infine prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica.
Quali di queste esperienze si sta rivelando più preziosa nel suo attuale impegno pastorale? Direi che tutti i ministeri che mi sono stati affidati sono di aiuto nello svolgimento del compito di cooperare con Benedetto XVI nel governo pastorale della diocesi di Roma.
Le varie esperienze sono preziose in una realtà complessa e delicata qual è quella di Roma.
Come cittadino, quali richieste ritiene sarebbe legittimo e comprensibile rivolgere agli amministratori? Mi piacerebbe molto che quanti esercitano il gravoso compito della cosa pubblica abbiano sempre come stella polare del loro mandato il bene comune dei cittadini, con una speciale attenzione ai poveri e a chi soffre.
Mi rendo conto che il loro servizio è difficile, per questo quando li incontro raccomando di non dimenticare di prendersi cura anche della loro anima e del rapporto con Dio, di cui sono rappresentanti; ma anche io, come pastore, non manco di pregare per loro.
Si confronta spesso con il Papa sulla vita della diocesi? Benedetto XVI segue la vita della diocesi.
Ci è molto vicino.
Ho il privilegio di poterlo incontrare spesso, lo informo delle questioni più importanti, delle linee pastorali che intendiamo seguire e ne ricevo indicazioni.
Ogni anno visita il seminario e alcune parrocchie, incontra i sacerdoti all’inizio della Quaresima e apre il convegno diocesano annuale con un discorso che orienta il cammino pastorale.
Senza dimenticare i momenti liturgici più significativi, nel quale il Papa ci è maestro della fede.
Qual è il suo rapporto con la città di Roma? Le mie origini sono di questa terra, a Roma ho trascorso molti anni e adesso, come vescovo, sono a più diretto contatto con la gente, visitando le parrocchie e le altre realtà anche civili.
Roma è una città che, pur nella sua complessità, affascina.
Svolgere il ministero episcopale per i suoi abitanti mi onora e mi impegna molto per ciò che Roma è e significa nel mondo.
E quale invece il rapporto dei cittadini di Roma con il loro pastore vicario? La gente è accogliente e cordiale, dovunque trovo disponibilità, anzi desiderio di rendere le comunità ecclesiali centri di autentica vita cristiana.
Mi sembra che si sia stabilito un buon rapporto con tutti.
Qual è l’evento che le torna alla mente con più frequenza di questo primo periodo trascorso come vicario di Roma? Tra i tanti momenti belli di questi quasi due anni, l’esperienza che più mi ha dato gioia e speranza è stata l’ordinazione presbiterale conferita da Benedetto XVI l’anno scorso a 19 nostri giovani sacerdoti.
Il motivo è facilmente comprensibile.
In conclusione, quale questione pastorale la preoccupa maggiormente? Senza dubbio è quella che chiamerei quaestio fidei, vale a dire come “aggiornare” – nel senso dato a questo termine dal concilio Vaticano ii – l’azione pastorale diocesana e parrocchiale affinché la gente possa aprire il cuore a Cristo e vivere con gioia nella Chiesa.
(©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)

“In tutto mi accomodai a loro”

Nessuna strategia predeterminata da seguire, ma una costante attenzione agli spiragli di apertura, curiosità reciproca e fiducia che di volta in volta si venivano ad aprire lungo il cammino, unita a una grande capacità di ascoltare i bisogni dell’altro e muoversi di conseguenza; è probabilmente questo il segreto del successo sorprendente di Matteo Ricci nel dialogo con gli intellettuali del Grande Regno del Dragone, nella seconda metà del Cinquecento fino al 1610, l’anno della morte.  In fondo, a ben vedere, una delle modalità in cui si declina la caritas cristiana in chi da essa si lascia investire, visto che l’amore, come scriveva Nicolás Gómez Dávila, è l’organo con cui percepiamo l’inconfondibile individualità degli esseri.
“In tutto mi accomodai a loro” scrive Matteo Ricci di se stesso, con una frase che sintetizza in una battuta lunghi anni di difficoltà, fatiche e pericoli, ma anche di gioie inaspettate e di fecondo lavoro intellettuale; acquistare prestigio e credibilità nelle “cose mechaniche” crea un clima di interesse e simpatia umana da cui può nascere un confronto interessante per entrambe le parti in causa.
“In tutto mi accomodai a loro” è anche il titolo del convegno che si è aperto il 2 marzo alla Pontificia Università Gregoriana e proseguirà fino a giovedì nell’ateneo di Macerata; un’occasione per rileggere i suoi libri più famosi e il suo epistolario.
Analizzare nel dettaglio le opere composte da Ricci e dare uno sguardo alla sua “officina letteraria” permette di capire meglio il suo metodo.
Il Xiguo jifa, la mnemotecnica occidentale da lui tradotta in cinese, per esempio, è un tentativo di adattare il proprio messaggio alle esigenze culturali della civiltà che aveva di fronte.
Gli intellettuali cinesi che aspiravano a qualche carica burocratica nell’impero avevano bisogno di sapere a memoria i classici confuciani, per questo Ricci mise al loro servizio tutte le conoscenze che aveva in merito, rielaborandole in modo per loro comprensibile; sperava così che, riconoscendo l’eccezionalità del metodo di memorizzazione, fossero portati in seguito ad approfondire anche le verità della fede cristiana.
Per la composizione di questo trattato, come di molte altre opere gesuitiche in cinese, furono inventati termini ad hoc per indicare la terminologia specifica e tecnica legata alla filosofia e alla religione occidentali.
Questo lessico è modellato, però, identificando termini che possano avvicinarsi a quelli legati alla filosofia e al divino della cultura cinese e richiese un lavoro notevole di acquisizione ed elaborazione della cultura ospitante.
È in particolare per la rielaborazione delle immagini che Ricci attinge a piene mani alla tradizione linguistico-etimologica cinese; vengono usati i caratteri cinesi, viene utilizzata la loro suddivisione classica in famiglie e i criteri di suddivisione attraverso metodi semantico-associativi e fonetici.
La struttura stessa del testo rispecchia quella della lingua locale.
Il Xiguo jifa, come e forse più del trattato sull’amicizia (quello che oggi potremmo chiamare un instant-book agile e “di servizio”), è un esempio significativo di come padre Matteo accolse e si lasciò modellare dalla cultura che lo accoglieva, accettando di dedicare tutte le sue energie a quest’opera e di “mobilitare” tutte le sue competenze, dalla passione per la musica – un esempio tra i tanti:  compose ed eseguì otto canzoni per gli alti dignitari dell’imperatore – alle conoscenze di “cose mechaniche”.
L’intuizione di Matteo Ricci è stata quella di applicare anche in Cina l’esperienza dei Padri della Chiesa, l’innesto rigoglioso e fecondo del cristianesimo nella cultura antica, soprattutto ellenistica e romana; poté così confrontarsi positivamente con il confucianesimo – ma è bene precisare che si tratta del confucianesimo “antico”, non influenzato dal buddismo – mentre altri avevano fallito perché intendevano sovrascrivere il messaggio cristiano senza tener conto del retroterra culturale locale, rischiando di spazzare via i “germogli appena spuntati” del dialogo in atto.
La stima verso il popolo del Grande Regno del Dragone in padre Matteo era sincera, non frutto di una strategia e neanche di una “dissimulazione onesta”.
La grande cultura cinese lo aveva impressionato positivamente; per il gesuita Nanchino e Pechino non avevano niente da invidiare alla Firenze dell’epoca.
Forse è proprio per questo rispetto autentico e non simulato che il missionario marchigiano è tuttora molto amato e conosciuto in Cina – insieme a Marco Polo è l’unico straniero presente nel monumento del millennio a Pechino – e nel nostro tempo di dialogo tra religioni e culture profondamente diverse resta un simbolo attuale a cui richiamarsi.
di Silvia Guidi (©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)

‘Dio oggi: con Lui o senza di Lui cambia tutto’

 COMITATO DEL PROGETTO CULTURALE (a cura): Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto, Ed.
Cantagalli, Siena, 2010,  pp.
236, Euro 15.50 Da molto tempo, specialmente in Occidente, il panorama culturale appare segnato dalla tendenza a ridurre Dio a un prodotto della nostra mente.
Questo libro, nel quale sono raccolte le relazioni principali presentate all’evento internazionale su ‘Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto’, organizzato a Roma  dal 10  al 12 dicembre 2009, rilancia invece la questione di Dio come questione decisiva per ridare carne e sangue alle umane aspirazioni di verità, bellezza, libertà e giustizia.
Come ha richiamato di recente Benedetto XVI, ‘la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio’.
Non un Dio qualsiasi, ovviamente, ma il Dio personale di Gesù Cristo.
Ed è precisamente questa la sfida che filosofi, teologi, storici dell’arte e della cultura, nonché scienziati di diverso orientamento culturale raccolgono in questo libro.
    Indice: – Presentazione, S.
Belardinelli – Messaggio di Sua Santità Benedetto XVI – Saluto del Cardinale Angelo Bagnasco 1.
 Il Dio della fede e della filosofia – Introduzione, A.
Riccardi – Le vie di Dio nella ragione contemporanea, Card.
C.
Ruini – La ragionevolezza della fede in Dio, R.
Spaemann 2.
Il Dio della cultura e della bellezza – Introduzione, L.
Ornaghi – Fine della modernità: eclissi e ritorno di Dio, Card.
A.
Scola – La bellezza e il sacro, R.
Scruton – ‘Nessuna figura voi vedevate […]solo una voce’, Mons.
G.
Ravasi – Ragione e fede nei capolavori dell’arte cristiana, A.
Paolucci 3.
Dio e le religioni – Introduzione, F.
Botturi – La religione e gli dei, R.
Brague – Il problema del monoteismo, M.
Cacciari 4.
Dio e le scienze – Introduzione, U.
Amaldi – Dio creatore di un universo in evoluzione, G.
V.
Coyne sj – Dio e l’evoluzione, M.
Nowak – Dio e la scienza: una prospettica filosofica, P.
Van Inwagen 5.
Conclusioni – ‘Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto’, Mons.
R.
Fisichella Un volume che ripercorre i passaggi fondamentali dell’evento internazionale ”Dio oggi: con Lui o senza di Lui cambia tutto” promosso dal Comitato per il progetto culturale della Cei.
A proporlo, e a mandarlo in libreria da oggi, e’ l’editore Cantagalli.
Nel volume sono raccolti gli interventi piu’ significativi che hanno animato le giornate del convegno svoltosi a Roma tra il 10 e il 12 dicembre dell’anno scorso.
Nelle quattro sessioni plenarie, personalita’ del mondo laico e cattolico si sono confrontate davanti a un pubblico eterogeneo, attento e numeroso, su ”Dio della fede e della filosofia”, Dio della cultura e della bellezza”, ”Dio e le religioni” e ”Dio e le scienze” dando vita a un dibattito la cui ricchezza e profondita’ e’ destinata a lasciare un segno nella cultura del nostro Paese.
Oltre al messaggio di Benedetto XVI, il volume presenta, le relazioni del Cardinale Angelo Bagnasco, di Andrea Riccardi, del Cardinale Camillo Ruini, di Robert Spaemann, di Lorenzo Ornaghi, del Cardinale Angelo Scola, di Roger Scruton, di Monsignor Gianfranco Ravasi, di Antonio Paolucci, di Francesco Botturi, diRemi’ Brague, di Massimo Cacciari, di Ugo Amaldi, di George Coyne, di Martin Nowak, di Peter van Inwagen e di Monsignor Rino Fisichella.
”Da molto tempo, specialmente in Occidente, il panorama culturale appare segnato dalla tendenza a ridurre Dio a un prodotto della nostra mente – ha spiegato Sergio Belardinelli, coordinatore scientifico del Comitato per il progetto culturale della Cei -.
Questo libro rilancia invece la questione di Dio come questione decisiva per ridare carne e sangue alle umane aspirazioni di verita’, bellezza, liberta’ e giustizia.
Come ha richiamato di recente Benedetto XVI, “la priorita’ che sta al di sopra di tutte e’ di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio”.
Non un Dio qualsiasi, ovviamente, ma il Dio personale di Gesu’ Cristo.
Ed e’ precisamente questa la sfida che filosofi, teologi, storici dell’arte e della cultura, nonche’ scienziati di diverso orientamento culturale raccolgono in questo libro”.
18/02/2010.
(Adnkronos) –

Invictus

Accade a volte che un evento sportivo assuma significati che vanno oltre l’aspetto agonistico.
Così se per la maggior parte della gente la finale della Coppa del mondo di rugby del 1995 disputata all’Ellis Park Stadium di Johannesburg fu solo un’avvincente partita, peraltro con un risultato sorprendente, per il Sud Africa rappresentò un momento cruciale della storia nazionale.
Grazie alla lungimiranza di un uomo, Nelson Mandela, primo presidente di colore nel Paese, quell’evento divenne esperienza comune di un popolo fino ad allora diviso tra bianchi – pochi ma detentori del potere e della ricchezza – e neri, poveri ed emarginati.
Quell’impensabile convergenza del tifo su una squadra, gli Springboks, sostenuta solo dagli afrikaaners e odiata dai nativi per i colori verde e oro divenuti simbolo della segregazione, aiutò in parte a sanare le ferite del passato e a infondere speranza in un futuro pieno di incognite dopo la vergogna dell’apartheid.
Scegliendo di raccontare questa storia in Invictus, Clint Eastwood, alle soglie degli ottant’anni, prosegue con bravura e sensibilità il suo percorso di regista impegnato a esplorare l’uomo e la società.
E sulla scia di Gran Torino (inno alla non violenza ma anche invito alla tolleranza razziale, contro ogni pregiudizio) affronta i delicati temi del perdono e della riconciliazione.
“Il perdono – fa dire al suo Mandela – libera l’anima, cancella la paura.
Per questo è un’arma tanto potente”.
Probabilmente dietro a queste parole non si cela solo un imperativo morale, ma anche un più pragmatico calcolo politico, segno di una lucida visione della realtà, che però non sminuisce il senso di una scelta coraggiosa.
Nelle sale italiane dal 26 febbraio, Invictus non è, dunque, un film sullo sport in senso stretto, né la biografia di un uomo.
Tuttavia, l’accorta regia di Eastwood e la sceneggiatura di Anthony Peckham tratta dal libro Ama il tuo nemico di John Carlin (Sperling & Kupfer) danno un tono quasi epico alle scene agonistiche caricandole di un pathos che richiama i classici del genere, come Fuga per la vittoria o Momenti di gloria. Così come il fulcro della vicenda sembra perfetto per analizzare i tratti essenziali del carisma politico di Mandela.
Lungi dal voler dipingere un santino del leader dell’African national congress (Anc), che ha trascorso in carcere 27 anni prima di diventare presidente del Paese e un simbolo planetario della lotta per i diritti civili e per la libertà contro ogni oppressione, Eastwood, grazie all’ottima interpretazione di un Morgan Freeman perfetto nel ruolo del protagonista, ne condensa in efficaci quadri la personalità complessa, segnata da un’esistenza durissima.
Emerge così la figura di un uomo intelligente e realista.
“È una domanda lecita” risponde spiazzante ai fedelissimi risentiti per l’astio che si cela dietro il titolo di un giornale l’indomani del voto:  “Ha vinto le elezioni ma sarà in grado di governare?”.
Efficace e convincente nel far passare le sue idee, per quanto apparentemente contraddittorie con la sua storia e con quella dei suoi fratelli neri, capace di vedere oltre la limitata prospettiva dei suoi collaboratori più stretti che lo sconsigliano di occuparsi del rugby e di quella squadra amata soltanto dai bianchi, Mandela comprende invece quanto quel campionato del mondo sia importante.
Il Paese sta vivendo un momento cruciale, l’ombra dell’apartheid ancora incombe nei rapporti tra le persone ed egli sa che occorre fare appello all’orgoglio nazionale; per questo punta sull’unica cosa che in qualche modo può unire la sua gente.
Contro tutti, a costo di apparire persino un traditore della causa per la quale ha pagato in prima persona un altissimo prezzo, Mandela riesce a dissuadere i dirigenti dell’Anc dall’abolire la squadra degli Springboks e dal cancellarne gli odiati colori:  “Il passato è passato.
Guardiamo al futuro adesso”.
E gioca la sua carta più efficace:  portare dalla sua parte il carismatico capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un convincente Matt Damon, e attraverso lui tutti i giocatori.
Lo fa citando una poesia di epoca vittoriana che era stata la sua fonte di ispirazione durante gli anni trascorsi in prigione, Invictus, di William Ernest Henley.
Pienaar, sportivo improvvisamente al centro di una questione politica, comprende che la posta in gioco è ben più alta persino di una coppa del mondo; si appassiona al progetto e controbatte alla diffidenza e alle resistenze dei compagni, uno solo dei quali nero, che convince persino a cantare il nuovo inno nazionale, Nkosi Sikelei i Afrika, cioè “Dio benedica l’Africa” nella lingua dei sudafricani neri:  “Che ci piaccia o no – dice ai suoi – siamo più di una squadra di rugby.
I tempi cambiano.
 Anche  noi  dobbiamo  cambiare”.
La missione che Mandela affida a quei ragazzi è vincere la coppa del mondo che verrà disputata proprio in Sud Africa, ma il vero obiettivo è la pacificazione nazionale sintetizzata nel motto “una squadra, un Paese”.
L’occasione è unica, irripetibile.
Ma anche sportivamente è un’impresa al limite del possibile.
Tuttavia nulla è impossibile se si persegue l’obiettivo con tenacia e convinzione.
“Sentite? Ascoltate il vostro Paese.
È questo.
Questo è il nostro destino”, urla il capitano ai compagni nel momento più difficile della partita della vita, invitandoli a udire il portentoso incitamento degli oltre sessantamila tifosi sugli spalti e di altri 42 milioni di sudafricani bianchi e neri, per la prima volta uniti, incollati davanti alla tv e alla radio.
Pur non essendo allo stesso livello di Gran Torino, di Mystic River o di Letters from Iwo Jima, Invictus è comunque un ottimo film, senza quella retorica che pure sarebbe stata comprensibile visto il tema, che racconta una scommessa rischiosa ma vinta e, soprattutto, una vicenda realmente accaduta.
Una bella lezione della storia, dunque, portata intelligentemente al cinema da un grande regista a beneficio di un più vasto pubblico.
di Gaetano Vallini

Una alternativa alla laicità

DIOTALLEVI LUCA, Una alternativa alla laicita’, Editore: Rubbettino, 2010,  ISBN-13: 9788849823684, pp.
250, € 14,00 È piuttosto raro trovare pronunciamenti critici a proposito della laicità.
A volte se ne ammette un momento di difficoltà, ma per serrare le fila a sua difesa.
La laicità è davvero un valore tra i più condivisi; non solo: spesso è addirittura identificata con la modernità, e quasi sempre con l’identità stessa dell’Europa.
Dello stesso autore de “II rompicapo della secolarizzazione italiana”, questo libro si chiede se non sia il caso di avviare una più attenta discussione sulla laicità, e se non sia il caso di sostituire alcune certezze con altrettante domande.
La ricerca muove dalle spiegazioni del momento difficile attraversato dai regimi di laicità, le quali, curiosamente, sovrastimano il cosiddetto ritorno della religione.
Dopo aver proposto una serie di interrogativi, termina avanzandone un ultimo: serve a qualcosa parlare di laicità “sana”, o “buona”, o “positiva”, o …? E se si trattasse di riconoscere le alternative alla laicità? E dunque di relativizzare la laicità?