Cella 211

Il carcere non solo non è un luogo di redenzione ma può imbarbarire persino persone lontane da una mentalità criminale.
Lo scoprirà tragicamente il protagonista di Cella 211 del regista spagnolo Daniel Monzón.
Campione d’incassi in patria e vincitore di otto premi Goya (i maggiori riconoscimenti del cinema iberico), il film racconta una vicenda ad alta tensione, dura, che non risparmia nulla quanto a crudezza sia d’immagini che di linguaggio.
Il genere carcerario, esplorato da diverse angolature dal cinema statunitense, diventa dunque terreno di riflessione anche per produzioni europee, che si propongono al pubblico con un buon livello qualitativo, mostrando peraltro una notevole originalità stilistica e narrativa.
Così, dopo l’apprezzato Il profeta del francese Jacques Audiard – storia di un fragile diciottenne che nel carcere compirà il suo cammino di formazione criminale – arriva sugli schermi italiani un altro film sull’universo carcerario, che ne ricalca il concetto di fondo:  il recupero di un uomo condannato difficilmente passa dalla cella di una prigione.
Al suo primo incarico come secondino in un penitenziario di massima sicurezza, per fare buona impressione su colleghi e superiori, Juan Olivier si presenta al lavoro il giorno precedente l’ingresso in servizio.
Mentre è in visita al braccio con i detenuti più pericolosi, rimane vittima di un incidente:  un pezzo di intonaco staccatosi dal soffitto in ristrutturazione lo colpisce alla testa.
Nel tentativo di rianimarlo, i due colleghi che lo accompagnano  usano la brandina della  cella  211,  al momento vuota.
Ma  proprio  in  quel momento esplode una rivolta e i due secondini lo abbandonano lì per mettersi in salvo.
Una volta ripresosi, Juan, si trova inghiottito dagli accadimenti.
Ha la prontezza di farsi credere un detenuto e di accattivarsi le simpatie del violento boss Malamadre, superbamente interpretato da Luis Tosar, promotore della ribellione.
In un imprevisto capovolgimento di ruolo, la giovane guardia proverà a fare il doppio gioco nel tentativo di salvarsi e riabbracciare la moglie incinta.
Ma gli eventi prenderanno una piega diversa, il suo destino seguirà un’altra strada.
E Juan si ritroverà suo malgrado dall’altra parte, persino a lottare con impensabile ferocia per una causa che solo poche ore prima non poteva apparirgli più distante.
Raccontando la vicenda di Juan, Cella 211, tratto dall’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul, affronta argomenti sociali rilevanti – denuncia le precarie condizioni di vita nelle carceri, la violenza delle istituzioni – e, nel caso specifico, la difficile gestione di questioni politico legate al terrorismo dell’Eta.
Tutto ciò viene mostrato senza alcuna indulgenza, accentuando le debolezze del sistema.
Tuttavia non sono questi gli aspetti più intriganti del film, che ha i suoi punti di forza nella carica drammatica della narrazione e nello sviluppo delle dinamiche relazionali dei protagonisti.
Monzón – cui va dato atto di aver impresso una cifra stilistica originale alla pellicola, superando i cliché di genere – ha definito la storia una tragedia.
Una tragedia legata al fato, ovvero a quel qualcosa di imprevedibile e improvviso che può cambiare e sconvolgere per sempre la vita di ciascuno.
Quel fato che beffardamente fa incrociare le strade di uomini diversi per indole, estrazione e comportamenti come Juan (certo non idealista) e Malamadre, e che li porta a condividere un’esperienza terribilmente nuova per il primo, replicata ma con implicazioni inattese per il secondo.
Ne nascerà un’improbabile amicizia, ambigua quanto breve.
A colpire è il cambiamento interiore cui è costretto Juan, travolto da eventi che si era illuso di poter in qualche modo controllare nonostante tutto, e che si troverà suo malgrado a camminare lungo il confine improvvisamente impalpabile tra ciò che riteneva giusto e ciò che non gli appare più tale.
Compiere una scelta di campo diverrà più semplice di quanto avesse presupposto.
Da aspirante servitore della legge si troverà, con le mani sporche di sangue, a combattere per una giustizia diversa.
E in questo viaggio verso l’abisso – che lascia però intravedere bagliori di verità – non si riesce a non provare un po’ di empatia verso quest’uomo ferito al quale il destino nega persino l’unica drammatica via d’uscita per non precipitare nell’abisso.
Si prova compassione forse perché in lui in qualche modo si riconosce la fragilità umana che si evidenzia nei momenti più terribili e di inattesa sofferenza.
Quando, in una situazione estrema, il dolore rischia di trasformarsi in odio, l’odio in vendetta e la vendetta in cieca violenza.
di Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 17 aprile 2010)

III Domenica dopo Pasqua Anno C

III DOMENICA DI PASQUA   Lectio Anno c     Prima lettura: Atti 5,27-32.40-41          In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».
Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini.
Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce.
Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati.
E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono».
Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù.
Quindi li rimisero in libertà.
Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
    v Questo compito di pascere gli agnelli, ossia di dare come cibo al popolo la dottrina predicata da Cristo, viene contestato espressamente a Pietro e agli apostoli dalle autorità di Gerusalemme.
Un primo incidente si era già verificato in precedenza, quando Pietro e Giovanni guarirono lo storpio che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del Tempio (At 3).
In quell’occasione, mentre Pietro teneva un discorso, sopraggiunsero i sacerdoti e il comandante delle guardie del Tempio per arrestare i due apostoli, che avevano suscitato la fede in circa cinquemila uomini (At 4,1-4).
Pietro non esitò a parlare con franchezza di Gesù davanti alle autorità, ricevendo soltanto il solenne ammonimento di non evangelizzare più (4,13-17).
Pietro e Giovanni, però, altrettanto decisamente risposero: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi piuttosto che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (4,19-20).
     Tenendo presente quest’antefatto, divengono più chiare le parole di rimprovero che il sommo sacerdote rivolge agli apostoli.
Ma costoro riprendono l’argomento della volta precedente: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (5,29).
Senz’altro viene da porsi quest’interrogativo: come mai un gruppo di persone sprovvedute, o almeno così giudicate, ha tale franchezza nel parlare ai capi del popolo, toccando il tasto ancora dolente della morte di Gesù? Da dove nasce questo coraggio di «obiettare»? L’unica risposta accettabile e che non necessita di molti commenti proviene dalle loro stesse parole: «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono» 5,32).
Lo Spirito quindi è l’anima di queste persone, a cui un giorno il Maestro disse: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc12,11-12).
E nemmeno la fustigazione li fece recedere, piuttosto considerarono un onore e perfetta letizia l’essere stati percossi a causa di Gesù Cristo e del suo Vangelo (cf.
Mt 5,10-11 e Gc 1,2-4).
  Seconda lettura: Apocalisse 5,11-14          Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani.
Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione».
Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».
E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen».
E gli anziani si prostrarono in adorazione.
    v  L’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto ha dominato sempre l’attività degli apostoli.
Essi però aggiungono che «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati» (At 5,31 ).
Quest’innalzamento nella gloria il libro dell’Apocalisse ce lo descrive con il suo tipico linguaggio simbolico.
Gesù è chiamato Agnello, e come tale entra in scena al v.
6 del capitolo 5.
Egli è al contempo «ritto», per indicare che è risorto e possiede tutta la forza che gli deriva dalla risurrezione, e «come immolato» (anche se sarebbe meglio tradurre «come ammazzato»), per sottolineare che egli ha pure tutte le virtualità che provengono dalla sua passione e morte.
In virtù di tutto ciò, l’Agnello è in grado di «prendere il libro e di aprirne i sigilli» (5,9), ossia di saper leggere il piano di Dio.
     Il veggente assiste a uno spettacolo straordinario: un numero infinito di angeli, insieme agli esseri viventi e ai vegliardi, che lodano l’Agnello, di cui si ricorda ancora una volta la sua passione e morte violenta, ma in più si dice che è degno di ricevere una serie di prerogative e riconoscimenti.
L’aggettivo «degno» non deve trarre in inganno: esso non si riferisce a valori morali, bensì alla capacità, da lui detenuta, di ricevere da Dio la potenza di agire, la ricchezza delle risorse divine, la sapienza nel condurre la storia e la forza di vincere il male, e dagli uomini l’onore, cioè la riconoscenza della sua azione di salvezza, insieme alla gloria e alla benedizione nella preghiera e nella liturgia.
     Ciò in effetti avviene al v.
13, quando ogni essere creato nei cieli (gli angeli), sulla terra (gli uomini), sotto terra (i morti) e sul mare (coloro che, uomini o angeli, hanno dimostrato di saper vincere il male, di cui il mare sarebbe la sede) elevano l’inno di lode a Dio, il grande dominatore della storia e della natura, che perciò siede sul trono, e all’Agnello, che ha concretamente realizzato le condizioni di questo dominio divino.
Le creature, quindi, consapevoli che Dio e Cristo-Agnello hanno donato loro tutto quello di cui bisognavano per vincere il male, a modo loro nella lode colma di gratitudine tentano di restituire ciò che hanno ricevuto.
  Vangelo: Giovanni 21,1-19          In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade.
E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.
Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare».
Gli dissero: «Veniamo anche noi con te».
Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.
Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?».
Gli risposero: «No».
Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete».
La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci.
Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!».
Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare.
Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane.
Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora».
Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci.
E benché fossero tanti, la rete non si squarciò.
Gesù disse loro: «Venite a mangiare».
E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore.
Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce.
Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Gli disse: «Pasci i miei agnelli».
Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Gli disse: «Pascola le mie pecore».
Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?».
Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene».
Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore.
In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».
Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio.
E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
                        Esegesi      Il primo versetto della pericope evangelica inquadra bene il taglio da conferire alla sua lettura: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade.
E si manifestò così».
Il verbo «manifestare» (in greco faneroo), poi, ricorre successivamente al v.
14, quasi a conclusione della prima parte di quest’ultimo incontro tra Gesù e i suoi discepoli: «Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti».
In realtà, questo termine non è nuovo nel Vangelo di Giovanni, viene usato in 1,31 quando Giovanni Battista spiega che l’obiettivo della propria missione è «far conoscere» il Cristo; in 2,11 viene detto che Gesù «manifestò» la sua gloria nel segno compiuto a Cana; in 3,21 Gesù conclude il dialogo con Nicodemo affermando che chi compie la verità cammina verso la luce, allo scopo di «far apparire» che le sue opere sono fatte in Dio; in 7,4 viene tentato a «manifestarsi», cioè a compiere qualche segno grandioso; in 9,3 giustifica la cecità del cieco nato con l’opportunità di «manifestare» le opere di Dio; in 17,6 Gesù riassume la sua missione dicendo che «ha manifestato» il nome del Padre all’umanità.
Questa volta, invece, Gesù non deve manifestare altro che se stesso in quanto risorto.
     Il verbo «manifestare» svolge una funzione importante nel capitolo 21: essendo presente nei vv.
1 e 14, esso ne delimita la prima parte, tutta dedicata al riconoscimento del Maestro, mentre i vv.
15-19 e 20-23 sono occupati da due dialoghi tra Gesù e Pietro, di cui la pericope proposta nella liturgia ci riporta solo il primo.
Fatte queste premesse, siamo pronti ad addentrarci nel brano.
     Per l’evangelista Giovanni questa fu la terza e ultima apparizione di Gesù ai suoi discepoli (cf.
21,14), senza appunto contare quella a Maria Maddalena nel mattino stesso di Pasqua (20,11-18).
Quanto tempo dopo l’apparizione a Tommaso (20,26-29) Gesù si sia nuovamente manifestato ai discepoli, il Vangelo non lo dice.
Conosciamo però il luogo dell’avvenimento: non più Gerusalemme, teatro della passione, morte e risurrezione del Maestro, bensì «sul mare di Tiberiade» (21,1), zona dalla quale provenivano molti dei discepoli.
I testimoni dell’accaduto, elencati al v.
2, sono sette dei Dodici discepoli, ma soltanto di cinque ci viene riferito il nome, ossia Simon Pietro, Tommaso, Natanaele e i due figli di Zebedeo.
Possiamo però supporre che gli altri due siano il discepolo che Gesù amava, espressamente richiamato nel v.
7, e Andrea, fratello di Pietro.
La narrazione evangelica esordisce mettendoci al corrente della decisione di Pietro, a cui si accodano anche gli altri.
Ma l’iniziativa si conclude in verità con un radicale fallimento: «Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare».
Gli dissero: «Veniamo anche noi con te».
Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla » (v.
3).
     A questo punto entra in scena Gesù: quando era già l’alba, egli si presentò sulla riva.
Benché gli apostoli si trovassero a poco più di novanta metri dalla riva (il testo greco parla di duecento cubiti, v.
8), non riconobbero che quella persona dalla terraferma era il Signore se non quando, ordinando di gettare le reti dalla parte destra della barca, si verificò il segno della «pesca miracolosa» e, quindi, il discepolo prediletto pronunciò la frase che forse tutti avevano in mente ma nessuno aveva il coraggio di pronunciare: «È il Signore!» (v.
7).
La reazione di Pietro è immediata: si vestì, si gettò in acqua e guadagnò la riva, mentre gli altri la raggiunsero con la barca.
I discepoli trovarono che era già stata preparata per loro una «colazione», a cui Gesù chiese di aggiungere del pesce appena preso.
Ciò offre al narratore di volgere l’attenzione sulla rete che, tratta da Simon Pietro, non si ruppe, benché contenesse una gran quantità di pesci, ben centocinquantatre.
     Non ci soffermiamo sul tema del riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli, che è tipico di tutti i racconti pasquali e certamente già analizzato.
Prestiamo invece attenzione alla figura di Pietro, il cui ruolo era stato in un certo qual senso definito quando Gesù lo incontrò: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)’» (1,42; cf.
Mt 16,17-19).
Prima di chiudere del tutto la sua vicenda terrena, Gesù vuole finalmente chiarire il suo progetto, che potremmo sintetizzare intorno a tre principi.
In primo luogo, non esiste alcuno che possa realizzare qualcosa prescindendo da Lui, nemmeno Pietro.
Lo dimostra la pesca infruttuosa intrapresa da questi e dagli altri: ci sembra sentire risuonare le parole di Lc 5,5: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla».
In secondo luogo, è Pietro che si sobbarca la fatica di trarre a riva la rete piena di pesci, ossia è a lui in prima istanza che è data la responsabilità di essere «pescatore di uomini» (cf.
Lc 5,10).
Infine, la rete che non si rompe sottolinea il fatto che, autenticamente fondata sulla parola di Gesù e guidata da Pietro, la chiesa non si divide (il testo greco usa il verbo schízo, quasi a voler escludere «scismi»).
     Il dialogo dei vv.
15-19 esplicita la simbologia del racconto della manifestazione.
Gesù chiede a Pietro per ben tre volte se lo ama, perché è sulla base di quest’amore totale e incondizionato che diventa concreta e fruttuosa l’esecuzione della missione.
La missione viene esplicitata con il comando di pascere, come al v.
11 era stata indicata con il verbo «trarre».
Ma le pecore e gli agnelli da pascere non appartengono a Pietro, bensì a Gesù, che ha offerto la propria vita per loro, al fine di riunirle e di proteggerle da chi vuole disperderle (cf.
Gv 10,11-18).
Ma pure a Pietro viene chiesto di offrire la vita per il gregge che Gesù gli ha affidato (vv.
18-19), perciò acquisisce un senso più chiaro quell’invito a seguirlo nel peso di pascere il gregge e di morire per esso.
  Meditazione      Dopo averci fatto ascoltare il racconto della venuta del Risorto nel cenacolo, la liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci conduce presso il lago di Tiberiade per assistere alla terza e ultima manifestazione di Gesù narrataci da san Giovanni.
È un manifestarsi di nuovo, come l’evangelista precisa al v.
1: «Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo».
Dopo questi fatti, dopo tutto ciò che il Quarto Vangelo e i Sinottici ci hanno raccontato della vicenda storica e pasquale di Gesù, il Signore torna a manifestarsi nella ferialità della vita, laddove i discepoli sembrano tornare alle occupazioni di sempre.
Con ogni probabilità il vangelo di Giovanni, nella sua prima redazione, si concludeva al capitolo 20; il capitolo 21 costituisce dunque un’aggiunta successiva da parte della comunità.
Al di là di questi problemi storico-letterari, noi lettori ci troviamo di fronte a questo fatto sorprendente: nel momento in cui il vangelo si chiude, torna ad aprirsi.
Il Signore si manifesta nuovamente nel tempo della Chiesa, anche dopo ‘quei fatti’ che appartengono alla memoria storica dei primi discepoli.
Giovanni parla qui di manifestazione, un termine che non usa mai nei racconti di risurrezione del capitolo precedente.
Quasi a suggerirci che si tratta di un manifestarsi diverso rispetto agli incontri vissuti con il Risorto dai suoi discepoli storici.
Nello stesso tempo precisa che si tratta della «terza manifestazione», ricollegandola così alle apparizioni precedenti.
È un manifestarsi del Risorto diverso, ma in continuità con gli incontri vissuti dai discepoli della prima ora.
Il primo invito con cui questa pagina ci interpella è allora a vigilare per riconoscere questa manifestazione sempre nuova del Signore nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità.
     Siamo già nella luce piena del tempo pasquale, eppure il racconto giovanneo ci conduce ancora nella notte, che non è solo la notte dell’infecondità di una pesca vana, ma anche la notte dell’assenza del Signore.
Inoltre la barca, nell’insieme della tradizione evangelica, sembra essere luogo di prova e di purificazione della fede.
Il Vangelo di Giovanni ci parla solo in un altro passo del lago di Tiberiade e di questa barca su cui i discepoli sono soli, senza il Signore; lo fa al capitolo sesto, dopo il segno dei pani, quando la barca si trova esposta al pericolo del mare agitato e del forte vento.
La barca è dunque anche luogo di paura, di timore, di fronte al mare che simboleggia ogni forma con cui il male minaccia la vita degli uomini e la fede dei discepoli.
La barca è il luogo in cui una piccola fede, una fede che è sempre ‘poca’, per dirla con Matteo, è chiamata a divenire una fede matura attraverso il fuoco purificatore della prova.
Certo, nella tradizione la barca è anche un simbolo ecclesiale, ma la Chiesa non è appunto questo: una comunità in cui la piccola fede è chiamata a divenire una grande fede; in cui il non-sapere che era Gesù può divenire la conoscenza piena di chi grida «È il Signore!», in cui l’infecondità di una rete vuota si trasforma in una rete traboccante di centocinquantatre grossi pesci? Ma a quali condizioni è possibile vivere nella Chiesa questo passaggio che è sempre un passaggio pasquale? Il capitolo 21 non ci parla solo dell’incontro con il Risorto, ma anche del cammino di conversione e di purificazione della fede che occorre vivere per giungervi.
     Tra i molti spunti che il testo offrirebbe, ne cogliamo solamente uno.
Il capitolo si apre con la decisione di Pietro: «io vado a pescare».
Se in queste parole c’è l’aspetto positivo di una responsabilità vissuta in prima persona, capace di suscitare la collaborazione e l’operosità di altri – «Veniamo anche noi con te» (v.
3) – in esse si nasconde comunque la tentazione di un’impresa autonoma e autoreferenziale, vissuta nell’assenza del Signore.
Non perché lui non ci sia, ma perché non lo si riconosce presente, e soprattutto perché non si ha abbastanza cura nel porre in relazione il nostro operare con la sua Parola, i criteri del nostro agire con i suoi criteri.
È la tentazione di un agire autoreferenziale e autonomo che, per quanto vissuto in nome del Signore, rischia di rendere marginale o non incidente la sua presenza.
Quando e laddove il Signore si rende presente con la sua parola, egli esige e rende possibile la nostra conversione.
Infatti, in quella notte in cui il Signore rimane assente e c’è soltanto la propria autonoma decisione, i discepoli «non presero nulla».
Giovanni usa il verbo piàzo, che significa più precisamente ‘arrestare’.
È il medesimo verbo che l’evangelista utilizza più volte nel suo racconto per descrivere il tentativo vano da parte delle autorità giudaiche di arrestare Gesù, perché non era ancora giunta la sua ‘ora’.
È vano il tentativo di arrestare Gesù, solo lui può liberamente consegnare se stesso in un amore più forte e radicale dell’odio di chi tenta di catturarlo.
Come non si arresta Gesù, così è vano ogni tentativo di vivere il proprio ministero di pescatore di uomini nella modalità di un potere, in qualsiasi forma esso venga esercitato, che tenta o pretende di arrestare, di catturare, di bloccare, di trattenere.
Occorre entrare in una logica diversa, che è appunto la logica pasquale di chi non si lascia arrestare, e neppure ‘cattura’ gli altri, ma si consegna nell’amore.
     Al v.
6 l’evangelista annota che, dopo il segno della pesca miracolosa, i discepoli non potevano più tirare la rete per la gran quantità di pesci.
Sono sette e non riescono.
Al v.
11 narra invece che «Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci.
E benché fossero tanti la rete non si spezzò».
Pietro, riesce a fare ora, da solo, quello che prima, in sette, non erano riusciti a fare.
Perché ora può? Il racconto risponde a questo interrogativo in modo simbolico: ora può, perché si è gettato in mare.
Il mare nella Bibbia è metafora di male, sofferenza, pericolo, morte…
In questo mare Pietro si getta, con un gesto che ha un marcato valore battesimale: immergersi nelle acque significa immergersi nella morte del Signore per divenire partecipi della sua risurrezione.
Ed è pro-prio il gettarsi nelle acque per essere pienamente partecipe del mistero pasquale, che consente a Pietro di divenire davvero, in modo autentico, quel pescatore di uomini a cui già nel suo primo incontro il Signore Gesù lo aveva chiamato.
Il simbolismo battesimale è rafforzato anche dal verbo ‘salire’ del v.
11, che però nel testo originario rimane senza complemento di luogo.
Il traduttore aggiunge «salì sulla barca», ma in greco non è detto; Pietro semplicemente risale dalle acque, ed è ancora un modo per alludere al battesimo che ci immerge nelle acque per renderci partecipi della morte di Gesù, e poi da esse ci fa risali- re, rendendoci partecipi della sua risurrezione.
Solamente questa conformazione battesimale alla Pasqua di Gesù può consentire a Pietro non solo di vedere la sua rete riempirsi, ma di trarre i pesci fuori dal mare, dalle acque impetuose, per condurli alla terra ferma dell’incontro con il Signore Risorto.
Per descrivere Pietro che trae la rete dal mare, Giovanni usa lo stesso verbo greco (hélko) con cui Gesù afferma solennemente al capitolo 12: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
È attraverso la sua Pasqua che Gesù ci attira a sé, ed è attraverso la sua conformazione battesimale al mistero pasquale che anche Pietro può attrarre a Gesù tutti coloro che la sua rete trova e custodisce.
Si possono liberare gli uomini dalle acque della morte solo accettando di immergersi in esse, di attraversare personalmente l’esperienza della compassione, condividendo il destino del proprio Maestro e Signore nelle sofferenze stesse dei suoi fratelli, dei quali bisogna prendersi cura.
  Preghiere e Racconti «Simone mi ami tu?» …
Il gallo cantò per la terza volta.
Gesù uscì dalla sala……
e Simon Pietro, seguendo il rumore, guarda dalla sua parte.
Lo vede e « pianse amaramente ».
Lo stesso Pietro che da quel momento è diventato vergognoso e intimidito, perennemente intimidito, anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali, li compiva, poi si fermava bloccato dalla vergogna, dalla vergogna del ricordo…
  …era là in disparte quella mattina sulla riva…
erano là tutti intorno quel mattino, in silenzio timoroso, intimiditi così che nessuno domandava qualche cosa perché tutti sapevano che era il Maestro.
Nella frescura di quell’ora mattutina coi pesci – quei pesci che si agitavano ancora alle loro spalle – dopo una notte arida di frutto erano là a mangiare il pesce…
  …il pesce preparato da Lui che aveva pensato anche al loro mangiare perché sarebbero tornati stanchi.
Il Signore si era steso vicino, era lì vicino, a mangiare con loro.

II Domenica di Pasqua Anno C

II DOMENICA DI PASQUA   Lectio Anno c     Prima lettura: Apostoli 5,12-16          Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli.
Tutti erano soliti stare insieme nel portico  di Salomone;  nessuno degli altri osava associarsi a  loro,  ma il popolo li esaltava.
Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.
    v È uno dei cosiddetti «sommari» degli Atti: quadretti che dipingono la comunità cristiana primitiva.
È una comunità che evidentemente ha fatto esperienza della risurrezione di Cristo e lo manifesta nella concordia: tutti erano soliti stare insieme (v.
12).
Una unità tra cristiani sostenuta dalla preghiera e dalla frazione del pane (2,42-46).
La fede cristiana si manifesta nella carità e nella comunione gioiosa.
L’attività taumaturgica di Gesù continua ora nella chiesa per mezzo degli apostoli (v.
12).
Tra gli apostoli un posto particolare ha la figura di Pietro.
In lui continuava in modo singolare ad essere presente la potenza di Cristo: almeno la sua ombra (v.
15) guariva.
La gente si rendeva conto di una speciale presenza divina negli apostoli e li stimava, ma, forse per un sacro timore, nessuno degli altri osava associarsi a  loro (v.
13).
     La presenza dello Spirito del Risorto si manifestava nella serie di prodigi, che aiutavano gli umili ad accogliere la predicazione apostolica (vv.
15-16).
Nella comunità cristiana primitiva, sotto la direzione di Pietro, sono presenti così i segni che chiamano alla fede: le guarigioni miracolose, prolungamento del mistero storico di Gesù, ma soprattutto il segno dell’unità dei fratelli nella fede del Cristo risorto.
      Seconda lettura:  Apocalisse 1,9-11.12-13.17-19          Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.
Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese».
Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto.
Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi.
Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».
    v Il brano riporta la visione di Cristo glorioso avuta da Giovanni nel giorno del Signore (v.
10), la domenica, il giorno in cui la comunità cristiana si riunisce per l’ascolto della parola e per celebrare la risurrezione.
Giovanni si sente fratello e compartecipe della comunità che sta in ascolto.
Anche lui come le piccole comunità cristiane soffre la persecuzione per amore di Gesù Cristo: si trova a Patmos, una isola delle Sporadi a 75 Km a sud-ovest di Efeso.
Egli riceve l’incarico di scrivere un libro per le sette chiese (v.
11).
Il numero sette è simbolico: indica la totalità.
     Sta parlando quindi alla chiesa universale, che poi è presente nella chiesa locale, in modo particolare nell’assemblea liturgica.
L’Apocalisse è un libro diretto a una comunità liturgica che lo interpreta.
Richiamandosi a immagini presenti in Daniele e Ezechiele, Giovanni presenta Cristo come uno simile a un Figlio d’uomo, con le insegne del giudice escatologico.
L’abito lungo fino ai piedi è simbolo della sua dignità sacerdotale, mentre la fascia d’oro esprime la sua regalità.
La voce potente indica una rivelazione chiara senza ombra di dubbio.
Gesù Cristo è in mezzo ai sette candelabri: egli è presente attivamente nella sua chiesa.
Egli è alla destra di Dio, ma vive nella comunità cristiana.
Giovanni e la sua comunità non devono temere, perché egli è il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Egli ha vinto definitivamente la morte e chi si appoggia a lui ha la vita.
Nel libro che si leggerà nella comunità in ascolto si troveranno poi le cose viste, nella presente visione, quelle presenti, cioè le lettere alle sette chiese; quelle che devono accadere, le visioni sul futuro escatologico della chiesa (vv.
17-19).
  Vangelo: Giovanni 20,19-31         La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».
Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.
E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».
Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo.
A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
     Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.
Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!».
Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso.
Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
              Esegesi      Dopo l’apparizione a Maria Maddalena, avvenuta all’aperto, in un giardino, Gesù appare ai suoi discepoli, chiusi per paura in una stanza.
Essi ricevono lo Spirito Santo per poter annunciare la sua parola e perdonare i peccati agli uomini.
La fede crescerà dall’ascolto della parola all’interno della comunità.
Con questo brano Giovanni vuole sottolineare l’importanza della testimonianza per la fede pasquale.
     1) Incontro con i discepoli (20,19-23) Avviene il primo giorno della settimana, nel giorno di Pasqua.
Gesù torna ma non nel suo stato precedente: entra a porte chiuse.
Si pone al centro della comunità cristiana: stette in mezzo loro (v.
1), come unico punto di riferimento.
I discepoli lo possono vedere e riconoscere con lo sguardo della fede.
Le conseguenze della nuova luce sono la «gioia» e la «pace», i doni messianici.
Gesù dà loro l’incarico missionario: devono continuare la missione a lui affidata dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (v.
21).
Ma solo uomini nuovi sono capaci di questo compito.
Gesù dona loro lo Spirito Santo: soffiò su di loro (v.
20) come soffiò all’inizio la vita nuova al primo uomo.
Il dono dello Spirito era stato anticipato simbolicamente dall’acqua e dal sangue usciti dal costato di Cristo (19,34).
La missione degli apostoli avrà come obiettivo la remissione dei peccati (v.
23).
Il potere viene dato al gruppo dei dodici, nominati nel versetto seguente (v.
24).
Viene esercitato certamente nel sacramento della penitenza secondo il concilio di Trento per i peccati commessi dopo il battesimo.
Non si esclude il perdono dei peccati mediante il sacramento del battesimo e la proclamazione dei vangelo.
     2) Apparizione presente Tommaso (Gv 20,24-29) I dubbi di Tommaso esprimono l’esperienza del gruppo, dell’intera comunità apostolica, e la personale esperienza di Giovanni: «Colui…
che abbiamo visto con i nostri occhi…
contemplato…
e toccato con le nostre mani» (1Gv 1,1-2).
Anche questo incontro avviene nel primo giorno della settimana, giorno del Signore (Ap 1,10).
In esso la comunità proclama con i discepoli: Abbiamo visto il Signore! (v.
25).
Ma Tommaso non condivide la fede della comunità.
Gesù si rende visibile per lui e lo convince di non essere un fantasma: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani» (v.
25).
Bastò sentire le parole di Gesù, per credere, come per Maria bastò sentirsi chiamare per nome da lui.
Tommaso fa la più bella confessione di fede del quarto Vangelo.
L’esperienza della risurrezione era indispensabile per la Chiesa.
I futuri discepoli di Gesù avrebbero dovuto credere senza vedere, ma accettando la testimonianza degli apostoli, che invece hanno visto.
Anch’essi però saranno beati.
Sperimenteranno la gioia dell’incontro con il Cristo risorto.
     3) Conclusione (Gv 20,30-31) Segni non sono solo i miracoli, ma tutto quello che Gesù ha fatto e insegnato.
Chi vuole conoscere altri segni si legga i vangeli sinottici.
Tutti i segni dicono che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio (v.
31).
I lettori vengono invitati ad accogliere la testimonianza degli apostoli senza esigere di toccare con mano per credere.
Ora per i cristiani la testimonianza apostolica è scritta, contenuta nel vangelo, ma è una testimonianza di qualcuno che ha visto.
  Meditazione      In ciascuno dei tre anni del ciclo liturgico, nella seconda domenica di Pasqua viene proclamato il racconto giovanneo della duplice manifestazione del Risorto nel cenacolo: la prima, nella sera stessa della resurrezione, mentre Tommaso è assente; la seconda, otto giorni dopo, questa volta con Tommaso presente.
È evidente la motivazione che sostiene questa scelta liturgica: siamo nell’ottavo giorno dalla domenica di Pasqua e ascoltiamo il racconto di quanto è avvenuto nella comunità apostolica a distanza di otto giorni.
Vale tuttavia anche la considerazione inversa: non solo il tempo liturgico determina la scelta del testo evangelico, ma lo stesso racconto di Giovanni, nella sua scansione cronologica, è probabilmente determinato dalla scansione liturgica: il Risorto si rende presente nella comunità dei discepoli storici ‘otto giorni dopo’, così come la comunità dei discepoli di ogni generazione successiva si raduna ogni otto giorni per celebrare l’eucaristia nella memoria della Pasqua, e riconoscere in questo modo, nei segni sacramentali del pane e del vino e del suo stesso riunirsi, la presenza del Signore che fedelmente accompagna il cammino della Chiesa.
La stessa figura di Tommaso, con il suo non esserci dapprima e il suo esserci dopo, mette ancora più in risalto questa fedeltà del Signore alla sua comunità.
I discepoli possono essere presenti o assenti, la comunità può essere anche segnata dalle ferite di una mancanza; il Signore viene comunque e sta in mezzo ai suoi, donando la sua pace e il suo Spirito.
Anche colui che inizialmente non c’era, e sembra chiudersi in un atteggiamento di incredulità, non rimane escluso dal desiderio che spinge il Risorto a riallacciare vincoli di comunione con i suoi, capaci di vincere non solo la separazione della morte, ma anche l’incredulità, o comunque la fatica del credere.
     Se il racconto del Vangelo di Giovanni ogni anno caratterizza questa seconda domenica di Pasqua, le altre due letture variano sempre.
Nell’anno C ascoltiamo come seconda lettura un testo tratto dal primo capitolo dell’Apocalisse, che narra l’ultima manifestazione del Risorto consegnataci dal Nuovo Testamento, almeno nell’ordine canonico dei suoi libri.
Il tempo, come accade nel Quarto Vangelo, è ancora liturgico.
Infatti, il v.
10 ci ricorda che tutto quello che accade si colloca in un giorno preciso: «fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore».
Questo è peraltro l’unico passo del Nuovo Testamento in cui questo giorno riceve già il suo nome cristiano: è il giorno del Signore, in dominica die nel latino della Vulgata, da cui il nostro termine ‘domenica’.
Anche in questo caso, dunque, l’autore insiste nel ricordarci che l’incontro con il Risorto avviene di domenica, quando la comunità è convocata dalla memoria della Pasqua e la celebra facendo eucaristia.
Il testo non si premura soltanto di precisare il tempo, ma anche il luogo in cui avviene l’incontro: l’isola di Patmos, che non è solo un luogo geografico, ma luogo simbolico dell’esilio, dove Giovanni si trova «a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (v.
9).
È necessario considerare insieme queste due coordinate dell’esperienza: il luogo è quello della tribolazione, della prova nella fede, della persecuzione, ma già illuminato dal giorno del Signore, cioè dalla sua Pasqua.
     In questo luogo e in questo giorno Giovanni ha una visione: «fui preso dallo Spirito», racconta al v.
10.
Tutto ciò che vede e scrive è dono dello Spirito, che diventa l’ambito in cui si muove e il respiro stesso della sua vita.
Essere nello Spirito significa per Giovanni rileggere la propria esperienza, quella della sua comunità, nonché la storia più ampia del mondo, collocandosi dal punto di vista di Dio, secondo i suoi criteri e la sua logica, che rimane una logica pasquale.
L’espressione – ‘rapito dallo Spirito’ – non vuole perciò indicare un’esperienza straordinaria che l’autore vive e che solo pochi altri possono sperimentare con lui.
Allude al contrario a qualcosa di più ordinario, cui anche la nostra vita deve sentirsi chiamata: leggere la storia, ma nello Spirito di Dio, dunque con i suoi criteri di giudizio e di discernimento.
Nello Spirito lo sguardo di Dio viene ad abitare e a trasformare il nostro stesso sguardo.
Ci sono donati occhi nuovi, occhi ‘spirituali’, per giudicare il mondo così come lo giudica Dio stesso.
Quella di Giovanni dovrebbe diventare l’esperienza che a nostra volta viviamo nel giorno del Signore: ogni volta che di domenica ci raduniamo per ascoltare la parola di Dio e condividere insieme il pane, la nostra vita dovrebbe aprirsi al dono dello Spirito e acquisire un modo diverso di stare nelle situazioni della storia personale e collettiva.
     C’è di conseguenza anche una conversione da vivere, che il racconto evidenzia con un linguaggio simbolico.
«Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro» (vv.
12-13).
Il verbo ‘voltarsi’ ricorre due volte, con enfasi.
La visione sembra attraversare due distinte tappe: c’è una prima tappa, in cui Giovanni ode una voce che lo raggiunge da dietro; poi si volta e inizia una seconda tappa nella sua esperienza di Dio.
Con questo linguaggio allusivo l’autore intende probabilmente evocare le due tappe della rivelazione di Dio: la prima, attraverso i profeti e le scritture del Primo Testamento, in cui si ascoltava Dio, ma ancora come ‘di spalle’; la seconda, quella definitiva, attraverso Gesù Cristo, che compie quanto era stato annunciato e preparato, e in cui possiamo udire Dio faccia a faccia.
Il compimento della rivelazione tuttavia non avviene senza coinvolgere la libera risposta dell’uomo.
Giovanni deve ‘voltarsi’ per avere la piena visione del Figlio dell’uomo; il verbo greco qui usato (epistréphein) è tipico per indicare la ‘conversione’ (et conversus sum, traduce la Vulgata).
Soltanto dopo che si sarà voltato, e dunque convertito, solo dopo che avrà visto Gesù Cristo faccia a faccia, il senso delle Scritture diventerà chiaro per Giovanni.
Conferma questa lettura l’uso di due verbi diversi per narrare il ‘vedere’ del profeta: nella visione ‘di spalle’ in greco ricorre blépo, che esprime la semplice percezione fisica (vv.
11.12); nella visione ‘di fronte’ c’è invece horáo, che esprime il vedere più profondo della fede (vv.
12.17).
In questi versetti, dunque, l’Apocalisse descrive un duplice e corrispondente progresso: alla crescita oggettiva della rivelazione di Dio risponde la maturazione soggettiva e spirituale del credente, che può giungere a una comprensione piena delle Scritture, e del significato della storia che esse illuminano, a condizione di ‘voltarsi’, dunque convertirsi al Signore Gesù, che è l’oggetto fondamentale del suo vedere nella fede.
     È l’itinerario che anche Tommaso deve percorrere per passare dall’incredulità alla fede.
La sua sarà una conversione piena, poiché la più alta professione di fede riportata dal vangelo di Giovanni l’ascoltiamo proprio dalle sue labbra: «Mio Signore e mio Dio!» (v.
28).
Ed è anche esemplare il cammino che lo conduce alla fede: deve fissare lo sguardo sulle mani del Risorto trapassate dai chiodi, sul suo fianco aperto.
Tommaso accoglie l’invito che l’evangelista rivolge a ogni lettore del suo racconto, quando concludendo la narrazione della morte di Gesù cita la Scrittura: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr.
19,37), testo che peraltro risuona anche nell’Apocalisse, pochi versetti prima di quelli che ascoltiamo in questa liturgia: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto» (Ap 1,7).
Voltarsi verso Gesù per comprendere il suo mistero e la rivelazione che egli ci dona del Padre significa fare come Tommaso: voltare lo sguardo per contemplare i segni dell’amore crocifisso, che nell’acqua e nel sangue si effonde su di noi.
Si è ‘presi dallo Spirito’, come accade al veggente dell’Apocalisse, quando comprendiamo che la rivelazione insuperabile di Dio, la sua parola definitiva, sgorgano proprio da quel costato trafitto, segno della vita di Dio che ci viene donata fino al compimento (cfr.
Gv 13,1) perché possiamo anche noi divenire partecipi della vita eterna.
Ogni paura è vinta: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap 1,18-19).
  Preghiere e Racconti   Beati quelli che non hanno visto e credono     Gesù entra a porte chiuse.
Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta.
[…] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio.
[…] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo.
Egli entra a porte chiuse.
Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo.
Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri di-scepoli.
Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi.
L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25).
Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito.
«I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice.
Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.
    Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi.
Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò.
Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito.
Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco.
Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui.
I vostri racconti esasperano la mia impazienza.
La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento.
Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce».
Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo.
Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa.
Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione.
Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso.
«Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice.
Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora.
Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio.
Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi.
Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza.
«Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente».
Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto.
Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29).
Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto.
Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola.
Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi.
Annunciami: crederanno e mi adoreranno.
Non esigeranno altre prove.
Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede.
In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».
(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).
   L’ho cercato, ma non l’ho trovano               “Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato nel mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
Mi alzerò e farò il giro della citt

L’Irc laboratorio di cultura e di umanità

Si terrà dal 12 al 14 aprile a Torino, presso il Novotel (corso Giulio Cesare, 338), il Convegno nazionale per direttori e responsabili diocesani dell’Insegnamento della religione cattolica (Irc), organizzato dal Servizio nazionale per l’Irc della CEI sul tema “L’Irc laboratorio di cultura e di umanità: il contributo degli Uffici Diocesani”.
Si aprirà con un un momento di preghiera alle 8.45 presieduto da S.
Em.za Card.
Severino Poletto, Arcivescovo di Torino.
Seguirà il saluto introduttivo di Don Vincenzo Annicchiarico, Responsabile del Servizio Nazionale per l’Irc.
Alle 9.15 il Card.
Poletto porgerà un saluto ai partecipanti.
Poi faranno seguito quelli del Dott.
Francesco De Sanctis, Direttore Scolastico Regionale del Piemonte e di Don Bruno Porta, Responsabile Regionale Irc.
Alle 10.00 la relazione di S.
E.
Mons.
Ignazio Sanna, Arcivescovo di Oristano sul tema “La questione antropologica ed il contributo dell’Irc all’educazione”, cui seguiranno un breve dibattito e, per tutto il pomeriggio, una serie di laboratori seminariali.
Il programma di martedì sarà aperto alle 7.30 dalla S.
Messa presieduta da S.
E.
Mons.
Guido Fiandino, Vescovo ausiliare di Torino.
In mattinata sono previste due relazioni: alle 9.15 quella su “La riforma del 2° Ciclo”, a cura del Dott.
Giuseppe Cosentino, Capo Dipartimento per l’Istruzione delMIUR.
Alle 10.00 sarà invece la volta di Don Filippo Morlacchi, Responsabile Regionale Irc del Lazio (“L’Irc nel riordino del 2° Ciclo”).
A fine mattinata la conclusione dei laboratori seminariali del giorno precedente mentre il pomeriggio e la serata del 13 aprile saranno dedicati alla Venerazione della Sacra Sindone.
Mercoledì 14 aprile alle ore 9.15Don Cesare Bissoli, Docente emerito di Bibbia e Catechesi presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, interverrà su “Lettura biblico-teologica dei traguardi per lo sviluppo delle conoscenze (tsc) e degli obiettivi di apprendimento (oa) dell’Irc dell’Infanzia e del 1° Ciclo” mentre alle 11.15 è prevista l’ultima relazione del convegno, “Rilevare i dati nazionali sugli avvalentesi dell’Irc: criteri scientifici di riferimento e ricaduta sull’operato delle singole diocesi”, a cura del Dott.
Alessandro Castegnaro, Docente di Politica sociale all’Università degli Studi di Padova e Presidente dell’OSReT (Osservatorio socio-religioso del Triveneto).
«Il convegno», spiega Don Vincenzo Annicchiarico, «sarà un’occasione di confronto sulle novità che investono il mondo della scuola e quindi l’Irc ma anche un momento di riflessione sulla questione educativa e sul contributo che l’Irc può dare alla crescita e alla formazione delle nuove generazioni».

La traversata.

SORGE BARTOLOMEO, La traversata.
La Chiesa dal Concilio Vaticano II a oggi,  Mondadori, Milano 2010, ISBN: 8804596953, Euro 18,50 La società è divenuta ormai irreversibilmente pluriculturale, plurietnica e plurireligiosa.
Per agire da fermento spirituale, culturale e sociale, la Chiesa deve porsi in modo nuovo, altrimenti non è più credibile né quando annunzia il Vangelo, né quando combatte a favore dell’uomo e della sua dignità.
Giunti al giro di boa dei cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, per evangelizzare un mondo profondamente cambiato, non resta che proseguire con coraggio la “traversata” lungo la “rotta” segnata chiaramente dal Concilio e seguita fedelmente dai “traghettatori”.
La “traversata” postconciliare è stata senza dubbio tormentata, resa ancor più complessa dai vorticosi cambiamenti sociali, dalle divisioni e dai contrasti che hanno attraversato il mondo cattolico.
In questa delicata stagione hanno avuto un ruolo decisivo alcune figure carismatiche che hanno accompagnato la Chiesa e la nostra società nella transizione al terzo millennio.
Attingendo ai suoi molti ricordi, pubblici e privati, padre Bartolomeo Sorge ne delinea un appassionato e intenso ritratto, con l’auspicio che possano essere d’esempio a “una nuova generazione di traghettatori”, chiamata a completare il lungo tragitto della Chiesa verso le mete indicate dal Concilio superando incertezze e stanchezze, senza temere di affrontare situazioni nuove e sfide inedite.
 

Sotto il cielo di Roma

“Il Pontefice della mia giovinezza”, il pastor angelicus che “ha presieduto alla carità nel difficile tempo del Secondo Conflitto Mondiale”.
Benedetto XVI ha ricordato così la figura e l’opera del predecessore Pio XII, dopo aver assistito a Castel Gandolfo, venerdì pomeriggio, 9 aprile, a una sintesi della miniserie televisiva Sotto il cielo di Roma.
Il Papa, che si trova nella cittadina laziale dal pomeriggio della domenica di Pasqua, ha espresso apprezzamento per l’opera incentrata sull’azione di Eugenio Pacelli – l’ultimo romano a salire sul soglio di Pietro (dal 1939 al 1958) – nell’impedire che la Città eterna fosse distrutta dalla guerra e nel proteggere gli ebrei all’interno di conventi e istituti religiosi, resi zona extraterritoriale per sua volontà.
La ricostruzione degli avvenimenti e l’ambientazione riguardano i drammatici giorni vissuti dall’Urbe nel periodo che va dalla seconda metà del 1943 ai primi sei mesi del 1944:  dal bombardamento di San Lorenzo del 19 luglio all’armistizio dell’8 settembre, dal rastrellamento nel ghetto del 16 ottobre all’attentato di via Rasella del 23 marzo, con l’immediata rappresaglia nazista del giorno seguente alle Fosse ardeatine, fino all’ingresso delle truppe alleate, il 4 giugno.
 Due puntate, di novanta minuti l’una, dirette da Christian Duguay – lo stesso regista della serie su sant’Agostino – che sceneggiano, oltre la storia di due giovani ebrei, anche un episodio storico poco noto:  il piano nazista per rapire Pio XII, l’unica autorità rimasta nel territorio italiano spezzato in due.
L’ordine viene direttamente da Hitler, ma il Papa si rifiuta con tenacia di abbandonare il Vaticano e i romani al loro destino.
Eugenio Pacelli è interpretato dall’americano James Cromwell, che in carriera ha vestito per diverse volte i panni di presidente degli Stati Uniti.
Nelle scene appare sempre affiancato da Cesare Bocci, nel ruolo di monsignor Montini, il futuro Paolo vi, all’epoca sostituto della Segreteria di Stato.
La società di produzione Lux Vide e gli sceneggiatori hanno lavorato su una documentazione notoriamente vastissima e soprattutto su una bibliografia ormai imponente.
Un’iniziativa – spiegano i produttori – “volta a fornire una conoscenza accessibile a tutti per superare pregiudizi e critiche malevoli”.
 Prima della proiezione il presidente dell’ente radiotelevisivo Paolo Garimberti, nel saluto rivolto a Benedetto XVI ha messo in luce come “la grande tradizione di servizio pubblico della Rai” sia caratterizzata “dall’impegno a realizzare produzioni di grande valore culturale e popolare, con l’ambizione di offrire ai telespettatori un contributo allo sviluppo di un dialogo su temi di attualità, volgendo lo sguardo alle radici della nostra storia”.
Quindi ha aggiunto che la Rai è orgogliosa dell’opera presentata.
“Nel corso degli anni – ha detto – il Pontefice che ebbe il difficile compito di condurre la Chiesa durante la seconda guerra mondiale è divenuto oggetto di un dibattito che ancora oggi continua e tocca argomenti di grande sensibilità”.
La sfida è dunque – ha argomentato – “di raccontare al grande pubblico la storia di un Papa e del suo Pontificato, incoraggiando una riflessione su uno dei momenti più drammatici del Novecento”.
Nella sala degli Svizzeri del Palazzo Pontificio, hanno assistito alla trasmissione del film il cardinale Giovanni Battista Re, gli arcivescovi Filoni, sostituto della Segreteria di Stato, Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, e Harvey, prefetto della Casa Pontificia, il vescovo di Albano, Semeraro, i monsignori Wells, assessore, Balestrero, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati, Karcher, del Protocollo della Segreteria di Stato, Gänswein, segretario particolare di Benedetto XVI, e Xuereb, della segreteria particolare, con alcuni Cerimonieri pontifici.
Tra le personalità, il direttore delle Ville Pontificie Petrillo, il medico personale del Papa, Polisca, e il nostro direttore.
Con il presidente Rai Garimberti, erano il direttore generale Masi, membri del consiglio d’amministrazione e alcuni direttori.
La Lux Vide era rappresentata dalla famiglia Bernabei.
Erano anche presenti i coproduttori tedeschi della Eos entertainment e rappresentanti della Bayerischer Rundfunk e della Tellux Film.
Con gli sceneggiatori Arlanch e Bettelli, gli attori Alessandra Mastronardi e Marco Foschi, interpreti di due giovani ebrei che trovano rifugio in uno dei conventi che il salvatoriano Pancrazio Pfeiffer aveva trasformato in luoghi di protezione con l’avallo di Papa Pacelli.
Il religioso tedesco ebbe un ruolo di primo piano nella mediazione tra gli occupanti nazisti e la Santa Sede.
La serie sarà distribuita anche sul mercato internazionale con il titolo Pius xii.
Under the Roman Sky.
“Pensate per il grande pubblico – ha detto il Pontefice commentando le immagini – queste opere rivestono particolare valore soprattutto per le nuove generazioni”.
Il genere della fiction è infatti secondo Benedetto XVI utile a far “conoscere un periodo che non è affatto lontano, ma che le vicende della storia recente e una cultura frammentata possono far obliare”.
di Gianluca Biccini (©L’Osservatore Romano – 11 aprile 2010) Ratzinger: Pio XII padre di tutti Salvò Roma e tanti perseguitati di Paolo Conti in “Corriere della Sera” del 10 aprile 2010 «Mi preme sottolineare particolarmente come Pio XII sia stato il Papa che come padre di tutti ha presieduto alla carità a Roma e nel mondo soprattutto nel difficile tempo del secondo conflitto mondiale…
Questo film racconta il ruolo fondamentale di Pio XII nella salvezza di Roma e di tanti perseguitati dal 1943 e 1944».
Benedetto XVI non cita la questione ebraica ma le espressioni «padre di tutti» e «tanti perseguitati» sono eloquenti, soprattutto dopo aver visto un film sulle tragiche ore di Eugenio Pacelli che assiste dal Vaticano al rastrellamento degli ebrei romani il 16 ottobre 1943.
Un racconto che sottolinea continuamente il ruolo di un Pontefice impegnato a spalancare le porte di monasteri e conventi per salvare gli israeliti romani scampati all’inumana razzìa voluta da Hitler.
E ancora: «Pio XII è stato il Pontefice della mia giovinezza.
Col suo ricco insegnamento ha saputo parlare agli uomini del suo tempo indicando la strada della verità e con la sua grande saggezza ha saputo orientare la Chiesa verso l’orizzonte del terzo millennio».
Ore 18.40 di ieri, secondo piano della villa Pontificia di Castel Gandolfo.
Saletta cinematografica tra gli stucchi, strepitoso affaccio sul lago.
Sullo schermo è stata appena proiettata la copia di prova di «Sotto il cielo di Roma», fiction in due puntate da cento minuti ciascuna, destinata a Raiuno (data ancora da decidere) e prodotta dalla Lux Vide creata da Ettore Bernabei che ora la pilota con i figli Matilde e Luca, tutti seduti dietro al Papa.
Ci sono i vertici Rai schierati al completo: il presidente Paolo Garimberti, il direttore generale Mauro Masi, il direttore di Raiuno Mauro Mazza, il direttore di Rai Fiction Fabrizio del Noce, il consigliere Alessio Gorla e moltissimi altri.
E mezza curia romana.
Stavolta la scommessa per la Lux Vide (e per i suoi partner internazionali, a partire da Rai Fiction) è veramente colossale, destinata a far discutere mezzo mondo: una fiction su Pio XII raccontato nelle ore atroci dell’occupazione nazista di Roma e soprattutto della persecuzione degli ebrei, del rastrellamento nell’Antico Ghetto.
La regia è di Christian Duguay, Pio XII è James Cromwell, solido volto hollywoodiano.
Monsignor Montini, futuro Paolo VI, è Cesare Bocci.
Suor Pascalina è Christine Neubauer.
Benedetto XVI parla dopo 65 minuti di proiezione.
Il film gli è piaciuto, e si vede dal sincero sorriso con cui applaude alla fine.
Ma soprattutto coglie l’occasione per difendere il suo predecessore dal mare delle recenti polemiche: «Pio XII è stato un grande maestro di fede, di speranza e di carità».
Poi saluta, distribuisce rosari, benedice.
La proiezione comincia alle 17.30 spaccate con una puntualità davvero teutonica (ore 17.30, si leggeva sugli inviti, ma a Roma sarebbe di solito un’opinione) papa Benedetto XVI entra nella saletta a passi brevi ma rapidissimi.
Sorride con affabilità a tutti, prima di sedersi si ferma a salutare Andrea Riccardi della Comunità di Sant’Egidio e Gian Maria Vian, direttore de «L’Osservatore romano».
In tutto non più di un’ottantina di persone.
Il film piace al Papa perché narra, proprio nelle ore in cui la figura di Pacelli — sotto processo di beatificazione — è messa in profonda discussione nel mondo ebraico italiano e internazionale, un uomo tormentato ma deciso a fare di tutto pur di salvare il maggior numero di ebrei.
Le note degli sceneggiatori Fabrizio Bettelli e Francesco Arlanch non lasciano spazio a dubbi: «Abbiamo lavorato documentandoci e lasciando maturare in noi stessi non una convinzione quanto un’impressione…
subito ci è parsa destituita di ogni fondamento la cosiddetta leggenda nera di Pio XII, una delle vulgate più diffuse sul suo operato, che lo vede complice dei nazisti e indifferente allo svolgersi del dramma degli ebrei…».
Più in là: «Solo avendo chiaro, in modo non rituale, il significato umano della razzìa degli ebrei si può iniziare a discutere, o anche solo a rappresentare, gli episodi legati ai mesi dell’occupazione nazista a Roma…
e allo stesso tempo, con la stessa forza, dalla stessa radice di orrore si impone un altro elemento, quello dei salvati…
I libri di storia specificano, in una narrazione nella quale i numeri hanno la loro parte, che più di mille ebrei di Roma furono deportati sotto gli occhi del Papa ma che migliaia si salvarono per suo volere.
E oggi ha il sapore di una distinzione capziosa dire che Pio XII ebbe parte passiva in quell’intervento, o non l’ebbe affatto».
Il film (gli autori hanno lavorato sugli atti della beatificazione e mettono a disposizione una bibliografia molto corposa in cui appaiono saggi di Fausto Coen, Enzo Forcella, Giovanni Miccoli accanto ad Andrea Riccardi e Gian Maria Vian, materiali da cui sono stati tratti con dichiarata attenzione dialoghi, documenti e situazioni) affonda le radici in quelle note e racconta di conseguenza.
Per esempio: Pio XII riceve il rappresentante della comunità ebraica che gli chiede un aiuto per raccogliere l’oro destinato all’odioso (e poi inutile) ricatto nazista.
Pacelli lo guarda e cita l’Antico Testamento: «Abramo, io sono il tuo scudo, la tua ricompensa sarà grande».
E il capo della comunità, commosso, prosegue: «Tante quante sono le stelle in cielo, questa sarà la tua discendenza».
L’ambasciatore tedesco Weizsacker mette in guardia il Pontefice: «Se il Papa protesterà per gli ebrei romani, il ricorso alla deportazione a Roma sarà radicale».
L’ambasciatore polacco chiede con urgenza un’udienza, gli chiede di protestare contro la Germania.
E Pio XII: «Sono il Vicario di Cristo, non posso schierarmi con un popolo conto un altro».
Soprattutto gran parte del film-tv è dedicata agli sforzi compiuti da Pacelli per aprire chiese, conventi, monasteri anche di clausura agli ebrei fuggiaschi, persino contro il volere di parte della Curia.
Nel film Pio XII sembra attendere sereno l’arresto, o il martirio («Fate di me ciò che volete», dice al generale nazista Wolff).
Consegna a Montini e a Suor Pascalina una lettera in cui si autodichiara decaduto in caso di deportazione.
Il dubbio però lo perseguita fino alla fine, nelle ore della Liberazione.
Monsignor Montini lo rassicura: «Santità, lei ha fatto tutto il possibile».
E Pio XII: «Solo il Signore potrà dirmelo».
La fine vede Pacelli che passeggia in piazza San Pietro, con Roma appena liberata, e benedice.
Così come all’inizio camminava tra le macerie del bombardamento di San Lorenzo, e benediceva piangendo.
La materia narrativa è tanta, incandescente.
L’appuntamento col dibattito è nelle mani del palinsesto Rai.

La Sindone

TRA FEDE E DEVOZIONE «Davanti alla Sindone con la nostalgia di Dio» 10 aprile 2010 Marina Corradi STORIA E MEMORIA Icona del Figlio, devozione antica 09 aprile 2010 Gian Maria Zaccone, direttore scientifico del Museo della Sindone di Torino e vicedirettoredel Centro internazionale di sindonologia IL PERCORSO L’ultimo chilometro dei viandanti 09 aprile 2010 Federica Bello Con le nostre ferite davanti all’«immagine del silenzio» I torinesi e ogni altro allo specchio che non mente 09 aprile 2010 Riccardo Maccioni FEDE E RAGIONE Sindone, sfida alla scienza 09 aprile 2010 Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia IL TESSUTO Su quel lino lo «specchio» del Vangelo 09 aprile 2010 Federica Bello Il momento tanto atteso dell’ostensione della Sindone è arrivato.
Dal 10 aprile e fino al 23 maggio, per la decima volta dal 1578 e la quarta dal 1978, la celebre reliquia sarà esposta al pubblico in una sala allestita all’interno del Duomo di Torino .
Il capoluogo piemontese ospiterà i due milioni di pellegrini e non desiderosi di ammirare il lenzuolo utilizzato – secondo tradizione – per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro.
L’ultima ostensione risale al 2010.
E la Sindone nel frattempo si è «rifatta il trucco»: l’ostensione di quest’anno, che sarà suggellata il 2 maggio dalla visita di Ratzinger, è infatti la prima da quando il telo di lino è stato sottoposto, nel 2002, ad un intervento di conservazione che lo ha riportato al suo antico splendore.
 DUE MILIONI – Più di un milione e 400 mila persone si sono prenotate per poter osservare il lenzuolo utilizzato – secondo tradizione – per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro.
Ma all’interno del Duomo di Torino, nelle sei settimane dell’ostensione, ne sono attese almeno un milione e 800 mila.
Da parte sua, il presidente della Commissione diocesana della Sindone, monsignor Giuseppe Ghiberti, ha affermato che «sono attesi 2 milioni di fedeli».
Per questo, «ogni pellegrino potrà fermarsi a guardare la Sindone dai 3 ai 5 minuti, a seconda del flusso di persone».
La visita potrà essere prenotata, oltre che sul sito internet www.sindone.org, direttamente a Torino, negli appositi spazi allestiti all’inizio del percorso dell’Ostensione.
Si potrà entrare nel Duomo anche senza, ma in questo caso la Sindone sarà visibile solo da lontano.
IL TEMA PASTORALE – Un «grande evento», insomma, che però «non è un fatto di turismo religioso, ma un’iniziativa spirituale e pastorale».
Così l’ha definito il custode pontificio della Sindone, l’arcivescovo di Torino, cardinale Severino Poletto.
Il tema scelto per questa ostensione è «Passio Christi passio hominis», per sottolineare «il forte collegamento tra l’immagine sindonica, testimonianza della Passione del Signore, e le molteplici sofferenze degli uomini e delle donne di oggi».
«Davanti alla Sindone si va per pregare e questo vale per tutti», ha sottolineato il cardinale a margine della conferenza stampa di presentazione dell’ostensione.
Poletto ha poi ribadito che l’evento è «essenzialmente spirituale e religioso e non commerciale o turistico».
E ha rivolto un appello ai pellegrini: «Il vostro – ha detto rivolgendosi direttamente a loro – è un percorso di fede e di preghiera.
Vi invito quindi alla concentrazione e ad evitare, se possibile, di scattare foto o realizzare filmati».
LA VISITA DEL PONTEFICE – Papa Benedetto XVI sarà a Torino domenica 2 maggio.
Alle 10 celebrerà la Messa in piazza San Carlo e guiderà poi la recita del Regina Caeli.
Nel pomeriggio, dopo un incontro con i giovani della Diocesi, si recherà in Duomo per la sosta di venerazione davanti alla Sindone e una riflessione sui temi dell’ostensione.
«Un tesoro prezioso da custodire a lungo nel tempo – come l’ha definita il cardinale Poletto – un dono preziosissimo perchè Papa Benedetto sa presentare le grandi verità della fede».
LA SICUREZZA – La sorveglianza dell’evento è affidata alle forze dell’ordine, coordinate dal prefetto di Torino Paolo Padoin.
Per l’occasione stanno arrivando da tutta Italia circa 200 rinforzi, tra polizia e carabinieri.
Un grosso aiuto lo darà anche la tecnologia: sulla Sindone vigileranno infatti telecamere di ultima generazione, con tanto di sensori anti-terrorismo in grado di segnalare eventuali movimenti sospetti.

I colori di Giotto

In occasione dell’ottavo centenario dell’approvazione della Regola di san Francesco, l’11 aprile s’inaugura, presso la basilica di San Francesco ad Assisi e al Palazzo del Monte Frumentario, la mostra “I colori di Giotto.
La basilica di Assisi tra restauro e restituzione virtuale” curata da Giuseppe Basile.
Nell’occasione – e fino al 5 settembre – si apre ai visitatori il cantiere di restauro dei dipinti murali di Giotto nella Cappella di San Nicola della Basilica inferiore.
Pubblichiamo un testo del direttore dei Musei Vaticani, che è anche il presidente del Comitato scientifico della manifestazione.
Questo anno 2010 segna l’ottavo centenario dalla approvazione della Regola Francescana.
Da Assisi è nato il grande incendio che ha investito l’intera cristianità dalla Scozia alla Sicilia, dal Portogallo ai Balcani e alla Terra Santa.
Non basterebbe una intera biblioteca per contenere tutto quello che è stato scritto, in otto secoli, su san Francesco, sui suoi discepoli, sulla diffusione dell’ordine in tutte le sue varianti (i conventuali, gli osservanti, i cappuccini), sulla infinita gemmazione di sapienza e di bellezza che l’insegnamento del maestro ha prodotto ai quattro angoli del mondo in ottocento anni.
Nella teologia, nella filosofia, nella poesia, nella musica, nell’architettura, nelle arti figurative.
Tutto è nato ad Assisi.
Da Assisi l’imago Francisci si è diffusa nel mondo cristiano, lo ha abitato e lo ha fecondato.
Alla base della fortuna planetaria che ha accompagnato fino a oggi le opere e i giorni del santo, ci sono gli affreschi nella Chiesa Superiore di Assisi.
Da lì bisogna partire per intendere quel fenomeno grandiosamente epico che è stato il francescanesimo.
Ed ecco la mostra che, voluta dal sindaco Claudio Ricci e dal custode del Sacro Convento, Giuseppe Piemontese, curata da Giuseppe Basile è stata inaugurata in Assisi il 10 aprile per rimanere aperta fino al 5 settembre.
Le sedi espositive sono la basilica stessa e il Palazzo del Monte Frumentario.
Il titolo “I colori di Giotto tra restauro e restituzione virtuale” fa intendere bene l’obiettivo dell’iniziativa; una iniziativa che sta in bilico fra una filologia storico artistica squisitamente raffinata e il dispiego delle più sofisticate tecnologie digitali ad alta definizione.
Da ciò le ragioni del suo fascino.
Chi, nei prossimi giorni, si recherà ad Assisi potrà vedere da vicino e dal vero i colori di Giotto salendo sui ponteggi della Cappella di San Nicola, nella Basilica Inferiore.
Attualmente è in corso il restauro guidato da Sergio Fusetti e sarà questa l’occasione per capire fino a che punto è lecito sostenere (come io credo) l’autografia del maestro toscano in questo settore del san Francesco.
 Nel trecentesco Palazzo detto del “Monte Frumentario”, di recente restaurato, le storie della Basilica Superiore vengono virtualmente riproposte come “dovevano essere”.
Grazie all’impiego di tecniche fotomeccaniche, digitali e di intervento pittorico manuale, sotto la direzione di Giuseppe Basile coordinatore di una equipe dell’Istituto centrale del restauro, e di Fabio Fernetti, gli affreschi – in scala comprensibilmente ridotta rispetto agli originali – saranno resi visibili nel loro aspetto “originario”.
Al netto quindi delle mutazioni materiche e degli interventi di restauro che li hanno fatalmente coinvolti nei più di sette secoli della loro esistenza.
La restituzione virtuale è di eccellente livello e ci invita a riflettere su quella che è stata definita la “questione omerica” dei nostri studi.
La presenza cioè di Giotto nel cantiere di Assisi.
L’ormai antico dilemma:  “Giotto non Giotto?” non ha avuto fino a ora una risposta certa, risolutiva e da tutti condivisa.
Ci sono studiosi, prevalentemente di oltre Oceano, che non credono che l’autore delle Storie francescane sia il Giotto di cui parla Dante nell’undecimo del Purgatorio:  “Credette Cimabue nella pintura / tenere lo campo ed ora ha Giotto il grido / si che la fama di colui è oscura”.
Gli storici italiani, con la sola cospicua eccezione di Federico Zeri, pensano invece (io fra gli altri) che l’autore delle Storie Francescane sia lo stesso, che, una manciata di anni più tardi, affrescherà per Enrico degli Scrovegni la Cappella dell’Arena a Padova.
Il problema non è tanto il vuoto documentario e l’ambiguità delle fonti più antiche (Vasari) sul ciclo di Assisi a fronte delle certezze antiche e inoppugnabili che possediamo sugli affreschi di Padova.
Il problema è un altro.
Il problema è la grande differenza, non di stile ma di evoluzione e maturità dello stile, che siamo costretti a riscontrare fra l’una e l’altra impresa.
Passare dalle Storie Francescane della Basilica Superiore – scatole prospettiche dove tutto è secco ed essenziale – alla maniera dolce e fusa di Padova, alle scene veterotestamentarie ed evangeliche che sembrano già un anticipo sul Beato Angelico e su Piero della Francesca, è oggettivamente arduo.
Assomiglia a una scalata acrobatica di sesto grado superiore.
Eppure per chi, come me, crede nella autografia di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, l’impasse si supera solo se si tiene conto dei tempi del genio che conoscono accelerazioni vertiginose.
Il Giotto di Padova è già presente in Assisi nel dominio dello spazio, nella scoperta della verità di natura, nella efficacia drammatica e potentemente didascalica delle sceneggiature.
Subito dopo arriva la Cappella degli Scrovegni, cioè l’incipit del Rinascimento.
Per cui, come diceva Berenson, Masaccio altro non è che Giotto “rinato” (born again).
A ben guardare non diversa è stata la traiettoria velocissima di Dante Alighieri dalle prime composizioni “dolcestilnoviste” alla Cavalcanti e alla Guinicelli, al canto dei lussuriosi nell’Inferno.
Per cui quel verso messo in bocca a Francesca (“la bocca mi baciò tutto tremante”) è già Baudelaire, è già la poesia moderna.
di Antonio Paolucci (©L’Osservatore Romano – 11 aprile 2010)

Cena del Signore anno C

Preghiere e Racconti Vi ho dato un esempio «Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12).
È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7).
[…] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi».
[…] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda.
Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15).
Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi.
Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi.
[…] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo.
Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà.
[…] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io».
Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.
Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16).
È questo l’esempio che ci ha dato il Signore.
Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp.
1094.1098-1100)   Pane della condivisione Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
  Un giorno unico Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino.
Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta.
Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta.
Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima.
Quella volta che facesti il primo sacrificio.
Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia.
La prima vittima.
(Ch.
PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).
  Giovedì Santo Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto.
Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15).
Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.
Questi due gesti sono intimamente uniti.
Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore.
Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso.
Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15).
Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).
Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo.
Ci chiama a una totale autodonazione.                                                              Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi.
Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.
Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate.
E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me».
Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.
(H.J.M.
NOUWEN, In cammino verso la luce).
  O Signore, dove mai potrei andare? Io volgo il mio sguardo a te, o Signore.
Tu hai pronunciato parole così piene di amore.
Il tuo cuore ha parlato così chiaro.
Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami.
Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…
Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me.
Voglio che tu condivida in pieno la mia vita.
Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre.
Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».
Ti sto di nuovo guardando, o Signore.
Tu ti alzi e mi inviti alla mensa.
Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me.
«Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te».
Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te».
Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine.
Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei.
Mi doni il tuo stesso io.
Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto.
Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.
O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto? (H.J.M.
NOUWEN, Da cuore a cuore).
  Preghiera Dio onnipotente ed eterno la sera prima di soffrire, il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa il sacrifico della nuova ed eterna alleanza e istituì il convito del suo amore.
Fa’ che da questo mistero possiamo ricevere la pienezza di vita e di amore.
Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore   * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
       CENA DEL SIGNORE   Lectio Anno c     Prima lettura:  Esodo 12,1-8.11-14             Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno.
Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa.
Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto.
Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno.
In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare.
Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta.
È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto.
Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto.
Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.
       v Il brano dell’Esodo, che la liturgia ci fa leggere oggi è uno dei testi che fonda la festa della pasqua (pesach) ebraica, che viene celebrata ancora oggi, come «memoriale» della liberazione dall’Egitto e che Gesù, la sua famiglia e i suoi apostoli hanno celebrato secondo le tradizioni che si rifacevano alla Torà di Mosè.
     Nella Torà (Pentateuco) sono numerosi i testi che «fondano» la pasqua, mentre accenni alla pasqua si trovano anche nelle altre parti del tanach (nome della Bibbia ebraica, dalle iniziali delle tre parti fondamentali in cui è divisa: Torà = insegnamento, legge; Neviim, = profeti; Ketuvim = agiografi).
Il capitolo 12 dell’Esodo dedica alla Pasqua due parti i vv.
1-28 e 41-50.
In questi testi è esplicito il collegamento con l’opera del Signore, che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e a cui viene esplicitamente dato il comando di celebrarne il memoriale: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14).
La celebrazione di un rito ciclico, proprio dei pastori, che gli ebrei del tempo dei patriarchi celebravano come gli altri popoli vicini dediti alla pastorizia, in primavera, per chiedere a Dio la benedizione e la fecondità del gregge, diventa il rito «memoriale» dell’intervento di Dio nella storia.
     Sempre in questo capitolo sono indicate le modalità essenziali, per riuscire a far entrare la nuova generazione dentro al significato di questa celebrazione: «Quando poi sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito: Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore».
     Il passaggio di generazione in generazione avviene in forma di domande dei figli e di risposte dei padri.
Il modo di ricordare, attraverso gesti simbolici susciterà la curiosità dei più giovani e sarà il punto di partenza per il racconto delle opere compiute da Dio per liberare il suo popolo e avviarlo verso la terra promessa, proprio il racconto di tali opere in risposta alle domande dei figli costituisce il nucleo del «memoriale» celebrato nel Seder pasquale dagli ebrei ancora oggi, in continuità con la prima pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto.
     La pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto è la pasqua avvenuta, potremmo dire, sotto il segno del miracolo, le pasque celebrate in seguito sono «memoriale».
Chi partecipa al memoriale deve considerare se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto, ma il miracolo è per ora solo spirituale, dato solo nel racconto e nei gesti simbolici.
Il rito deve essere perenne: esso è un «memoriale» rende efficace per i presenti l’azione salvifica di Dio ed è teso al sabato messianico, che non avrà più tramonto.
     L’andamento in tre tempi del «memoriale» ebraico è lo stesso di quello cristiano: i cristiani fanno memoria della morte e risurrezione di Gesù in questo tempo intermedio, partecipano cioè nel rito dell’opera salvifica di Gesù in attesa della domenica del Regno, quando sarà finito il tempo intermedio nel quale dobbiamo avvalerci del racconto e dei segni.
  Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26        Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
    v Il brano di Paolo è uno dei quattro testi neotestamentari, che presentano direttamente il racconto di quella che siamo soliti chiamare l’«istituzione dell’eucaristia».
Gli altri tre sono Lc 22,14-20; Mt 26,20-29; Mc 14,17-25.
In realtà il termine eucaristia non c’è negli scritti apostolici; esso inizia solo con la Didaché e in Ignazio di Antiochia (110 d.C.) comincia ad avere un senso sacramentale.
I termini per indicare la prassi eucaristica nel Nuovo Testamento sono cena del Signore (cf.
1Cor 10,14,22; 11, 17,33) e frazione del pane (cfAt 2,42.46; 20,7.11).
     Il testo di Paolo che si legge oggi è un testo che presuppone già una tradizione liturgica.
Esso è legato a quello di Luca e si fa risalire alla tradizione antiochena, mentre Marco e Matteo, apparentati fra loro, risalgono alla tradizione gerosolimitana.
     In Paolo e Luca sono rilevanti tre aspetti: l’invito a «fare memoria» (1Cor 11,24.25; Lc 22,19 solo sul pane); il riferimento all’alleanza (1Cor 11,25, Lc 22,20); la dimensione del dono personale di Gesù espresso da «questo è il mio corpo, che è per voi» (1Cor 11,24; Lc 22,19) e dal sangue versato per voi (Lc 22,20).
È da notare anche il ‘voi’, che si riferisce direttamente ai presenti alla celebrazione e che è molto insistito nel racconto di Luca.
     L’eucaristia è «fare memoria» vale a dire compiere il rito, ma soprattutto accettare la logica del servizio proposta dalla lavanda dei piedi.
     Il calice è la nuova alleanza, vale a dire un’alleanza vera voluta da Dio e che deve essere accettata dai discepoli di Gesù.
Il termine analogico è sempre l’alleanza del Sinai; lì c’è l’iniziativa di Dio che ha liberato il popolo e gli dà una norma di condotta; il popolo deve rispondere accettando l’alleanza, vale a dire mettendo in pratica i precetti.
La fedeltà all’alleanza è sicura da parte di Dio, è difficile da parte del popolo.
Dio, però, non lo abbandona e continuamente lo richiama, soprattutto attraverso i profeti rammentando loro la sua misericordia e la sua fedeltà, nonostante le sofferenze e l’apparente abbandono.
     Dalla fede che il gesto di Gesù è un’alleanza reale con Dio, un dono di Dio come quella stipulata con Israele, l’alleanza è chiamata «nuova», con riferimento a Geremia: «Ecco verranno giorni in cui con la casa di Israele e la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova…» (Ger 31,31-34).
     L’eucaristia è soprattutto dono di sé di Gesù, che deve diventare dono di sé dei discepoli che la celebrano.
      Vangelo: Giovanni 13,1-15          Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo».
Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».
Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!».
Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti».
Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.
Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
      Esegesi             Il primo versetto del brano di Giovanni fa da introduzione ai capitoli 13-17, che vengono generalmente denominati «discorsi di addio».
Il redattore ha unificato i discorsi tenuti da Gesù ai suoi introducendoli nella cornice dell’ultima cena con loro.
Giovanni non parla di cena pasquale come i sinottici, ma dell’ultima cena di Gesù con i discepoli, che cronologicamente pone «prima della festa di Pasqua».
Il problema della datazione dell’ultima cena e della crocifissione, presentata in modo differente dai sinottici e da Giovanni, è stato affrontato da molti studiosi, ma è impossibile raggiungere una intesa che non lasci dubbi.
D’altro canto l’interesse dei Vangeli non è cronachistico; il racconto è rivolto all’annuncio della rivelazione salvifica di Gesù, che nella morte e risurrezione trova il suo punto culminante.           In particolare, il brano che leggiamo oggi si muove su due binari uno è quello di rivelarci qualcosa della natura divina di Gesù e dell’azione salvifica insita nella sua morte, discorso che si farà più evidente nei capitoli che narrano la passione, l’altro è quello di mostrare ai discepoli il tipo di condotta richiesto, per essere veramente considerati tali.
     Gesù è presentato pienamente consapevole della sua passione: il participio «sapendo» è ripetuto ai versetti 1 e 3.
Egli conosce la «sua ora», cioè quella della morte, presentata come l’ora «di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1); egli ha piena coscienza dei poteri che gli sono stati dati dal Padre dal quale è venuto e al quale ritorna (Gv 13,3).
     L’evangelista pone gli avvenimenti che seguono nell’orizzonte dell’amore sconfinato di Gesù: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
     In contrasto con questo amore senza limiti c’è il tradimento di Giuda, che è ispirato dal diavolo, il vero nemico, che Gesù deve sconfiggere (Gv 13,2).
È giunto il momento dell’azione del «principe di questo mondo», che anche se apparentemente contrario, non ha nessun potere su Gesù (Gv 14,30); il giudizio sul «principe di questo mondo» è già stato pronunciato (Gv 16,11).
     Sempre nella linea di rivelarci qualcosa del mistero della persona di Gesù e illustrare il valore salvifico della sua missione nel mondo eseguita secondo il volere del Padre, va il colloquio con Pietro.
Il gesto di Gesù è a prima vista incomprensibile sia dal punto di vista delle convenzioni sociali, sia perché è il simbolo dell’abbassamento di Gesù, che viene dal Padre, e quindi è di natura divina.
     Gesù è consapevole che, se il livello morale del gesto, più che da capire sarà difficile da imitare; l’abbassamento, la «kenosi» del Verbo di Dio non si accetta se non con l’opera dello Spirito Santo: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7).

Domenica delle Palme (Anno C).

DOMENICA DELLE PALME   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 50,4-7          Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
    v  Un anticipo di mistero pasquale risuona nella prima lettura che propone la figura del servo di Dio.
Al di là delle difficoltà interpretative, si incontra un uomo totalmente disponibile al piano divino, anche se deve passare nei meandri del dolore.
È la prefigurazione di una vicenda che capovolge la storia.
Infatti, la certezza della fedeltà a Dio nonostante tante prove e difficoltà è ampiamente cantata in questo brano di Isaia.
     Gli studiosi lo classificano come il terzo carme del Servo di Dio.
Chi sia questo personaggio rimane misterioso ed enigmatico.
Qualcuno lo ha identificato con il profeta stesso.
Ma la sua personalità e la sua azione superano di gran lunga la contingenza storica, elevandosi a simbolo di una realtà che troverà solo in Gesù il suo pieno compimento.
 Il Nuovo Testamento sarà esplicito nel riconoscere in Gesù il servo sofferente (cf.
At 8,35; Lc 18,31).
     Il brano ripropone in miniatura il mistero pasquale, qui considerato come sofferenza (morte) in un contesto di dolce intimità con Dio (vita).
Il Signore abilita il suo servo al compito profetico, comunicandogli la sua parola.
Questa viene accolta con disponibilità e ritrasmessa integra e fedele da parte del servo.
Purtroppo i destinatari si mostrano non solo indifferenti, ma perfino ostili al profeta che tiranneggiano e denigrano.
Sarebbe comprensibile uno stato di prostrazione e di abbattimento del profeta davanti all’insuccesso della sua missione.
Eppure non cede alla tentazione dello scoraggiamento e tanto meno dell’abbandono, fondandosi su una granitica certezza: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato”.
È una parte sicura, equiparabile ad una risurrezione.
     Il brano, molto stringato e abbastanza sibillino, si scioglie in una luminosa comprensione se riferito a Cristo e al suo mistero pasquale.
  Seconda: Filippesi 2,6-11          Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
              v Paolo trascrive in termini più teologici il significato della passione e morte di Cristo, proponendo la contemplazione di uno stupendo inno cristologico.
In esso trova eco il valore teologico della sofferenza e della morte di Gesù.
Con tutta probabilità Paolo ha trovato nella liturgia questo brano che egli inserisce nella sua lettera per veicolare importanti verità cri