SORGE BARTOLOMEO, La traversata.
La Chiesa dal Concilio Vaticano II a oggi, Mondadori, Milano 2010, ISBN: 8804596953, Euro 18,50 La società è divenuta ormai irreversibilmente pluriculturale, plurietnica e plurireligiosa.
Per agire da fermento spirituale, culturale e sociale, la Chiesa deve porsi in modo nuovo, altrimenti non è più credibile né quando annunzia il Vangelo, né quando combatte a favore dell’uomo e della sua dignità.
Giunti al giro di boa dei cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, per evangelizzare un mondo profondamente cambiato, non resta che proseguire con coraggio la “traversata” lungo la “rotta” segnata chiaramente dal Concilio e seguita fedelmente dai “traghettatori”.
La “traversata” postconciliare è stata senza dubbio tormentata, resa ancor più complessa dai vorticosi cambiamenti sociali, dalle divisioni e dai contrasti che hanno attraversato il mondo cattolico.
In questa delicata stagione hanno avuto un ruolo decisivo alcune figure carismatiche che hanno accompagnato la Chiesa e la nostra società nella transizione al terzo millennio.
Attingendo ai suoi molti ricordi, pubblici e privati, padre Bartolomeo Sorge ne delinea un appassionato e intenso ritratto, con l’auspicio che possano essere d’esempio a “una nuova generazione di traghettatori”, chiamata a completare il lungo tragitto della Chiesa verso le mete indicate dal Concilio superando incertezze e stanchezze, senza temere di affrontare situazioni nuove e sfide inedite.
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Sotto il cielo di Roma
“Il Pontefice della mia giovinezza”, il pastor angelicus che “ha presieduto alla carità nel difficile tempo del Secondo Conflitto Mondiale”.
Benedetto XVI ha ricordato così la figura e l’opera del predecessore Pio XII, dopo aver assistito a Castel Gandolfo, venerdì pomeriggio, 9 aprile, a una sintesi della miniserie televisiva Sotto il cielo di Roma.
Il Papa, che si trova nella cittadina laziale dal pomeriggio della domenica di Pasqua, ha espresso apprezzamento per l’opera incentrata sull’azione di Eugenio Pacelli – l’ultimo romano a salire sul soglio di Pietro (dal 1939 al 1958) – nell’impedire che la Città eterna fosse distrutta dalla guerra e nel proteggere gli ebrei all’interno di conventi e istituti religiosi, resi zona extraterritoriale per sua volontà.
La ricostruzione degli avvenimenti e l’ambientazione riguardano i drammatici giorni vissuti dall’Urbe nel periodo che va dalla seconda metà del 1943 ai primi sei mesi del 1944: dal bombardamento di San Lorenzo del 19 luglio all’armistizio dell’8 settembre, dal rastrellamento nel ghetto del 16 ottobre all’attentato di via Rasella del 23 marzo, con l’immediata rappresaglia nazista del giorno seguente alle Fosse ardeatine, fino all’ingresso delle truppe alleate, il 4 giugno.
Due puntate, di novanta minuti l’una, dirette da Christian Duguay – lo stesso regista della serie su sant’Agostino – che sceneggiano, oltre la storia di due giovani ebrei, anche un episodio storico poco noto: il piano nazista per rapire Pio XII, l’unica autorità rimasta nel territorio italiano spezzato in due.
L’ordine viene direttamente da Hitler, ma il Papa si rifiuta con tenacia di abbandonare il Vaticano e i romani al loro destino.
Eugenio Pacelli è interpretato dall’americano James Cromwell, che in carriera ha vestito per diverse volte i panni di presidente degli Stati Uniti.
Nelle scene appare sempre affiancato da Cesare Bocci, nel ruolo di monsignor Montini, il futuro Paolo vi, all’epoca sostituto della Segreteria di Stato.
La società di produzione Lux Vide e gli sceneggiatori hanno lavorato su una documentazione notoriamente vastissima e soprattutto su una bibliografia ormai imponente.
Un’iniziativa – spiegano i produttori – “volta a fornire una conoscenza accessibile a tutti per superare pregiudizi e critiche malevoli”.
Prima della proiezione il presidente dell’ente radiotelevisivo Paolo Garimberti, nel saluto rivolto a Benedetto XVI ha messo in luce come “la grande tradizione di servizio pubblico della Rai” sia caratterizzata “dall’impegno a realizzare produzioni di grande valore culturale e popolare, con l’ambizione di offrire ai telespettatori un contributo allo sviluppo di un dialogo su temi di attualità, volgendo lo sguardo alle radici della nostra storia”.
Quindi ha aggiunto che la Rai è orgogliosa dell’opera presentata.
“Nel corso degli anni – ha detto – il Pontefice che ebbe il difficile compito di condurre la Chiesa durante la seconda guerra mondiale è divenuto oggetto di un dibattito che ancora oggi continua e tocca argomenti di grande sensibilità”.
La sfida è dunque – ha argomentato – “di raccontare al grande pubblico la storia di un Papa e del suo Pontificato, incoraggiando una riflessione su uno dei momenti più drammatici del Novecento”.
Nella sala degli Svizzeri del Palazzo Pontificio, hanno assistito alla trasmissione del film il cardinale Giovanni Battista Re, gli arcivescovi Filoni, sostituto della Segreteria di Stato, Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, e Harvey, prefetto della Casa Pontificia, il vescovo di Albano, Semeraro, i monsignori Wells, assessore, Balestrero, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati, Karcher, del Protocollo della Segreteria di Stato, Gänswein, segretario particolare di Benedetto XVI, e Xuereb, della segreteria particolare, con alcuni Cerimonieri pontifici.
Tra le personalità, il direttore delle Ville Pontificie Petrillo, il medico personale del Papa, Polisca, e il nostro direttore.
Con il presidente Rai Garimberti, erano il direttore generale Masi, membri del consiglio d’amministrazione e alcuni direttori.
La Lux Vide era rappresentata dalla famiglia Bernabei.
Erano anche presenti i coproduttori tedeschi della Eos entertainment e rappresentanti della Bayerischer Rundfunk e della Tellux Film.
Con gli sceneggiatori Arlanch e Bettelli, gli attori Alessandra Mastronardi e Marco Foschi, interpreti di due giovani ebrei che trovano rifugio in uno dei conventi che il salvatoriano Pancrazio Pfeiffer aveva trasformato in luoghi di protezione con l’avallo di Papa Pacelli.
Il religioso tedesco ebbe un ruolo di primo piano nella mediazione tra gli occupanti nazisti e la Santa Sede.
La serie sarà distribuita anche sul mercato internazionale con il titolo Pius xii.
Under the Roman Sky.
“Pensate per il grande pubblico – ha detto il Pontefice commentando le immagini – queste opere rivestono particolare valore soprattutto per le nuove generazioni”.
Il genere della fiction è infatti secondo Benedetto XVI utile a far “conoscere un periodo che non è affatto lontano, ma che le vicende della storia recente e una cultura frammentata possono far obliare”.
di Gianluca Biccini (©L’Osservatore Romano – 11 aprile 2010) Ratzinger: Pio XII padre di tutti Salvò Roma e tanti perseguitati di Paolo Conti in “Corriere della Sera” del 10 aprile 2010 «Mi preme sottolineare particolarmente come Pio XII sia stato il Papa che come padre di tutti ha presieduto alla carità a Roma e nel mondo soprattutto nel difficile tempo del secondo conflitto mondiale…
Questo film racconta il ruolo fondamentale di Pio XII nella salvezza di Roma e di tanti perseguitati dal 1943 e 1944».
Benedetto XVI non cita la questione ebraica ma le espressioni «padre di tutti» e «tanti perseguitati» sono eloquenti, soprattutto dopo aver visto un film sulle tragiche ore di Eugenio Pacelli che assiste dal Vaticano al rastrellamento degli ebrei romani il 16 ottobre 1943.
Un racconto che sottolinea continuamente il ruolo di un Pontefice impegnato a spalancare le porte di monasteri e conventi per salvare gli israeliti romani scampati all’inumana razzìa voluta da Hitler.
E ancora: «Pio XII è stato il Pontefice della mia giovinezza.
Col suo ricco insegnamento ha saputo parlare agli uomini del suo tempo indicando la strada della verità e con la sua grande saggezza ha saputo orientare la Chiesa verso l’orizzonte del terzo millennio».
Ore 18.40 di ieri, secondo piano della villa Pontificia di Castel Gandolfo.
Saletta cinematografica tra gli stucchi, strepitoso affaccio sul lago.
Sullo schermo è stata appena proiettata la copia di prova di «Sotto il cielo di Roma», fiction in due puntate da cento minuti ciascuna, destinata a Raiuno (data ancora da decidere) e prodotta dalla Lux Vide creata da Ettore Bernabei che ora la pilota con i figli Matilde e Luca, tutti seduti dietro al Papa.
Ci sono i vertici Rai schierati al completo: il presidente Paolo Garimberti, il direttore generale Mauro Masi, il direttore di Raiuno Mauro Mazza, il direttore di Rai Fiction Fabrizio del Noce, il consigliere Alessio Gorla e moltissimi altri.
E mezza curia romana.
Stavolta la scommessa per la Lux Vide (e per i suoi partner internazionali, a partire da Rai Fiction) è veramente colossale, destinata a far discutere mezzo mondo: una fiction su Pio XII raccontato nelle ore atroci dell’occupazione nazista di Roma e soprattutto della persecuzione degli ebrei, del rastrellamento nell’Antico Ghetto.
La regia è di Christian Duguay, Pio XII è James Cromwell, solido volto hollywoodiano.
Monsignor Montini, futuro Paolo VI, è Cesare Bocci.
Suor Pascalina è Christine Neubauer.
Benedetto XVI parla dopo 65 minuti di proiezione.
Il film gli è piaciuto, e si vede dal sincero sorriso con cui applaude alla fine.
Ma soprattutto coglie l’occasione per difendere il suo predecessore dal mare delle recenti polemiche: «Pio XII è stato un grande maestro di fede, di speranza e di carità».
Poi saluta, distribuisce rosari, benedice.
La proiezione comincia alle 17.30 spaccate con una puntualità davvero teutonica (ore 17.30, si leggeva sugli inviti, ma a Roma sarebbe di solito un’opinione) papa Benedetto XVI entra nella saletta a passi brevi ma rapidissimi.
Sorride con affabilità a tutti, prima di sedersi si ferma a salutare Andrea Riccardi della Comunità di Sant’Egidio e Gian Maria Vian, direttore de «L’Osservatore romano».
In tutto non più di un’ottantina di persone.
Il film piace al Papa perché narra, proprio nelle ore in cui la figura di Pacelli — sotto processo di beatificazione — è messa in profonda discussione nel mondo ebraico italiano e internazionale, un uomo tormentato ma deciso a fare di tutto pur di salvare il maggior numero di ebrei.
Le note degli sceneggiatori Fabrizio Bettelli e Francesco Arlanch non lasciano spazio a dubbi: «Abbiamo lavorato documentandoci e lasciando maturare in noi stessi non una convinzione quanto un’impressione…
subito ci è parsa destituita di ogni fondamento la cosiddetta leggenda nera di Pio XII, una delle vulgate più diffuse sul suo operato, che lo vede complice dei nazisti e indifferente allo svolgersi del dramma degli ebrei…».
Più in là: «Solo avendo chiaro, in modo non rituale, il significato umano della razzìa degli ebrei si può iniziare a discutere, o anche solo a rappresentare, gli episodi legati ai mesi dell’occupazione nazista a Roma…
e allo stesso tempo, con la stessa forza, dalla stessa radice di orrore si impone un altro elemento, quello dei salvati…
I libri di storia specificano, in una narrazione nella quale i numeri hanno la loro parte, che più di mille ebrei di Roma furono deportati sotto gli occhi del Papa ma che migliaia si salvarono per suo volere.
E oggi ha il sapore di una distinzione capziosa dire che Pio XII ebbe parte passiva in quell’intervento, o non l’ebbe affatto».
Il film (gli autori hanno lavorato sugli atti della beatificazione e mettono a disposizione una bibliografia molto corposa in cui appaiono saggi di Fausto Coen, Enzo Forcella, Giovanni Miccoli accanto ad Andrea Riccardi e Gian Maria Vian, materiali da cui sono stati tratti con dichiarata attenzione dialoghi, documenti e situazioni) affonda le radici in quelle note e racconta di conseguenza.
Per esempio: Pio XII riceve il rappresentante della comunità ebraica che gli chiede un aiuto per raccogliere l’oro destinato all’odioso (e poi inutile) ricatto nazista.
Pacelli lo guarda e cita l’Antico Testamento: «Abramo, io sono il tuo scudo, la tua ricompensa sarà grande».
E il capo della comunità, commosso, prosegue: «Tante quante sono le stelle in cielo, questa sarà la tua discendenza».
L’ambasciatore tedesco Weizsacker mette in guardia il Pontefice: «Se il Papa protesterà per gli ebrei romani, il ricorso alla deportazione a Roma sarà radicale».
L’ambasciatore polacco chiede con urgenza un’udienza, gli chiede di protestare contro la Germania.
E Pio XII: «Sono il Vicario di Cristo, non posso schierarmi con un popolo conto un altro».
Soprattutto gran parte del film-tv è dedicata agli sforzi compiuti da Pacelli per aprire chiese, conventi, monasteri anche di clausura agli ebrei fuggiaschi, persino contro il volere di parte della Curia.
Nel film Pio XII sembra attendere sereno l’arresto, o il martirio («Fate di me ciò che volete», dice al generale nazista Wolff).
Consegna a Montini e a Suor Pascalina una lettera in cui si autodichiara decaduto in caso di deportazione.
Il dubbio però lo perseguita fino alla fine, nelle ore della Liberazione.
Monsignor Montini lo rassicura: «Santità, lei ha fatto tutto il possibile».
E Pio XII: «Solo il Signore potrà dirmelo».
La fine vede Pacelli che passeggia in piazza San Pietro, con Roma appena liberata, e benedice.
Così come all’inizio camminava tra le macerie del bombardamento di San Lorenzo, e benediceva piangendo.
La materia narrativa è tanta, incandescente.
L’appuntamento col dibattito è nelle mani del palinsesto Rai.
La Sindone
TRA FEDE E DEVOZIONE «Davanti alla Sindone con la nostalgia di Dio» 10 aprile 2010 Marina Corradi STORIA E MEMORIA Icona del Figlio, devozione antica 09 aprile 2010 Gian Maria Zaccone, direttore scientifico del Museo della Sindone di Torino e vicedirettoredel Centro internazionale di sindonologia IL PERCORSO L’ultimo chilometro dei viandanti 09 aprile 2010 Federica Bello Con le nostre ferite davanti all’«immagine del silenzio» I torinesi e ogni altro allo specchio che non mente 09 aprile 2010 Riccardo Maccioni FEDE E RAGIONE Sindone, sfida alla scienza 09 aprile 2010 Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia IL TESSUTO Su quel lino lo «specchio» del Vangelo 09 aprile 2010 Federica Bello Il momento tanto atteso dell’ostensione della Sindone è arrivato.
Dal 10 aprile e fino al 23 maggio, per la decima volta dal 1578 e la quarta dal 1978, la celebre reliquia sarà esposta al pubblico in una sala allestita all’interno del Duomo di Torino .
Il capoluogo piemontese ospiterà i due milioni di pellegrini e non desiderosi di ammirare il lenzuolo utilizzato – secondo tradizione – per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro.
L’ultima ostensione risale al 2010.
E la Sindone nel frattempo si è «rifatta il trucco»: l’ostensione di quest’anno, che sarà suggellata il 2 maggio dalla visita di Ratzinger, è infatti la prima da quando il telo di lino è stato sottoposto, nel 2002, ad un intervento di conservazione che lo ha riportato al suo antico splendore.
DUE MILIONI – Più di un milione e 400 mila persone si sono prenotate per poter osservare il lenzuolo utilizzato – secondo tradizione – per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro.
Ma all’interno del Duomo di Torino, nelle sei settimane dell’ostensione, ne sono attese almeno un milione e 800 mila.
Da parte sua, il presidente della Commissione diocesana della Sindone, monsignor Giuseppe Ghiberti, ha affermato che «sono attesi 2 milioni di fedeli».
Per questo, «ogni pellegrino potrà fermarsi a guardare la Sindone dai 3 ai 5 minuti, a seconda del flusso di persone».
La visita potrà essere prenotata, oltre che sul sito internet www.sindone.org, direttamente a Torino, negli appositi spazi allestiti all’inizio del percorso dell’Ostensione.
Si potrà entrare nel Duomo anche senza, ma in questo caso la Sindone sarà visibile solo da lontano.
IL TEMA PASTORALE – Un «grande evento», insomma, che però «non è un fatto di turismo religioso, ma un’iniziativa spirituale e pastorale».
Così l’ha definito il custode pontificio della Sindone, l’arcivescovo di Torino, cardinale Severino Poletto.
Il tema scelto per questa ostensione è «Passio Christi passio hominis», per sottolineare «il forte collegamento tra l’immagine sindonica, testimonianza della Passione del Signore, e le molteplici sofferenze degli uomini e delle donne di oggi».
«Davanti alla Sindone si va per pregare e questo vale per tutti», ha sottolineato il cardinale a margine della conferenza stampa di presentazione dell’ostensione.
Poletto ha poi ribadito che l’evento è «essenzialmente spirituale e religioso e non commerciale o turistico».
E ha rivolto un appello ai pellegrini: «Il vostro – ha detto rivolgendosi direttamente a loro – è un percorso di fede e di preghiera.
Vi invito quindi alla concentrazione e ad evitare, se possibile, di scattare foto o realizzare filmati».
LA VISITA DEL PONTEFICE – Papa Benedetto XVI sarà a Torino domenica 2 maggio.
Alle 10 celebrerà la Messa in piazza San Carlo e guiderà poi la recita del Regina Caeli.
Nel pomeriggio, dopo un incontro con i giovani della Diocesi, si recherà in Duomo per la sosta di venerazione davanti alla Sindone e una riflessione sui temi dell’ostensione.
«Un tesoro prezioso da custodire a lungo nel tempo – come l’ha definita il cardinale Poletto – un dono preziosissimo perchè Papa Benedetto sa presentare le grandi verità della fede».
LA SICUREZZA – La sorveglianza dell’evento è affidata alle forze dell’ordine, coordinate dal prefetto di Torino Paolo Padoin.
Per l’occasione stanno arrivando da tutta Italia circa 200 rinforzi, tra polizia e carabinieri.
Un grosso aiuto lo darà anche la tecnologia: sulla Sindone vigileranno infatti telecamere di ultima generazione, con tanto di sensori anti-terrorismo in grado di segnalare eventuali movimenti sospetti.
I colori di Giotto
In occasione dell’ottavo centenario dell’approvazione della Regola di san Francesco, l’11 aprile s’inaugura, presso la basilica di San Francesco ad Assisi e al Palazzo del Monte Frumentario, la mostra “I colori di Giotto.
La basilica di Assisi tra restauro e restituzione virtuale” curata da Giuseppe Basile.
Nell’occasione – e fino al 5 settembre – si apre ai visitatori il cantiere di restauro dei dipinti murali di Giotto nella Cappella di San Nicola della Basilica inferiore.
Pubblichiamo un testo del direttore dei Musei Vaticani, che è anche il presidente del Comitato scientifico della manifestazione.
Questo anno 2010 segna l’ottavo centenario dalla approvazione della Regola Francescana.
Da Assisi è nato il grande incendio che ha investito l’intera cristianità dalla Scozia alla Sicilia, dal Portogallo ai Balcani e alla Terra Santa.
Non basterebbe una intera biblioteca per contenere tutto quello che è stato scritto, in otto secoli, su san Francesco, sui suoi discepoli, sulla diffusione dell’ordine in tutte le sue varianti (i conventuali, gli osservanti, i cappuccini), sulla infinita gemmazione di sapienza e di bellezza che l’insegnamento del maestro ha prodotto ai quattro angoli del mondo in ottocento anni.
Nella teologia, nella filosofia, nella poesia, nella musica, nell’architettura, nelle arti figurative.
Tutto è nato ad Assisi.
Da Assisi l’imago Francisci si è diffusa nel mondo cristiano, lo ha abitato e lo ha fecondato.
Alla base della fortuna planetaria che ha accompagnato fino a oggi le opere e i giorni del santo, ci sono gli affreschi nella Chiesa Superiore di Assisi.
Da lì bisogna partire per intendere quel fenomeno grandiosamente epico che è stato il francescanesimo.
Ed ecco la mostra che, voluta dal sindaco Claudio Ricci e dal custode del Sacro Convento, Giuseppe Piemontese, curata da Giuseppe Basile è stata inaugurata in Assisi il 10 aprile per rimanere aperta fino al 5 settembre.
Le sedi espositive sono la basilica stessa e il Palazzo del Monte Frumentario.
Il titolo “I colori di Giotto tra restauro e restituzione virtuale” fa intendere bene l’obiettivo dell’iniziativa; una iniziativa che sta in bilico fra una filologia storico artistica squisitamente raffinata e il dispiego delle più sofisticate tecnologie digitali ad alta definizione.
Da ciò le ragioni del suo fascino.
Chi, nei prossimi giorni, si recherà ad Assisi potrà vedere da vicino e dal vero i colori di Giotto salendo sui ponteggi della Cappella di San Nicola, nella Basilica Inferiore.
Attualmente è in corso il restauro guidato da Sergio Fusetti e sarà questa l’occasione per capire fino a che punto è lecito sostenere (come io credo) l’autografia del maestro toscano in questo settore del san Francesco.
Nel trecentesco Palazzo detto del “Monte Frumentario”, di recente restaurato, le storie della Basilica Superiore vengono virtualmente riproposte come “dovevano essere”.
Grazie all’impiego di tecniche fotomeccaniche, digitali e di intervento pittorico manuale, sotto la direzione di Giuseppe Basile coordinatore di una equipe dell’Istituto centrale del restauro, e di Fabio Fernetti, gli affreschi – in scala comprensibilmente ridotta rispetto agli originali – saranno resi visibili nel loro aspetto “originario”.
Al netto quindi delle mutazioni materiche e degli interventi di restauro che li hanno fatalmente coinvolti nei più di sette secoli della loro esistenza.
La restituzione virtuale è di eccellente livello e ci invita a riflettere su quella che è stata definita la “questione omerica” dei nostri studi.
La presenza cioè di Giotto nel cantiere di Assisi.
L’ormai antico dilemma: “Giotto non Giotto?” non ha avuto fino a ora una risposta certa, risolutiva e da tutti condivisa.
Ci sono studiosi, prevalentemente di oltre Oceano, che non credono che l’autore delle Storie francescane sia il Giotto di cui parla Dante nell’undecimo del Purgatorio: “Credette Cimabue nella pintura / tenere lo campo ed ora ha Giotto il grido / si che la fama di colui è oscura”.
Gli storici italiani, con la sola cospicua eccezione di Federico Zeri, pensano invece (io fra gli altri) che l’autore delle Storie Francescane sia lo stesso, che, una manciata di anni più tardi, affrescherà per Enrico degli Scrovegni la Cappella dell’Arena a Padova.
Il problema non è tanto il vuoto documentario e l’ambiguità delle fonti più antiche (Vasari) sul ciclo di Assisi a fronte delle certezze antiche e inoppugnabili che possediamo sugli affreschi di Padova.
Il problema è un altro.
Il problema è la grande differenza, non di stile ma di evoluzione e maturità dello stile, che siamo costretti a riscontrare fra l’una e l’altra impresa.
Passare dalle Storie Francescane della Basilica Superiore – scatole prospettiche dove tutto è secco ed essenziale – alla maniera dolce e fusa di Padova, alle scene veterotestamentarie ed evangeliche che sembrano già un anticipo sul Beato Angelico e su Piero della Francesca, è oggettivamente arduo.
Assomiglia a una scalata acrobatica di sesto grado superiore.
Eppure per chi, come me, crede nella autografia di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, l’impasse si supera solo se si tiene conto dei tempi del genio che conoscono accelerazioni vertiginose.
Il Giotto di Padova è già presente in Assisi nel dominio dello spazio, nella scoperta della verità di natura, nella efficacia drammatica e potentemente didascalica delle sceneggiature.
Subito dopo arriva la Cappella degli Scrovegni, cioè l’incipit del Rinascimento.
Per cui, come diceva Berenson, Masaccio altro non è che Giotto “rinato” (born again).
A ben guardare non diversa è stata la traiettoria velocissima di Dante Alighieri dalle prime composizioni “dolcestilnoviste” alla Cavalcanti e alla Guinicelli, al canto dei lussuriosi nell’Inferno.
Per cui quel verso messo in bocca a Francesca (“la bocca mi baciò tutto tremante”) è già Baudelaire, è già la poesia moderna.
di Antonio Paolucci (©L’Osservatore Romano – 11 aprile 2010)
Cena del Signore anno C
Preghiere e Racconti Vi ho dato un esempio «Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12).
È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7).
[…] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi».
[…] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda.
Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15).
Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi.
Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi.
[…] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo.
Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà.
[…] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io».
Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.
Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16).
È questo l’esempio che ci ha dato il Signore.
Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp.
1094.1098-1100) Pane della condivisione Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Un giorno unico Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino.
Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta.
Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta.
Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima.
Quella volta che facesti il primo sacrificio.
Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia.
La prima vittima.
(Ch.
PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).
Giovedì Santo Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto.
Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15).
Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.
Questi due gesti sono intimamente uniti.
Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore.
Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso.
Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15).
Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).
Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo.
Ci chiama a una totale autodonazione. Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi.
Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.
Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate.
E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me».
Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.
(H.J.M.
NOUWEN, In cammino verso la luce).
O Signore, dove mai potrei andare? Io volgo il mio sguardo a te, o Signore.
Tu hai pronunciato parole così piene di amore.
Il tuo cuore ha parlato così chiaro.
Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami.
Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…
Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me.
Voglio che tu condivida in pieno la mia vita.
Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre.
Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».
Ti sto di nuovo guardando, o Signore.
Tu ti alzi e mi inviti alla mensa.
Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me.
«Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te».
Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te».
Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine.
Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei.
Mi doni il tuo stesso io.
Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto.
Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.
O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto? (H.J.M.
NOUWEN, Da cuore a cuore).
Preghiera Dio onnipotente ed eterno la sera prima di soffrire, il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa il sacrifico della nuova ed eterna alleanza e istituì il convito del suo amore.
Fa’ che da questo mistero possiamo ricevere la pienezza di vita e di amore.
Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
CENA DEL SIGNORE Lectio Anno c Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14 Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno.
Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa.
Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto.
Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno.
In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare.
Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta.
È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto.
Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto.
Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.
v Il brano dell’Esodo, che la liturgia ci fa leggere oggi è uno dei testi che fonda la festa della pasqua (pesach) ebraica, che viene celebrata ancora oggi, come «memoriale» della liberazione dall’Egitto e che Gesù, la sua famiglia e i suoi apostoli hanno celebrato secondo le tradizioni che si rifacevano alla Torà di Mosè.
Nella Torà (Pentateuco) sono numerosi i testi che «fondano» la pasqua, mentre accenni alla pasqua si trovano anche nelle altre parti del tanach (nome della Bibbia ebraica, dalle iniziali delle tre parti fondamentali in cui è divisa: Torà = insegnamento, legge; Neviim, = profeti; Ketuvim = agiografi).
Il capitolo 12 dell’Esodo dedica alla Pasqua due parti i vv.
1-28 e 41-50.
In questi testi è esplicito il collegamento con l’opera del Signore, che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e a cui viene esplicitamente dato il comando di celebrarne il memoriale: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14).
La celebrazione di un rito ciclico, proprio dei pastori, che gli ebrei del tempo dei patriarchi celebravano come gli altri popoli vicini dediti alla pastorizia, in primavera, per chiedere a Dio la benedizione e la fecondità del gregge, diventa il rito «memoriale» dell’intervento di Dio nella storia.
Sempre in questo capitolo sono indicate le modalità essenziali, per riuscire a far entrare la nuova generazione dentro al significato di questa celebrazione: «Quando poi sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito: Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore».
Il passaggio di generazione in generazione avviene in forma di domande dei figli e di risposte dei padri.
Il modo di ricordare, attraverso gesti simbolici susciterà la curiosità dei più giovani e sarà il punto di partenza per il racconto delle opere compiute da Dio per liberare il suo popolo e avviarlo verso la terra promessa, proprio il racconto di tali opere in risposta alle domande dei figli costituisce il nucleo del «memoriale» celebrato nel Seder pasquale dagli ebrei ancora oggi, in continuità con la prima pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto.
La pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto è la pasqua avvenuta, potremmo dire, sotto il segno del miracolo, le pasque celebrate in seguito sono «memoriale».
Chi partecipa al memoriale deve considerare se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto, ma il miracolo è per ora solo spirituale, dato solo nel racconto e nei gesti simbolici.
Il rito deve essere perenne: esso è un «memoriale» rende efficace per i presenti l’azione salvifica di Dio ed è teso al sabato messianico, che non avrà più tramonto.
L’andamento in tre tempi del «memoriale» ebraico è lo stesso di quello cristiano: i cristiani fanno memoria della morte e risurrezione di Gesù in questo tempo intermedio, partecipano cioè nel rito dell’opera salvifica di Gesù in attesa della domenica del Regno, quando sarà finito il tempo intermedio nel quale dobbiamo avvalerci del racconto e dei segni.
Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26 Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
v Il brano di Paolo è uno dei quattro testi neotestamentari, che presentano direttamente il racconto di quella che siamo soliti chiamare l’«istituzione dell’eucaristia».
Gli altri tre sono Lc 22,14-20; Mt 26,20-29; Mc 14,17-25.
In realtà il termine eucaristia non c’è negli scritti apostolici; esso inizia solo con la Didaché e in Ignazio di Antiochia (110 d.C.) comincia ad avere un senso sacramentale.
I termini per indicare la prassi eucaristica nel Nuovo Testamento sono cena del Signore (cf.
1Cor 10,14,22; 11, 17,33) e frazione del pane (cfAt 2,42.46; 20,7.11).
Il testo di Paolo che si legge oggi è un testo che presuppone già una tradizione liturgica.
Esso è legato a quello di Luca e si fa risalire alla tradizione antiochena, mentre Marco e Matteo, apparentati fra loro, risalgono alla tradizione gerosolimitana.
In Paolo e Luca sono rilevanti tre aspetti: l’invito a «fare memoria» (1Cor 11,24.25; Lc 22,19 solo sul pane); il riferimento all’alleanza (1Cor 11,25, Lc 22,20); la dimensione del dono personale di Gesù espresso da «questo è il mio corpo, che è per voi» (1Cor 11,24; Lc 22,19) e dal sangue versato per voi (Lc 22,20).
È da notare anche il ‘voi’, che si riferisce direttamente ai presenti alla celebrazione e che è molto insistito nel racconto di Luca.
L’eucaristia è «fare memoria» vale a dire compiere il rito, ma soprattutto accettare la logica del servizio proposta dalla lavanda dei piedi.
Il calice è la nuova alleanza, vale a dire un’alleanza vera voluta da Dio e che deve essere accettata dai discepoli di Gesù.
Il termine analogico è sempre l’alleanza del Sinai; lì c’è l’iniziativa di Dio che ha liberato il popolo e gli dà una norma di condotta; il popolo deve rispondere accettando l’alleanza, vale a dire mettendo in pratica i precetti.
La fedeltà all’alleanza è sicura da parte di Dio, è difficile da parte del popolo.
Dio, però, non lo abbandona e continuamente lo richiama, soprattutto attraverso i profeti rammentando loro la sua misericordia e la sua fedeltà, nonostante le sofferenze e l’apparente abbandono.
Dalla fede che il gesto di Gesù è un’alleanza reale con Dio, un dono di Dio come quella stipulata con Israele, l’alleanza è chiamata «nuova», con riferimento a Geremia: «Ecco verranno giorni in cui con la casa di Israele e la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova…» (Ger 31,31-34).
L’eucaristia è soprattutto dono di sé di Gesù, che deve diventare dono di sé dei discepoli che la celebrano.
Vangelo: Giovanni 13,1-15 Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo».
Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».
Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!».
Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti».
Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.
Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
Esegesi Il primo versetto del brano di Giovanni fa da introduzione ai capitoli 13-17, che vengono generalmente denominati «discorsi di addio».
Il redattore ha unificato i discorsi tenuti da Gesù ai suoi introducendoli nella cornice dell’ultima cena con loro.
Giovanni non parla di cena pasquale come i sinottici, ma dell’ultima cena di Gesù con i discepoli, che cronologicamente pone «prima della festa di Pasqua».
Il problema della datazione dell’ultima cena e della crocifissione, presentata in modo differente dai sinottici e da Giovanni, è stato affrontato da molti studiosi, ma è impossibile raggiungere una intesa che non lasci dubbi.
D’altro canto l’interesse dei Vangeli non è cronachistico; il racconto è rivolto all’annuncio della rivelazione salvifica di Gesù, che nella morte e risurrezione trova il suo punto culminante. In particolare, il brano che leggiamo oggi si muove su due binari uno è quello di rivelarci qualcosa della natura divina di Gesù e dell’azione salvifica insita nella sua morte, discorso che si farà più evidente nei capitoli che narrano la passione, l’altro è quello di mostrare ai discepoli il tipo di condotta richiesto, per essere veramente considerati tali.
Gesù è presentato pienamente consapevole della sua passione: il participio «sapendo» è ripetuto ai versetti 1 e 3.
Egli conosce la «sua ora», cioè quella della morte, presentata come l’ora «di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1); egli ha piena coscienza dei poteri che gli sono stati dati dal Padre dal quale è venuto e al quale ritorna (Gv 13,3).
L’evangelista pone gli avvenimenti che seguono nell’orizzonte dell’amore sconfinato di Gesù: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
In contrasto con questo amore senza limiti c’è il tradimento di Giuda, che è ispirato dal diavolo, il vero nemico, che Gesù deve sconfiggere (Gv 13,2).
È giunto il momento dell’azione del «principe di questo mondo», che anche se apparentemente contrario, non ha nessun potere su Gesù (Gv 14,30); il giudizio sul «principe di questo mondo» è già stato pronunciato (Gv 16,11).
Sempre nella linea di rivelarci qualcosa del mistero della persona di Gesù e illustrare il valore salvifico della sua missione nel mondo eseguita secondo il volere del Padre, va il colloquio con Pietro.
Il gesto di Gesù è a prima vista incomprensibile sia dal punto di vista delle convenzioni sociali, sia perché è il simbolo dell’abbassamento di Gesù, che viene dal Padre, e quindi è di natura divina.
Gesù è consapevole che, se il livello morale del gesto, più che da capire sarà difficile da imitare; l’abbassamento, la «kenosi» del Verbo di Dio non si accetta se non con l’opera dello Spirito Santo: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7).
Domenica delle Palme (Anno C).
DOMENICA DELLE PALME Lectio Anno c Prima lettura: Isaia 50,4-7 Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
v Un anticipo di mistero pasquale risuona nella prima lettura che propone la figura del servo di Dio.
Al di là delle difficoltà interpretative, si incontra un uomo totalmente disponibile al piano divino, anche se deve passare nei meandri del dolore.
È la prefigurazione di una vicenda che capovolge la storia.
Infatti, la certezza della fedeltà a Dio nonostante tante prove e difficoltà è ampiamente cantata in questo brano di Isaia.
Gli studiosi lo classificano come il terzo carme del Servo di Dio.
Chi sia questo personaggio rimane misterioso ed enigmatico.
Qualcuno lo ha identificato con il profeta stesso.
Ma la sua personalità e la sua azione superano di gran lunga la contingenza storica, elevandosi a simbolo di una realtà che troverà solo in Gesù il suo pieno compimento.
Il Nuovo Testamento sarà esplicito nel riconoscere in Gesù il servo sofferente (cf.
At 8,35; Lc 18,31).
Il brano ripropone in miniatura il mistero pasquale, qui considerato come sofferenza (morte) in un contesto di dolce intimità con Dio (vita).
Il Signore abilita il suo servo al compito profetico, comunicandogli la sua parola.
Questa viene accolta con disponibilità e ritrasmessa integra e fedele da parte del servo.
Purtroppo i destinatari si mostrano non solo indifferenti, ma perfino ostili al profeta che tiranneggiano e denigrano.
Sarebbe comprensibile uno stato di prostrazione e di abbattimento del profeta davanti all’insuccesso della sua missione.
Eppure non cede alla tentazione dello scoraggiamento e tanto meno dell’abbandono, fondandosi su una granitica certezza: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato”.
È una parte sicura, equiparabile ad una risurrezione.
Il brano, molto stringato e abbastanza sibillino, si scioglie in una luminosa comprensione se riferito a Cristo e al suo mistero pasquale.
Seconda: Filippesi 2,6-11 Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
v Paolo trascrive in termini più teologici il significato della passione e morte di Cristo, proponendo la contemplazione di uno stupendo inno cristologico.
In esso trova eco il valore teologico della sofferenza e della morte di Gesù.
Con tutta probabilità Paolo ha trovato nella liturgia questo brano che egli inserisce nella sua lettera per veicolare importanti verità cri
Festa della Passione del Signore Anno C
PASSIONE DEL SIGNORE Lectio Anno c Prima lettura: Isaia 52,13-53,12 Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.
Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.
v Il brano di Isaia che leggiamo oggi è uno dei brani scritturistici a cui la tradizione cristiana si è rivolta per tentare di capire più a fondo il mistero di Gesù che muore in croce.
Esso è denominato come il quarto carme del Servo del Signore (cf.
Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12).
Questi carmi sono una delle diverse riflessioni teologiche della Bibbia di fronte al problema tremendo della sofferenza del giusto, che mette in causa direttamente Dio.
«Il vocabolario (quarantasei hapax legomena [vocaboli che si incontrano soltanto in questo testo] del Deuteroisaia) lo stile, la veemenza dei contrasti e dei sentimenti fanno di questo carme, anche dal punto di vista letterario — nonostante le difficoltà testuali ed esegetiche — un gioiello dell’Antico Testamento.
La figura del Servo, che rappresenta il popolo di Israele in esilio, ricapitola in sé i tratti più caratteristici degli eroi e profeti dell’Antico Testamento: Mosè, Geremia, Giobbe, però sorpassa tutti questi personaggi, divenendo una figura escatologica».
(S.
VIRGULIN, Isaia, Nuovissima versione della Bibbia, Ed.
Paoline, 1968, 344).
Gli evangelisti e più esplicitamente la tradizione cristiana interpretarono l’opera e la morte di Gesù alla luce di questo carme.
– 52,13-15.
Il Signore presenta il servo trionfante.
Dall’umiliazione assoluta egli è chiamato all’esaltazione così da stupire i re e le nazioni.
– 53,1-9.
La sezione comincia con un interrogativo retorico per attirare l’attenzione.
Le sofferenze del servo sono descritte nei particolari con grande efficacia.
La sua sofferenza lo faceva ritenere un castigato da Dio, percosso e umiliato.
Egli non è stato colpito per essere castigato, ma per la salvezza degli altri: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti….
il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti».
– 10-12.
«Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori».
Si ribadisce di nuovo che quanto è avvenuto al servo è stato voluto da Dio, ma si aggiunge che Dio stesso riabiliterà ed esalterà il suo servo, che ha espiato i peccati altrui: «il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli».
Seconda: Ebrei 4,14-16; 5,7-9 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
v I due brani della lettera agli Ebrei scelti dalla liturgia di oggi presentano Gesù come sommo sacerdote, mediatore compassionevole per i nostri peccati.
Non dobbiamo temere il giudizio divino, ci dice l’autore della lettera, stiamo saldi nella confessione della nostra fede e abbiamo fiducia in Gesù Cristo.
Egli può capire la nostra debolezza avendo anche lui subito la prova della sofferenza.
Dobbiamo quindi avere piena fiducia che avremo un aiuto opportuno per essere ascoltati da un giudice già propenso alla misericordia, presso il quale troveremo grazia.
Assai efficace è l’immagine di accostarsi «al trono della grazia».
Essa mi fa venire in mente una tradizione midrashica ebraica che narra che Dio per creare gli uomini si è alzato dal trono della giustizia per sedersi su quello della misericordia.
Nei versetti 7-9 del capitolo 5, accostati direttamente dalla liturgia a 4,14-16 Gesù è presentato nel mistero della sua umanità e dell’abbassamento fino alla morte accettata in obbedienza a Dio, che poteva liberarlo e a cui aveva rivolto suppliche e grida.
Dio lo ha esaudito, ma misteriosamente solo attraverso la prova suprema.
Vangelo: Giovanni 18,1-19,42 – Catturarono Gesù e lo legarono In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.
Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi.
Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
Gli risposero: «Gesù, il Nazareno».
Disse loro Gesù: «Sono io!».
Vi era con loro anche Giuda, il traditore.
Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?».
Risposero: «Gesù, il Nazareno».
Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io.
Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro.
Quel servo si chiamava Malco.
Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
– Lo condussero prima da Anna Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno.
Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo.
Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote.
Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta.
Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro.
E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?».
Egli rispose: «Non lo sono».
Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento.
Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?».
Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male.
Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi.
Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?».
Egli lo negò e disse: «Non lo sono».
Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».
Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
– Il mio regno non è di questo mondo Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio.
Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.
Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?».
Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato».
Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».
Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna.
Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!».
Barabba era un brigante.
– Salve, re dei Giudei! Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.
E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora.
Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!».
E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna».
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora.
E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa».
Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura.
Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?».
Ma Gesù non gli diede risposta.
Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».
Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto.
Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
– Via! Via! Crocifiggilo! Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà.
Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare».
Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.
Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno.
Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!».
Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».
Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
– Lo crocifissero e con lui altri due Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo.
Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.
I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”».
Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».
– Si sono divisi tra loro le mie vesti I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica.
Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».
Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte».
E i soldati fecero così.
– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre! Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!».
Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».
E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».
Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.
Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!».
E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
– E subito ne uscì sangue e acqua Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui.
Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.
Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso».
E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù.
Pilato lo concesse.
Allora egli andò e prese il corpo di Gesù.
Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe.
Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura.
Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto.
Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.
Esegesi La liturgia ci fa leggere oggi tutto il «libro della passione» di Giovanni, che inizia con l’andata di Gesù nel giardino (18,1) e termina al sepolcro nel giardino (19,41).
L’inclusione sottolinea l’unità letteraria del racconto.
All’interno di questa unità possiamo individuare cinque scene: 1.
Gesù nel giardino e il suo arresto (18,1-11); 2.
Gesù davanti ad Anna, episodio scandito all’esterno dalle negazioni di Pietro (18,12-27); 3.
Gesù davanti a Pilato (18,28 19,16); 4.
la crocifissione (19,17-30); 5.
il colpo di lancia e la sepoltura (19,31-42).
Molti elementi del racconto di Giovanni, oltre allo schema generale della passione, sono in comune con i sinottici, mi soffermo soltanto sugli elementi propri di Giovanni presenti in ciascuna delle sezioni individuate sopra.
1.
In 18,1-11: Gesù sa che cosa gli sta per accadere: si fa avanti spontaneamente e si rivela nella sua potenza.
Alla sua risposta decisa: «Io sono» tutti indietreggiano e cadono a terra.
Nonostante non si riesca a dare di ciò una spiegazione univoca, è evidente che l’evangelista vuole sottolineare il contrasto fra il coraggio di Gesù che si fa avanti, padrone della situazione e la paura di chi è venuto ad arrestarlo, che ha fatto pensare a molti studiosi allo stupore-paura che nella Bibbia coglie coloro che intuiscono di essere alla presenza di Dio.
Gesù intesse un colloquio con le guardie per escludere i suoi dal suo destino e l’evangelista commenta che così si è adempiuta la sua stessa parola: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (18,9 cf.
17,12; 6,39).
Solo Giovanni dice il nome del servo del sommo sacerdote.
Nelle parole dette a Pietro: «il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
C’è una eco della preghiera di Gesù al Getzemani, che Giovanni non riporta, ma il tono della domanda sottolinea che quanto accade è un «dovere» comandato dal Padre, che Gesù accoglie senza tentennamenti 12-27.
Entrano in azione i soldati romani e
Pasqua di Resurrezione anno C
PASQUA DI RISURREZIONE Lectio Anno c Prima lettura: Atti 10,34a.37-43 In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme.
Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio.
A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
v Il discorso in casa di Cornelio è l’ultimo dei discorsi cristologici di Pietro nel libro degli Atti (cf.
2,12-36; 3.11-26; 4,8-22).
La catechesi su Gesù è ancora sulle sue linee essenziali: «consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret», cioè investito dello Spirito di Dio (battesimo) e insignito di particolari poteri taumaturgici Gesù si era presentato a Israele.
Partendo dalla Galilea aveva percorso «tutta la Giudea».
L’opera di Gesù è riassunta da pochi verbi; qualcuno di meno di quelli di Mt 4,23: «passò» per le contrade della Palestina, «beneficando» e «risanando» gli uomini dalle possessioni diaboliche ovvero dalle loro malattie.
Sono omessi i due verbi di Matteo «predicava» e «insegnava nelle loro sinagoghe».
Ma il suo agire dimostrava che «Dio era con lui», in altre parole era l’«Emmanuele» predetto dal profeta Isaia (7,14), traduceva con i fatti la bontà di Dio in mezzo agli uomini.
Gesù ha svolto la sua missione davanti a tutto il popolo poiché davanti a tutti ha parlato e compiuto i suoi prodigi, ma per quanto riguarda il prodigio conclusivo e dimostrativo della sua missione, la risurrezione dai morti, ha voluto un gruppo scelto di testimoni con i quali si è a lungo trattenuto, dando sufficienti prove della realtà del suo nuovo stato di vita.
Gli apostoli sono quelli che possono attestare la sopravvivenza di Gesù dopo che i nemici l’avevano messo in croce.
Essi l’hanno visto prima di morire e l’hanno rivisto vivo dopo la morte; possono perciò assicurare che è risorto, che non è rimasto nella tomba.
La sorte di Gesù si è rovesciata; egli è stato giudicato e condannato, ma dalla risurrezione è diventato lui il giudice di tutti, di quanti sono attualmente vivi e di quelli che sono già morti.
Tutti si sono confrontati o saranno chiamati a confrontarsi con lui per ricevere il premio o la condanna delle loro buone o cattive azioni.
Se si vuole evitare un incontro spiacevole con lui occorre credere, cioè ripercorrere la strada che egli ha percorso.
Pietro sta parlando in casa di Cornelio, un ufficiale romano, e ad ascoltarlo sono i suoi familiari, alcuni «congiunti e amici intimi» (10,14), tutta gente che non faceva parte del popolo della promessa, quindi della salvezza, ma si trattava di una discriminazione che con Gesù era destinata a cadere.
L’apostolo l’aveva già intravisto nella visione avuta a Joppe (10,9-15) e compreso meglio dal racconto di Cornelio (10,30-35); ora ne ha una conferma dal cielo mentre gli è dato costatare che lo Spirito di Dio sta discendendo su coloro che l’ascoltavano, per la maggior parte incirconcisi.
Era la Pentecoste dei gentili che richiamava quella sui rappresentanti d’Israele che era già avvenuta (At 2,1-12).
Seconda lettura: Colossesi 3,1-4 Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
v La comunità di Colossi è alle prese con i primi confronti o le prime contaminazioni con la cultura del mondo circostante, giudaico e greco.
I giudei dell’Asia minore, alla pari dei greci, parlano di potenze cosmiche intermedie tra Dio e gli uomini, di signorie, potestà, dominazioni.
Per l’autore esse possono rimanere solo che siano subordinate all’unico Signore, Cristo (1,15-20; 2,9-15).
Gesù ha affrancato l’uomo da qualsiasi giogo, come lo ha reso libero da rituali inutili, da «feste, noviluni, sabati», «cibi e bevande» (2,8,16-17).
Il cristiano è chiamato a ripercorrere il cammino di Cristo, un’esperienza di morte e di vita, di mortificazione e di risurrezione.
Si tratta di morire agli «elementi di questo mondo», di finire con tutte quelle pratiche, astinenze imposte in nome di un’«affettata», falsa «religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo» (2,23).
Il cristiano è un uomo nuovo e il suo mondo non è tanto di quaggiù, quanto del cielo, di lassù.
Nel battesimo egli è disceso nel fonte e risalendo ha lasciato nell’acqua la sua vecchia appartenenza con tutte le sue inclinazioni peccaminose e ha assunto l’immagine del Cristo glorioso.
Egli vive ancora sulla terra ma è un essere di un altro mondo, per questo deve assumere comportamenti degni della sua nuova condizione.
Occorre «cercare» e «pensare alle cose di lassù», ciò che è consono con il mondo e il modo di vivere del Cristo risorto.
L’autore non specifica quali sono le cose di lassù e quali quelle della terra, ma lo dice subito dopo quando chiede di «mortificare quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi» che designa con il termine «vizi».
E aggiunge: «Voi deponeste tutte queste cose, ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene» (3,5-8).
Tutte azioni che appartenevano, è detto sinteticamente, all’«uomo vecchio» in contrapposizione al l’«uomo nuovo che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore» (3,9-10).
I comportamenti dell’uomo nuovo che si avvicina a quello celeste sono invece caratterizzati da «sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza.
Al di sopra di tutto vi è poi la carità che è il vincolo di perfezione» (3,12-14).
La vita cristiana è sempre un preludio di quella celeste che è segnata dal Cristo glorificato.
Allora verrà sublimata anche quella di coloro che credono in lui.
La vita terrestre si spiega solo alla luce della sua apoteosi celeste.
Vangelo: Giovanni 20,1-9 Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro.
Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Esegesi Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna particolare: Maria di Magdala.
Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato trafugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.
Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane.
Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia.
Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte.
Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni.
Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).
«Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8).
Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore.
Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche.
Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le persone in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa.
Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto.
Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).
Meditazione L’annotazione temporale di Gv 20,1, con cui inizia il testo evangelico proclamato nel giorno di Pasqua, ci offre un simbolico aggancio con la veglia notturna in cui abbiamo ripercorso il cammino della storia della salvezza per giungere a contemplare il volto del Cristo risorto.
L’annuncio pasquale è risuonato in tutta la sua straordinaria forza e ha squarciato le tenebre: «Cristo è risorto dai morti – così canta il tropario della liturgia bizantina – e con la morte ha calpestato la morte, donando la vita a coloro che giacevano nei sepolcri».
Ora siamo anche noi nel «primo giorno della settimana» e come credenti siamo chiamati ad entrare nel dinamismo di questo giorno che segna il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce: «la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo…
– canta il salmo 117 – Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo».
La liturgia della Parola di questo giorno richiama con forza la nostra realtà di testimoni del Risorto: la Pasqua di Cristo, quel giorno mirabile che solo il Signore ha potuto fare, diventa il ritmo del nostro tempo.
Camminare così nella esistenza quotidiana è veramente passare dalla morte alla vita, è fare Pasqua ogni giorno e vivere sempre radicati sul terreno della nostra fede.
Potremmo allora cogliere nelle tre letture altrettante modalità che caratterizzano la testimonianza del discepolo di Cristo in rapporto alla fede pasquale: una testimonianza che diventa annuncio (At 10,37-43), una testimonianza che si trasforma in attesa (Col 3,1-4) e una testimonianza che si nutre di fede (Gv 20,1-9).
La testimonianza che Pietro offre nella casa del pagano Cornelio è mediata da una parola proclamata, gridata, da un annuncio: «questa è la Parola che egli ha inviato ai figli di Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti» (At 10,36).
La parola inviata e l’evangelo della pace hanno un volto: Gesù.
E Pietro concentra la sua attenzione sul racconto di Gesù, un vangelo in miniatura in cui vengono scandite le tappe essenziali della vicenda terrena di Gesù di Nazaret, «il quale passò beneficando e risanando…
perché Dio era con lui» (v.
38).
Il nucleo centrale di questo evangelo è scandito da tre verbi che rivelano la dinamica del mistero pasquale (il centro del kerigma proclamato dalla comunità apostolica): «lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che si manifestasse…
a testimoni prescelti da Dio, a noi…» (vv.
39-41).
L’incontro personale con il Risorto (che Pietro caratterizza attraverso una comunione di mensa: «abbiamo mangiato e bevuto con lui», v.
41) dona autorevolezza alla testimonianza e questa diventa il fondamento dell’annuncio: «ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (v.
42).
Si diventa annunciatori del Risorto e della sua signoria sulla storia, della vita nuova che egli comunica, solo perché si è testimoni di Lui.
Ma nella vita quotidiana del credente, la testimonianza del Risorto acquista una paradossale profondità: si trasforma in quella luminosa promessa espressa con la parola di Paolo in Col 3,3-4: «…voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio.
Quando Cristo vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria».
Commentando questo versetto, D.
Bonhoeffer dice: «Vicinissimo a noi, là dove, nel suo maestoso nascondimento, Dio è tutto in tutto, dove il Figlio siede alla destra del Padre, là, il miracolo dei miracoli, si trova preparata la nostra vera vita.
La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio: sì, noi viviamo già come a casa nostra, al cuore stesso del nostro esilio».
Paolo indica così al credente in quale direzione deve orientare la propria esistenza, la propria ricerca, in quale luogo deve fissare lo sguardo del proprio cuore: «se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù…
rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (vv.
1-2).
Noi sappiamo che il nostro sguardo si lascia catturare e trascinare verso il basso: ed è proprio lì che noi incontriamo i tanti luoghi di morte che riempiono i nostri occhi e il nostro cuore di tristezza.
E alla fine, procedere con gli occhi bassi vuol dire camminare senza direzione.
È necessaria una meta su cui fissare lo sguardo.
E Paolo ci dice che questa meta è in alto, verso un luogo simbolico, lì «dove è Cristo seduto alla destra di Dio» (v.
1), lì dove il Signore Gesù ci ha preparato un posto, nella casa del Padre.
Cercare le cose di lassù vuol dire desiderare questo luogo di comunione, sentirlo come la nostra vera casa, dove siamo figli liberi e amati.
Il testo di Gv 20,1-9 ci presenta tre modi di reagire di fronte a un segno misterioso: la tomba vuota.
In modi differenti ci offrono una testimonianza che precede l’incontro con il Risorto, una testimonianza che si radica sulla fede.
Maria di Magdala è la prima che si avvicina al sepolcro «quando era ancora buio» (v.
1 ).
È la prima che ha il coraggio di lasciarsi provocare da una realtà che conserva ancora tutta la dimensione dell’assurdo e dello scandalo.
Maria è stata ai piedi della croce; ha resistito di fronte allo spettacolo della croce, ha sopportato il silenzio della morte (cfr.
19,25).
È ancora buio attorno a lei: c’è ancora pau-ra e angoscia, fallimento e incomprensione.
È ancora buio dentro di lei: c’è solitudine e smarrimento.
Ma Maria ha un desiderio: cercare il suo Maestro (cfr.
20,13.16).
E chi cerca ama.
E anche se il suo amore deve maturare nell’incontro con un volto inatteso e nuovo, diverso da quello che lei vorrebbe vedere e trattenere, tuttavia è vero amore: si sente coinvolta completamente da esso, sente che la sua vita è vuota senza la presenza di Cristo.
Pietro è il credente la cui fede è continuamente chiamata a compiere salti di qualità, a percorrere vie nuove; e per questo a volte fatica scontrandosi con la propria debolezza e la pro-pria presunzione.
Nel suo cuore c’è la ferita bruciante del rinnegamento: non ha saputo vegliare un’ora sola con Gesù, non ha sopportato la vista dello scandalo della croce.
Ma nel suo cuore c’è come una nostalgia: c’è il ricordo di quel giorno in cui, avendo avuto la possibilità di abbandonare il suo maestro, non l’ha fatto; anzi ha detto «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,69).
Ma, soprattutto, nel cuore di Pietro c’è il ricordo della fiducia che Gesù ha posto in lui: lo ha fatto testimone in mezzo ai fratelli, nonostante tutto! E dopo il rinnegamento, con il suo sguardo di perdono, Gesù rinnoverà questa fiducia (cfr.
21,15-19).
E ora Pietro corre con questi pensieri, con questa fede e questi dubbi, con queste paure ed esitazioni.
E forse per questo non riesce a correre forte: la sua corsa non è incerta, sa dove andare e sa cosa vuole vedere; ma questa corsa è appesantita, affaticata.
Ha bisogno di incontrare nuovamente quello sguardo dal quale aveva avuto inizio il suo cammino e con il quale verrà nuovamente confermato nella sua fede.
Ed infine, il discepolo amato.
È colui che sa vedere e per questo crede.
La sua corsa è veloce; è la corsa di chi ha lo sguardo interiore penetrante, di chi intuisce una novità, di chi si lascia abitare dal mistero.
Prima ancora di incontrare il Risorto, alla vista delle bende e del sudario, il suo sguardo va oltre: supera l’abisso dell’assenza, afferma, nel vuoto della tomba, che Cristo ha vinto ciò che appartiene al tempo, sa decifrare il linguaggio dei segni, scopre una misteriosa presenza.
E per que-sto diventa il testimone nella lunga attesa perché, con il suo sguardo che va oltre, potrà indicare ai discepoli questa presenza finché il Cristo ritorni (cfr.
21,22).
Maria, colei che ama; Pietro, il credente; il discepolo amato, colui che vede e vigila: tre modi diversi di camminare incontro al Risorto e di testimoniarlo nella fede.
Ma tutti uniti da un unico desiderio: quello dell’incontro.
E capaci di lasciarsi coinvolgere da questo incontro, capaci di essere testimoni della risurrezione; perché capaci di lasciare convertire la loro vita dal Risorto.
Non ogni esistenza è liberata dalla morte, sottratta dalla vanità, ma soltanto quella che ripercorre il cammino tracciato dal Crocefisso e Risorto; solo una vita donata conduce alla risurrezione.
Una vita gelosamente trattenuta non vince la morte, ma va incontro a una seconda morte.
A Pasqua si celebra la vittoria di un preciso modo di vivere: di colui che ama il Risorto, di colui che crede nel Risorto, di colui che sa vedere oltre, nella luce del Risorto.
The Secrets of Kells
Il regista, Tomm Moore, trentatreenne illustratore e disegnatore di fumetti, ha parlato della genesi e del significato di The Secrets of Kells durante un’intervista concessa al nostro giornale.
Il film ha richiesto una vasta ricerca che ha ovviamente incluso anche lo studio del vero Libro di Kells, un manoscritto miniato dei quattro vangeli che è considerato il più raffinato manufatto culturale irlandese; oggi è esposto al Trinity College di Dublino, ma, originariamente, era custodito nel monastero fondato da san Columba, l’abbazia di Kells, appunto, dove è ambientata la storia.
Combinando storia, fantasia e mito lo staff di Moore ha voluto dimostrare l’importanza di conservare una tradizione preziosa; il risultato è un viaggio onirico che parla di sacrificio, di forza ottenuta tramite la sofferenza, la riconciliazione e la speranza.
Temi che emergono quando la frase chiave del film, “trasformare l’oscurità in luce” si intreccia con la storia: “Abbiamo tratto quest’espressione da una poesia che un monaco scrisse sul suo gatto Pangur Bán e si tratta di una traduzione dall’antico gaelico.
La scrisse in un angolo del Vangelo che stava miniando.
Diceva che come il suo gatto cercava i topi, lui cercava le parole; entrambi lavoravano per tutta la notte per trasformare l’oscurità in luce”.
Le avventure che Brendan vive lo portano ad affrontare l’oscurità che scopre fuori, ma anche dentro di sé.
Mentre il ragazzo è combattuto fra il restare nella foresta e il lasciarla, Aidan lo rassicura sull’importanza e la necessità di conoscere il mondo esterno: “Ho perso tanti fratelli, ora ho solo il Libro a ricordarmeli, ma se i miei fratelli fossero qui ora ti direbbero che imparerai di più nella foresta che in qualsiasi altro luogo.
Assisterai a miracoli”.
Nella foresta, il nemico di Brendan assume la forma di Crom Cruach, leggendaria divinità irlandese pre-cristiana alla quale i pagani offrivano sacrifici umani nella speranza di ottenere buoni raccolti.
Nel film, Crom è una sorta di serpente che si morde la coda, un Uroboro.
“Un simbolo – spiega Moore -, che si trova molto spesso nel Libro di Kells indicava la vita eterna ed era utilizzato spesso in Irlanda nel periodo di transizione dalla fede pagana a quella cristiana.
Abbiamo deciso di rendere Crom molto astratto per far capire che Brendan lotta più contro le sue stesse paure che contro una divinità pagana.
Si tratta del viaggio di Brendan nel proprio subconscio; dove deve lottare con le proprie paure per uscirne alla fine trionfante e con un’altra visione delle cose”.
Brendan che sconfigge la creatura misteriosa ricorda san Patrizio che, si diceva, aveva sconfitto Crom Cruach, ponendo fine al paganesimo nel Paese.
Se Brendan può essere accostato a san Patrizio allora forse gli illustratori del film si possono paragonare ai miniatori del Vangelo.
“Mentre studiavamo il Libro di Kells – continua Moore – molti sottolineavano il fatto che la sua creazione deve aver richiesto una notevole capacità di meditazione.
I monaci dovevano essere completamente calmi e concentrati, perché è quasi impossibile immaginare come abbiano potuto creare certi dettagli con gli strumenti rudimentali di cui disponevano a quel tempo”.
Ugualmente meticolosa è stata la creazione di un film animato in 2d come questo, disegnato per il 95 per cento a mano e prodotto “senza costosa attrezzatura informatica.
La gente sta dimenticando quanto sia magico il fatto che si può dare vita a qualcosa solo con una matita e un foglio di carta”.
Il regista ha spiegato che ogni secondo di animazione ha richiesto circa una dozzina di disegni per personaggio e sfondi estremamente elaborati (per un’idea dello stile grafico del film, si veda il sito www.thesegretofkells.com).
“Abbiamo impiegato quattro anni, lavorando a tempo pieno per la produzione del film, ma, prima ancora, ne abbiamo impiegati sei per sviluppare l’idea e il soggetto”.
I disegnatori hanno incluso monaci diversi – italiani, africani e mediorientali – non a caso; la scelta dei personaggi deriva direttamente dallo studio del Libro di Kells, decorato anche da disegni orientali.
Gli autori hanno immaginato che monaci provenienti da tutto il mondo avessero lavorato al Libro.
“Secondo molti studiosi, l’Irlanda dell’epoca era una sorta di rifugio e la biblioteca di Kells uno dei pochi ripari esistenti in quel difficile momento storico.
L’Irlanda divenne famosa come terra di santi e studiosi; durante quel periodo, infatti, molte persone vi giunsero per studiare e lavorare perché restare sul continente era troppo pericoloso”.
Il personaggio preferito di Moore è Aisling, una ragazzina che sembra un folletto; in lei c’è tutta l’energia della giovinezza unita a una saggezza senza tempo, una mescolanza di letteratura e vita reale.
“Quello di Aisling è un personaggio che si ritrova spesso nella produzione poetica irlandese del diciottesimo secolo, dove l’Irlanda è rappresentata da una bella donna, molto serena, che appare al poeta in sogno.
Infatti, in gaelico aisling significa “sogno”.
Abbiamo deciso di modificare la tradizione e di fare di Aisling una ragazzina birichina piuttosto che una sobria figura matriarcale”.
Moore ha basato il rapporto fra Brendan e Aisling su quello fra lui e sua sorella: “Le assomiglia anche un po’, solo che Aisling ha i capelli bianchi!”.
Mentre il film comincia ad attirare folle da record negli Stati Uniti, il “segreto” viene esplicitamente svelato dal personaggio del vecchio miniatore: “Il Libro – dice padre Aidan a Brendan, destinato a divenire abate di Kells -: non è stato scritto per essere tenuto nascosto dietro delle mura, lontano dal mondo che ha ispirato la sua creazione devi far conoscere il Libro alle persone cosicché possano sperare.
Permetti alla luce di illuminare questi giorni bui!”. di Tania Mann (©L’Osservatore Romano – 24 marzo 2010) ”Ho visto il dolore nell’oscurità, ma ho anche visto la bellezza prosperare nei luoghi più fragili.
Ho visto il Libro, il Libro che ha trasformato l’oscurità in luce”; The Secret of Kells si apre con queste parole sussurrate.
Il film indipendente prodotto a Kilkenny, in Irlanda, è stato una delle sorprese delle nomination all’Oscar di quest’anno.
È stato candidato come miglior film di animazione contro campioni di incasso come Up della Disney-Pixar e Fantastic Mr.
Fox di Wes Anderson.
La trama del film è ambientata nell’Irlanda del ix secolo e si incentra sulla figura del dodicenne Brendan, un orfano irlandese che vive in una comunità di monaci dediti alla miniatura, ovvero all’arte di illustrare e abbellire i testi evangelici.
Le avventure di Brendan cominciano quando un anziano miniatore un po’ strambo di nome Aidan arriva con il suo gatto Pangur Bán.
Il monaco è noto per la sua opera su un famoso manoscritto greco del leggendario san Columcille (san Columba); viene a cercare riparo dopo essere sfuggito alle incursioni vichinghe che hanno distrutto il suo convento a Iona.
Brendan, spinto dalle richieste di Aidan, parte alla ricerca di bacche per inchiostro e si avventura oltre le mura fortificate del villaggio contro la volontà del severo zio, l’abate di Kells.
Nella foresta incontra Aisling, la briosa e chiassosa ragazzina che lo accompagnerà nel suo viaggio
V Domenica di Quaresima Anno C
V DOMENICA DI QUARESIMA Lectio Anno c Prima lettura: Isaia 43,16-21 Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi».
v Il brano fa parte del secondo Isaia, la cui raccolta comprende i capitoli 40-55, divisi in due serie di vaticini: gli inni di JHWH e di Israele (40-48) e gli inni di Sion Gerusalemme (49-55).
Il testo della lettura descrive la restaurazione di Israele come un nuovo esodo che supera in grandiosità quello dell’Egitto.
La pericope contiene una sintesi dei principali temi del profeta.
Israele celebra sempre i prodigi dell’antico Esodo come il passaggio del Mar Rosso e la sconfitta degli Egiziani; quei prodigi non sono nulla in confronto a ciò che Dio sta preparando: gli esiliati ritorneranno direttamente attraverso il deserto, trasformato in oasi.
Le immagini della descrizione profetica sono molto belle.
Il profeta ha il dono di far rinascere la speranza.
L’inizio allude all’esodo dall’Egitto; le nuove gesta che stanno per essere descritte ne sono una sublimazione.
«Non ricordate più le cose passate» è espressione che segna il transito dal passato al futuro immediato; il ricordo è di per sé legge fondamentale; ricordare, trasmettere di generazione in generazione, proclamare le azioni di Dio; da questo nasce il senso della storia; però la memoria non deve essere una fuga psicologica nostalgica verso il passato ma deve aprirsi verso il futuro: è la profezia; la memoria si cambia in speranza; il paradosso della descrizione sottolinea la superiorità dell’avvenire e prepara gli uditori a farne l’esperienza: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (Is 43,19-20).
La cosa nuova che sta germogliando, che Dio sta operando è la fine della prigionia; si tratta di un evento inatteso, senza precedenti; il nuovo prodigio sarà mirabile; come nell’esodo antico il mare era stato reso asciutto, così ora il deserto riceverà fiumi di acqua, così che tutti potranno essere dissetati.
Anche le bestie selvatiche saranno pacificate; il paradiso degli animali è la raffigurazione della giustizia che regnerà nel mondo.
La frase finale: «Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi» rivela che il nuovo esodo non produce una condizione magica di salvezza; la storia continua; la proclamazione della lode ha significato soltanto in un progresso storico.
Seconda: Filippesi 3,8-14 Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore.
Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù.
Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata.
So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
v Il tratto della lettura si trova nel punto in cui san Paolo polemizza contro i Giudei o i Giudeocristiani, che ritengono indispensabile la pratica della circoncisione anche per chi crede in Cristo.
Ora la nuova fede è unione totale a Cristo nella più grande libertà spirituale.
Anche la più scrupolosa osservanza della legge è solo pratica umana, che appartiene alla sfera della carne.
L’incontro di Paolo con Gesù è il suo unico centro di orientamento e di interesse; tutto il resto non vale.
San Paolo, che apparteneva all’ebraismo, ha reputato i vantaggi che gliene potevano provenire come una perdita a confronto del guadagno della persona di Gesù Cristo che egli ha incontrato.
La conoscenza di Cristo accordata all’apostolo sulla via di Damasco ha iniziato un rapporto tra lui e Cristo che è infinitamente superiore a tutti i privilegi del passato.
Ciò che prima egli teneva in grandissima considerazione ora è diventato come spazzatura, come immondizie.
Lo scopo è guadagnare Cristo; ciò significa avere di lui non soltanto una conoscenza intellettuale, ma una comunione di vita intima; la quale viene significata con l’espressione: essere trovato in lui.
Questa identificazione mistica con Cristo fa si che l’apostolo è rivestito dalla giustizia della fede la quale proviene dal dono di Dio.
Le parole che seguono descrivono la relazione di Paolo con Cristo; egli desidera arrivare a conoscere la potenza della sua risurrezione, ad avere la partecipazione alla sofferenza del Signore per comunicare alla sua condizione di risuscitato.
Una tale tensione di assimilazione a Cristo non diventerà perfetta che al momento della morte: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore.
Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù.
Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata.
So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,8-14)».
Questa descrizione che san Paolo fa per se stesso costituisce la fenomenologia della vita di fede, della vita cristiana; essa è un continuo tendere alla meta più alta, mai raggiungibile perfettamente fin che siamo nell’esilio terreno; l’influsso di Cristo pone il credente nella situazione di assimilarsi a lui, di identificarsi in un certo modo con lui, nelle sofferenze e poi nella risurrezione di cui i sacramenti hanno già deposto il germe; l’ultimo traguardo sarà raggiunto dopo la vita terrena, nella esistenza futura.
Vangelo: Giovanni 8,1-11 In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi.
Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui.
Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa.
Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.
Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra.
Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed ella rispose: «Nessuno, Signore».
E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Esegesi Il brano della lettura che contiene il racconto dell’incontro di Gesù con la donna adultera, è collocato nella prima parte del vangelo, denominata: libro dei segni.
Tuttavia l’opinione comune degli studiosi è che questo racconto non sia giovanneo.
Esso infatti interrompe la sequenza dei discorsi tenuti nella festa delle capanne, è omesso da molti testimoni importanti, era sconosciuto ai santi padri e manca in molte versioni antiche.
Lo stile letterario è affine a quello di Luca e si pensa che probabilmente faceva parte del suo vangelo.
Una delle ragioni per cui può essere stato collocato qui sta nel fatto che l’episodio è una illustrazione di quanto Gesù dirà in Gv 8,15: «Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno».
I nemici di Gesù cercano di metterlo in difficoltà proponendogli un caso difficile, in modo che qualunque sia la sua risposta possa essere rivolta contro di lui.
«Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa.
Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (Gv 8,3-5).
È un caso di adulterio; la legge puniva di morte tale trasgressione.
Coloro che interpellano Gesù pensavano di avere buon gioco contro di lui; se avesse detto che la colpevole non doveva essere lapidata, l’avrebbero accusato come violatore della legge; se l’avesse condannata, si poteva accusarlo di durezza di cuore, di mancanza di misericordia.
Gesù di fronte alla proposizione del caso si mette a scrivere in terra; questo gesto ha dato luogo a molte congetture; con esso molto probabilmente il Signore intende mostrare il proprio disinteresse per quanto stava accadendo.
È caratteristico che Gesù si rifiuti di trattare il caso come una questione puramente legale; egli trasferisce il caso sul livello pratico; quando si trattava di una sentenza capitale il testimone a carico doveva essere il primo a dare inizio all’esecuzione secondo la prescrizione: «La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo» (Dt 17,7).
Gesù invita gli astanti a pensare anzitutto se la loro coscienza li proclama degni di essere giudici e condannatori: «Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (Gv 8,7-8).
Rendendosi conto della ineccepibilità della risposta di Gesù e avvertendo anche un senso di vergogna per avere cercato di sfruttare l’umiliazione di una donna allo scopo di mettere in difficoltà Gesù, gli accusatori si allontanano cominciando dai più vecchi.
A questo punto si delinea l’incontro tra Gesù e la donna; è l’incontro dell’innocenza con chi ha commesso peccato: la scena diventa una illustrazione plastica dell’invito al pentimento.
Dio odia il peccato e ama il peccatore; tale atteggiamento si attua in Gesù.
Il quale, benché non giudichi e non condanni, invita la donna a non peccare più: «Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed ella rispose: «Nessuno, Signore».
E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,9-11).
La legge condanna il peccato non perché gli uomini si giudichino a vicenda, ma perché essi sentano il bisogno di essere salvati da Dio.
Gesù porta in sé questa salvezza: odia infinitamente il peccato, ama infinitamente il peccatore.
Questo è possibile soltanto a Dio.
Meditazione Il volto di Dio che la parabola di Lc 15,11-32 ci ha rivelato nell’abbraccio accogliente del padre misericordioso (il testo evangelico della IV domenica di Quaresima) si riflette nello sguardo e nella parola che Gesù rivolge a una donna adultera in procinto di essere condannata alla lapidazione dagli scribi e dai farisei, secondo i dettami della legge mosaica.
Il perdono che Gesù offre a questa donna è come un cammino rinnovato, una rigenerazione, una possibilità inaspettata di salvezza.
Solo Dio ha il coraggio di dimenticare ciò che è passato e aprire «nel deserto una strada» (Is 43,19) che conduce al luogo della vita e della pace.
La parola di Gesù è come un balsamo che ridà alla donna peccatrice la forza per camminare nuovamente verso la vita: «neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).
Lo sguardo di quella donna, attraverso la potenza e la gratuità del perdono, è ormai proiettato verso un futuro carico di speranza; il peccato che la tratteneva prigioniera è alle spalle, è passato, è stato consumato dalla misericordia di Gesù.
Sulle labbra di quella donna si potrebbero porre le parole con cui Paolo esprime la dinamica della sua vita, ormai afferrata dall’amore di Cristo: «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta…
mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12-14).
Il racconto di Gv 8,1-11 è realmente una parabola che ci rivela la capacità di Dio di creare e rinnovare la vita dell’uomo.
La promessa di Dio ai deportati di Israele a Babilonia, riportata nel testo di Isaia (prima lettura), trova come una realizzazione personale nel cammino di vita che Gesù apre a una donna peccatrice: «Non ricordate più le cose passate – dice il Signore attraverso il suo profeta – non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19).
E sotto il segno della novità è, infatti, tutto l’episodio dell’incontro di Gesù con la donna adultera.
Sorprendentemente questa pericope, inserita nel racconto di Giovanni, ma mancante in molti manoscritti del quarto vangelo, ci è stata conservata come un racconto a se stante, irriducibile alle tradizioni evangeliche che noi conosciamo.
Pur presentando agganci con lo stile narrativo di Luca (si pensi all’episodio quasi speculare dell’incontro di Gesù con la peccatrice nella casa di Simone in Lc 7,36-50), questo racconto è carico di originalità, nella forma, ma soprattutto nel contenuto.
E probabilmente il comportamento di Gesù è apparso scandaloso alla stessa comunità cristiana, se ha faticato a inserirlo nel canone dei vangeli.
Certamente, in questo racconto si cammina sul filo del rasoio.
Si ha quasi l’impressione che la gravità di un comportamento moralmente negativo non venga presa in seria considerazione dalle parole di Gesù.
Ma tutto, in questo racconto, conduce a un luogo di rivelazione: il cuore di Dio colmo di compassione.
Si può allora dire – e questo di per sé è già un messaggio fondamentale – che l’agire inaudito di Gesù, il perdono e la misericordia che emergono nell’incontro con i peccatori, sono il riflesso di quel volto di Dio a cui la stessa comunità cristiana è chiamata a convertirsi.
Il testo di Gv 8 diventa come una icona che deve plasmare e motivare non solo il cammino personale di conversione, ma la prassi ecclesiale di fronte a ogni peccatore.
Anche la comunità dei credenti deve incessantemente mettersi alla scuola di Colui che ha detto: «voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno» (Gv 8,15).
Possiamo cogliere il centro del racconto proprio a partire da Gesù, dal suo sguardo su coloro che gli stanno di fronte (gli scribi, i farisei, la donna adultera), dalle sue parole, dai suoi silenzi (essenziali e autorevoli), dai suoi gesti, misteriosi ed eloquenti allo stesso tempo.
Parole, silenzi, gesti, sguardo, hanno il peso del giudizio di Dio e, nella misura in cui vengono accolti e lasciati macerare nel cuore, aprono l’orizzonte interiore spostando il nostro sguardo dalla realtà del peccato (che non viene assolutamente minimizzata) al volto stesso di Dio.
E ancora una volta ci viene rivelata l’autentica traiettoria della conversione, la forza che permette un cammino di liberazione dal peccato: il perdono inaspettato e totalmente gratuito di Dio.
E in questa dinamica di liberazione, in questo paradossale esodo interiore, sono invitati a entrare sia la donna adultera che gli scribi e i farisei.
Ci soffermiamo soprattutto sul confronto tra Gesù e gli scribi e i farisei.
Coloro che conducono davanti a Gesù una donna, colta in flagrante adulterio, possiedono già una chiave di lettura della situazione in cui quella donna è stata coinvolta.
Si tratta della legge di Mosè, un testo della Scrittura che prevede una soluzione drastica per questa sorta di peccato: la lapidazione (cfr.
Lv 20,10 e Dt 22,21).
La sicurezza di questi uomini (hanno la parola di Dio dalla loro parte) contrasta con il fatto che esigono da Gesù un coinvolgimento, un’interpretazione del caso.
Perché rivolgere a Gesù quella domanda – «ora Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare donne come questa.
Tu che ne dici?» (v.
5) – quando il ‘caso’ era già risolto nella Legge? C’è forse un desiderio di uscire dalle strettoie legalistiche per percorrere una via nuova oppure c’è l’intenzione di mettere alla prova Gesù, metterlo in contrasto con Mosè? Questi maestri si aspettano che Gesù rompa il silenzio iniziando la sua risposta con quella parola che spesso hanno udito: «Mosè vi ha detto…
ma io vi dico…».
Ciò che Gesù fa, invece, è sorprendente e mette costoro con le spalle al muro.
In due successivi momenti, ritmati dal silenzio e dalla parola, Gesù riesce a creare il vuoto attorno a questi uomini e, quasi sospendendoli su di esso come su di un abisso, li obbliga a spostare lo sguardo sul loro cuore, sul loro comportamento, sul loro modo di giudicare, sul loro modo di rapportarsi a Dio.
E tutto avviene attraverso un gesto e una parola.
Un gesto misterioso ripetuto due volte, un gesto che ha suscitato molte interpretazioni: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra…
e chinatesi di nuovo, scriveva per terra» (vv.
6,8).
È un gesto profetico, simbolicamente carico della forza del giudizio di Dio su ogni uomo, un gesto che potrebbe tradurre questa parola di Geremia: «coloro che si allontanano da me, saranno scritti per terra» (Ger 17,13).
Gesù non pronuncia alcun giudizio contro questi uomini così sicuri della loro giustizia; li rimanda al tribunale della loro coscienza perché in esso facciano la verità.
E la parola che finalmente Gesù pronuncia, rompendo quel silenzio carico di attesa, è come una spada che penetra nel cuore di questi uomini: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v.
7).
Gesù non nega il giudizio di Dio o la Legge e neppure chiede pietà per la donna, scusandola o difendendola per un peccato che sicuramente ha commesso; vuole che ciascuno rivolga il giudizio della parola di Dio anzitutto verso se stesso.
Adulteri o no, tutti siamo peccatori e bisognosi di conversione e di perdono.
Gesù vuole che il giudizio di Dio sia di Dio, non dell’uomo; l’uomo non può arrogarsi questo diritto.
E in Dio il giudizio non è mai senza una possibilità di salvezza, perché Dio non vuole la morte ma la vita.
E il cerchio mortale attorno a quella donna viene così spez-zato, aprendosi alla vita: «quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (v.
9), «accusati dalla loro coscienza», come aggiunge un manoscritto.
Ora Gesù è solo di fronte alla donna adultera.
E per quella donna la solitudine del peccato che quasi la rendeva anonima (è semplicemente una ‘adultera’; è identificata con il suo peccato, è prigioniera di esso) si apre all’incontro con la misericordia.
Con una espressione lapidaria, sant’Agostino così dice: «rimasero solo loro due: la misera e la misericordia».
E il dialogo tra Gesù e quella donna rivela la profondità del cuore di Dio: è un dialogo in cui ogni parola trasmette compassione, pace, libertà, gioia; un dialogo in cui ogni parola è carica della serietà dell’amore di Dio e attende dall’uomo una risposta responsabile e fedele.
La parola di Gesù non è la parola di chi semplicemente invita a dimenticare e a fuggire un passato fatto di morte e di schiavitù, ma una parola che impegna a guardare la propria vita con serietà, con gli occhi di Dio, e ad aprirla a un orizzonte di grazia e di misericordia.
Quella donna perdonata perché non condannata ma salvata («neppure io ti condanno»), d’ora in poi dovrà vivere in conformità con la liberazione ricevuta («va’ e d’ora in poi non peccare più»).
L’essere perdonati gratuitamente, senza condizioni, è la forza per riprendere il cammino.
Possiamo mettere sulle labbra di questa donna, sulle nostre labbra di peccatori perdonati, queste parole tratte dal Sal 103,10-14 e dal Sal 32,1.11: «Il Signore non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe…
egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere»…
«Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato…
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, ridete di gioia».