Un futuro da paura Per uno strano caso, il film impressionante e deprimente come pochi: The Road di John Hillcoat, presentato alla 66.ma Mostra di Venezia, accolto con applausi s John Hillcoat,croscianti da chi ha avuto la fortuna di vederlo, ma subito sparito non essendo una pellicola che lascia speranze, grazie alla VIDEA-C.D.E, è uscito nei cinema il 28 maggio 2010, quasi in contemporanea con il disastro ambientale americano, contro cui stanno combattendo la Louisiana, il Mississippi,la Florida e l’Alabama, non escludendo il Golfo del Messico dove vivono più di mille delfini.
La pressione degli ambientalisti sta diventando sempre più forte presso tutti i governi e le previsioni degli scienziati che non danno al nostro pianeta più di 80 anni di vita, non sono più qualcosa di fantascientifico di cui non tenerne alcun conto.
La terra è destinata a scomparire: non si sa come avverrà l’apocalissi, ma avverrà.
Ed ecco che un film come The Road di John Hillcoat, vuole preparare la gente al peggio.
Anche se molti preferiscono tordirsi con gli infimi spettacoli televisivi..
Maria & Elisa Marotta L’intervista
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Cardinale Philippe Barbarin, vescovo di Lione: “Questo choc è destabilizzante, ma sarà proficuo”
L’intervista Come vive l’accumularsi, da qualche settimana, di rivelazioni su casi di preti pedofili? Come un ascesso che bisognava far scoppiare.
È una buona cosa che tutto ciò possa alla fine venire a galla, perché per le vittime si tratta di una ferita gravissima.
Finalmente riescono ad esprimere quella sofferenza, ad uscire dalla prigione interiore nella quale erano rinchiuse.
È un primo passo verso la libertà.
Anche per la Chiesa era necessario far scoppiare l’ascesso, e altri ambiti della società avviano decisamente lo stesso percorso.
Se questo potesse permettere di mostrare la verità sul disastro della pedofilia, sarebbe una buona cosa per tutti.
Questo fenomeno è intollerabile e le sue conseguenze sono molto più profonde e durature di quanto si immaginava.
È terribile pensare che le vittime abbiano tenuto così a lungo questo dramma nel cuore.
Se le cose fossero state dette prima, quelle persone avrebbero potuto costruire una vita coniugale, affettiva e familiare tranquilla ed equilibrata.
Quanto ai colpevoli, è bene anche per loro che le cose vengano alla luce.
Guardi che cosa è successo ad uno degli ultimi preti accusati: la sua reazione, dopo aver riconosciuto i fatti, è stata di dire quanto tale ammissione fosse stata per lui un sollievo.
Lo stesso per il vescovo di Bruges.
Il peso della colpa diventava insopportabile e minava tutta la loro vita.
Lei ha la sensazione che la Chiesa sia perseguitata dai media, in questa faccenda? No, credo piuttosto che sia umiliata sotto lo choc.
Le persone sono veramente scandalizzate quando i pedofili sono dei preti, e hanno ragione! Tali atti sono sempre ripugnanti, che siano commessi in famiglia, a scuola o nell’ambiente dello sport…, ma lo sono doppiamente quando i colpevoli sono dei preti, la cui missione è di annunciare Cristo e la gioia del Vangelo.
Certo, per il peccatore ci sarà sempre una porta di misericordia, ma prete e pedofilo sono due parole incompatibili.
La Chiesa è “umiliata”, lei dice.
È una grave crisi? Ripensi alla frase usata da Benedetto XVI nella Lettera ai cattolici irlandesi: parla di quei casi di pedofilia che “hanno oscurato la luce del Vangelo ad un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione”.
È eloquente…
ed effettivamente, è spaventoso; eppure ce ne sono stati, di tradimenti e di contro-testimonianze, nella Chiesa, in venti secoli di storia! Ma si percepisce quanto il papa sia colpito, vive questi avvenimenti come una prova terribile.
A Lione, parlando durante un consiglio episcopale, uno di noi faceva notare che è peggio della serie di crisi che si sono succedute lo scorso anno, dove comunque eravamo già notevolmente sconvolti.
Perché? Perché, questa volta, viene introdotto un sospetto profondo sulla totalità del corpo sacerdotale: i genitori pensano ai loro figli, evidentemente, e certi hanno perso la fiducia nella Chiesa.
Eppure, constato che ciò non cambia niente sul territorio: quando vado in visita pastorale, le persone mi dicono quanto amino il loro parroco, come siano contenti di ricevere il vescovo, perché la Chiesa è veramente per loro una famiglia.
Lei ricorda di aver già conosciuto personalmente dei periodi così bui per la Chiesa? Nella mia storia, mi sembra che la crisi degli anni ’70, in cui un numero notevole di preti se ne sono andati, è stata anch’essa molto dolorosa.
Non si osa ancora parlarne, perché si tratta di una ferita profonda.
In Francia c’erano circa 40 000 preti e, in dieci anni, tra gli 8000 e i 10000 hanno lasciato il ministero.
Un salasso incredibile! Io sono stato ordinato prete in quel periodo e avevo la sensazione che certi mi guardassero chiedendosi: “E quello lì, resisterà o no?” Che cosa dice ai preti che incontra oggi, su questi temi? Dobbiamo ritrovare una parola di verità nella fraternità dei preti e con i seminaristi.
Chi può vantarsi di avere una sessualità perfetta? Come il denaro e il potere, anche la sessualità è un luogo di vita fondamentale, ma anche un campo fragile e spesso incasinato.
Ora, la perversione della pedofilia risveglia tutto ciò che non è chiaro in noi.
E, improvvisamente, abbiamo paura.
Penso che si debba parlare con semplicità e in verità.
Sta a noi considerare in maniera nuova, alla luce del Vangelo, il rapporto con il nostro corpo e con il corpo degli altri, e di darci dei punti di riferimento concreti.
Quando si vive un grosso choc, tutti i problemi di fondo vengono a galla; è una cosa destabilizzante, ma sarà proficua.
Per noi preti, che collaboriamo e viviamo in una grande prossimità con uomini, donne e giovani, è essenziale essere realisti sul coinvolgimento affettivo di tutti questi contatti.
Siamo lucidi sui tumulti della nostra sessualità, e prudenti con noi stessi? Ritrovare le parole per parlare “del coraggio della castità” – è il titolo di un libro recente – , è un bel cantiere di riflessione e di preghiera.
Non pensa che i preti siano troppo soli? Il Vangelo chiama alla solitudine.
Ma questo non ha nulla a che vedere con l’isolamento, le cui conseguenze sono spesso nefaste.
Attenzione a non confondere le cose.
Sì, bisogna proporre ai preti di vivere in gruppi di fraternità per combattere l’isolamento.
Ma quando si parla di pedofilia, si sa purtroppo che i colpevoli vivono sia soli che con altri, ad esempio in famiglia.
Coloro che stavano con loro ogni giorno non sospettavano quello che vivevano né i crimini che commettevano.
Il vero perverso inganna le persone del suo ambiente…
Se si vede quello che è successo con padre Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo, è inimmaginabile! Come hanno potuto le persone a lui vicine essere ingannate a quel punto e non vedere niente? Eppure, è così; era venerato come “un santo padre fondatore”! Come possiamo comprendere il silenzio di cui spesso si è resa colpevole la Chiesa per questi casi di preti pedofili? Non pensa che tutta la società si trovava in questa situazione? I vari corpi sociali hanno reagito in maniera diversa su queste faccende? Oggi, tutti si svegliano, ma solo qualche decennio fa, non si aveva idea del disastro che questo provocava per le vittime.
Sono ferite fin dall’infanzia e per tutta una vita; è la radice profonda del loro essere che è stata colpita.
Tutto ciò veniva coperto con un gran velo di silenzio, accontentandosi di fare degli spostamenti di qui o di là.
Nella Chiesa francese, questo tabù è caduto dieci anni fa, quando la Conferenza episcopale ha affrontato il problema a Lourdes, nel novembre del 2000.
È là che ho capito che non era un peccato come gli altri, che questi atti lasciavano poi un disgusto di se stessi, una ferita incredibilmente intima e duratura.
In questa occasione è stato nuovamente posto il problema del celibato dei preti.
Non bisogna collegare celibato e pedofilia.
Trovo indecenti che certi si servano di certi drammi per rimettere di nuovo in discussione il celibato dei preti.
Tutti sanno che l’immensa maggioranza dei casi di pedofilia avviene all’interno delle famiglie.
È molto doloroso, ma non per questo si sopprimeranno il matrimonio e la famiglia! Quanto al celibato – e il cardinal Bertone lo ha ridetto alcuni giorni fa a Barcellona – il problema può essere posto.
Del resto lo è stato, fin dal primo Sinodo presieduto da Benedetto XVI, nel 2005.
Se la Chiesa riterrà opportuno cambiare la disciplina attuale, non sarà per la pressione sociale o mediatica.
I Dieci Comandamenti anche per chi non crede
Decalogo è un termine greco.
Vuol dire dieci (déka) parole (lógos).
In molti hanno scelto di tradurlo con «I Dieci Comandamenti», anche perché in ebraico «parola» (davar) è sinonimo di comandamento.
La Bibbia riporta due versioni, sostanzialmente omogenee, delle frasi che Mosè ascoltò sul Sinai e che furono incise sulle Tavole della Legge.
Si trovano in Esodo 20, 1-6 e in Deuteronomio 5, 6-10.
Nella tradizione cattolica — che si discosta da quella ebraica e, tra l’altro, anche dalla protestante, più aderenti al testo biblico — Agostino distinse i tre Comandamenti iniziali dai successivi sette, attribuendo ai primi i doveri verso Dio e agli altri quelli verso gli uomini.
Ma la codificazione del Decalogo dei catechismi cattolici venne formulata, dopo diverse proposte scolastiche (Pietro Lombardo, Tommaso d’Aquino eccetera), da Alfonso Maria de’ Liguori nel Settecento.
Il santo napoletano scelse i Comandamenti come sommario di tutta la teologia morale e cercò di riassumere in ogni proposizione un settore di vita.
Per esempio il sesto, «non commettere adulterio», non figura nella sua sistemazione ma viene allargato con il «non commettere atti impuri», comprendendo in tal modo tutta la morale sessuale.
Rileggere il Decalogo e interpretarlo nell’epoca che si sta vivendo, è stato un bisogno continuo dell’Occidente; era naturale che lo si dovesse fare anche nel nuovo millennio.
Per tal motivo il progetto de il Mulino, di rimeditare attraverso un duplice intervento i Comandamenti (compreso quello dell’amore per il prossimo, già enunciato in Levitico 19,18), merita la massima attenzione.
Il primo volume, dedicato a Io sono il Signore Dio tuo, frase che non può essere equiparata alle successive e introduce le Tavole della Legge, è firmato da Piero Coda e Massimo Cacciari.
Il percorso offerto dai due autori in queste pagine parte dalla semantica originaria del Nome per giungere alle riflessioni sul Deus-Trinitas.
Infinite le suggestioni e le riflessioni.
Se da un lato ci si deve confrontare con l’autopresentazione di Dio di Esodo 3,14 «Io sono colui che sono» (’ehjeh asher ’ehjeh), e che Piero Coda mostra in innumerevoli interpretazioni compresa quella che nacque dalla versione greca dei Settanta (ego eimi o on: si potrebbe rendere sino a «Io sono l’Essente»), dall’altro lato ci si chiede chi sia «l’Uno dell’Esodo».
E qui Massimo Cacciari sa dare il meglio di sé indicando le vie che consentono di avvicinarsi al «segreto del Nome divino», anche se resta «inafferrabile e ineffabile».
Sottolinea: «Non interessa tanto il Nome ma ciò che l’Essere di Dio può.
La sua natura è di essere, non di essere nominato, e di essere ponendo “fuori” di sé tutta la propria potenza».
Sulla frase «Non avere altri dei di fronte a me» (Esodo 20,3; Deuteronomio 5,7), il primo ordine di Dio del Decalogo, c’è una letteratura infinita.
Coda ricorda tra l’altro che Jhwh irrompe nella storia attraverso Israele e si propone come «l’imprescindibile garanzia della libertà dell’uomo»; Cacciari comincia il suo saggio chiarendo gli equivoci dei possibili politeismi e notando che anche quello pagano «ci appare ormai testimonianza di un passato irripetibile, capace al più di esercitare un fascino antiquario-letterario privo di qualsiasi valore religioso o filosofico».
C’è un’osservazione di Martin Buber che merita di essere ricordata: «La dottrina della unicità ha la sua ragione vitale non nel fatto che ci si formi un giudizio sul numero di dèi che ci sono e si cerchi magari di verificarlo, bensì nella esclusività che regge il rapporto di fede, come esso regge il vero amore tra uomo e uomo; più esattamente: nel valore e nella capacità totale insito nel carattere esclusivo…
L’unicità nel “monoteismo” non è, dunque, quella di un “esemplare”, ma è quella del partner nella relazione interpersonale, finché questa non viene rinnegata nell’insieme della vita vissuta» (Königtum Gottes, Opere II, München 1964).
Coda, inoltre, verifica la frase di apertura dei Comandamenti nel Nuovo Testamento; Cacciari dedica due attente riflessioni all’ Uno Essere e a L’Uno Signore dell’Essere utilizzando una notevole conoscenza dei testi filosofici e teologici.
Da Rosenzweig a Spinoza, da Nietzsche a Hegel, da Kant a Weber si muove indicando la lettura più vicina a noi.
Che aggiungere? Forse un’immagine che molti ricordano e che potrebbe essere una didascalia per questo primo volume.
Nel film hollywoodiano I dieci comandamenti del 1956, diretto da Cecil B.
De Mille, Ramesse (Yul Brynner) dice a Nefertari (Anne Baxter) al suo ritorno dal Mar Rosso, dopo aver inseguito gli ebrei e Mosè: «Il suo dio…
è Dio».
Coda e Cacciari ci aiutano a comprendere meglio queste parole.
in “Corriere della Sera” del 1° maggio 2010 Il progetto della casa editrice il Mulino dedicato a I Comandamenti sarà realizzato in 11 volumi.
Si tratta di una scelta che tiene conto anche dell’invito ad amare il prossimo, non presente nel Decalogo del Sinai ricevuto da Mosé, ma raccomandato già nel libro del Levitico (19,18) e ribadito con forza da Gesù nel Nuovo Testamento.
Oltre il libro che inaugura la serie di Massimo Cacciari e Piero Coda Io sono il Signore Dio tuo (pp.
164, € 12), che sarà in libreria il 6 maggio ed è presentato in questa pagina con un estratto dei due saggi (si intitolano rispettivamente Il pensiero più alto e Questo Dio per la libertà), sono previste le seguenti uscite: Non ti fari idolo né immagine con Salvatore Natoli e Pierangelo Sequeri, Non nominare il nome di Dio invano con Carlo Galli e Piero Stefani, Santificare la Festa con Massimo Donà e Stefano Levi della Torre, Onora il padre e la madre con Giuseppe Laras e Chiara Saraceno, Non uccidere con Adriana Cavarero e Angelo Scola, Non commettere adulterio con Eva Cantarella e Paolo Ricca, Non rubare con Paolo Prodi e Guido Rossi, Non dire falsa testimonianza con Tullio Padovani e Vincenzo Vitiello, Non desiderare la donna e la roba d’altri con Gianfranco Ravasi e Andrea Tagliapietra.
Chiuderà Ama il prossimo tuo con Enzo Bianchi e Massimo Cacciari.
Piero Coda: Il nome rivelato è come la sua firma Nella costruzione raddoppiata: «Io sono colui che Io sono», il predicato è identico al soggetto.
Essa può sottolineare un rafforzamento dell’ auto presentazione di Jhwh: «Io sono proprio chi Io sono».
Ma, più profondamente, insinua anche una riaffermazione della trascendenza e dell’incognito di Dio nel momento stesso del suo farsi presente: «Solo Io so chi Io sono».
È un invito a non fermarsi al Nome così come suona e che pure esprime quanto detto, ma a passarvi attraverso per lasciare che sia Dio a stabilire, mediante la memoria verbale del suo Nome, un rapporto vivo e personale di sé con noi.
Altrimenti si cade nella tentazione di volersi impadronire del Nome di Dio, e addirittura di farsene un idolo.
Per questo Jhwh comanda di non pronunciare invano il suo Nome e di non farsi di Lui immagine alcuna.
Dio si rivela – precisa Paul Beauchamp – mediante un significante che non fa parte dell’organizzazione interna al discorso, ma lo fonda come una firma.
«Io sono chi Io sono»: firma esterna al testo, dunque, benché ricorrente nel testo stesso.
Queste parole bucano la pagina, hanno cioè un risalto eccezionale.
Il Nome rivelato a Mosè mette così tutta la Bibbia sotto un’istanza alla prima persona, quella di Dio come soggetto libero e incatturabile che viene graziosamente incontro all’uomo chiedendogli a sua volta affidamento e fedeltà.
Massimo Cacciari: Non un precetto ma un’affermazione La prima Parola (il primo dei «deka logoi ») non si presenta nella forma di un precetto («miswa »), ma di un’affermazione, di una perentoria autoaffermazione: «Io sono Jhwh, tuo Elohim» (Esodo, 20,2).
Non si tratta di un comandamento, ma del necessario presupposto di tutta la Legge.
È infatti impossibile comandare di credere nell’esistenza di Jhwh.
E che senso avrebbe obbedire a ciò che venisse ritenuto un puro nome, cui nulla di reale corrisponde? Lo stesso Maimonide, che pure fonda sui principi dell’esistenza di Dio e della sua unità l’insieme della Legge, non li concepisce affatto come oggetto di fede, ma, anzi, come il risultato cui perviene la sana ragione, oggetto cioè di dimostrazione.
Questo «Io, proprio Io, Jhwh», creduto o riconosciuto che sia, non potrà mai essere il contenuto di un comando, e tuttavia la Legge, l’unica Legge (legge assolutamente universale, a tutti rivolta – tanto che l’antica tradizione rabbinica diceva essere stata dettata dal Signore in 76 lingue, così che ogni gente potesse comprenderla), divina tutta in quanto giusta in tutte le sue parti, nel suo stesso interno differenziarsi e articolarsi, la Legge che stabilisce le forme della relazione tra uomo e Dio, ne presuppone la Rivelazione.
Se la forza di quell’Io venisse meno, il Decalogo si ridurrebbe a «legge morale in noi», la Legge divina perderebbe il significato che deve assumere anche per la perfezione del vivere civile.
Le stesse norme che suonano semplicemente etiche o cultuali debbono sempre essere comprese alla luce della Rivelazione del Nome.
V domenica dopo Pasqua Anno C
V DOMENICA DI PASQUA Lectio Anno c Prima lettura: Atti 14,21-27 In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.
Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto.
Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.
v Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio.
Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.
Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett.
confermare) nella fede i discepoli.
«Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf.
At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13).
Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf.
Lc 22,32).
Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli.
Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.
Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni».
È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare.
Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno.
Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…
Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio.
Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede.
Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf.
At 14,27).
Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5 Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.
E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
v La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni.
Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio.
I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione.
Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.
Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova.
Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi».
Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf.
66,22).
«Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».
La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova».
In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio».
La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso.
Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica.
Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.
La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf.
Is 52,1; 61,10).
Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile.
Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda».
Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto.
La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare.
La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.
Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf.
Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).
Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-35 Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui.
Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi.
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri.
Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Esegesi Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.
Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito.
In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.
I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.
La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria.
I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf.
Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;).
Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54).
C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre.
«Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28).
«Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).
Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione.
Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23).
Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre.
Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita».
«Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.
«Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati».
Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso».
Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova.
La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.
Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (tekvìa).
Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf.
Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti.
Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.
Meditazione Il passo evangelico di questa domenica inizia facendo menzione dell’uscita di scena di Giuda, il traditore.
Poco prima, al versetto immediatamente precedente, Giovanni annota in maniera icastica: «Ed era notte» (13,30).
È scesa la notte del rifiuto e del tradimento e Giuda, uscito dalla sala del banchetto, esce anche dallo spazio di quell’amore che tutto avvolge, che tutto illumina, che tutto in sé integra.
La luce dell’amore di Gesù è troppo forte per Giuda ed egli, non potendola sopportare, preferisce ‘tuffarsi’ nel buio della notte, là dove le tenebre ricoprono ogni cosa e stendono un velo anche sulla verità del proprio cuore (cfr.
Gv 3,19-20!).
Può sorprendere che proprio nel momento in cui Giuda esce per consumare il suo tradimento Gesù dica: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (13,31).
Come può Gesù parlare di ‘glorificazione’ di fronte alla tragica perdita di un discepolo? Non bisognerebbe forse parlare di sconfitta e di fallimento? È infatti uno dei Dodici che se ne va, uno del gruppo per il quale Gesù aveva speso le sue migliori energie cercando di farne una comunità di fratelli, una comunità che fosse segno esemplare di un nuovo modo di tessere relazioni, di un nuovo modo di agire e di vivere.
Il tradimento di Giuda intacca profondamente la coesione e il legame che Gesù si era da tempo impegnato a costruire e, certamente, per lo stesso Gesù non deve essere stato facile accettarlo.
Al riguardo, Giovanni ci fa notare che «Gesù fu profondamente turbato» (13,21), rimane sconvolto, allo stesso modo con cui lo era stato per la perdita dell’amico Lazzaro (cfr.
11,33, dove ricorre lo stesso verbo: tarássō).
Ogni volta che un’amicizia viene tradita, ogni volta che una comunione viene infranta, ogni volta che una relazione viene ferita mortalmente, si sta davvero male e grande è il dolore da portare…
Eppure Gesù, anche in questa situazione di profonda sofferenza e tristezza, continua a porgere la mano, continua a mostrare la sua amicizia a Giuda offrendogli il boccone dell’accoglienza e della comunione (cfr.
13,26), continua ad amare fino in fondo.
È in questo che sta la glorificazione: in quest’amore capace perfino di integrare il tradimento, di assumerlo in sé e di avvolgerlo dentro un orizzonte più ampio e più forte.
La gloria di Gesù è la luce del suo amore che attraversa anche la notte del tradimento.
E Dio è glorificato in Gesù perché in Gesù, nei suoi gesti, nei suoi atteggiamenti, si manifesta il suo volto di Padre, si rivela fino a che punto arriva il suo amore per il mondo (cfr.
3,16).
Questa glorificazione reciproca – del Figlio nel Padre e del Padre nel Figlio – ci dice a che livello giunge la comunione divina: niente è dell’uno che non debba risplendere anche nell’altro e la gloria di uno non può essere che luce per tutti e due.
Gesù non ha mai cercato la propria gloria, ma solo quella che veniva da Dio (cfr.
5,44; 7,18; 8,50) e questo suo ‘lasciarsi glorificare’ è indice della sua apertura e della sua totale obbedienza al Padre, a Colui dal quale tutto riceve e al quale tutto a sua volta si dona.
Ma se la glorificazione massima di Gesù giunge al momento della sua morte – l’«ora» della Croce -, c’è un altro ‘luogo’ in cui può risplendere la luce della gloria di Dio: una comunità di discepoli in cui regna l’amore: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (13,35).
Là dove alcune persone accolgono l’amore di Dio e si lasciano in tutto plasmare da esso, ivi si rende presente la gloria di Dio.
Nel loro amore e nel loro donarsi vicendevole è riconoscibile il volto di Dio, si conosce chi è veramente Dio.
Non ci sono altri segni o criteri per riconoscere una comunità che ‘appartiene’ a Dio («sapranno che siete miei discepoli») se non il vedere all’opera l’amore stesso con cui Gesù ha amato.
Quel «come io ho amato voi» (v.
34) racchiude tutto il segreto di un’esistenza che vuole essere segno trasparente di un mondo nuovo, di un modo nuovo di pensare e di agire, di guardare la propria e altrui vita, di vivere le relazioni all’interno di una comunità o di una famiglia.
L’amore, quando ‘prende corpo’ in una persona, in una comunità, anche piccola ed esigua, ha la forza di «far nuove tutte le cose» (Ap 21,5), come si dice nella seconda lettura di questa domenica.
La novità del comandamento dell’amore, che Gesù lascia in eredità ai suoi discepoli come il bene a lui più caro e prezioso, sta proprio in quel «come io».
Il comandamento è nuovo perché nuova è la ‘misura’ dell’amore, perché nuovo è colui che comanda un tale amore.
Vivere e amare «come Gesù»: in questo sta l’essenza e l’originalità dell’esistenza cristiana.
Ma non si tratta qui semplicemente di ‘imitazione’ (è poi possibile ‘imitare’ Gesù? Non è forse una pretesa assurda?): il modo con cui ci è chiesto di amare se rimanda al suo modello – Gesù, appunto – riceve anche da esso la forza e la capacità stessa di farlo.
Quel come, infatti, vuol dire anche perché (il termine greco kathōs è passibile anche di questo ulteriore significato): «Amatevi…
come e perché io ho amato voi».
È il fatto che Gesù ci ha amati per primo, che ci ha inseriti nel flusso vitale e rigenerante del suo amore, che noi, a nostra volta, possiamo «amarci gli uni gli altri».
Senza questa ‘comunicazione’ dell’amore di Gesù in noi e senza questo nostro ‘comunicarci’ a lui, aprendoci all’accoglienza del suo dono, sarebbe vano e irrealistico pensare di ‘osservare’ questo singolare comandamento…
Da ultimo, una parola sulla peculiarità di un amore espresso in forma di «comandamento».
Perché l’amore ha bisogno di essere ‘comandato’? Non diventa in questo modo una forzatura che rischia di svilire i tratti più belli e liberanti di questa grande – e unica – realtà umana che ci rende simili a Dio? Anzitutto bisogna ricordare che il comandamento dell’amore è un dono (Gesù dice infatti: «Vi do…»: v.
34) e questo semplice fatto contribuisce già a vederlo in una luce nuova e diversa da quella a cui una lunga consuetudine ci ha abituati.
In secondo luogo, se l’amore non entrasse nell’orizzonte umano sotto l’aspetto del comandamento, rischierebbe di perdere la sua qualità divina e diventerebbe solo amore di spontaneità, di affinità, di simpatia, di attrazione.
Il comandamento non si oppone all’amore e neppure è la negazione della sua libertà, ma è «il vero scrigno che lo custodisce» (Carmine Di Sante).
Affinché esso rimanga amore divino, di una misura ‘altra’.
Preghiere e Racconti Affamati d’amore Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa.
E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri.
Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza.
La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.
(Madre Teresa di Calcutta) «Vi do un comandamento nuovo».
Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità.
È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti».
E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli».
Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo.
Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò.
Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].
E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità.
Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità.
Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza.
In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli.
Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore.
I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa.
E niente educa alla virtù come la carità.
Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.
(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).
Ama con umiltà e rispetto La vita spirituale si riassume nell’amare.
E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione.
L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’.
Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi.
Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco.
Amare significa comunicare con chi si ama.
Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto.
Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.
(Thomas Merton).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr.
Mt 22,37-39).
Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento.
Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole.
Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo.
Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.
Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo.
In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi.
L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite.
È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore.
Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.
(H.J.M.NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio.
Diario da un monastero trappista, Brescia 1998, 82s.).
Cogliere il mistero di Dio Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra.
Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia.
Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio.
Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente.
E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.
(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).
Cercare la verità…amando Ho cercato la verità, con l’Innominato di Manzoni.
Ho cercato la verità tra le lettere di don Milani.
Ho cercato la verità, curiosando nella vita di Gandhi.
Ho cercato la verità, nelle confessioni di sant’Agostino.
Ho cercato la verità nelle prediche di don Mazzolari.
Ho cercato la verità, piangendo con Giobbe sul letamaio.
Ho cercato la verità, fuggendo da casa, con la mia parte di eredità, come il Figliol Prodigo.
Ho cercato la verità, nelle poesie di Tagore.
Ho cercato la verità, nei pensieri di Pascal.
Ho cercato la verità, nei fioretti di san Francesco.
Ho cercato la verità, nell’Allegretto della settima di Beethoven.
Ho cercato la verità, vagando stralunato.
Ho cercato la verità, negli occhi incavati e ormai vitrei di Brambilla, morto di Aids tra le mie braccia.
Ho cercato la verità, nei rosari che la mia santa madre recitava per me, prete molto diverso dal prete che teneva nella sua testa.
Ho cercato la verità, nel Parco Lambro, negli anni ottanta, assistendo giovani in overdose.
Ho cercato la verità, nei commenti biblici, stupendi, del mio cardinale di Milano.
Ho cercato la verità, nei viaggi del pellegrino Wojtyla.
Ho cercato la verità, nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.
Le religioni vanno a scuola.
UNIVERSITA’ ROMA TRE FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA – FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE LE RELIGIONI VANNO A SCUOLA Prospettive professionali della laurea in Scienze delle Religioni Mercoledì 28 aprile 2010 Sala del Consiglio del dipartimento di Studi Storici, Geografici e Antropologici La locandina Programma: Mattina Presiede Carla Lo Cicero – Università di Roma Tre 9.00 Saluti 9.30 Paolo Naso – Università di Roma Sapienza I “Religious studies nella società multiculturale” 10.00 Flavio Pajer – Pontificio Ateneo Salesiano Gli insegnamenti di religione nella UE: tendenze della cultura scolastica 10.30 Pausa Caffè Presiede Gianfanco Bonola – Università Roma Tre 11.00 Alessandro Saggioro – Università di Roma Sapienza Il ruolo dell’Università nella questione ora di religione/i: una sfida aperta 11.30 Maria Chiara Giorda – Università di Torino La didattica storico-religiosa: prospettive italiane 12.30 Discussione 13.00 Pausa Pranzo Pomeriggio Presiede Roberto Rusconi – Università Roma Tre 15.00-17.30 Tavola Rotonda Partecipano: Studenti dell’Università Roma Tre, Studenti della Sapienza Università di Roma, Pasquale Troia (autore di Bibbia Educational), Paola Bisegna (Dirigente del liceo Democrito), Antonia Sani ( Comitato nazionale scuola e costituzione), Carlo Felice Casula (Università Roma Tre), Gaetano Lettieri ( Sapienza, Università di Roma), Francesco Scorza Barcellona ( Università di Roma Tor Vergata) 17.30 Pausa presiede Franca Brezzi ( Università Roma Tre) 18.00 Discussione 19.00 Conclusione dei lavori Comitato Promotore: G.
Bonola, A.
Bozzo, F.
Brezzi, R.
Cipriani, A.
D’Anna, C.
Lo Cicero, M.
Lupi, R.
Michetti, C.
Noce, G.
L.
Prato, R.
Rusconi e gli studenti della LM in Scienze delle religioni dell’Università Roma Tre.
Facoltà di Lettere e Filosofia – via Ostiense, 236, Roma Per informazioni rivolegersi a: Alberto D’Anna danna@uniroma3.it; 06 57338562
IV Domenica dopo Pasqua Anno C
IV DOMENICA DI PASQUA Lectio Anno c Prima lettura: Atti 13,14.43-52 In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisidia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore.
Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo.
Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani.
Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero.
La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione.
Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio.
Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio.
I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
v La Chiesa nasce con i problemi di tutte le istituzioni.
Il gruppo missionario, partito da Antiochia di Siria (13,1-3), è composto da Barnaba, Saulo e Giovanni Marco; ma a Cipro, evidentemente per dissensi, Giovanni torna indietro e Saulo che prende il nome di Paolo diventa il primo della comitiva (v.
14).
La nuova meta è Antiochia di Pisidia, una delle più grandi città all’interno dell’Asia minore (Turchia).
La tattica missionaria consiste innanzitutto in un approccio con i giudei del luogo, al primo sabato nella sinagoga.
Le parole dell’apostolo non lasciano indifferenti gli ascoltatori, sia i giudei che i proseliti ossia i pagani in via di conversione al giudaismo e si fissa un appuntamento per il sabato seguente.
Ma nel frattempo i giudei hanno tempo di riprendersi e consultarsi e organizzano una ferma resistenza ai nuovi arrivati avvalendosi dell’appoggio di persone autorevoli che erano o riuscirono a far schierare dalla loro parte.
Non è detto che cosa contestassero, ma verosimilmente la posizione egemonica di Gesù rispetto agli altri profeti.
Le loro «bestemmie» non riguardavano certamente Dio, ma Gesù Cristo che essi non accettavano come l’unto del Signore.
È sempre Gesù la pietra di scandalo (cf.
At 4,11), il segno di contraddizione (Lc 2,34).
I giudei neanche accettano di mettere in discussione il primato di Abramo e di Mosè, non possono perciò prendere in considerazione le attribuzioni assegnate a un falegname nazaretano.
Il Cristo storico non offriva garanzie per essere ritenuto inviato di Dio (cf.
Mc 6,1-6; Lc 4,28-29).
Il settarismo giudaico trova il suo corrispettivo nell’intransigenza cristiana.
Gli apostoli che provengono anch’essi dal mondo dei loro oppositori non si provano a cercare un punto di contatto con i loro avversari che pur sono loro fratelli, egualmente figli di Abramo e adoratori dello stesso Dio.
Per gli uni la fede in Mosè porta all’esclusione della fede in Cristo, per gli altri l’adesione a Gesù Cristo mette da parte tutti gli altri intermediari tra l’uomo e Dio.
Non c’è altro nome in cui è dato salvarsi, è affermato fin dai primi discorsi degli Atti (4,12).
Ad Antiochia avviene la rottura ufficiale tra il cristianesimo e il giudaismo della diaspora come a Gerusalemme era avvenuta la separazione con il giudaismo palestinese.
Il cristianesimo nasce dal solco della tradizione giudaica, ma d’ora in avanti perseguirà un cammino tutto proprio e spesso antagonistico con quello della sinagoga.
La chiesa dei giudei o della circoncisione diventa presto la chiesa dei soli gentili.
Era evidentemente un fatto incomprensibile, uno scandalo si dirà presto.
Bisognava cercare una spiegazione biblico-teologica per renderlo plausibile.
I testi che parlavano della salvezza dei gentili non prevedevano l’esclusione dei giudei.
La vertenza di Antiochia, si chiude, come spesso accadrà in futuro nella storia cristiana, con il ricorso al braccio secolare.
I giudei, non potendo far tacere gli apostoli con le loro controargomentazioni, mobilitano i notabili della città e con il loro appoggio riescono a far allontanare degli uomini che erano pericolosi per la quiete pubblica.
Ma la risposta degli apostoli è pari all’ostilità ricevuta: scuotono persino la polvere dai loro calzari in segno di protesta.
È il rifiuto di ogni comunione con quanti quella terra calpestavano.
Seconda lettura: Apocalisse 7,9.14-17 Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.
Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello.
Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
v L’Apocalisse trasferisce il lettore sempre in un mondo ideale, quello della risurrezione, di cui tutto si può dire, ma di nulla si può esser certi, salvo la sua realtà.
L’uomo passa la sua prima esistenza in una realtà opaca, piena di contrasti e di contraddizioni e sogna che l’era futura sia il suo contrario, luminosa, pacifica, accattivante.
Un mondo sempre da desiderare oltre che attendere, in cui le ingiustizie e le sofferenze di quaggiù, la stessa morte scompariranno per sempre.
La fede è una visione ottimistica del futuro, la proiezione verso una vita senza fine dove non un piccolo numero ma una moltitudine sterminata e plurirazziale entrerà a far parte.
Quella di Ap 7 è una scena consolante ed esaltante.
La vita terrena è una grande tribolazione in particolare per i credenti.
Essi spesso soccombono sotto il peso dei tiranni, ma la loro fine segna l’inizio di una vita nuova.
Sono caduti sotto i ferri degli aguzzini, ma si sono rialzati, indossano tuniche bianche che simboleggiano la luce da cui sono avvolti e nelle loro mani stringono la palma della vittoria.
Erano degli sconfitti, ora sono dei vincitori! La vita del cielo è per l’ebreo l’idealizzazione della sua esperienza religiosa sulla terra.
Gerusalemme e il suo tempio sono trasferiti negli al di là e lo stesso rituale liturgico si ritrova davanti al trono di Dio e l’Agnello.
L’Agnello è il simbolo di Gesù Cristo morto e risorto; infatti anch’egli è «come immolato» e «in piedi» (5,6), per questo «è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore e gloria e benedizione» (5,12).
E quanto la moltitudine dei martiri gli tributa in segno di riconoscenza.
«La salvezza appartiene al nostro Dio e all’Agnello» (7,10).
Ma la gioia nasce dal fatto che i credenti sono diventati partecipi del trionfo dell’Agnello che pascola e guida il suo gregge alle fonti dell’acqua della vita (v.
17).
Per l’israelita il massimo della beatitudine era ritrovarsi davanti a Dio nel suo santuario; la stessa è la condizione degli eletti.
E la tenda dell’abitazione di Dio, il tabernacolo celeste è diventata la loro dimora e la loro vita sarà alimentata da una sorgente perenne.
Tutte immagini precarie che vogliono ritrarre una realtà inimmaginabile, la sorte dei giusti.
In tutti i casi essa sarà di piena felicità spirituale e fisica poiché la presenza di Dio e dell’Agnello è accompagnata dall’assenza di intemperie e di catastrofi.
Vangelo: Giovanni 10,27-30 In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
Io e il Padre siamo una cosa sola».
Esegesi Il breve testo evangelico segna il momento culminante dell’ultimo dibattito di Gesù con le autorità giudiache.
Come il primo, in occasione della purificazione del tempio (2,13), quest’ultimo ha la stessa collocazione topografica.
È la festa della dedicazione (10,22).
Gesù ha rimesso piede nei cortili del tempio, dove in precedenza aveva denunciato gli abusi dei dirigenti giudaici (8,44) e questi avevano cercato di catturarlo e ucciderlo (8,20,37,40,59).
Ciò nonostante è di nuovo sul posto e si muove liberamente (sta passeggiando) sotto i loro occhi.
L’evangelista fa notare che era inverno.
Dato che la festa della dedicazione cadeva nel mese di dicembre l’osservazione è superflua; sta facilmente a indicare il clima di freddezza che regnava attorno o più ancora la desolazione che sovrastava sul luogo santo.
Il tema della conversazione, come nel primo incontro nel tempio (2,15) o nell’interrogatorio fatto al Battista (1,19), riguarda sempre la messianità di Gesù.
Questa volta gli interlocutori mostrano ansia e accoramento.
Lo attorniano nel senso che lo accerchiano, gli sono addosso quasi da soffocarlo.
La loro domanda è ambigua: fino a quando ci tieni sospesi tra la vita e la morte.
Può indicare interesse per un quesito teologico essenziale oppure può semplicemente dire che da esso dipende la loro sopravvivenza istituzionale.
Se Gesù si dichiara re d’Israele la loro fine è segnata.
Ma la risposta di Gesù è volutamente circospetta.
Egli aggira l’ostacolo; non pronuncia la parola messia, ma suggerisce ai suoi obiettori la strada per arrivarvi.
Le parole non fanno grande nessuno; sono i fatti che indicano quello che uno è.
Le opere a cui Gesù si appella non sono tanto i miracoli, quanto le azioni benefiche compiute a pro degli uomini, i gesti di benevolenza a favore degli afflitti nel corpo e nello spirito, dei malati, dei peccatori.
Egli si è definito poco sopra il buon pastore che dà se stesso per le pecore (10,11), che conosce, cioè le ama, come le pecore conoscono Lui, corri-spondono al suo amore; ma non è amore teorico, bensì fatto di gesti concreti per il bene di tutto il gregge, sia quello del recinto israelitico come di altra provenienza (10,16).
Gesù non ha mai agito per il suo prestigio personale, cercando la propria gloria (8,50), l’applauso degli uomini (5,41); anzi è fuggito quando questi volevano farlo re (6,15).
Le «opere» di Gesù sono le stesse che Dio compie e perciò autenticano la sua missione.
Egli ha ricevuto lo Spirito nel giorno del battesimo (1,32) e da quel giorno si è lasciato guidare unicamente dalle sue mozioni.
Sempre e ininterrottamente.
Il suo cibo è compiere la volontà del Padre (4,34).
E più chiaramente: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato…
che io non perda nessuno di quanti mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (6,39-40).
Gesù non si è messo in testa un suo ideale messianico; non ha assecondato le voci della carne e del sangue (Gl 1,16), meno ancora le istigazioni sataniche (Mt 4,1-12) bensì le proposte dello Spirito di Dio, lo stesso che ha parlato a Mosè e ai profeti, solo che allora il suo discorso era incompleto o carente, ora è senza veli e riserve.
Il Dio che si è rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe è in realtà il padre di tutti gli uomini e rivolge a tutti non solo ad alcuni le sue premure (10,16).
Gesù ha capito che Dio è un padre prima che un Signore; non mira alla realizzazione del regno d’Israele, ma del regno dei cieli sulla terra, cioè a una convivenza tra gli uomini che assomigli a quella che vige nel mondo in cui egli vive.
La risurrezione di cui Gesù segnala l’avvento (6,39-40) o la vita eterna non è che il passaggio nella famiglia dei figli di Dio, che non conosce circoscrizioni di tempo o di spazio, ma comincia subito con il germogliare della fede (5,19-30).
Il discepolo di Gesù non si misura da quello che egli sa dire su di lui, ma da quello che sa compiere sul suo esempio (13,15).
Mosè ha dato dieci comandamenti; Gesù uno solo che è quello di amarsi di uni gli altri (14,15; 15,12).
Gesù ricapitola in un termine convenzionale il gruppo dei suoi seguaci, gregge, e i suoi discepoli nel termine pecore, un animale noto per la sua mansuetudine.
Per questo designa se stesso con l’appellativo di pastore (10,11-16).
Il vero pastore ama il suo gregge, ma occorre che questi risponda alla sua attenzione.
Come ci sono buoni e cattivi pastori ci sono pecore docili e pecore ribelli.
I giudei che arbitrariamente ostacolano l’opera di Gesù sono di quest’ultima categoria.
«Non siete mie pecore», dichiara Gesù (v.
26).
Essi non credono in lui perciò non fanno parte del suo gregge.
Non tendono l’orecchio a quello che egli dice in
Cella 211
Il carcere non solo non è un luogo di redenzione ma può imbarbarire persino persone lontane da una mentalità criminale.
Lo scoprirà tragicamente il protagonista di Cella 211 del regista spagnolo Daniel Monzón.
Campione d’incassi in patria e vincitore di otto premi Goya (i maggiori riconoscimenti del cinema iberico), il film racconta una vicenda ad alta tensione, dura, che non risparmia nulla quanto a crudezza sia d’immagini che di linguaggio.
Il genere carcerario, esplorato da diverse angolature dal cinema statunitense, diventa dunque terreno di riflessione anche per produzioni europee, che si propongono al pubblico con un buon livello qualitativo, mostrando peraltro una notevole originalità stilistica e narrativa.
Così, dopo l’apprezzato Il profeta del francese Jacques Audiard – storia di un fragile diciottenne che nel carcere compirà il suo cammino di formazione criminale – arriva sugli schermi italiani un altro film sull’universo carcerario, che ne ricalca il concetto di fondo: il recupero di un uomo condannato difficilmente passa dalla cella di una prigione.
Al suo primo incarico come secondino in un penitenziario di massima sicurezza, per fare buona impressione su colleghi e superiori, Juan Olivier si presenta al lavoro il giorno precedente l’ingresso in servizio.
Mentre è in visita al braccio con i detenuti più pericolosi, rimane vittima di un incidente: un pezzo di intonaco staccatosi dal soffitto in ristrutturazione lo colpisce alla testa.
Nel tentativo di rianimarlo, i due colleghi che lo accompagnano usano la brandina della cella 211, al momento vuota.
Ma proprio in quel momento esplode una rivolta e i due secondini lo abbandonano lì per mettersi in salvo.
Una volta ripresosi, Juan, si trova inghiottito dagli accadimenti.
Ha la prontezza di farsi credere un detenuto e di accattivarsi le simpatie del violento boss Malamadre, superbamente interpretato da Luis Tosar, promotore della ribellione.
In un imprevisto capovolgimento di ruolo, la giovane guardia proverà a fare il doppio gioco nel tentativo di salvarsi e riabbracciare la moglie incinta.
Ma gli eventi prenderanno una piega diversa, il suo destino seguirà un’altra strada.
E Juan si ritroverà suo malgrado dall’altra parte, persino a lottare con impensabile ferocia per una causa che solo poche ore prima non poteva apparirgli più distante.
Raccontando la vicenda di Juan, Cella 211, tratto dall’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul, affronta argomenti sociali rilevanti – denuncia le precarie condizioni di vita nelle carceri, la violenza delle istituzioni – e, nel caso specifico, la difficile gestione di questioni politico legate al terrorismo dell’Eta.
Tutto ciò viene mostrato senza alcuna indulgenza, accentuando le debolezze del sistema.
Tuttavia non sono questi gli aspetti più intriganti del film, che ha i suoi punti di forza nella carica drammatica della narrazione e nello sviluppo delle dinamiche relazionali dei protagonisti.
Monzón – cui va dato atto di aver impresso una cifra stilistica originale alla pellicola, superando i cliché di genere – ha definito la storia una tragedia.
Una tragedia legata al fato, ovvero a quel qualcosa di imprevedibile e improvviso che può cambiare e sconvolgere per sempre la vita di ciascuno.
Quel fato che beffardamente fa incrociare le strade di uomini diversi per indole, estrazione e comportamenti come Juan (certo non idealista) e Malamadre, e che li porta a condividere un’esperienza terribilmente nuova per il primo, replicata ma con implicazioni inattese per il secondo.
Ne nascerà un’improbabile amicizia, ambigua quanto breve.
A colpire è il cambiamento interiore cui è costretto Juan, travolto da eventi che si era illuso di poter in qualche modo controllare nonostante tutto, e che si troverà suo malgrado a camminare lungo il confine improvvisamente impalpabile tra ciò che riteneva giusto e ciò che non gli appare più tale.
Compiere una scelta di campo diverrà più semplice di quanto avesse presupposto.
Da aspirante servitore della legge si troverà, con le mani sporche di sangue, a combattere per una giustizia diversa.
E in questo viaggio verso l’abisso – che lascia però intravedere bagliori di verità – non si riesce a non provare un po’ di empatia verso quest’uomo ferito al quale il destino nega persino l’unica drammatica via d’uscita per non precipitare nell’abisso.
Si prova compassione forse perché in lui in qualche modo si riconosce la fragilità umana che si evidenzia nei momenti più terribili e di inattesa sofferenza.
Quando, in una situazione estrema, il dolore rischia di trasformarsi in odio, l’odio in vendetta e la vendetta in cieca violenza.
di Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 17 aprile 2010)
III Domenica dopo Pasqua Anno C
III DOMENICA DI PASQUA Lectio Anno c Prima lettura: Atti 5,27-32.40-41 In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».
Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini.
Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce.
Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati.
E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono».
Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù.
Quindi li rimisero in libertà.
Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
v Questo compito di pascere gli agnelli, ossia di dare come cibo al popolo la dottrina predicata da Cristo, viene contestato espressamente a Pietro e agli apostoli dalle autorità di Gerusalemme.
Un primo incidente si era già verificato in precedenza, quando Pietro e Giovanni guarirono lo storpio che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del Tempio (At 3).
In quell’occasione, mentre Pietro teneva un discorso, sopraggiunsero i sacerdoti e il comandante delle guardie del Tempio per arrestare i due apostoli, che avevano suscitato la fede in circa cinquemila uomini (At 4,1-4).
Pietro non esitò a parlare con franchezza di Gesù davanti alle autorità, ricevendo soltanto il solenne ammonimento di non evangelizzare più (4,13-17).
Pietro e Giovanni, però, altrettanto decisamente risposero: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi piuttosto che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (4,19-20).
Tenendo presente quest’antefatto, divengono più chiare le parole di rimprovero che il sommo sacerdote rivolge agli apostoli.
Ma costoro riprendono l’argomento della volta precedente: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (5,29).
Senz’altro viene da porsi quest’interrogativo: come mai un gruppo di persone sprovvedute, o almeno così giudicate, ha tale franchezza nel parlare ai capi del popolo, toccando il tasto ancora dolente della morte di Gesù? Da dove nasce questo coraggio di «obiettare»? L’unica risposta accettabile e che non necessita di molti commenti proviene dalle loro stesse parole: «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono» 5,32).
Lo Spirito quindi è l’anima di queste persone, a cui un giorno il Maestro disse: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc12,11-12).
E nemmeno la fustigazione li fece recedere, piuttosto considerarono un onore e perfetta letizia l’essere stati percossi a causa di Gesù Cristo e del suo Vangelo (cf.
Mt 5,10-11 e Gc 1,2-4).
Seconda lettura: Apocalisse 5,11-14 Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani.
Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione».
Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».
E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen».
E gli anziani si prostrarono in adorazione.
v L’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto ha dominato sempre l’attività degli apostoli.
Essi però aggiungono che «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati» (At 5,31 ).
Quest’innalzamento nella gloria il libro dell’Apocalisse ce lo descrive con il suo tipico linguaggio simbolico.
Gesù è chiamato Agnello, e come tale entra in scena al v.
6 del capitolo 5.
Egli è al contempo «ritto», per indicare che è risorto e possiede tutta la forza che gli deriva dalla risurrezione, e «come immolato» (anche se sarebbe meglio tradurre «come ammazzato»), per sottolineare che egli ha pure tutte le virtualità che provengono dalla sua passione e morte.
In virtù di tutto ciò, l’Agnello è in grado di «prendere il libro e di aprirne i sigilli» (5,9), ossia di saper leggere il piano di Dio.
Il veggente assiste a uno spettacolo straordinario: un numero infinito di angeli, insieme agli esseri viventi e ai vegliardi, che lodano l’Agnello, di cui si ricorda ancora una volta la sua passione e morte violenta, ma in più si dice che è degno di ricevere una serie di prerogative e riconoscimenti.
L’aggettivo «degno» non deve trarre in inganno: esso non si riferisce a valori morali, bensì alla capacità, da lui detenuta, di ricevere da Dio la potenza di agire, la ricchezza delle risorse divine, la sapienza nel condurre la storia e la forza di vincere il male, e dagli uomini l’onore, cioè la riconoscenza della sua azione di salvezza, insieme alla gloria e alla benedizione nella preghiera e nella liturgia.
Ciò in effetti avviene al v.
13, quando ogni essere creato nei cieli (gli angeli), sulla terra (gli uomini), sotto terra (i morti) e sul mare (coloro che, uomini o angeli, hanno dimostrato di saper vincere il male, di cui il mare sarebbe la sede) elevano l’inno di lode a Dio, il grande dominatore della storia e della natura, che perciò siede sul trono, e all’Agnello, che ha concretamente realizzato le condizioni di questo dominio divino.
Le creature, quindi, consapevoli che Dio e Cristo-Agnello hanno donato loro tutto quello di cui bisognavano per vincere il male, a modo loro nella lode colma di gratitudine tentano di restituire ciò che hanno ricevuto.
Vangelo: Giovanni 21,1-19 In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade.
E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.
Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare».
Gli dissero: «Veniamo anche noi con te».
Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.
Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?».
Gli risposero: «No».
Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete».
La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci.
Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!».
Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare.
Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane.
Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora».
Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci.
E benché fossero tanti, la rete non si squarciò.
Gesù disse loro: «Venite a mangiare».
E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore.
Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce.
Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Gli disse: «Pasci i miei agnelli».
Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Gli disse: «Pascola le mie pecore».
Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?».
Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene».
Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore.
In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».
Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio.
E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Esegesi Il primo versetto della pericope evangelica inquadra bene il taglio da conferire alla sua lettura: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade.
E si manifestò così».
Il verbo «manifestare» (in greco faneroo), poi, ricorre successivamente al v.
14, quasi a conclusione della prima parte di quest’ultimo incontro tra Gesù e i suoi discepoli: «Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti».
In realtà, questo termine non è nuovo nel Vangelo di Giovanni, viene usato in 1,31 quando Giovanni Battista spiega che l’obiettivo della propria missione è «far conoscere» il Cristo; in 2,11 viene detto che Gesù «manifestò» la sua gloria nel segno compiuto a Cana; in 3,21 Gesù conclude il dialogo con Nicodemo affermando che chi compie la verità cammina verso la luce, allo scopo di «far apparire» che le sue opere sono fatte in Dio; in 7,4 viene tentato a «manifestarsi», cioè a compiere qualche segno grandioso; in 9,3 giustifica la cecità del cieco nato con l’opportunità di «manifestare» le opere di Dio; in 17,6 Gesù riassume la sua missione dicendo che «ha manifestato» il nome del Padre all’umanità.
Questa volta, invece, Gesù non deve manifestare altro che se stesso in quanto risorto.
Il verbo «manifestare» svolge una funzione importante nel capitolo 21: essendo presente nei vv.
1 e 14, esso ne delimita la prima parte, tutta dedicata al riconoscimento del Maestro, mentre i vv.
15-19 e 20-23 sono occupati da due dialoghi tra Gesù e Pietro, di cui la pericope proposta nella liturgia ci riporta solo il primo.
Fatte queste premesse, siamo pronti ad addentrarci nel brano.
Per l’evangelista Giovanni questa fu la terza e ultima apparizione di Gesù ai suoi discepoli (cf.
21,14), senza appunto contare quella a Maria Maddalena nel mattino stesso di Pasqua (20,11-18).
Quanto tempo dopo l’apparizione a Tommaso (20,26-29) Gesù si sia nuovamente manifestato ai discepoli, il Vangelo non lo dice.
Conosciamo però il luogo dell’avvenimento: non più Gerusalemme, teatro della passione, morte e risurrezione del Maestro, bensì «sul mare di Tiberiade» (21,1), zona dalla quale provenivano molti dei discepoli.
I testimoni dell’accaduto, elencati al v.
2, sono sette dei Dodici discepoli, ma soltanto di cinque ci viene riferito il nome, ossia Simon Pietro, Tommaso, Natanaele e i due figli di Zebedeo.
Possiamo però supporre che gli altri due siano il discepolo che Gesù amava, espressamente richiamato nel v.
7, e Andrea, fratello di Pietro.
La narrazione evangelica esordisce mettendoci al corrente della decisione di Pietro, a cui si accodano anche gli altri.
Ma l’iniziativa si conclude in verità con un radicale fallimento: «Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare».
Gli dissero: «Veniamo anche noi con te».
Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla » (v.
3).
A questo punto entra in scena Gesù: quando era già l’alba, egli si presentò sulla riva.
Benché gli apostoli si trovassero a poco più di novanta metri dalla riva (il testo greco parla di duecento cubiti, v.
8), non riconobbero che quella persona dalla terraferma era il Signore se non quando, ordinando di gettare le reti dalla parte destra della barca, si verificò il segno della «pesca miracolosa» e, quindi, il discepolo prediletto pronunciò la frase che forse tutti avevano in mente ma nessuno aveva il coraggio di pronunciare: «È il Signore!» (v.
7).
La reazione di Pietro è immediata: si vestì, si gettò in acqua e guadagnò la riva, mentre gli altri la raggiunsero con la barca.
I discepoli trovarono che era già stata preparata per loro una «colazione», a cui Gesù chiese di aggiungere del pesce appena preso.
Ciò offre al narratore di volgere l’attenzione sulla rete che, tratta da Simon Pietro, non si ruppe, benché contenesse una gran quantità di pesci, ben centocinquantatre.
Non ci soffermiamo sul tema del riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli, che è tipico di tutti i racconti pasquali e certamente già analizzato.
Prestiamo invece attenzione alla figura di Pietro, il cui ruolo era stato in un certo qual senso definito quando Gesù lo incontrò: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)’» (1,42; cf.
Mt 16,17-19).
Prima di chiudere del tutto la sua vicenda terrena, Gesù vuole finalmente chiarire il suo progetto, che potremmo sintetizzare intorno a tre principi.
In primo luogo, non esiste alcuno che possa realizzare qualcosa prescindendo da Lui, nemmeno Pietro.
Lo dimostra la pesca infruttuosa intrapresa da questi e dagli altri: ci sembra sentire risuonare le parole di Lc 5,5: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla».
In secondo luogo, è Pietro che si sobbarca la fatica di trarre a riva la rete piena di pesci, ossia è a lui in prima istanza che è data la responsabilità di essere «pescatore di uomini» (cf.
Lc 5,10).
Infine, la rete che non si rompe sottolinea il fatto che, autenticamente fondata sulla parola di Gesù e guidata da Pietro, la chiesa non si divide (il testo greco usa il verbo schízo, quasi a voler escludere «scismi»).
Il dialogo dei vv.
15-19 esplicita la simbologia del racconto della manifestazione.
Gesù chiede a Pietro per ben tre volte se lo ama, perché è sulla base di quest’amore totale e incondizionato che diventa concreta e fruttuosa l’esecuzione della missione.
La missione viene esplicitata con il comando di pascere, come al v.
11 era stata indicata con il verbo «trarre».
Ma le pecore e gli agnelli da pascere non appartengono a Pietro, bensì a Gesù, che ha offerto la propria vita per loro, al fine di riunirle e di proteggerle da chi vuole disperderle (cf.
Gv 10,11-18).
Ma pure a Pietro viene chiesto di offrire la vita per il gregge che Gesù gli ha affidato (vv.
18-19), perciò acquisisce un senso più chiaro quell’invito a seguirlo nel peso di pascere il gregge e di morire per esso.
Meditazione Dopo averci fatto ascoltare il racconto della venuta del Risorto nel cenacolo, la liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci conduce presso il lago di Tiberiade per assistere alla terza e ultima manifestazione di Gesù narrataci da san Giovanni.
È un manifestarsi di nuovo, come l’evangelista precisa al v.
1: «Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo».
Dopo questi fatti, dopo tutto ciò che il Quarto Vangelo e i Sinottici ci hanno raccontato della vicenda storica e pasquale di Gesù, il Signore torna a manifestarsi nella ferialità della vita, laddove i discepoli sembrano tornare alle occupazioni di sempre.
Con ogni probabilità il vangelo di Giovanni, nella sua prima redazione, si concludeva al capitolo 20; il capitolo 21 costituisce dunque un’aggiunta successiva da parte della comunità.
Al di là di questi problemi storico-letterari, noi lettori ci troviamo di fronte a questo fatto sorprendente: nel momento in cui il vangelo si chiude, torna ad aprirsi.
Il Signore si manifesta nuovamente nel tempo della Chiesa, anche dopo ‘quei fatti’ che appartengono alla memoria storica dei primi discepoli.
Giovanni parla qui di manifestazione, un termine che non usa mai nei racconti di risurrezione del capitolo precedente.
Quasi a suggerirci che si tratta di un manifestarsi diverso rispetto agli incontri vissuti con il Risorto dai suoi discepoli storici.
Nello stesso tempo precisa che si tratta della «terza manifestazione», ricollegandola così alle apparizioni precedenti.
È un manifestarsi del Risorto diverso, ma in continuità con gli incontri vissuti dai discepoli della prima ora.
Il primo invito con cui questa pagina ci interpella è allora a vigilare per riconoscere questa manifestazione sempre nuova del Signore nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità.
Siamo già nella luce piena del tempo pasquale, eppure il racconto giovanneo ci conduce ancora nella notte, che non è solo la notte dell’infecondità di una pesca vana, ma anche la notte dell’assenza del Signore.
Inoltre la barca, nell’insieme della tradizione evangelica, sembra essere luogo di prova e di purificazione della fede.
Il Vangelo di Giovanni ci parla solo in un altro passo del lago di Tiberiade e di questa barca su cui i discepoli sono soli, senza il Signore; lo fa al capitolo sesto, dopo il segno dei pani, quando la barca si trova esposta al pericolo del mare agitato e del forte vento.
La barca è dunque anche luogo di paura, di timore, di fronte al mare che simboleggia ogni forma con cui il male minaccia la vita degli uomini e la fede dei discepoli.
La barca è il luogo in cui una piccola fede, una fede che è sempre ‘poca’, per dirla con Matteo, è chiamata a divenire una fede matura attraverso il fuoco purificatore della prova.
Certo, nella tradizione la barca è anche un simbolo ecclesiale, ma la Chiesa non è appunto questo: una comunità in cui la piccola fede è chiamata a divenire una grande fede; in cui il non-sapere che era Gesù può divenire la conoscenza piena di chi grida «È il Signore!», in cui l’infecondità di una rete vuota si trasforma in una rete traboccante di centocinquantatre grossi pesci? Ma a quali condizioni è possibile vivere nella Chiesa questo passaggio che è sempre un passaggio pasquale? Il capitolo 21 non ci parla solo dell’incontro con il Risorto, ma anche del cammino di conversione e di purificazione della fede che occorre vivere per giungervi.
Tra i molti spunti che il testo offrirebbe, ne cogliamo solamente uno.
Il capitolo si apre con la decisione di Pietro: «io vado a pescare».
Se in queste parole c’è l’aspetto positivo di una responsabilità vissuta in prima persona, capace di suscitare la collaborazione e l’operosità di altri – «Veniamo anche noi con te» (v.
3) – in esse si nasconde comunque la tentazione di un’impresa autonoma e autoreferenziale, vissuta nell’assenza del Signore.
Non perché lui non ci sia, ma perché non lo si riconosce presente, e soprattutto perché non si ha abbastanza cura nel porre in relazione il nostro operare con la sua Parola, i criteri del nostro agire con i suoi criteri.
È la tentazione di un agire autoreferenziale e autonomo che, per quanto vissuto in nome del Signore, rischia di rendere marginale o non incidente la sua presenza.
Quando e laddove il Signore si rende presente con la sua parola, egli esige e rende possibile la nostra conversione.
Infatti, in quella notte in cui il Signore rimane assente e c’è soltanto la propria autonoma decisione, i discepoli «non presero nulla».
Giovanni usa il verbo piàzo, che significa più precisamente ‘arrestare’.
È il medesimo verbo che l’evangelista utilizza più volte nel suo racconto per descrivere il tentativo vano da parte delle autorità giudaiche di arrestare Gesù, perché non era ancora giunta la sua ‘ora’.
È vano il tentativo di arrestare Gesù, solo lui può liberamente consegnare se stesso in un amore più forte e radicale dell’odio di chi tenta di catturarlo.
Come non si arresta Gesù, così è vano ogni tentativo di vivere il proprio ministero di pescatore di uomini nella modalità di un potere, in qualsiasi forma esso venga esercitato, che tenta o pretende di arrestare, di catturare, di bloccare, di trattenere.
Occorre entrare in una logica diversa, che è appunto la logica pasquale di chi non si lascia arrestare, e neppure ‘cattura’ gli altri, ma si consegna nell’amore.
Al v.
6 l’evangelista annota che, dopo il segno della pesca miracolosa, i discepoli non potevano più tirare la rete per la gran quantità di pesci.
Sono sette e non riescono.
Al v.
11 narra invece che «Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci.
E benché fossero tanti la rete non si spezzò».
Pietro, riesce a fare ora, da solo, quello che prima, in sette, non erano riusciti a fare.
Perché ora può? Il racconto risponde a questo interrogativo in modo simbolico: ora può, perché si è gettato in mare.
Il mare nella Bibbia è metafora di male, sofferenza, pericolo, morte…
In questo mare Pietro si getta, con un gesto che ha un marcato valore battesimale: immergersi nelle acque significa immergersi nella morte del Signore per divenire partecipi della sua risurrezione.
Ed è pro-prio il gettarsi nelle acque per essere pienamente partecipe del mistero pasquale, che consente a Pietro di divenire davvero, in modo autentico, quel pescatore di uomini a cui già nel suo primo incontro il Signore Gesù lo aveva chiamato.
Il simbolismo battesimale è rafforzato anche dal verbo ‘salire’ del v.
11, che però nel testo originario rimane senza complemento di luogo.
Il traduttore aggiunge «salì sulla barca», ma in greco non è detto; Pietro semplicemente risale dalle acque, ed è ancora un modo per alludere al battesimo che ci immerge nelle acque per renderci partecipi della morte di Gesù, e poi da esse ci fa risali- re, rendendoci partecipi della sua risurrezione.
Solamente questa conformazione battesimale alla Pasqua di Gesù può consentire a Pietro non solo di vedere la sua rete riempirsi, ma di trarre i pesci fuori dal mare, dalle acque impetuose, per condurli alla terra ferma dell’incontro con il Signore Risorto.
Per descrivere Pietro che trae la rete dal mare, Giovanni usa lo stesso verbo greco (hélko) con cui Gesù afferma solennemente al capitolo 12: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
È attraverso la sua Pasqua che Gesù ci attira a sé, ed è attraverso la sua conformazione battesimale al mistero pasquale che anche Pietro può attrarre a Gesù tutti coloro che la sua rete trova e custodisce.
Si possono liberare gli uomini dalle acque della morte solo accettando di immergersi in esse, di attraversare personalmente l’esperienza della compassione, condividendo il destino del proprio Maestro e Signore nelle sofferenze stesse dei suoi fratelli, dei quali bisogna prendersi cura.
Preghiere e Racconti «Simone mi ami tu?» …
Il gallo cantò per la terza volta.
Gesù uscì dalla sala……
e Simon Pietro, seguendo il rumore, guarda dalla sua parte.
Lo vede e « pianse amaramente ».
Lo stesso Pietro che da quel momento è diventato vergognoso e intimidito, perennemente intimidito, anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali, li compiva, poi si fermava bloccato dalla vergogna, dalla vergogna del ricordo…
…era là in disparte quella mattina sulla riva…
erano là tutti intorno quel mattino, in silenzio timoroso, intimiditi così che nessuno domandava qualche cosa perché tutti sapevano che era il Maestro.
Nella frescura di quell’ora mattutina coi pesci – quei pesci che si agitavano ancora alle loro spalle – dopo una notte arida di frutto erano là a mangiare il pesce…
…il pesce preparato da Lui che aveva pensato anche al loro mangiare perché sarebbero tornati stanchi.
Il Signore si era steso vicino, era lì vicino, a mangiare con loro.
II Domenica di Pasqua Anno C
II DOMENICA DI PASQUA Lectio Anno c Prima lettura: Apostoli 5,12-16 Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli.
Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava.
Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.
v È uno dei cosiddetti «sommari» degli Atti: quadretti che dipingono la comunità cristiana primitiva.
È una comunità che evidentemente ha fatto esperienza della risurrezione di Cristo e lo manifesta nella concordia: tutti erano soliti stare insieme (v.
12).
Una unità tra cristiani sostenuta dalla preghiera e dalla frazione del pane (2,42-46).
La fede cristiana si manifesta nella carità e nella comunione gioiosa.
L’attività taumaturgica di Gesù continua ora nella chiesa per mezzo degli apostoli (v.
12).
Tra gli apostoli un posto particolare ha la figura di Pietro.
In lui continuava in modo singolare ad essere presente la potenza di Cristo: almeno la sua ombra (v.
15) guariva.
La gente si rendeva conto di una speciale presenza divina negli apostoli e li stimava, ma, forse per un sacro timore, nessuno degli altri osava associarsi a loro (v.
13).
La presenza dello Spirito del Risorto si manifestava nella serie di prodigi, che aiutavano gli umili ad accogliere la predicazione apostolica (vv.
15-16).
Nella comunità cristiana primitiva, sotto la direzione di Pietro, sono presenti così i segni che chiamano alla fede: le guarigioni miracolose, prolungamento del mistero storico di Gesù, ma soprattutto il segno dell’unità dei fratelli nella fede del Cristo risorto.
Seconda lettura: Apocalisse 1,9-11.12-13.17-19 Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.
Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese».
Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto.
Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi.
Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».
v Il brano riporta la visione di Cristo glorioso avuta da Giovanni nel giorno del Signore (v.
10), la domenica, il giorno in cui la comunità cristiana si riunisce per l’ascolto della parola e per celebrare la risurrezione.
Giovanni si sente fratello e compartecipe della comunità che sta in ascolto.
Anche lui come le piccole comunità cristiane soffre la persecuzione per amore di Gesù Cristo: si trova a Patmos, una isola delle Sporadi a 75 Km a sud-ovest di Efeso.
Egli riceve l’incarico di scrivere un libro per le sette chiese (v.
11).
Il numero sette è simbolico: indica la totalità.
Sta parlando quindi alla chiesa universale, che poi è presente nella chiesa locale, in modo particolare nell’assemblea liturgica.
L’Apocalisse è un libro diretto a una comunità liturgica che lo interpreta.
Richiamandosi a immagini presenti in Daniele e Ezechiele, Giovanni presenta Cristo come uno simile a un Figlio d’uomo, con le insegne del giudice escatologico.
L’abito lungo fino ai piedi è simbolo della sua dignità sacerdotale, mentre la fascia d’oro esprime la sua regalità.
La voce potente indica una rivelazione chiara senza ombra di dubbio.
Gesù Cristo è in mezzo ai sette candelabri: egli è presente attivamente nella sua chiesa.
Egli è alla destra di Dio, ma vive nella comunità cristiana.
Giovanni e la sua comunità non devono temere, perché egli è il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Egli ha vinto definitivamente la morte e chi si appoggia a lui ha la vita.
Nel libro che si leggerà nella comunità in ascolto si troveranno poi le cose viste, nella presente visione, quelle presenti, cioè le lettere alle sette chiese; quelle che devono accadere, le visioni sul futuro escatologico della chiesa (vv.
17-19).
Vangelo: Giovanni 20,19-31 La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».
Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.
E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».
Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo.
A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.
Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!».
Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso.
Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Esegesi Dopo l’apparizione a Maria Maddalena, avvenuta all’aperto, in un giardino, Gesù appare ai suoi discepoli, chiusi per paura in una stanza.
Essi ricevono lo Spirito Santo per poter annunciare la sua parola e perdonare i peccati agli uomini.
La fede crescerà dall’ascolto della parola all’interno della comunità.
Con questo brano Giovanni vuole sottolineare l’importanza della testimonianza per la fede pasquale.
1) Incontro con i discepoli (20,19-23) Avviene il primo giorno della settimana, nel giorno di Pasqua.
Gesù torna ma non nel suo stato precedente: entra a porte chiuse.
Si pone al centro della comunità cristiana: stette in mezzo loro (v.
1), come unico punto di riferimento.
I discepoli lo possono vedere e riconoscere con lo sguardo della fede.
Le conseguenze della nuova luce sono la «gioia» e la «pace», i doni messianici.
Gesù dà loro l’incarico missionario: devono continuare la missione a lui affidata dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (v.
21).
Ma solo uomini nuovi sono capaci di questo compito.
Gesù dona loro lo Spirito Santo: soffiò su di loro (v.
20) come soffiò all’inizio la vita nuova al primo uomo.
Il dono dello Spirito era stato anticipato simbolicamente dall’acqua e dal sangue usciti dal costato di Cristo (19,34).
La missione degli apostoli avrà come obiettivo la remissione dei peccati (v.
23).
Il potere viene dato al gruppo dei dodici, nominati nel versetto seguente (v.
24).
Viene esercitato certamente nel sacramento della penitenza secondo il concilio di Trento per i peccati commessi dopo il battesimo.
Non si esclude il perdono dei peccati mediante il sacramento del battesimo e la proclamazione dei vangelo.
2) Apparizione presente Tommaso (Gv 20,24-29) I dubbi di Tommaso esprimono l’esperienza del gruppo, dell’intera comunità apostolica, e la personale esperienza di Giovanni: «Colui…
che abbiamo visto con i nostri occhi…
contemplato…
e toccato con le nostre mani» (1Gv 1,1-2).
Anche questo incontro avviene nel primo giorno della settimana, giorno del Signore (Ap 1,10).
In esso la comunità proclama con i discepoli: Abbiamo visto il Signore! (v.
25).
Ma Tommaso non condivide la fede della comunità.
Gesù si rende visibile per lui e lo convince di non essere un fantasma: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani» (v.
25).
Bastò sentire le parole di Gesù, per credere, come per Maria bastò sentirsi chiamare per nome da lui.
Tommaso fa la più bella confessione di fede del quarto Vangelo.
L’esperienza della risurrezione era indispensabile per la Chiesa.
I futuri discepoli di Gesù avrebbero dovuto credere senza vedere, ma accettando la testimonianza degli apostoli, che invece hanno visto.
Anch’essi però saranno beati.
Sperimenteranno la gioia dell’incontro con il Cristo risorto.
3) Conclusione (Gv 20,30-31) Segni non sono solo i miracoli, ma tutto quello che Gesù ha fatto e insegnato.
Chi vuole conoscere altri segni si legga i vangeli sinottici.
Tutti i segni dicono che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio (v.
31).
I lettori vengono invitati ad accogliere la testimonianza degli apostoli senza esigere di toccare con mano per credere.
Ora per i cristiani la testimonianza apostolica è scritta, contenuta nel vangelo, ma è una testimonianza di qualcuno che ha visto.
Meditazione In ciascuno dei tre anni del ciclo liturgico, nella seconda domenica di Pasqua viene proclamato il racconto giovanneo della duplice manifestazione del Risorto nel cenacolo: la prima, nella sera stessa della resurrezione, mentre Tommaso è assente; la seconda, otto giorni dopo, questa volta con Tommaso presente.
È evidente la motivazione che sostiene questa scelta liturgica: siamo nell’ottavo giorno dalla domenica di Pasqua e ascoltiamo il racconto di quanto è avvenuto nella comunità apostolica a distanza di otto giorni.
Vale tuttavia anche la considerazione inversa: non solo il tempo liturgico determina la scelta del testo evangelico, ma lo stesso racconto di Giovanni, nella sua scansione cronologica, è probabilmente determinato dalla scansione liturgica: il Risorto si rende presente nella comunità dei discepoli storici ‘otto giorni dopo’, così come la comunità dei discepoli di ogni generazione successiva si raduna ogni otto giorni per celebrare l’eucaristia nella memoria della Pasqua, e riconoscere in questo modo, nei segni sacramentali del pane e del vino e del suo stesso riunirsi, la presenza del Signore che fedelmente accompagna il cammino della Chiesa.
La stessa figura di Tommaso, con il suo non esserci dapprima e il suo esserci dopo, mette ancora più in risalto questa fedeltà del Signore alla sua comunità.
I discepoli possono essere presenti o assenti, la comunità può essere anche segnata dalle ferite di una mancanza; il Signore viene comunque e sta in mezzo ai suoi, donando la sua pace e il suo Spirito.
Anche colui che inizialmente non c’era, e sembra chiudersi in un atteggiamento di incredulità, non rimane escluso dal desiderio che spinge il Risorto a riallacciare vincoli di comunione con i suoi, capaci di vincere non solo la separazione della morte, ma anche l’incredulità, o comunque la fatica del credere.
Se il racconto del Vangelo di Giovanni ogni anno caratterizza questa seconda domenica di Pasqua, le altre due letture variano sempre.
Nell’anno C ascoltiamo come seconda lettura un testo tratto dal primo capitolo dell’Apocalisse, che narra l’ultima manifestazione del Risorto consegnataci dal Nuovo Testamento, almeno nell’ordine canonico dei suoi libri.
Il tempo, come accade nel Quarto Vangelo, è ancora liturgico.
Infatti, il v.
10 ci ricorda che tutto quello che accade si colloca in un giorno preciso: «fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore».
Questo è peraltro l’unico passo del Nuovo Testamento in cui questo giorno riceve già il suo nome cristiano: è il giorno del Signore, in dominica die nel latino della Vulgata, da cui il nostro termine ‘domenica’.
Anche in questo caso, dunque, l’autore insiste nel ricordarci che l’incontro con il Risorto avviene di domenica, quando la comunità è convocata dalla memoria della Pasqua e la celebra facendo eucaristia.
Il testo non si premura soltanto di precisare il tempo, ma anche il luogo in cui avviene l’incontro: l’isola di Patmos, che non è solo un luogo geografico, ma luogo simbolico dell’esilio, dove Giovanni si trova «a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (v.
9).
È necessario considerare insieme queste due coordinate dell’esperienza: il luogo è quello della tribolazione, della prova nella fede, della persecuzione, ma già illuminato dal giorno del Signore, cioè dalla sua Pasqua.
In questo luogo e in questo giorno Giovanni ha una visione: «fui preso dallo Spirito», racconta al v.
10.
Tutto ciò che vede e scrive è dono dello Spirito, che diventa l’ambito in cui si muove e il respiro stesso della sua vita.
Essere nello Spirito significa per Giovanni rileggere la propria esperienza, quella della sua comunità, nonché la storia più ampia del mondo, collocandosi dal punto di vista di Dio, secondo i suoi criteri e la sua logica, che rimane una logica pasquale.
L’espressione – ‘rapito dallo Spirito’ – non vuole perciò indicare un’esperienza straordinaria che l’autore vive e che solo pochi altri possono sperimentare con lui.
Allude al contrario a qualcosa di più ordinario, cui anche la nostra vita deve sentirsi chiamata: leggere la storia, ma nello Spirito di Dio, dunque con i suoi criteri di giudizio e di discernimento.
Nello Spirito lo sguardo di Dio viene ad abitare e a trasformare il nostro stesso sguardo.
Ci sono donati occhi nuovi, occhi ‘spirituali’, per giudicare il mondo così come lo giudica Dio stesso.
Quella di Giovanni dovrebbe diventare l’esperienza che a nostra volta viviamo nel giorno del Signore: ogni volta che di domenica ci raduniamo per ascoltare la parola di Dio e condividere insieme il pane, la nostra vita dovrebbe aprirsi al dono dello Spirito e acquisire un modo diverso di stare nelle situazioni della storia personale e collettiva.
C’è di conseguenza anche una conversione da vivere, che il racconto evidenzia con un linguaggio simbolico.
«Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro» (vv.
12-13).
Il verbo ‘voltarsi’ ricorre due volte, con enfasi.
La visione sembra attraversare due distinte tappe: c’è una prima tappa, in cui Giovanni ode una voce che lo raggiunge da dietro; poi si volta e inizia una seconda tappa nella sua esperienza di Dio.
Con questo linguaggio allusivo l’autore intende probabilmente evocare le due tappe della rivelazione di Dio: la prima, attraverso i profeti e le scritture del Primo Testamento, in cui si ascoltava Dio, ma ancora come ‘di spalle’; la seconda, quella definitiva, attraverso Gesù Cristo, che compie quanto era stato annunciato e preparato, e in cui possiamo udire Dio faccia a faccia.
Il compimento della rivelazione tuttavia non avviene senza coinvolgere la libera risposta dell’uomo.
Giovanni deve ‘voltarsi’ per avere la piena visione del Figlio dell’uomo; il verbo greco qui usato (epistréphein) è tipico per indicare la ‘conversione’ (et conversus sum, traduce la Vulgata).
Soltanto dopo che si sarà voltato, e dunque convertito, solo dopo che avrà visto Gesù Cristo faccia a faccia, il senso delle Scritture diventerà chiaro per Giovanni.
Conferma questa lettura l’uso di due verbi diversi per narrare il ‘vedere’ del profeta: nella visione ‘di spalle’ in greco ricorre blépo, che esprime la semplice percezione fisica (vv.
11.12); nella visione ‘di fronte’ c’è invece horáo, che esprime il vedere più profondo della fede (vv.
12.17).
In questi versetti, dunque, l’Apocalisse descrive un duplice e corrispondente progresso: alla crescita oggettiva della rivelazione di Dio risponde la maturazione soggettiva e spirituale del credente, che può giungere a una comprensione piena delle Scritture, e del significato della storia che esse illuminano, a condizione di ‘voltarsi’, dunque convertirsi al Signore Gesù, che è l’oggetto fondamentale del suo vedere nella fede.
È l’itinerario che anche Tommaso deve percorrere per passare dall’incredulità alla fede.
La sua sarà una conversione piena, poiché la più alta professione di fede riportata dal vangelo di Giovanni l’ascoltiamo proprio dalle sue labbra: «Mio Signore e mio Dio!» (v.
28).
Ed è anche esemplare il cammino che lo conduce alla fede: deve fissare lo sguardo sulle mani del Risorto trapassate dai chiodi, sul suo fianco aperto.
Tommaso accoglie l’invito che l’evangelista rivolge a ogni lettore del suo racconto, quando concludendo la narrazione della morte di Gesù cita la Scrittura: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr.
19,37), testo che peraltro risuona anche nell’Apocalisse, pochi versetti prima di quelli che ascoltiamo in questa liturgia: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto» (Ap 1,7).
Voltarsi verso Gesù per comprendere il suo mistero e la rivelazione che egli ci dona del Padre significa fare come Tommaso: voltare lo sguardo per contemplare i segni dell’amore crocifisso, che nell’acqua e nel sangue si effonde su di noi.
Si è ‘presi dallo Spirito’, come accade al veggente dell’Apocalisse, quando comprendiamo che la rivelazione insuperabile di Dio, la sua parola definitiva, sgorgano proprio da quel costato trafitto, segno della vita di Dio che ci viene donata fino al compimento (cfr.
Gv 13,1) perché possiamo anche noi divenire partecipi della vita eterna.
Ogni paura è vinta: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap 1,18-19).
Preghiere e Racconti Beati quelli che non hanno visto e credono Gesù entra a porte chiuse.
Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta.
[…] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio.
[…] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo.
Egli entra a porte chiuse.
Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo.
Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri di-scepoli.
Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi.
L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25).
Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito.
«I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice.
Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.
Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi.
Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò.
Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito.
Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco.
Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui.
I vostri racconti esasperano la mia impazienza.
La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento.
Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce».
Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo.
Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa.
Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione.
Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso.
«Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice.
Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora.
Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio.
Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi.
Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza.
«Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente».
Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto.
Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29).
Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto.
Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola.
Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi.
Annunciami: crederanno e mi adoreranno.
Non esigeranno altre prove.
Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede.
In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».
(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).
L’ho cercato, ma non l’ho trovano “Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato nel mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
Mi alzerò e farò il giro della citt
L’Irc laboratorio di cultura e di umanità
Si terrà dal 12 al 14 aprile a Torino, presso il Novotel (corso Giulio Cesare, 338), il Convegno nazionale per direttori e responsabili diocesani dell’Insegnamento della religione cattolica (Irc), organizzato dal Servizio nazionale per l’Irc della CEI sul tema “L’Irc laboratorio di cultura e di umanità: il contributo degli Uffici Diocesani”.
Si aprirà con un un momento di preghiera alle 8.45 presieduto da S.
Em.za Card.
Severino Poletto, Arcivescovo di Torino.
Seguirà il saluto introduttivo di Don Vincenzo Annicchiarico, Responsabile del Servizio Nazionale per l’Irc.
Alle 9.15 il Card.
Poletto porgerà un saluto ai partecipanti.
Poi faranno seguito quelli del Dott.
Francesco De Sanctis, Direttore Scolastico Regionale del Piemonte e di Don Bruno Porta, Responsabile Regionale Irc.
Alle 10.00 la relazione di S.
E.
Mons.
Ignazio Sanna, Arcivescovo di Oristano sul tema “La questione antropologica ed il contributo dell’Irc all’educazione”, cui seguiranno un breve dibattito e, per tutto il pomeriggio, una serie di laboratori seminariali.
Il programma di martedì sarà aperto alle 7.30 dalla S.
Messa presieduta da S.
E.
Mons.
Guido Fiandino, Vescovo ausiliare di Torino.
In mattinata sono previste due relazioni: alle 9.15 quella su “La riforma del 2° Ciclo”, a cura del Dott.
Giuseppe Cosentino, Capo Dipartimento per l’Istruzione delMIUR.
Alle 10.00 sarà invece la volta di Don Filippo Morlacchi, Responsabile Regionale Irc del Lazio (“L’Irc nel riordino del 2° Ciclo”).
A fine mattinata la conclusione dei laboratori seminariali del giorno precedente mentre il pomeriggio e la serata del 13 aprile saranno dedicati alla Venerazione della Sacra Sindone.
Mercoledì 14 aprile alle ore 9.15Don Cesare Bissoli, Docente emerito di Bibbia e Catechesi presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, interverrà su “Lettura biblico-teologica dei traguardi per lo sviluppo delle conoscenze (tsc) e degli obiettivi di apprendimento (oa) dell’Irc dell’Infanzia e del 1° Ciclo” mentre alle 11.15 è prevista l’ultima relazione del convegno, “Rilevare i dati nazionali sugli avvalentesi dell’Irc: criteri scientifici di riferimento e ricaduta sull’operato delle singole diocesi”, a cura del Dott.
Alessandro Castegnaro, Docente di Politica sociale all’Università degli Studi di Padova e Presidente dell’OSReT (Osservatorio socio-religioso del Triveneto).
«Il convegno», spiega Don Vincenzo Annicchiarico, «sarà un’occasione di confronto sulle novità che investono il mondo della scuola e quindi l’Irc ma anche un momento di riflessione sulla questione educativa e sul contributo che l’Irc può dare alla crescita e alla formazione delle nuove generazioni».