Giovanni e Paolo e il Mistero dei Pupi

Parodia all’italiana di Philippe Ridet in “Le Monde” del 18 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org) Due ragazzini in pantaloni corti e i loro amici sfidano un mago che terrorizza gli uomini e li trasforma in marionette di legno.
È il riassunto del cartone animato di ventisei minuti, la cui diffusione è prevista per domenica 18 luglio sul terzo canale della televisione pubblica italiana (RAI 3) alle 9 [ndr: 8,40], quando la guardano i bambini.
Con il loro coraggio, i due ragazzi, di nome Giovanni e Paolo, finiranno col trionfare sui malefìci del mago.
Giovanni e Paolo…
come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i due giudici assassinato dalla mafia a Palermo nel 1992.
Il mago che concede i suoi favori in cambio delle sottomissione, è evidentemente Cosa Nostra.
Per Rosalba Vitellaro, la regista, e Alessandra Viola, la sceneggiatrice, tutto comincia in macchina un mattino del 2007.
La radio trasmette una canzone di Carmen Consoli, Mulini a vento, dedicata alla scomparsa dei due magistrati.
Perché non noi?, si dicono.
Hanno appena terminato un film d’animazione, Benedetta, che presenta i bambini sfruttati e poveri della Sicilia, che vendono fazzoletti di carta e accendini ai semafori.
Poco tempo dopo, la pubblicazione di un sondaggio realizzato nelle scuole dimostra che i nomi di Falcone e Borsellino sono già stati dimenticati dagli scolari.
L’idea di dedicare un cartone animato pensato per il pubblico giovane a queste due figure dell’antimafia diventa a quel punto per loro una sorta di necessità civica e pedagogica.
Messe al corrente del progetto, la regione Sicilia e la RAI accettano di assicurarne in parte il finanziamento e la diffusione.
Anche le famiglie dei due giudici accettano di sostenere questa impresa.
Altri sponsor interpellati hanno rifiutato.
“Mi dicevano: un cartone animato sulla mafia? In Sicilia? Ma lei è matta!”, ricorda Rosalba Vitellaro.
Legge del silenzio? Volontà di negare la realtà? Tutto questo insieme.
“In Italia, un presidente del consiglio ritiene che parlare di ciò che non funziona faccia torto al paese.
Per me, è proprio il contrario”, prosegue.
Già proiettato a Palermo il 23 maggio, anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, presentato al Festival del film di televisione a Cannes, Giovanni e Paolo, il mistero dei pupi” gode già di un’incoraggiante pubblicità di bocca in bocca.
Il Messico, in preda anch’esso al traffico e alla violenza, acquisirà i diritti del film per la televisione pubblica.
Rosalba Vitellaro e Alessandra Viola riflettono ad un altro soggetto tratto dalla recente storia italiana.
“Un lungometraggio tipo Persepolis” la striscia di Marjane Satrapi.
L’attualità recente è colma di scandali di corruzione, di assassini misteriosi, di affari mai chiariti.
“È un onore partecipare alla costruzione di una opinione pubblica, spiega ancora Rosalba.
Gli eroi non sono quei mafiosi che marciscono in prigione ma quelli che, come Falcone e Borsellino, li hanno combattuti.” Una storia ambientata negli anni Cinquanta a Palermo, nella quale i nostri due amici, con l’aiuto di altri compagni, cercheranno di liberare dal Male oscuro la loro città e i suoi abitanti.

Dire Dio nel processo di apprendimento scolastico

Dire Dio Secondo l’approccio psicologico e psicoanalitico   Massimo Diana Pozza di Fassa, mercoledì 30 giugno 2010.
La relazione si può scaricare dagli allegati a destra         DIRE DIO IN UNA SCUOLA LAICA     1.
 Le resistenze nella scuola laica Dire… l’indicibile?:                                                              Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto                                                            (Romani, 1, 19)   1.1  Dire Dio: Legittimo?                                Giobbe finalmente si arrende a Dio: “ Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti vedono.” (Giobbe, 42, 59) Non c’è uomo che non lo conosca, almeno per sentito dire; perché se ne parla: non c’è lingua che non lo nomini.
(Spaemann, 2008).
Legittimamente? Per garantirsi, la ragione ha percorso piste rigorose ed ha tentato di vagliarne la fidabilità.
Con esito incerto: una tradizione secolare e autorevole lo ha riconosciuto all’origine della realtà, causa e fondamento del mondo.
Ma la stessa tradizione trova resistenze tenaci, magari proprio sul versante di chi fa del riferimento a Dio l’orizzonte di significato definitivo per la propria esistenza.
Pascal e Kierkegaard rappresentano solo gli esponenti più illustri fra i credenti che hanno avanzato dubbi e perplessità sulla dimostrazione razionale, sulla cosiddetta via rationis.
In epoca moderna scuole filosofiche di impatto straordinariamente vasto e accreditato hanno negato alla ragione umana il diritto di parlare di Dio (Kant); hanno screditato l’intera compagine tradizionale che ne esigeva la presenza (Nietzsche); hanno denunciato il riferimento a Dio come evasivo di un impegno umano responsabile (Feuerbach-Marx).
Insomma la compagine della credibilità appare scossa.
E tuttavia il tema di Dio non è di quelli che si possano sottacere; ha tutta la provocazione di un confronto che mette in gioco o addirittura a repentaglio l’esistenza.
    1.2  Resistenze in ambito divulgativo:             In chi… crede colui che crede?                                                                           Quasi un secolo fa un pensatore credente J.
Rivière, s’interrogava sulla resistenza dell’a-teo di fronte a tante verità, di cui la fede è depositaria.
Mettendosi nei panni dell’interlocutore, ripeteva a se stesso: – com’è possibile che un uomo intelligente, di buona cultura ammetta… – E faceva un elenco discreto di affermazioni, cui il credente dà normalmente la propria adesione (Rivière, 1925, 32).
Per cui si era proposto un compito singolare: spiegargli  il suo punto di vista, dipanargli la logica e la coerenza del proprio modo di pensare, con la… presunzione di metterlo a parte di un’esperienza singolarmente illuminante       Qualche anno fa il cardinal Martini, allora arcivescovo di Milano, aveva avviato una interessante iniziativa: la cattedra dei non credenti.
In un dibattito assai vivace aveva chiamato in causa il non credente e l’aveva sollecitato a spiegare la propria posizione.
Uno di loro, che si riconosce in questa schiera, riprende recentemente le fila (Savater, 2007).
“In che cosa crede chi non crede?” era la domanda.
“Crediamo, risponde F.
Savater, nella constatazione dei fenomeni naturali stabiliti dalla scienza, in quel che è verificato da studi storici e sociali, nell’opportunità di alcuni valori morali, eccetera.” (Savater, 2007, 85).
Considerazioni piuttosto evasiva:[1] Più incalzante è invece la domanda che, a sua volta, Savater propone: “- In cosa credono coloro che credono… – Perché ci credono una volta che riescono a chiarire in cosa credono.
… – Non si tratta di pretendere da chi crede in ‘Dio’ che chiarisca il contenuto della sua         fede e le ragioni che lo portano ad adottarla…” ( Savater, 2007, 86).
Invece noi pensiamo che proprio di questo si tratti: che chi crede in Dio sia in dovere di mettere a punto la risposta e dire con chiarezza in che cosa e in Chi crede e le ragioni per cui ci crede! Appunto perché vive in un contesto in cui ‘credere in Dio’ non è affatto ovvio.
Nel trecento l’amico di Dante, Guido Cavalcanti, è passato alla storia perché, secondo il suo biografo, ‘passò la vita a cercar se trovar si potesse che Dio non fusse…’ Savater sembra essersi proposto lo stesso compito; ma data la situazione culturale odierna non passerà alla storia per questo.
Fa parte di quella schiera piuttosto numerosa che Sartre ha già lucidamente identificata una sessantina di anni fa.
Il nostro problema, scriveva Sartre, non è l’esistenza di Dio, ma che “l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio.” (Sartre, 1968, 93).
    1.3 Resistenze nelle matrici culturali             Nihilismo contemporaneo e le sue matrici:  la visione di Heidegger[2].
                                                  Dicono a me tutto il giorno                                                                                    Dov’è il tuo Dio?                                                                                                                (Salmo 41)   Sintetizzando.
  Nella visione più radicale di Heidegger la tradizione occidentale, metafisica s’innesta al pensiero filosofico e lo oscura allorché il pensiero occidentale, piegandosi esclusivamente sull’ente ne ha raggruppata la problematica attorno a due nodi centrali: “…la metafisica distingue infatti da sempre fra ciò che l’ente è e fra il fatto che esista o meno…
Con questa distintnzione comincia la storia dell’essere come metafisica” (Heidegger, 1961, 2°, 400-401).
La distinzione fra essenza ed esistenza viene in quel momento definitivamente formulata.
Platone specialmente si piega sulla considerazione dell’essenza con la segreta fiducia di tracciare il problema dell’essere.
In realtà risale ultimamente proprio a questa distinzione l’oblio dell’essere: allorché i due aspetti dell’ente – essenza ed esistenza – vengono considerati come l’opposizione più profonda e definitiva finiscono con l’oscurare l’originaria distinzione fra essere ed ente.[3] L’ente si propone e s’impone, occupando l’intero orizzonte della riflessione, senza rimando a fondamento alcuno.
L’insita inconsistenza dell’ente e la conseguente aspirazione del pensiero a rilevarne la fondazione induce ad elaborare una gerarchia fra gli enti; e la loro reciproca azione si trasforma in causalità.
che tende a dare ragione di ciascuno di loro.
  Si vanno dunque rinsaldando gli anelli d’una lunga catena che, risalendo di ente in ente, crede finalmente di potersi agganciare ad un anello definitivo, rappresentato da un ente che sia pura causalità, da cui tutti gli altri trarrebbero origine ed in cui troverebbero giustificazione.
La meta sembra suggestiva: il solco fra essenza ed esistenza, di cui sono segnati tutti gli altri enti, qui trova finalmente modo di essere colmato.
L’actualitas ha assunto tali proporzioni da assorbire e fondere in sé i due ‘con-principi’, essenza ed esi­stenza.­ L’attualità è l’essenza stessa di tale essere sommo, gli appartiene necessariamente; non solo, ma trova in lui la propria scaturigine ultima: ‘E l’ente che non può non essere: teologicamente pensato tale ente si chiama Dio” (Heidegger, 1961, 2°, 4I5).
     1.2 La concezione metafisica del mondo   [4]Di fronte alla metafisica e contro di essa Nietzsche ha preso apertamente posizione.
Ha tentato di rilevarne l’inconsistenza: ha affermato che il suo fondamento vivente, il summum ens, non poteva più reggere ed ha decretato la morte di Dio, non tanto come ribellione religiosa (Heidegger, 1961, 1°, 183), quanto come rivalsa di un pensiero più moderno e maturo di fronte alla tradizione filosofica occidentale.
Decretare la morte di Dio è decretare l’inanità di tutte le prospettive che a lui venivano rapportate.  Tutta la gerarchia dei valori tradizionali si affloscia perchè è crollato il loro punto di convergenza, il loro centro di attrazione.
L’ente stesso, segnato nella sua essenza da un inconfondibile impronta teologico-cristiana ne esce irrimediabilmente compromesso.
E il vuoto, scavato al centro, nel cuore degli enti, si allarga irresistibilmente alla periferia, vanificandone man mano uno strato sempre più largo.
La morte di Dio ha creato, per così dire, la base di lancio del nihilismo; il suo inarrestabile allargarsi ne segna le tappe successive.
Nietzsche non si preoccupa che la storia provi o contesti la validità delle sue affermazioni; per lui queste vanno assumendo la garanzia d’una certezza originaria, indiscutibile.
Se il mondo sembra ancora ruotare attorno all’antica stella, illuminarsi della sua luce, si tratta di un movimento che si protrae solo per forza d’inerzia, d’una luce destinata a spegnersi perchè appunto esaurita nella sua sorgente.
 “Le scene del teatro del mondo possono ancora per qualche tempo apparire le stesse, ma il dramma che si rappresenta è già un altro” (Heidegger, 1961, 2°, 33)• Dio potrà ancora per qualche tempo sembrare il regista, in realtà intreccio, trama, azione gli sono sfuggite di mano.
Al punto che la sua presenza si fa inutile e superflua.
Se il mondo può stare da sé, da solo, il destino di Dio è segnato; non c’è più ragione per cui egli debba esser chiamato in causa….
La sua scomparsa ha scavato un vuoto profondo: ha suscitato quell’indefinibile sensazione di inconsistenza, di inanità che N.
chiama ‘sensazione di insignificanza’, che s’allarga oltre i singoli enti fino al cuore, all’essenza stessa dell’ente (Heidegger, 1961, 2°, 80).
    1.4  Il linguaggio su Dio perde la presa   La lettura che Heidegger propone della sentenza di Nietzsche ha il pregio della sintesi e della radicalità.
Andrà naturalmente verificata e senza dubbio ridimensionata.
Lascia tuttavia la sensazione di aver colto un aspetto profondo e conturbante del linguaggio tradizionale su Dio: che cioè qualcosa suoni a vuoto; non penetri nel cuore della realtà, di cui presume di parlare.
La verità di Dio non sembra scalfitta da un discorrere insistente e continuo, quanto evasivo e inefficace.
Soprattutto il linguaggio non sembra in grado di parlare di Dio, anche se il suo nome ritorna fino al parossismo.
Giustifica di conseguenza una riflessione in grado di rivederne le matrici e i percorsi.
Vi si addensano richiami e suggestioni che possono sollecitare un autentico rinnovamento del linguaggio anche su Dio.
Dio è assente dalla vita; se c’è, costituisce il fulcro dell’esistenza, ma questa sembra scorrere senza avvertirlo   Ha ancora senso parlarne? Si può parlarne?   Nichilismo in atto             L’ospite inquietante                                       Galimberti             L’orizzonte di senso             I Giovani?                                                      Ricerche Iard, 2007 Perché non sono cristiano – e tanto meno cattolico? Odifreddi Una diceria irrinunciabile – non negoziabile              Spaemann   Verità oggettiva o interpretazione? Essere e tempo                                                           il linguaggio in Heidegger             Verità come alétheia Verità e metodo                                                         il linguaggio in Gadamer             Ricupero dell’ontologia Verità e interpretazione                                             Pareyson Percorso razionale legittimo in ambito religioso?     2.
Ipotesi orientativa:  L’orizzonte ermeneutico   2.1       La teorizzazione: Cfr.
Trenti, Il linguaggio… p.
69 e ss.
            2.2       Esemplificazioni: (da verificare in dialogo)          A.
Marcel – La promessa   La fedeltà è uno dei temi preferiti dall’analisi di Marcel.
La sua ricerca attorno alla dignità dell’uomo e alle sue radici trascendenti trova qui uno dei riferimenti qualificati e marcatamente originali.
( Cfr.
Marcel, 1940, 192 e ss.).
Senza data (1930) L’altro giorno ho promesso a C… che andrò a visitarlo di nuovo nella clinica in cui agonizza da settimane.
Promessa che, nel momento in cui la formulavo, è scaturita, almeno credo, da più intimo di me stesso.
Promessa generata da un’ondata di pietà: è condannato, egli lo sa, egli sa che io lo so.  Dalla mia ultima visita son trascorsi diversi giorni.
L’insieme di cose, che ha causato la mia promessa, non si è modificato e su questo punto non posso farmi alcuna illusione.
Devo poter dire, anzi ne sono proprio sicuro, che egli m’ispira sempre la stessa compassione.
Come potrei giustificare un cambiamento nella mia disposizione interiore, dato che nulla è venuto ad alterarla? Tuttavia la mia pietà sentita dell’altro giorno, è diventata una pietà teorica.
Penso ancora che egli è infelice, che è opportuno compiangerlo, ma l’altro giorno non avrei pensato proprio a formulare questo giudizio.
Era proprio inutile.
Tutto il mio essere era uno slancio irresistibile verso di lui, con un immenso desiderio di aiutarlo, di mostrargli che ero con lui, che la sua sofferenza era la mia.
Devo riconoscere che questo slancio non esiste più; potrò soltanto imitarlo con un artificio, ma qualcosa in me rifiuta questo inganno.
Tutto ciò che posso fare è di osservare che C… è infelice, solitario e che io non posso abbandonarlo; d’altronde ho promesso di ritornare; la mia firma è in fondo ad un atto di stipulazione e questo atto è in suo possesso.
(MARCEL Gabriel, 1964,.
262-263).
E, quasi a convalida, ci si potrebbe domandare se fuori dell’ambito, almeno largo e generale, per un impegno  risoluto attorno ad una ‘ragione di vita’ si possa conferire unità all’esistenza: quindi se la fedeltà non si porti a perno dell’identità della persona; e tuttavia non  esiga anche un riferimento che trascende la persona.
La fedeltà annuncia un singolare rapporto fra iniziativa interiore e appello trascendente: quasi vigile valorizzazione d’un dono offerto in permanenza; operante appena la libertà vi si desta, lo avverte e lo accoglie.
A sua volta l’esistenza stessa sembra risvegliarsi all’appello di una misteriosa sollecitazione, proveniente da un mondo che, senza esserle estraneo, la trascende.
La persona sembra situarsi in un rapporto misterioso con sorgenti profonde e definitive – il filosofo potrebbe dire che è in rapporto con la totalità, con l’essere -; sembra comunque portare la percezione oscura di una consegna radicalmente impegnativa.
Certo non cessa di risultare cattivante la volontà di essere pari a se stessi, di stare alla parola proprio come affermazione che l’uomo è prima e oltre le situazioni  in cui la sua vita si snoda.
Resta tuttavia difficile ribadire il significato della fedeltà quando sono in gioco valori decisivi o la vita stessa.  Appare anzi illusoria una fedeltà a se stessi che non ha testimone, né interpreta una consegna, data da uno che attende risposta e sa misurarla.
Proprio dove la promessa si radica in una valutazione pensosa, interprete di aspirazioni profonde che fermentano l’esistenza, induce a risalirne all’origine.
Letta in profondità l’esperienza pare scaturire da una consegna; la promessa sembra in grado di evocarla e la fedeltà appare la traccia privilegiata per compierla.
In ultima analisi la fedeltà letta nei suoi rimandi sembra sottendere un appello all’assoluto; risolversi in invocazione, almeno implicita.
  B.
Buber:  La risorsa evocativa del linguaggio   Il linguaggio sembra posarsi sulla superficie delle cose, preoccupato di descriverle; invece le attraversa e chiama in causa la vita nei suoi risvolti, spesso impenetrabili, forse evocativi di una presenza arcana che si lascia presagire.
La religione sembra avanzare una pretesa inconciliabile con la natura stessa del linguaggio: chiamare per nome una realtà trascendente per definizione, quindi ‘altra’ da ogni realtà finita; perciò indicibile.
E tuttavia proprio questa presunzione attraversa da sempre la ricerca individuale e collettiva: la religione è palesemente patrimonio della cultura umana.
Ha rivendicato al proprio linguaggio un senso autentico; forse addirittura un senso risolutivo per l’esistenza.
Vi ha privilegiato l’uso di forme peculiari che ne hanno potenziato la risorsa evocativa.
  Buber in tutto il suo ragionare che potremmo definire ‘sapienziale’ fa perno su la parola fondamentale, che non è una formula magica: è progressiva umanizzazione dell’esperienza consueta, capace di trasfigurare la quotidianità: “ Ma, per noi, più grande di ogni enigma tessuto ai margini dell’essere è la centrale realtà del tempo terreno e quotidiano con il suo raggio di sole sul ramo dell’acero e il presentimento del Tu eterno.” (Buber, 1993, 122) La relazione costituisce la pista privilegiata all’affermazione e alla consapevolezza religiosa.
Presentimento e presagio risultano l’atteggiamento che apre e legittima il riferimento a Dio: sono parole-chiave per aprire alla ricerca umana l’orizzonte religioso: la realtà ha uno spessore che affonda le radici nel mistero; l’uomo ne porta una indefinita intuizione – presentimento -.
Costituisce la traccia rivelativa della verità delle cose create e perciò costitutivamente relazionate al loro creatore.
La relazione con il Tu non è né magica né scontata, è cercata, attraverso il processo dell’interpretazione! Viene illuminandosi appena la crosta dell’ovvietà si spacca: ‘sai sempre nel tuo cuore che hai bisogno di Dio… e Dio ha bisogno di Te.’ (Buber, 1993, 118) Il Tu è costitutivamente in relazione; senza di questa non è: – donde la parzialità di ogni interpretazione individualistica, – in grado di approfondire perfino l’intuizione del ‘singolo’ di Kierkegaard, dove la relazione risulta perentoriamente affermata proprio a partire dal versante religioso: l’uomo sta di fronte a Dio.
Il rapporto costituisce l’esperienza religiosa, che Buber interpreta e scandisce in una sintesi indovinata ed efficace: “Relazione originaria che da Dio all’uomo è missione e comando, dall’uomo a Dio visione e intelligenza, fra i due conoscenza e amore.” (Buber, 1993, 121) La relazione dunque è costitutiva dell’uomo.
Orienta all’interpretazione del rapporto con Dio, contemplato nel gesto creatore, che non riguarda tanto l’origine della creazione quanto l’esperienza attuale che l’uomo ne assume.
L’incontro e la conseguente affermazione di Dio avviene nel presentimento che esplora il mistero, e progressivamente nella consapevolezza della relazione, di cui vive l’universo creato.
  2.3       Esistenza e rapporto costitutivo con Dio                  Lucido 2.4       Esistenza e presagio                                                  Lucido                         2.5       Per il credente?                         inno al Dio ignoto                  Trenti, Linguaggio…, p.
87                         Guardate i gigli: Lc.
12                         “                    p.
88                         Credere in…                                         “                    p.
95                         Banchetto: Mt.
22   2.6        Fusione di orizzonti nell’ambito credente,                                                                        Trenti, Linguaggio…  p.109 e ss.
        3.
Per un’ applicazione al triennio dei Licei             Elaborazione esemplificativa.
                        Gruppo di studio:       Roberto                                                            Cristina            &

“dire Dio”

“Nel momento di nominare Dio, le parole della fede vengono meno, ed ogni discorso che Gli viene applicato non potrà dire né come Lui è, né quanto Lui è grande”: già nel IV secolo Sant’Ilario di Poitiers esprimeva la difficoltà di “dire Dio” con le parole di cui gli uomini dispongono.
Una constatazione tanto più cruciale nel contesto attuale, in cui, malgrado una forte richiesta di spiritualità, ogni discorso su Dio viene sospettato di essere una proiezione delle nostre rappresentazioni umane o, anche, di “mettere le mani su Dio”.
Organizzando, dal 2 al 5 luglio, nell’antica città di Poitiers in cui ancora aleggia la memoria di Sant’Ilario e di santa Radegonda, il 2° forum delle spiritualità cristiane, il mensile Panorama (proprietà del gruppo Bayard, editore di La Croix) ha offerto ai 400 partecipanti venuti da tutta la Francia e anche dal Belgio, l’occasione di approfondire quella che può essere una spiritualità cristiana oggi: come dire l’indicibile, l’inesplicabile? Quali relazioni tra linguaggio e vita spirituale?…
Il forum ecumenico era organizzato con la diocesi di Poitiers, col suo arcivescovo Mons.
Albert Rouet, e con la vicina abbazia di Saint Martin de Ligugé.
Come faceva notare padre Jean-Marie Ploux, prete della Missione di Francia (1), la sfida attuale viene in particolare dal fatto che le teologie da noi ereditate sono tributarie di un mondo in cui l’esistenza di Dio appariva ovvia, mentre oggi non è più così.
“La teologia dominante della Redenzione, forgiata sulla nozione di peccato originale, risolve in maniera semplicistica la disgrazia, il male, ciò che deriva dalle “disfunzioni” della natura.
Per molti, il problema della disgrazia è divenuto un ostacolo insormontabile sulla via del riconoscimento del Dio redentore.
Parlare di Dio con il linguaggio dei primi secoli, significa condannarsi a non essere capiti.” Per Padre Ploux, Dio non rientra più nell’ambito del bisogno o della necessità, ma della gratuità.
Dire Dio oggi significa scegliere di vedere il mondo a partire dai più deboli: “Quando i cristiani vivono così, le persone lo capiscono bene”, ha aggiunto, lungamente applaudito…
Spesso, le parole riducono, rinchiudono.
Anche i gesti o una preghiera silenziosa possono “dire” la presenza di Dio.
Diverse persone intervenendo hanno insistito sulla necessità del silenzio.
“Si può arrivare a parlare di Dio senza deserto, senza notte, senza esodo, senza silenzio?” chiedeva Mons.
Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, che suggeriva del resto che “più della precisione del vocabolario, sono importanti il tono, il timbro della voce, il modo in cui si dice”.
Tutte le forme di linguaggio – oggetto di diversi laboratori – meritano di essere esplorate come vie di accesso alla vita spirituale: arti plastiche, musica, letteratura, poesia, ascolto dei Padri del deserto, “lectio divina”, fotografia…
E anche il linguaggio cinematografico non deve essere trascurato tra i mezzi moderni di dire Dio, come ha spiegato Henri Quinson (2), parlando delle riprese del film Des hommes et des dieux.
Pluripremiato a Cannes, questo film, dedicato ai monaci di Tibhirine (sarà nelle sale cinematografiche francesi a partire dall’8 settembre), ha già segnato profondamente i suoi attori.
Un’osservazione liminare di Dom Jean-Pierre Longeat, abate di Ligugé, merita di essere meditata: “Se cerchiamo solo delle parole per dire Dio, è inutile che stiamo qui.
Noi cerchiamo della parole per fare l’esperienza di Dio, e per formare insieme il Corpo di Cristo…” Nel cristianesimo, dire e fare, cioè vivere, non sono separabili.
(1) autore di Dieu n’est pas ce que vous croyez, Bayard, 2009 (2) autore di Moine des cités.
De Wall Street aux Quartiers-Nord de Marseille, Ed.
Nouvelle Cité 2008 Gli atti del Forum saranno inviati gratuitamente su semplice richiesta a panorama@bayardpresse.com di Béatrice Bazil in “La Croix” del 6 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

The Blind Side (Il lato cieco)

La domanda sorge spontanea: com’è possibile che un film campione d’incassi negli Stati Uniti, forte di un Oscar per la migliore attrice protagonista, sia proiettato solo al Fiuggi Family Festival e non trovi spazio nei nostri cinema? «Magie» della distribuzione all’italiana, capace inizialmente di rifiutare perché «deprimente» un film come The Road, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, considerato un capolavoro della letteratura contemporanea.
Ma qui, si è andato oltre.
The Blind Side, il film che ha premiato Sandra Bullock, in un inedito ruolo drammatico, prima con il Golden Globe e poi con l’Oscar, che ha fatto commuovere famiglie di americani con quella storia, vera, di un gigante buono del football americano e ha rastrellato 255 milioni di euro, quarto incasso assoluto della stagione, in Italia è disponibile solo in dvd, dopo una fugace apparizione su Mediaset Premium.
Una scelta in controtendenza, per la pellicola che, nata dal nulla, al botteghino ha scalzato in America addirittura i teen vampiri amati da orde di adolescenti, di Twilight: New Moon Resta la domanda.
perché questo film che parla di sport e adozione non è degno di arrivare nei cinema italiani? «D’accordo con la società produttrice del film – ha raccontato Paolo Ferrari, presidente di Warner Bros Italia – abbiamo ritenuto che il soggetto fosse poco adatto al pubblico italiano, che ha sempre mostrato di gradire poco i film sullo sport e in particolare sulle discipline, come il football americano, sconosciute nel nostro paese.
L’investimento promozionale per lanciare un film sul mercato delle sale è diventato gravoso e le previsioni di incasso per Blind Side sconsigliavano di rischiare».
Insomma, secondo al Warner, agli italiani, popolo che vive di pane e calcio, non piacciono i film sullo sport.
Eppure Invictus di Clint Eastwood, sembra dimostrare il contrario.
Quel film, dove il rugby è uno strumento di lotta politica, dove non si gioca soltanto una partita ma si raccontano emozioni e storie individuali, o collettive (il Sudafrica di Mandela) da noi è andato molto bene.
E non è l’unico.
Anche in The Blind Side il football è un pretesto.
Anzi è il contesto, dentro cui si dibatte il destino di Michael Oher, un grattacielo d’uomo, campione dei Baltimore Ravens.
Oggi, a soli 24 anni, la sua storia è diventata un libro e un film.
La storia di un ragazzo afroamericano di Memphis, orfano di padre e con una madre tossicodipendente, che non ha nulla, se non un futuro di degrado e la stazza per fendere il quadrilatero verde.
Alle soglie di un destino senza destino lo salva Leigh Anne Tuohy (Sandra Bullock appunto), assieme al marito e a due figlie.
Reginetta della commedia sentimentale per un’intera generazione, l’attrice ha abbandonato impacci romantici e buffi corteggiamenti, per un ruolo che lei stessa ha definito «impegnato e impegnativo»: «Ha subito avuto un significato molto importante per me: perché parla delle mamme, che si occupano sempre dei figli, naturali o adottati, e non importa da dove vengono».
Anne apre la propria casa di bianchi benestanti a quel bambinone triste di colore.
Lo adottano, gli pagano gli studi, lo seguono e gli fanno coltivare il suo sogno, racchiuso in potenza nel suo talento innato: il football.
Michael avrà la ribalta, ma soprattutto avrà una famiglia.
È la quinta essenza dell’american dream, nella sua versione caritatevole.
Il razzismo della povertà battuto dalla pietà e dallo sport che è sfida, conquista e successo.
E, anche se spesso ci sfugge di mente, solidarietà.
Ilario Lombardo Avvenire 27 07 2010

Il problema dell’ateismo

L’Occidente non è soltanto ateismo e razionalismo Nel centenario della nascita torna in libreria per Il Mulino un volume del filosofo Augusto Del Noce.
Con una postfazione di Cacciari che anticipiamo.
di Massimo Cacciari (Corriere della SerA, 18 giugno 2010) La novità e l’importanza de Il problema dell’ateismo consistono nell’aver posto al centro della storia della filosofia moderno-contemporanea la posizione (che si fa opzione o postulato) ateistica; questa non è più considerata come il «punto di vista» di questo o quel pensatore, ma come il destino stesso del razionalismo e dell’idealismo europei.
Poiché la filosofia è il farsi cosciente del significato di un’epoca, tale suo esito rappresenta perciò la «realtà invadente», «senza precedenti storici» (p.
335) del fenomeno dell’ateismo nel Moderno in tutti i suoi aspetti.
La stretta connessione nel libro tra dimensione teoretica e meta-politica, elemento essenziale dell’intera ricerca di Del Noce, si arricchisce qui dell’apporto decisivo della prospettiva propriamente teologica.
Se la filosofia moderna è «segnata» fin dalle sue origini dall’esito ateistico, è evidente come la sua storia debba essere tracciata in connessione stretta con la teologia (p.
75), a differenza di ciò che avviene in quelle «storie» che si muovono dal tacito, e inindagato, presupposto del «progresso» atheos del pensiero occidentale.
L’ateismo non potrebbe definirsi, infatti, se non in opposizione a elementi essenziali della tradizione teologica.
Per Del Noce ciò non comporta affatto una semplice «sistemazione» storiografica, per quanto originale e «spaesante», il problema dell’ateismo rimane per lui fondamentalmente irrisolto, e cioè permane come aporia immanente allo sviluppo del razionalismo e idealismo moderni fino a quei suoi esiti contemporanei (tra Nietzsche e Heidegger), che potrebbero anche apparire nel più radicale contrasto con le sue premesse.
Un assunto di così straordinario impegno può essere svolto soltanto attraverso una pluralità di approcci, teoretici, teologici, storico-politici, «sincronicamente» e insieme una, direi, vichiana sensibilità per la storia del pensiero, dove la considerazione puntuale dei suoi diversi momenti, nel loro intreccio, sia sempre riportata al comune «destino» di cui appaiono necessaria manifestazione.
Da questo punto di vista, la prima domanda riguarda la differenza essenziale tra l’ateismo moderno e quello antico, ovvero in che termini l’ateismo nella cristianità rappresenti una autentica novitas rispetto alle sue testimonianze grecoromane; su tale base, occorrerà procedere nel distinguere i diversi momenti della storia dell’opzione ateistica, in rapporto alle diverse forme che assumono razionalismo e idealismo moderni, fino al loro apparente dissolversi; infine, si dovranno analizzare proprio tali esiti, esplicitamente ateistici, per coglierne non solo le stridenti differenze, ma come, dal loro stesso interno, riemerga o ri-corra proprio quel problema di Dio, che l’ateismo assoluto o compiuto aveva dichiarato risolto.
È a questo punto che si farà maggiormente valere la posizione filosofica e teologica dello stesso Del Noce, e che si renderanno manifesti i presupposti e le ragioni della sua «lotta» al dilagante affermarsi del postulato ateistico (…).
Ma che cosa intendiamo con il termine ateismo? Ne è possibile una definizione in generale, che ne abbracci le diverse epoche? L’ateo è colui che nega l’esistenza di Dio? Ma quale Dio? O ateo è invece chi sostiene che non-è Dio tutto ciò di cui è dimostrabile l’esistenza? In quest’ultimo caso, la posizione atea si avvicinerebbe «pericolosamente» proprio ad un misticismo di impronta neoplatonica.
Forse è possibile, in primissima istanza, e sulla scorta delle indicazioni dello stesso Del Noce, definire ateistica la negazione della possibilità stessa del soprannaturale (p.
356), l’affermazione (che Del Noce ritiene «senza prove») che ogni idea di «trascendenza» determina un’insanabile lacerazione nell’unità dell’Io.
Un simile «postulato» sembra precedere e fondare l’ateismo in quanto «certezza» che al termine «Dio» nulla corrisponda di determinato o determinabile.
Questa «certezza» si fa strada nella storia della filosofia e nella cultura, nel significato antropologico del termine, europee insieme con la «evidenza» del successo straordinario della comprensione razionale-scientifica della natura.
Da un iniziale agnosticismo è necessario, per Del Noce, che si giunga per questa via ad un ateismo assoluto, e che questo dia vita ad una prassi, ad un agire politico, che si configura per lui come un autentico «stato di guerra» contro Dio.
Ma i passaggi attraverso i quali questo «destino» si dispiega sono essenziali per comprenderne l’intero impianto, poiché essi non segnano momenti che progressivamente si oltrepassano, bensì invece, piuttosto, fattori interni dell’idea stessa di ateismo.
AUGUSTO DEL NOCE , Il problema dell’ateismo, Il Mulino Bologna, 2010,  pp.
656, € 22.00.
Ritorna in libreria oggi, edito da Il Mulino, uno dei libri importanti del Novecento, Il problema dell’ateismo di Augusto Del Noce (pp.
656, € 22), filosofo del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita.
La prima edizione uscì nel 1964, l’ultima nel 2001 (con un’introduzione di Nicola Matteucci).
Ora l’opera è riproposta con l’aggiunta di un’ampia postfazione di Massimo Cacciari, intitolata Sulla critica della ragione ateistica (della quale, in questa pagina, diamo in anteprima un estratto).
In essa — un vero e proprio saggio sull’argomento, in cui sono messe in luce le qualità dell’analisi di Del Noce — oltre a rimeditare le tesi de Il problema, vengono esaminate numerose tematiche inerenti alla negazione di Dio.
Cacciari ricostruisce momenti di storia e consegna a questo scritto non poche riflessioni personali.
Per offrire un esempio, diremo di una pagina in cui sottolinea come l’ateismo si presenti oggi quale oblio di se stesso: non è più un’idea, una visione del mondo, «non si predica più».
Del Noce riteneva che la negazione di Dio non fosse il destino dell’Occidente, ma soltanto il suo problema.
Vide alla base di esso quel razionalismo sterile, nemico del mistero e del soprannaturale, che molta parte ha avuto nella filosofia moderna.
Cacciari mette in luce il percorso individuato da Del Noce: il «segreto» teologico dell’ateismo, intorno alla cui «scoperta» ruota il libro riproposto, è costituito dal rifiuto «senza prove» dello «status naturae lapsae», ovvero dello stato di natura decaduta.
E la sua opzione fondamentale è nel «rifiuto della concezione biblica del peccato».
Oltre a esaminare l’«irreligione occidentale» e «Il problema Pascal e l’ateismo contemporaneo» con rara acribia, il libro dedica un ampio capitolo alla «non filosofia» di Marx e al comunismo.
Nella conclusione Del Noce scrive con preveggenza che «l’ateismo, insomma, rappresenterebbe il momento della “morte di Dio”, preludio a quello della sua Resurrezione.
Può essere quindi considerato e vissuto dal cristiano come un momento di «teologia negativa».
Nel 1964 tali parole potevano essere contestate, o irrise, dagli intellettuali militanti; oggi assumono quasi un valore profetico.
di Armando Torno in “Corriere della Sera” del 18 giugno 2010

XI Domenica Tempo Ordinario Anno C

XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: 2Samuele 12,7-10.13          In quei giorni, Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro.
Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammonìti.
Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittìta».
Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!».
Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».
    v Il pentimento di Davide, riportato dal brano, è la tappa conclusiva della storia del suo peccato e dell’intervento di Dio che lo guida verso il pentimento.
Ciò che Davide aveva commesso – l’adulterio, il tentativo di nasconderlo, la decisione di far morire Uria, l’accoglienza di Betsabea nella reggia – era stato un male agli occhi del Signore.
Solo l’intervento di Dio poteva ristabilire nella sua bellezza e potenza vitale la relazione personale che si era rotta tra i due.
E Dio aiuta Davide a ritornare in se stesso.
«Lo libera facendo presa, nella sua infinita bontà e finezza psicologica, sui suoi sentimenti migliori: la lealtà, il bisogno di difendere la giustizia […].
Rivolge il suo appello non a Davide peccatore, bensì a Davide giusto, leale, e per questo riesce» (C.M.
Martini).                   Il profeta Natan, attraverso un racconto semplice ricostruito sulla trama della vicenda di Davide, aiuta il re a rileggere, con distacco e oggettività, la propria vicenda personale, quindi lo porta a rientrare in sé e lo restituisce alla sua personale verità con un coraggioso passaggio: «Tu sei quell’uomo!», proprio quello che tu hai giudicato meritevole di morte.
A questo punto prende Davide come per mano e lo aiuta a ripercorrere tutta la sua storia segnata da tanti interventi di benevolenza divina.             La sintesi riportata richiama il testo di Isaia sulle cure del Signore per la sua vigna e tutta la serie dei benefici di Dio in favore del suo popolo che rispose con ingratitudine e infedeltà (cfr.
Is 5,1-7).
Le parole di Natan giungono al cuore dell’uomo Davide che non si difende, ma confessa: «Ho peccato contro il Signore!».
Quasi un’eco del «sono nudo» di Adamo (Gen 3,10)! Questa confessione restaura tutta la statura spirituale di Davide e lo libera da quel groviglio di menzogna e infedeltà nel quale si era sempre più intricato volendosi liberare da solo.
Il pentimento di Davide è grande: c’è tutto il suo cuore contrito, c’è l’infrangersi di tutte le sue resistenze e un’esperienza molto concreta di abbassamento interiore.
Su questo volto dell’umiltà umana – non acquisita, ma subita e accolta – scende il perdono del Signore, che libera Davide dalla morte: «Tu non morirai».          Seconda lettura: Galati 2,16.19-21            Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno.
In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio.
Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me.
E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.
Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.
              v Lo stralcio della lettera ai Galati ci offre una sintesi del ‘vangelo’ di Paolo.
Potremmo rileggerlo a partire dal suo nucleo centrale: «Cristo vive in me», per trovare qui espressa l’autentica vita cristiana e la profonda esperienza religiosa di Paolo: una vita vissuta al di sopra dell’io naturale, segnata dalla presenza e irruzione di Dio nell’uomo.
È la vita nuova che trae la sua origine dal battesimo e la sua risorgente energia dall’adesione fiduciosa della fede nell’amore con cui Gesù abbraccia ogni uomo.
Ecco il battesimo: morire alla legge, cioè sottrarsi alla sua influenza, al suo dominio, e morire dunque al passato, all’uomo esteriore, al peccato, per vivere per Dio, cioè consacrato a Dio.
Ed ecco la fede: l’uomo viene giustificato, cioè reso moralmente retto davanti a Dio e capace di agire come tale, non dalle opere della legge, ma dalla salvezza operata da Gesù Cristo.
La fede è – per così dire – la porta di accesso a Gesù salvatore; è quell’atteggiamento con cui l’uomo accoglie la rivelazione divina manifestata in Gesù Cristo e risponde dedicando a lui tutta la propria vita.
Questa giustificazione è dunque un dono gratuito di Dio che cambia dal di dentro la vita dell’uomo entrato in contatto con Cristo mediante la fede e il battesimo.
     In virtù di questo contatto tra Cristo e il credente si opera come uno scambio reciproco, una simbiosi.
È la vita di Cristo che si realizza nel credente, ma non nel senso che Cristo diventa il soggetto delle azioni umane.
Il soggetto resta sempre il credente, con la sua vita di carne, tutta umana, con il peso delle sue debolezze, fragilità, della sua miseria, ma sulla quale si innesta un principio di vita superiore, che è Cristo stesso.
La comprensione di questa verità operata dalla fede nell’inabitazione di Cristo trasforma, rinnovandola, la vita dell’uomo, fino a compenetrarne la coscienza psicologica.
  Vangelo: Luca 7,36-8,3          In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui.
Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola.
Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo.
Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa».
Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro».
«Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta.
Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due.
Chi di loro dunque lo amerà di più?».
Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più».
Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene».
E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli.
Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi.
Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo.
Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato.
Invece colui al quale si perdona poco, ama poco».
Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati».
Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?».
Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».
In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio.
C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.
    Esegesi     Nel brano evangelico due personaggi si impongono alla nostra attenzione interiore: Simone, il fariseo, simbolo dell’uomo giusto, autosufficiente, controllato, che rispetta la legge ma ha il cuore indurito all’amore, e una peccatrice la cui storia ci è ignota, mentre ci è noto il suo stato interiore di conversione, il suo cuore pentito, frantumato.
     I gesti di questa donna racchiudono tutte le sfumature della gratitudine.
L’andare diretta verso Gesù, il prostrarsi ai suoi piedi (gesto tipico di chi ha visto salvata la propria vita), lo sciogliersi dei capelli in segno di umiliazione, il versare il profumo (segno di gioia, di abbondanza, di amore e consacrazione), e poi le lacrime e i baci: tutte espressioni che parlano di accoglienza e di vita.
Questa donna dice così l’autentico stare dell’uomo davanti a Dio: nessuna giustificazione e tanta gratitudine; pronuncia così l’amen della sua fede nel perdono di Gesù e del suo amore che accetta di lasciarsi amare.
     Tra il fariseo e la peccatrice sta Gesù, il vero profeta, che conosce i disegni di Dio e sa leggere nel cuore degli uomini.
Gesù vede il disprezzo e la freddezza del cuore di Simone, il suo sentirsi giusto e credere che l’amore di Dio può essere meritato.
Il suo peccato è tutto qui: voler meritare l’amore di Dio che è per essenza pura gratuità.
Potremmo chiamarlo «un peccato di prostituzione nei confronti di Dio» (S.
Fausti).
Nel cuore della donna, probabilmente una prostituta, Gesù coglie invece l’apertura e l’accoglienza al dono dell’amore che si manifesta pienamente nel perdono.
La donna si lascia amare, cioè perdonare, e il suo amare di più è effetto e causa insieme del perdono.
Amore e perdono si alimentano a vicenda: la donna ama in quanto perdonata e, in quanto ama, è aperta ad accogliere il perdono.
     Il cristianesimo è questo amore per Gesù, la fede che salva è apertura alla salvezza portata da Gesù.
La conversione più profonda è dunque il semplice riconoscersi bisognosi del perdono.
La donna si pone come uno specchio non solo, per Simone, ma anche per tutti noi ogni volta che abbiamo difficoltà a piegarci fino ai piedi di Gesù: solo chi è piccolo e a terra può toccare i piedi del messaggero che porta il lieto annuncio della salvezza e della pace.
  Meditazione      «Ho peccato contro il Signore!…
Il Signore ha rimosso il tuo peccato» (2Sam 12,13).
Questo essenziale dialogo tra Davide e il profeta Natan, in cui sono messi di fronte l’uomo peccatore e il Dio ricco di misericordia, potrebbe riassumere il tema che attraversa la liturgia della Parola di questa domenica.
E infatti, quasi come una eco dell’annuncio rivolto dal profeta al re peccatore, ci giungono le parole che chiudono il racconto della peccatrice perdonata da Gesù, tramandatoci dall’evangelista Luca: «I tuoi peccati sono perdonati…
va’ in pace» (Lc 7,48.50).
L’accostamento di questi due testi della Scrittura, proposto dalla liturgia, ha realmente la forza di una rivelazione del volto di Dio che permette all’uomo di ritrovare la verità della sua vita nell’orizzonte infinito del perdono che ricrea e che apre quel cammino nella pace che il peccato aveva interrotto.
Lo sguardo di compassione che Dio posa sull’uomo che ha il coraggio di riconoscere la sua colpa (come Davide e come la donna peccatrice) è più forte della morsa del peccato e solo chi sperimenta su di sé questo sguardo di misericordia donato nella assoluta gratuità, può intraprendere l’avventura di un amore senza più riserve.
È il paradosso di un amore che sgorga dal perdono e di un perdono che può essere donato e accolto solo da chi ama.
Gesù, rivolgendosi a Simone, ma parlando di quella donna che con i suoi gesti ha rivelato tutta la sua miseria e tutto il suo amore per Lui, dice: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato.
Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47).
Chi non ha il coraggio di riconoscersi nella estrema nudità e fragilità in cui l’esperienza del peccato lo pone di fronte al Dio infinitamente compassionevole, non riuscirà mai ad entrare nello spazio della gratuità; di fronte agli altri sarà come il fariseo Simone, duro nel giudizio, illuso di saper discernere il cuore dell’uomo, ma di fatto cieco e incapace di guardare l’altro con occhi di misericordia.
     Il racconto di Luca, sul quale ci soffermiamo brevemente, è davvero una icona da contemplare.
Si resta profondamente colpiti dai contrasti che caratterizzano la dinamica di questo brano evangelico: una giustizia e una rettitudine che non riescono a varcare la soglia della gratuità (il fariseo), un grande peccato che si trasforma in un grande amore, parole non dette e parole sussurrate dietro le quali l’uomo si nasconde, e gesti forse ambigui ma attraverso i quali si ha il coraggio di compromettersi e di esprimere tutta la forza dell’amore.
E poi in questo brano tutto è eccessivo: il peccato, il perdono, l’amore, i gesti, i silenzi, gli sguardi.
Veramente si deve riconoscere che Luca ha saputo esprimere stupendamente il paradosso della gratuità e soprattutto il paradosso di una conversione che sa trasformare un desiderio appassionato in una porta aperta all’amore di Cristo.
Con un linguaggio sorprendente, Giovanni Climaco così descrive questa ‘conversione’ dall’eros all’agape, questa apertura della dimensione affettiva, attraverso cui noi amiamo, alla charitas Christi di cui è protagonista la peccatrice: «Ho visto anime impure che si gettavano nell’eros fisico fino al parossismo.
È stata proprio la loro esperienza di tale eros a portarli al capovolgimento interiore.
Allora concentrarono il loro eros sul Signore.
Oltrepassando il timore, cercavano di amare Dio con un desiderio insaziabile.
Ecco perché Cristo, parlando della casta prostituta, non ha detto che ella aveva avuto paura, ma che aveva molto amato, e che aveva potuto superare agevolmente l’amore con l’amore» (Scala del paradiso, 5,54).
     La forza di questo racconto sta nel contrasto tra due modi di rapportarsi a Dio e agli altri, espressi proprio dagli atteggiamenti del fariseo che invita a pranzo Gesù e della peccatrice che improvvisamente irrompe nella sala e compie verso Gesù dei gesti imbarazzanti e inauditi per Simone e gli altri invitati.
Questa donna è conosciuta come una peccatrice (7,37) e ciò che compie sembra essere risucchiato in questa situazione di vita moralmente scandalosa.
Così appare allo sguardo di Simone.
E infatti quella donna, senza dare alcuna spiegazione, senza presentarsi, senza dire una parola, inizia a compiere dei gesti così inau-diti da gettare tutti nello sconcerto.
Tutti, ma non Gesù, il quale la lascia fare, perché quella donna è venuta per lui ed è lui che vuole incontrare.
Ogni suo gesto sprigiona il desiderio di questo incontro.
Stando «dietro presso i piedi di Gesù» (v.
38), quella donna sembra quasi voler deporre tutta la miseria della sua vita ai piedi di chi ha la forza di risollevarla.
E «piangendo cominciò a bagnarli di lacrime» (v.
38): quelle lacrime che dai suoi occhi scendono sui piedi di Gesù sono le lacrime di chi finalmente ha saputo porsi di fronte alla verità della sua vita e ora può vivere un momento di liberazione.
E poi si mette ad asciugare i piedi di Gesù «con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (v.
38): le lacrime, segno del pentimento, confondendosi con il profumo dell’unguento, diventano il segno più limpido del suo amore per Gesù.
Questa immagine eccessiva di amore turba il fariseo Simone e quasi in contrasto con la passione espressa dalla donna nei suoi gesti, c’è la freddezza nel giudizio che quest’uomo, giusto e retto, esprime nel suo cuore: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!» (v.
39).
Parole di condanna non solo per la donna, ma anche per Gesù: è un profeta che di fatto non sa discernere e donare il giudizio di Dio!      È sorprendente notare come tutto ciò che quella donna compie è sotto lo sguardo di ognuno, mentre il giudizio di Simone è formulato nel segreto, nel cuore.
Eppure, ad un certo punto tutto viene messo allo scoperto e rivelato nella verità.
E questo avviene quando Gesù, attraverso una parabola, risponde a quei tanti interrogativi e giudizi che Simone (e forse anche tutti gli altri invitati) aveva formulato nel cuore e non aveva osato far affiorare sulla labbra.
«Simone, ho da dirti qualcosa….» (v.
40): nel momento in cui Gesù pronuncia questa parola e poi racconta la storia dei due debitori, uno con un ‘grande’ debito da restituire e uno con un ‘piccolo’ debito, due debitori ugualmente perdonati, ecco che Simone è obbligato a confrontarsi con la donna, a convenire il suo sguardo su di lei, a vedere nei gesti che ha fatto il segno di un amore senza limiti, a misurare su di essi la piccolezza della sua giustizia, ad allargare gli orizzonti del suo sguardo per andare oltre le apparenze, a cambiare il suo modo di interpretare l’agire di Dio verso il peccatore.
È lui il piccolo debi-tore che è rimasto intrappolato solo nella logica del dovere e non ha saputo, come quella donna, avventurarsi nello spazio senza limiti della gratuità, della sovrabbondanza e dell’eccesso dell’amore.
Queste stupende parole di Isacco il Siro possono offrire un commento alle parole che Gesù rivolge al fariseo (cfr.
vv.
44.47): «La giustizia è la rettitudine di una eguale misura che dà a chiunque in modo eguale, che non adatta la sua retribuzione a nulla, badando a ciò che ha sotto agli occhi.
La misericordia invece, è una passione mossa dalla bontà, che si piega su tutto con indulgenza.
Non retribuisce colui che merita il male, né colui che merita il bene, ma dà in abbondanza il doppio…
È misericordioso colui che fa misericordia al suo prossimo, non solo con i doni, ma che, anche quando sente e vede qualcosa che causa sofferenza a qualcuno, soffre nel suo cuore un incendio; e ancora, quando riceve uno schiaffo da suo fratello, non si ribella e non gli rende il contraccambio neppure con la parola, ma ne soffre nel suo pensiero».
     «Simone, ho da dirti qualcosa…» (v.
40).
Ciò che avviene in quella sala, attorno a quella tavola, è la parabola che Gesù vuole ora raccontare anche a ciascuno di noi.
E ce la racconta perché anche noi abbiamo bisogno di comprendere che cosa significano perdono e misericordia, che cosa significano gratuità e rischio di amare, giustizia e compassione.
Questa parabola ci è narrata per rispondere ai tanti interrogativi del nostro cuore: come Simone anche noi tratteniamo nel profondo del nostro cuore pensieri e domande che temiamo di porre al giudizio del Signore Gesù, per paura di essere smentiti.
Gesù ce la racconta per aprire il nostro sguardo interiore a discernere ciò che va oltre le apparenze, per renderci capaci di perdono e di misericordia.
Gesù ci racconta questa parabola perché anche noi, troppe volte, siamo come Simone.
 

L’arte di diventare umano

CONVEGNO PEDAGOGICO – ARTISTICO L’ARTE DI DIVENTARE UMANO LA PEDAGOGIA WALDORF-STEINER IN ITALIA CONFERENZE – MOSTRE – LABORATORI 17-20 giugno 2010 Palazzo Panciatichi (Firenze) e Villa Demidoff (Pratolino) 17 giugno: Inaugurazione, Conferenza e Concerto ore 15.00 – 18.30 presso l’Auditorium del Consiglio della Regione Toscana, Palazzo Panciatichi in Via Cavour 4, Firenze 18 giugno: Visite artistiche guidate a Firenze alle ore 9.30 e alle ore 14.00 Spettacolo di Circo alla Romola – San Casciano (Fi) in Via della Chiesa 4, ore 14.30 – 15.30 19 e 20 giugno: Conferenze, Mostre e Laboratori per bambini e adulti ore 10.00 – 18.00, presso Villa Demidoff, Pratolino (Fi) A cura delle Scuole Steiner – Waldorf di Firenze e di Dresda Per informazioni: ASSOCIAZIONE SCUOLA WALDORF FIRENZE www.scuolawaldorffirenze.it – Tel.
055.827135 La partecipazione al convegno è gratuita e aperta a tutti! Gemellaggio tra le scuole WALDORF di Dresda e di Firenze Per una pedagogia che favorisca la crescita di uomini liberi, sani, tolleranti capaci di imparare dalla vita ed essere membri responsabili della società civile.
Le scuole Waldorf di Firenze e di Dresda organizzano un convegno dal titolo “L’arte di diventare umano”.
Un appuntamento pensato per fare il punto su una realtà già consolidata in  molti paesi del mondo ma che è in forte espansione anche in Italia  e in Toscana pur non avendo alcun finanziamento pubblico.
Un’iniziativa tra l’altro, quella del convegno, programmata in occasione del ventesimo anniversario della riapertura della scuola di Dresda, città gemellata con Firenze.  Il convegno si terrà dal 17 al 20 giugno con il patrocinio del Comune di Firenze, della Provincia di Firenze, della Regione Toscana, del Comune di San Casciano e della Federazione Waldorf.
La cerimonia di apertura si terrà a Palazzo Panciatichi, nell’auditorium del Consiglio della Regione, mentre le altre giornate si svolgeranno a Villa Demidoff.
Durante il convegno sono previsti vari interventi sulla pedagogia steineriana a cura di docenti italiani e stranieri, sono previsti laboratori per ragazzi e adulti, mostre fotografiche, mostre di pittura, visite guidate e di lavori degli studenti.
E infine sono previsti anche un concerto e l’esibizione del coro della scuola di Dresda.
CHE COSA SONO LE SCUOLE WALDORF La scuola Waldorf si pone come ideale supremo l’educare alla libertà.
La libertà presuppone l’amore per la conoscenza e per la verità.
Il bambino, quale essere in divenire, porta con sé la possibilità futura di diventare un individuo libero, capace di agire in modo cosciente.
Far sorgere delle domande e cercarne le risposte è il senso più profondo dello sviluppo umano secondo gli insegnanti Waldorf.
La scuola Waldorf si fa custode di questo potenziale così prezioso e  sceglie un via educativa volta a proteggere, nutrire e rafforzare i talenti e le qualità del bambino rispettandone i tempi di maturazione e di sviluppo.
L’approccio artistico permette ad ogni singola individualità di una classe  di partecipare e di nutrire il proprio essere.
Fiabe, leggende e miti  sono uno strumento educativo fondamentale della pedagogia  soprattutto nei primi anni di formazione.
Un altro  prezioso strumento  di cui si avvale la pedagogia, è il ritmo – della giornata , della settimana, delle stagioni.
Tale strutturazione temporale delle materie e delle attività facilita la sicurezza, la fiducia  e l’apprendimento nel bambino.
Le materie principali vengono svolte ad “epoche”, vale a dire per un certo numero di settimane,  e il bambino si immerge  solo in una disciplina e solo in quella.
In questo modo l’esperienza didattica diventa sfaccettata e qualitativamente ricca agendo in profondità, ma sempre nel rispetto dei diversi tempi e modi di apprendimento  di ciascun alunno.  La seconda parte della mattinata è dedicata alle materie artistiche, alle attività manuali e lingue straniere (2) secondo un ritmo settimanale.
LA SCUOLA WALDORF DI FIRENZE La scuola Waldorf nasce nella provincia di Firenze per iniziativa di un’associazione fondata nel 2001 ed oggi ha sede nei locali di una ex scuola elementare situata alla Romola (Via della Chiesa 4, Comune di S.
Casciano), in una bella posizione panoramica nella Val di Pesa, a circa 8 km da Firenze.
Ad oggi l’associazione è presente sul territorio con una scuola dalla prima alla ottava classe (ciclo elementare e delle medie inferiori) e con tre sezioni di “Giardino d’Infanzia”.
Associazione Scuola Waldorf Firenze – via della Chiesa 4, La Romola, San Casciano  (Fi) tel: 055.827135 www.scuolawaldorffirenze.it info@scuolawaldorffirenze.it

Il mondo di cui Dio non si è pentito

GIUSEPPE BARBAGLIO,Il mondo di cui Dio non si è pentito, EDB,  Brescia 2010, pp.
280, euro 24,50 Vi sono riflessioni che nascono strettamente legate a eventi di attualità e che paiono destinate a invecchiare precocemente, come le notizie di giornata che le hanno suscitate.
Ma non sempre questa adesione agli avvenimenti quotidiani è portatrice di caducità dei pensieri che suscita, soprattutto se chi riflette sugli eventi lo fa ancorandosi a principi e orientamenti solidi, fondati su convinzioni che non solo non vengono smentite dal mutare delle stagioni, ma che invece forniscono criteri di discernimento validi in ogni circostanza.
Davvero lodevole è quindi un’iniziativa come quella del Centro editoriale dehoniano EDB che ha deciso di riproporre, all’interno di una specifica collana, una serie di scritti di Giuseppe Barbaglio, uno dei più acuti biblisti italiani, scomparso tre anni or sono.
Nel più recente volume della serie – Il mondo di cui Dio non si è pentito (pp.
280, euro 24,50) – sono raccolti e organicamente disposti diversi articoli apparsi soprattutto sulla rivista Bozze attorno a due snodi fondamentali – «pace e violenza» e «laicità del mondo, laicità del cristiano» – e a una ricerca sull’ispirazione biblica di quattro encicliche papali: la Pacem in terris di papa Giovanni, la Redemptoris hominis, la Centesimus annus e la Veritatis splendor di Giovanni Paolo II.
Sono riflessioni datate quelle di Barbaglio – e volutamente tuttora corredate di nomi e circostanze che ne rivelano l’età – eppure tornare su certe tematiche con la sapienza propria di questo studioso significa scorgere l’immutata attualità.
Non è forse ancora di oggi la domanda se «l’uomo è capace di pace sulla terra»? E non riguarda anche noi la questione della «bugia al potere».
E non sarebbe utile tornare a ricollegare l’obiezione di coscienza al rifiuto delle armi, dell’inimicizia e della guerra e non confinarla soltanto in un ospedale o una farmacia? È forse passato il tempo in cui interrogarsi su «quanta violenza è rimasta nella nostra idea di Dio»? Oppure siamo così convinti di aver penetrato – e soprattutto fatto nostro – il significato autentico dell’amore per i nemici annunciato da Gesù? O ancora – percorrendo gli scritti della parte dedicata alla «laicità», intesa soprattutto con nonsacralità – è così estraneo alle grandi questioni odierne riflettere sulla politica, il potere, i poveri, i simboli religiosi, la «profezia nella Chiesa e della Chiesa», o su «nazionalismi e religioni», o sul rapporto tra Israele e la terra? No davvero.
Gli scritti di Barbaglio sembrano redatti ieri, offerti a noi oggi per il domani della Chiesa e della società.
Rileggerli significa non solo ritrovare la voce di un amico dell’umanità e di un figlio della Chiesa che ha speso la sua vita per annunciare il Vangelo, ma soprattutto lasciarci a nostra volta provocare dalla Bibbia per scrutare i segni dei tempi e per testimoniare ai fratelli e sorelle in umanità che veramente Dio non si è mai pentito del mondo che ha creato.
È un messaggio di grande speranza quello che esce da queste pagine, un messaggio di cui abbiamo particolarmente bisogno in questa stagione in cui viene da chiedersi se davvero vale la pena spendersi per custodire la memoria della radicalità del Vangelo.
Ma, come scriveva Pessoa, «sempre vale la pena, se l’anima non è piccola» di Enzo Bianchi in “La Stampa” – Tuttolibri – del 29 maggio 2010

Festa della SS Trinità Anno C

Preghiere e Racconti   Racconto   Si racconta che un giorno S.
Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità.
Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso.
E così di seguito.
E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso».
S.
Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare.
Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo.
E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita».
E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?».
Agostino capì che Dio è un grande mistero.
E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.
  Gloria tibi Trinitas! Hans Urs von Balthasar ha approfondito una stupenda analogia per parlare dell’azione trinitaria in favore di noi uomini, per parlare della Trinità per come la conosciamo noi in quello che ha fatto per noi uomini.
L’analogia è quella del teatro.
  Pensiamo al teatro, ad un dramma.
Pensiamo al rapporto che c’è tra l’Autore del testo del dramma, l’Attore protagonista della scena e il Regista di tutta la scena.
Quanto i tre fanno può essere espresso dai verbi seguenti: L’Autore genera, concepisce, esprime, formula.
L’Attore incarna, rende vivo, realizza, presta alla parola dell’autore presenza e azione.
Il Regista ispira, suggerisce, dirige, orchestra, armonizza.
Pensiamo ad un dramma in cui i tre sono coinvolti allo stesso modo: perché l’attore è la persona più cara per l’autore, perché nell’attore persona e ruolo coincidono, il dramma cioè è qualcosa in cui non si recita ma si vive, chi fa la parte del re è re davvero, non si muore per finta, ma con vero spargimento di sangue.
La bellezza della rappresentazione dipende tutta dalla sintonia del regista e dell’attore con l’autore.
Il pubblico è coinvolto, ci sono ponti fluidi tra platea e scena.
  Chi sono l’Autore, l’Attore e il Regista del dramma divino che coinvolge l’uomo? Sono proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito.
Il Padre genera, esprime, formula, dà tutto ciò che è.
Il Figlio incarna, rende vivo, realizza, dà presenza e azione.
Lo Spirito Santo ispira, suggerisce, dirige, orchestra, unisce nella distanza.
  La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.
Il Padre non troneggia immobile, giudice sopra il dramma.
Il suo testo è il suo stesso piegarsi sulla sua creatura.
L’Attore, il Figlio è ciò che di più caro il Padre abbia.
In lui persona e ruolo coincidono perfettamente, non c’è neppure un minuto in cui reciti, vive! Muore e risorge realmente.
Lo Spirito Santo sa cogliere perfettamente lo spirito del testo: è lui! È allo Spirito che il Padre affida il suo testo, è all’interpretazione e alla guida dello Spirito che il Figlio si affida per tradurre in vita il testo.
  Che il mondo lo voglia o no il suo dramma è dramma trinitario, dramma dell’amore puro dono di sé.
Noi cristiani lo sappiamo, e sappiamo che sta qui il senso vero, ultimo della vita.
Sta a noi lasciarci coinvolgere fino in fondo e portare questo nella vita di ogni giorno.
Gloria tibi Trinitas!   Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.
Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui.
Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose.
Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito.
Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6].
Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio.
A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6).
Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.
(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp.
88-90).
  Dio è Amore Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?” Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile.
Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.
La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.
La prima conclusione suona allora così: se il mondo c’è, Dio è Amore.
  Il patto di Dio Dio ha fatto un patto con noi.
Il termine inglese covenant (patto, alleanza) significa ‘con-venire’: Dio vuole venire insieme con noi.
In molti dei racconti della Bibbia ebraica, troviamo che Dio appare come un Dio che ci difende contro i nostri nemici, ci protegge contro i pericoli e ci guida alla libertà.
Dio è un Dio-per-noi.
Quando Gesù viene, si rivela una nuova dimensione dell’alleanza.
In Gesù Dio è nato, diviene adulto, vive, soffre e muore come noi.
Dio è un Dio-con-noi.
Infine, quando Gesù lascia questa terra, promette lo Spirito Santo.
Nello Spirito Santo Dio rivela pienamente la profondità del suo patto.
Dio vuole essere vicino a noi quanto il nostro respiro, Dio vuole respirare in noi, affinché tutto quello che diciamo, pensiamo o facciamo sia completamente ispirato da Dio.
Dio è Dio-in-noi.
Il patto di Dio ci rivela dunque quanto Dio ci ami.
(Henri J.M.
NOUWEN, Pane per il viaggio, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 59).
  Preghiera   Lode a te, o Dio, che sei Padre, Figlio e Spirito, che sei il termine eccedente del mio desiderio e la fonte inesauribile del mio stupore.
Lode a te che hai voluto entrare nella nostra e nella mia storia per mostrare che la mia solitudine radicale è vinta, che la mia morte non potrà avvincermi in forma definitiva.
Lode a te che vinci il mio timore di perdermi se ti lascio spazio nel mio cuore.
Lode a te che mi avvolgi nella tua nube e in essa mi sveli il tuo mistero, che è il mistero della mia stessa vita ardentemente indagato.
Lode a te che sei l’amore traboccante e perennemente accogli e salvi la mia fragilità.
Lode a te che mi concedi di entrare nella tua comunione e mi dischiudi possibilità di relazioni vertiginose.
Lode a te che mi conduci sulla via della dedizione seducendo il mio spirito desideroso di pienezza.
Lode a te che sei il principio, l’ambiente e la meta di tutto quanto io posso fruire.
Lode a te che sei il mio Tutto.
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
              SANTISSIMA TRINITA’   Lectio Anno c     Prima lettura: Proverbi 8,22-31          Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine.
Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra.
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo.
Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».
       v Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18).
Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica.
La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36).
Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera.
Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.
     La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio.
Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v.
22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf.
Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv.
24s).
Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v.
23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v.
22).
«Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.
     La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio.
«Io ero là» (v.
26) non significa di per sé una presenza attiva.
Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v.
30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona».
E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v.
31).
Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.
     Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità.
Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui.
Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4).
E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.
  Seconda lettura: Romani 5,1-5          Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
    v Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8.
Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.
     Prima (vv.
1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita.
A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita.
È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf.
Rm 8 ed Ef 1,3-14).
     Poi (vv.
3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza.
Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede.
Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.
     Infine (v.
5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone.
Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo.
Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf.
Rm 8,15-16.22-24,26-27).
  Vangelo: Giovanni 16,12-15          In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
       Esegesi      In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo.
Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf.
Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna).
Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.
     Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi.
Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso.
Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi.
E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore.
Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «vi annuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.
     Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi.
È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso).
Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito…
prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.
     L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi.
Essa passa per l’opera del Figlio.
Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio».
Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito.
E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.
  Meditazione Solennità della Santissima Trinità.
Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18).
Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda…
Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma

I film del Festival di Cannes 2010

La lista dei vincitori con relative schede e trama dei film.
Palma d´Oro Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives  – Apichatpong Weerasethakul (TH/UK/FR/DE/ES) UNCLE BOONMEE WHO CAN RECALL HIS PAST LIVES titolo internazionale: Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives titolo originale: Loong Boonmee Raleuk Chaat paese: Spagna, Thailandia, Germania, Regno Unito, Francia anno: 2010 genere: fiction regia: Apichatpong Weerasethakul durata: 113′ sceneggiatura: Apichatpong Weerasethakul cast: Natthakarn Aphaiwonk, Sakda Kaewbuadee, Geerasak Kulhong, Jenjira Pongpas, Thanapat Saisaymar fotografia: Yukontorn Mingmongkon, Charin Pengpanich, Sayombhu Mukdeeprom montaggio: Lee Chatametikool scenografia: Akekarat Homlaor produttore: Keith Griffiths, Simon Field, Charles de Meaux, Luis Miñarro produzione: Illuminations Films, Anna Sanders Films, GFF Geissendörfer Film- und Fernsehproduktion GmbH, Eddie Saeta S.A., Kick the Machine (TH) rivenditore estero: The Match Factory   Tramai Zio Boonmee soffre di un’insufficienza renale.
Pratica lo yoga con passione e conosce bene il suo corpo.
Sa che morirà entro 48 ore.
Chiama i suoi lontani parenti e chiede loro di farlo uscire dall’ospedale affinché possa morire a casa.
Lì vengono accolti dal fantasma della moglie defunta, riapparsa per curarlo.
Anche suo figlio morto torna dalla giungla sotto forma di scimmia.
Questo si è accoppiato con una creatura conosciuta con il nome di “scimmia-fantasma”, con la quale ha vissuto sugli alberi per 15 anni.
Gran Premio Des hommes et des dieux – Xavier Beauvois (FR) OF GODS AND MEN titolo internazionale: Of Gods and Men titolo originale: Des hommes et des dieux paese: Francia anno: 2010 genere: fiction regia: Xavier Beauvois durata: 120′ data di uscita: FR 08/09/2010 sceneggiatura: Etienne Comar, Xavier Beauvois cast: Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Roschdy Zem, Jacques Herlin, Sabrina Ouazani fotografia: Caroline Champetier montaggio: Marie-Julie Maille scenografia: Michel Bartelemy costumi: Alice Cambournac produzione: Why Not Productions, Armada Films supporto: MEDIA Programme distributori: Mars Distribution rivenditore estero: Wild Bunch Trama Un monastero sulle montagne del Magreb negli anni ’90.
Otto monaci cristiani francesi vivono in armonia con i fratelli musulmani.
Quando un gruppo di lavoratori stranieri viene massacrato da un gruppo islamico, si diffonde il terrore nella regione.
L’esercito offre protezione ai monaci, ma questi la rifiutano.
Malgrado le minacce crescenti, i monaci decidono di restare.
Il film si ispira liberamente alla vita di alcuni monaci cistercensi di Tibhirine, in Algeria, dal 1993 fino alla loro partenza nel 1996.
  Migliore Interpretazione Femminile Juliette Binoche – Copie conforme] – Abbas Kiarostami (IT/FR) titolo internazionale: Certified Copy titolo originale: Copie conforme paese: Francia, Italia anno: 2010 genere: fiction regia: Abbas Kiarostami durata: 106′ data di uscita: FR 19/05/2010, IT 21/05/2010 sceneggiatura: Abbas Kiarostami cast: Juliette Binoche, William Shimell fotografia: Luca Bigazzi montaggio: Bahman Kiarostami scenografia: Ludovica Ferrario, Giancarlo Basili produttore: Marin Karmitz, Charles Gillibert, Nathanaël Karmitz produzione: MK2 Productions, Bi Bi Film, France 3 Cinéma, Canal +, Centre National du Cinéma et de l’image animée (CNC) supporto: MEDIA Programme distributori: MK2 Distribution, BIM Distribuzione rivenditore estero: MK2 Diffusion Trama     James, scrittore inglese di mezza età, in occasione dell’uscita in Italia del suo ultimo libro, conosce una giovane gallerista d’origine francese con la quale passa qualche ora per le stradine di San Gimignano, un piccolo paese del sud della Toscana…
Miglior Interpretazione Maschile (ex-aequo) Javier Bardem – Biutiful  – Alejandro González Inárritu (ES/MX) titolo internazionale: Biutiful titolo originale: Biutiful paese: Spagna, Messico anno: 2010 genere: fiction regia: Alejandro González Iñárritu durata: 138′ data di uscita: FR 25/08/2010 sceneggiatura: