XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno c Prima lettura: 2Samuele 12,7-10.13 In quei giorni, Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro.
Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammonìti.
Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittìta».
Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!».
Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».
v Il pentimento di Davide, riportato dal brano, è la tappa conclusiva della storia del suo peccato e dell’intervento di Dio che lo guida verso il pentimento.
Ciò che Davide aveva commesso – l’adulterio, il tentativo di nasconderlo, la decisione di far morire Uria, l’accoglienza di Betsabea nella reggia – era stato un male agli occhi del Signore.
Solo l’intervento di Dio poteva ristabilire nella sua bellezza e potenza vitale la relazione personale che si era rotta tra i due.
E Dio aiuta Davide a ritornare in se stesso.
«Lo libera facendo presa, nella sua infinita bontà e finezza psicologica, sui suoi sentimenti migliori: la lealtà, il bisogno di difendere la giustizia […].
Rivolge il suo appello non a Davide peccatore, bensì a Davide giusto, leale, e per questo riesce» (C.M.
Martini). Il profeta Natan, attraverso un racconto semplice ricostruito sulla trama della vicenda di Davide, aiuta il re a rileggere, con distacco e oggettività, la propria vicenda personale, quindi lo porta a rientrare in sé e lo restituisce alla sua personale verità con un coraggioso passaggio: «Tu sei quell’uomo!», proprio quello che tu hai giudicato meritevole di morte.
A questo punto prende Davide come per mano e lo aiuta a ripercorrere tutta la sua storia segnata da tanti interventi di benevolenza divina. La sintesi riportata richiama il testo di Isaia sulle cure del Signore per la sua vigna e tutta la serie dei benefici di Dio in favore del suo popolo che rispose con ingratitudine e infedeltà (cfr.
Is 5,1-7).
Le parole di Natan giungono al cuore dell’uomo Davide che non si difende, ma confessa: «Ho peccato contro il Signore!».
Quasi un’eco del «sono nudo» di Adamo (Gen 3,10)! Questa confessione restaura tutta la statura spirituale di Davide e lo libera da quel groviglio di menzogna e infedeltà nel quale si era sempre più intricato volendosi liberare da solo.
Il pentimento di Davide è grande: c’è tutto il suo cuore contrito, c’è l’infrangersi di tutte le sue resistenze e un’esperienza molto concreta di abbassamento interiore.
Su questo volto dell’umiltà umana – non acquisita, ma subita e accolta – scende il perdono del Signore, che libera Davide dalla morte: «Tu non morirai». Seconda lettura: Galati 2,16.19-21 Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno.
In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio.
Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me.
E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.
Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.
v Lo stralcio della lettera ai Galati ci offre una sintesi del ‘vangelo’ di Paolo.
Potremmo rileggerlo a partire dal suo nucleo centrale: «Cristo vive in me», per trovare qui espressa l’autentica vita cristiana e la profonda esperienza religiosa di Paolo: una vita vissuta al di sopra dell’io naturale, segnata dalla presenza e irruzione di Dio nell’uomo.
È la vita nuova che trae la sua origine dal battesimo e la sua risorgente energia dall’adesione fiduciosa della fede nell’amore con cui Gesù abbraccia ogni uomo.
Ecco il battesimo: morire alla legge, cioè sottrarsi alla sua influenza, al suo dominio, e morire dunque al passato, all’uomo esteriore, al peccato, per vivere per Dio, cioè consacrato a Dio.
Ed ecco la fede: l’uomo viene giustificato, cioè reso moralmente retto davanti a Dio e capace di agire come tale, non dalle opere della legge, ma dalla salvezza operata da Gesù Cristo.
La fede è – per così dire – la porta di accesso a Gesù salvatore; è quell’atteggiamento con cui l’uomo accoglie la rivelazione divina manifestata in Gesù Cristo e risponde dedicando a lui tutta la propria vita.
Questa giustificazione è dunque un dono gratuito di Dio che cambia dal di dentro la vita dell’uomo entrato in contatto con Cristo mediante la fede e il battesimo.
In virtù di questo contatto tra Cristo e il credente si opera come uno scambio reciproco, una simbiosi.
È la vita di Cristo che si realizza nel credente, ma non nel senso che Cristo diventa il soggetto delle azioni umane.
Il soggetto resta sempre il credente, con la sua vita di carne, tutta umana, con il peso delle sue debolezze, fragilità, della sua miseria, ma sulla quale si innesta un principio di vita superiore, che è Cristo stesso.
La comprensione di questa verità operata dalla fede nell’inabitazione di Cristo trasforma, rinnovandola, la vita dell’uomo, fino a compenetrarne la coscienza psicologica.
Vangelo: Luca 7,36-8,3 In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui.
Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola.
Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo.
Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa».
Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro».
«Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta.
Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due.
Chi di loro dunque lo amerà di più?».
Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più».
Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene».
E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli.
Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi.
Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo.
Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato.
Invece colui al quale si perdona poco, ama poco».
Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati».
Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?».
Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».
In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio.
C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.
Esegesi Nel brano evangelico due personaggi si impongono alla nostra attenzione interiore: Simone, il fariseo, simbolo dell’uomo giusto, autosufficiente, controllato, che rispetta la legge ma ha il cuore indurito all’amore, e una peccatrice la cui storia ci è ignota, mentre ci è noto il suo stato interiore di conversione, il suo cuore pentito, frantumato.
I gesti di questa donna racchiudono tutte le sfumature della gratitudine.
L’andare diretta verso Gesù, il prostrarsi ai suoi piedi (gesto tipico di chi ha visto salvata la propria vita), lo sciogliersi dei capelli in segno di umiliazione, il versare il profumo (segno di gioia, di abbondanza, di amore e consacrazione), e poi le lacrime e i baci: tutte espressioni che parlano di accoglienza e di vita.
Questa donna dice così l’autentico stare dell’uomo davanti a Dio: nessuna giustificazione e tanta gratitudine; pronuncia così l’amen della sua fede nel perdono di Gesù e del suo amore che accetta di lasciarsi amare.
Tra il fariseo e la peccatrice sta Gesù, il vero profeta, che conosce i disegni di Dio e sa leggere nel cuore degli uomini.
Gesù vede il disprezzo e la freddezza del cuore di Simone, il suo sentirsi giusto e credere che l’amore di Dio può essere meritato.
Il suo peccato è tutto qui: voler meritare l’amore di Dio che è per essenza pura gratuità.
Potremmo chiamarlo «un peccato di prostituzione nei confronti di Dio» (S.
Fausti).
Nel cuore della donna, probabilmente una prostituta, Gesù coglie invece l’apertura e l’accoglienza al dono dell’amore che si manifesta pienamente nel perdono.
La donna si lascia amare, cioè perdonare, e il suo amare di più è effetto e causa insieme del perdono.
Amore e perdono si alimentano a vicenda: la donna ama in quanto perdonata e, in quanto ama, è aperta ad accogliere il perdono.
Il cristianesimo è questo amore per Gesù, la fede che salva è apertura alla salvezza portata da Gesù.
La conversione più profonda è dunque il semplice riconoscersi bisognosi del perdono.
La donna si pone come uno specchio non solo, per Simone, ma anche per tutti noi ogni volta che abbiamo difficoltà a piegarci fino ai piedi di Gesù: solo chi è piccolo e a terra può toccare i piedi del messaggero che porta il lieto annuncio della salvezza e della pace.
Meditazione «Ho peccato contro il Signore!…
Il Signore ha rimosso il tuo peccato» (2Sam 12,13).
Questo essenziale dialogo tra Davide e il profeta Natan, in cui sono messi di fronte l’uomo peccatore e il Dio ricco di misericordia, potrebbe riassumere il tema che attraversa la liturgia della Parola di questa domenica.
E infatti, quasi come una eco dell’annuncio rivolto dal profeta al re peccatore, ci giungono le parole che chiudono il racconto della peccatrice perdonata da Gesù, tramandatoci dall’evangelista Luca: «I tuoi peccati sono perdonati…
va’ in pace» (Lc 7,48.50).
L’accostamento di questi due testi della Scrittura, proposto dalla liturgia, ha realmente la forza di una rivelazione del volto di Dio che permette all’uomo di ritrovare la verità della sua vita nell’orizzonte infinito del perdono che ricrea e che apre quel cammino nella pace che il peccato aveva interrotto.
Lo sguardo di compassione che Dio posa sull’uomo che ha il coraggio di riconoscere la sua colpa (come Davide e come la donna peccatrice) è più forte della morsa del peccato e solo chi sperimenta su di sé questo sguardo di misericordia donato nella assoluta gratuità, può intraprendere l’avventura di un amore senza più riserve.
È il paradosso di un amore che sgorga dal perdono e di un perdono che può essere donato e accolto solo da chi ama.
Gesù, rivolgendosi a Simone, ma parlando di quella donna che con i suoi gesti ha rivelato tutta la sua miseria e tutto il suo amore per Lui, dice: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato.
Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47).
Chi non ha il coraggio di riconoscersi nella estrema nudità e fragilità in cui l’esperienza del peccato lo pone di fronte al Dio infinitamente compassionevole, non riuscirà mai ad entrare nello spazio della gratuità; di fronte agli altri sarà come il fariseo Simone, duro nel giudizio, illuso di saper discernere il cuore dell’uomo, ma di fatto cieco e incapace di guardare l’altro con occhi di misericordia.
Il racconto di Luca, sul quale ci soffermiamo brevemente, è davvero una icona da contemplare.
Si resta profondamente colpiti dai contrasti che caratterizzano la dinamica di questo brano evangelico: una giustizia e una rettitudine che non riescono a varcare la soglia della gratuità (il fariseo), un grande peccato che si trasforma in un grande amore, parole non dette e parole sussurrate dietro le quali l’uomo si nasconde, e gesti forse ambigui ma attraverso i quali si ha il coraggio di compromettersi e di esprimere tutta la forza dell’amore.
E poi in questo brano tutto è eccessivo: il peccato, il perdono, l’amore, i gesti, i silenzi, gli sguardi.
Veramente si deve riconoscere che Luca ha saputo esprimere stupendamente il paradosso della gratuità e soprattutto il paradosso di una conversione che sa trasformare un desiderio appassionato in una porta aperta all’amore di Cristo.
Con un linguaggio sorprendente, Giovanni Climaco così descrive questa ‘conversione’ dall’eros all’agape, questa apertura della dimensione affettiva, attraverso cui noi amiamo, alla charitas Christi di cui è protagonista la peccatrice: «Ho visto anime impure che si gettavano nell’eros fisico fino al parossismo.
È stata proprio la loro esperienza di tale eros a portarli al capovolgimento interiore.
Allora concentrarono il loro eros sul Signore.
Oltrepassando il timore, cercavano di amare Dio con un desiderio insaziabile.
Ecco perché Cristo, parlando della casta prostituta, non ha detto che ella aveva avuto paura, ma che aveva molto amato, e che aveva potuto superare agevolmente l’amore con l’amore» (Scala del paradiso, 5,54).
La forza di questo racconto sta nel contrasto tra due modi di rapportarsi a Dio e agli altri, espressi proprio dagli atteggiamenti del fariseo che invita a pranzo Gesù e della peccatrice che improvvisamente irrompe nella sala e compie verso Gesù dei gesti imbarazzanti e inauditi per Simone e gli altri invitati.
Questa donna è conosciuta come una peccatrice (7,37) e ciò che compie sembra essere risucchiato in questa situazione di vita moralmente scandalosa.
Così appare allo sguardo di Simone.
E infatti quella donna, senza dare alcuna spiegazione, senza presentarsi, senza dire una parola, inizia a compiere dei gesti così inau-diti da gettare tutti nello sconcerto.
Tutti, ma non Gesù, il quale la lascia fare, perché quella donna è venuta per lui ed è lui che vuole incontrare.
Ogni suo gesto sprigiona il desiderio di questo incontro.
Stando «dietro presso i piedi di Gesù» (v.
38), quella donna sembra quasi voler deporre tutta la miseria della sua vita ai piedi di chi ha la forza di risollevarla.
E «piangendo cominciò a bagnarli di lacrime» (v.
38): quelle lacrime che dai suoi occhi scendono sui piedi di Gesù sono le lacrime di chi finalmente ha saputo porsi di fronte alla verità della sua vita e ora può vivere un momento di liberazione.
E poi si mette ad asciugare i piedi di Gesù «con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (v.
38): le lacrime, segno del pentimento, confondendosi con il profumo dell’unguento, diventano il segno più limpido del suo amore per Gesù.
Questa immagine eccessiva di amore turba il fariseo Simone e quasi in contrasto con la passione espressa dalla donna nei suoi gesti, c’è la freddezza nel giudizio che quest’uomo, giusto e retto, esprime nel suo cuore: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!» (v.
39).
Parole di condanna non solo per la donna, ma anche per Gesù: è un profeta che di fatto non sa discernere e donare il giudizio di Dio! È sorprendente notare come tutto ciò che quella donna compie è sotto lo sguardo di ognuno, mentre il giudizio di Simone è formulato nel segreto, nel cuore.
Eppure, ad un certo punto tutto viene messo allo scoperto e rivelato nella verità.
E questo avviene quando Gesù, attraverso una parabola, risponde a quei tanti interrogativi e giudizi che Simone (e forse anche tutti gli altri invitati) aveva formulato nel cuore e non aveva osato far affiorare sulla labbra.
«Simone, ho da dirti qualcosa….» (v.
40): nel momento in cui Gesù pronuncia questa parola e poi racconta la storia dei due debitori, uno con un ‘grande’ debito da restituire e uno con un ‘piccolo’ debito, due debitori ugualmente perdonati, ecco che Simone è obbligato a confrontarsi con la donna, a convenire il suo sguardo su di lei, a vedere nei gesti che ha fatto il segno di un amore senza limiti, a misurare su di essi la piccolezza della sua giustizia, ad allargare gli orizzonti del suo sguardo per andare oltre le apparenze, a cambiare il suo modo di interpretare l’agire di Dio verso il peccatore.
È lui il piccolo debi-tore che è rimasto intrappolato solo nella logica del dovere e non ha saputo, come quella donna, avventurarsi nello spazio senza limiti della gratuità, della sovrabbondanza e dell’eccesso dell’amore.
Queste stupende parole di Isacco il Siro possono offrire un commento alle parole che Gesù rivolge al fariseo (cfr.
vv.
44.47): «La giustizia è la rettitudine di una eguale misura che dà a chiunque in modo eguale, che non adatta la sua retribuzione a nulla, badando a ciò che ha sotto agli occhi.
La misericordia invece, è una passione mossa dalla bontà, che si piega su tutto con indulgenza.
Non retribuisce colui che merita il male, né colui che merita il bene, ma dà in abbondanza il doppio…
È misericordioso colui che fa misericordia al suo prossimo, non solo con i doni, ma che, anche quando sente e vede qualcosa che causa sofferenza a qualcuno, soffre nel suo cuore un incendio; e ancora, quando riceve uno schiaffo da suo fratello, non si ribella e non gli rende il contraccambio neppure con la parola, ma ne soffre nel suo pensiero».
«Simone, ho da dirti qualcosa…» (v.
40).
Ciò che avviene in quella sala, attorno a quella tavola, è la parabola che Gesù vuole ora raccontare anche a ciascuno di noi.
E ce la racconta perché anche noi abbiamo bisogno di comprendere che cosa significano perdono e misericordia, che cosa significano gratuità e rischio di amare, giustizia e compassione.
Questa parabola ci è narrata per rispondere ai tanti interrogativi del nostro cuore: come Simone anche noi tratteniamo nel profondo del nostro cuore pensieri e domande che temiamo di porre al giudizio del Signore Gesù, per paura di essere smentiti.
Gesù ce la racconta per aprire il nostro sguardo interiore a discernere ciò che va oltre le apparenze, per renderci capaci di perdono e di misericordia.
Gesù ci racconta questa parabola perché anche noi, troppe volte, siamo come Simone.
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
L’arte di diventare umano
CONVEGNO PEDAGOGICO – ARTISTICO L’ARTE DI DIVENTARE UMANO LA PEDAGOGIA WALDORF-STEINER IN ITALIA CONFERENZE – MOSTRE – LABORATORI 17-20 giugno 2010 Palazzo Panciatichi (Firenze) e Villa Demidoff (Pratolino) 17 giugno: Inaugurazione, Conferenza e Concerto ore 15.00 – 18.30 presso l’Auditorium del Consiglio della Regione Toscana, Palazzo Panciatichi in Via Cavour 4, Firenze 18 giugno: Visite artistiche guidate a Firenze alle ore 9.30 e alle ore 14.00 Spettacolo di Circo alla Romola – San Casciano (Fi) in Via della Chiesa 4, ore 14.30 – 15.30 19 e 20 giugno: Conferenze, Mostre e Laboratori per bambini e adulti ore 10.00 – 18.00, presso Villa Demidoff, Pratolino (Fi) A cura delle Scuole Steiner – Waldorf di Firenze e di Dresda Per informazioni: ASSOCIAZIONE SCUOLA WALDORF FIRENZE www.scuolawaldorffirenze.it – Tel.
055.827135 La partecipazione al convegno è gratuita e aperta a tutti! Gemellaggio tra le scuole WALDORF di Dresda e di Firenze Per una pedagogia che favorisca la crescita di uomini liberi, sani, tolleranti capaci di imparare dalla vita ed essere membri responsabili della società civile.
Le scuole Waldorf di Firenze e di Dresda organizzano un convegno dal titolo “L’arte di diventare umano”.
Un appuntamento pensato per fare il punto su una realtà già consolidata in molti paesi del mondo ma che è in forte espansione anche in Italia e in Toscana pur non avendo alcun finanziamento pubblico.
Un’iniziativa tra l’altro, quella del convegno, programmata in occasione del ventesimo anniversario della riapertura della scuola di Dresda, città gemellata con Firenze. Il convegno si terrà dal 17 al 20 giugno con il patrocinio del Comune di Firenze, della Provincia di Firenze, della Regione Toscana, del Comune di San Casciano e della Federazione Waldorf.
La cerimonia di apertura si terrà a Palazzo Panciatichi, nell’auditorium del Consiglio della Regione, mentre le altre giornate si svolgeranno a Villa Demidoff.
Durante il convegno sono previsti vari interventi sulla pedagogia steineriana a cura di docenti italiani e stranieri, sono previsti laboratori per ragazzi e adulti, mostre fotografiche, mostre di pittura, visite guidate e di lavori degli studenti.
E infine sono previsti anche un concerto e l’esibizione del coro della scuola di Dresda.
CHE COSA SONO LE SCUOLE WALDORF La scuola Waldorf si pone come ideale supremo l’educare alla libertà.
La libertà presuppone l’amore per la conoscenza e per la verità.
Il bambino, quale essere in divenire, porta con sé la possibilità futura di diventare un individuo libero, capace di agire in modo cosciente.
Far sorgere delle domande e cercarne le risposte è il senso più profondo dello sviluppo umano secondo gli insegnanti Waldorf.
La scuola Waldorf si fa custode di questo potenziale così prezioso e sceglie un via educativa volta a proteggere, nutrire e rafforzare i talenti e le qualità del bambino rispettandone i tempi di maturazione e di sviluppo.
L’approccio artistico permette ad ogni singola individualità di una classe di partecipare e di nutrire il proprio essere.
Fiabe, leggende e miti sono uno strumento educativo fondamentale della pedagogia soprattutto nei primi anni di formazione.
Un altro prezioso strumento di cui si avvale la pedagogia, è il ritmo – della giornata , della settimana, delle stagioni.
Tale strutturazione temporale delle materie e delle attività facilita la sicurezza, la fiducia e l’apprendimento nel bambino.
Le materie principali vengono svolte ad “epoche”, vale a dire per un certo numero di settimane, e il bambino si immerge solo in una disciplina e solo in quella.
In questo modo l’esperienza didattica diventa sfaccettata e qualitativamente ricca agendo in profondità, ma sempre nel rispetto dei diversi tempi e modi di apprendimento di ciascun alunno. La seconda parte della mattinata è dedicata alle materie artistiche, alle attività manuali e lingue straniere (2) secondo un ritmo settimanale.
LA SCUOLA WALDORF DI FIRENZE La scuola Waldorf nasce nella provincia di Firenze per iniziativa di un’associazione fondata nel 2001 ed oggi ha sede nei locali di una ex scuola elementare situata alla Romola (Via della Chiesa 4, Comune di S.
Casciano), in una bella posizione panoramica nella Val di Pesa, a circa 8 km da Firenze.
Ad oggi l’associazione è presente sul territorio con una scuola dalla prima alla ottava classe (ciclo elementare e delle medie inferiori) e con tre sezioni di “Giardino d’Infanzia”.
Associazione Scuola Waldorf Firenze – via della Chiesa 4, La Romola, San Casciano (Fi) tel: 055.827135 www.scuolawaldorffirenze.it info@scuolawaldorffirenze.it
Il mondo di cui Dio non si è pentito
GIUSEPPE BARBAGLIO,Il mondo di cui Dio non si è pentito, EDB, Brescia 2010, pp.
280, euro 24,50 Vi sono riflessioni che nascono strettamente legate a eventi di attualità e che paiono destinate a invecchiare precocemente, come le notizie di giornata che le hanno suscitate.
Ma non sempre questa adesione agli avvenimenti quotidiani è portatrice di caducità dei pensieri che suscita, soprattutto se chi riflette sugli eventi lo fa ancorandosi a principi e orientamenti solidi, fondati su convinzioni che non solo non vengono smentite dal mutare delle stagioni, ma che invece forniscono criteri di discernimento validi in ogni circostanza.
Davvero lodevole è quindi un’iniziativa come quella del Centro editoriale dehoniano EDB che ha deciso di riproporre, all’interno di una specifica collana, una serie di scritti di Giuseppe Barbaglio, uno dei più acuti biblisti italiani, scomparso tre anni or sono.
Nel più recente volume della serie – Il mondo di cui Dio non si è pentito (pp.
280, euro 24,50) – sono raccolti e organicamente disposti diversi articoli apparsi soprattutto sulla rivista Bozze attorno a due snodi fondamentali – «pace e violenza» e «laicità del mondo, laicità del cristiano» – e a una ricerca sull’ispirazione biblica di quattro encicliche papali: la Pacem in terris di papa Giovanni, la Redemptoris hominis, la Centesimus annus e la Veritatis splendor di Giovanni Paolo II.
Sono riflessioni datate quelle di Barbaglio – e volutamente tuttora corredate di nomi e circostanze che ne rivelano l’età – eppure tornare su certe tematiche con la sapienza propria di questo studioso significa scorgere l’immutata attualità.
Non è forse ancora di oggi la domanda se «l’uomo è capace di pace sulla terra»? E non riguarda anche noi la questione della «bugia al potere».
E non sarebbe utile tornare a ricollegare l’obiezione di coscienza al rifiuto delle armi, dell’inimicizia e della guerra e non confinarla soltanto in un ospedale o una farmacia? È forse passato il tempo in cui interrogarsi su «quanta violenza è rimasta nella nostra idea di Dio»? Oppure siamo così convinti di aver penetrato – e soprattutto fatto nostro – il significato autentico dell’amore per i nemici annunciato da Gesù? O ancora – percorrendo gli scritti della parte dedicata alla «laicità», intesa soprattutto con nonsacralità – è così estraneo alle grandi questioni odierne riflettere sulla politica, il potere, i poveri, i simboli religiosi, la «profezia nella Chiesa e della Chiesa», o su «nazionalismi e religioni», o sul rapporto tra Israele e la terra? No davvero.
Gli scritti di Barbaglio sembrano redatti ieri, offerti a noi oggi per il domani della Chiesa e della società.
Rileggerli significa non solo ritrovare la voce di un amico dell’umanità e di un figlio della Chiesa che ha speso la sua vita per annunciare il Vangelo, ma soprattutto lasciarci a nostra volta provocare dalla Bibbia per scrutare i segni dei tempi e per testimoniare ai fratelli e sorelle in umanità che veramente Dio non si è mai pentito del mondo che ha creato.
È un messaggio di grande speranza quello che esce da queste pagine, un messaggio di cui abbiamo particolarmente bisogno in questa stagione in cui viene da chiedersi se davvero vale la pena spendersi per custodire la memoria della radicalità del Vangelo.
Ma, come scriveva Pessoa, «sempre vale la pena, se l’anima non è piccola» di Enzo Bianchi in “La Stampa” – Tuttolibri – del 29 maggio 2010
Festa della SS Trinità Anno C
Preghiere e Racconti Racconto Si racconta che un giorno S.
Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità.
Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso.
E così di seguito.
E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso».
S.
Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare.
Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo.
E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita».
E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?».
Agostino capì che Dio è un grande mistero.
E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.
Gloria tibi Trinitas! Hans Urs von Balthasar ha approfondito una stupenda analogia per parlare dell’azione trinitaria in favore di noi uomini, per parlare della Trinità per come la conosciamo noi in quello che ha fatto per noi uomini.
L’analogia è quella del teatro.
Pensiamo al teatro, ad un dramma.
Pensiamo al rapporto che c’è tra l’Autore del testo del dramma, l’Attore protagonista della scena e il Regista di tutta la scena.
Quanto i tre fanno può essere espresso dai verbi seguenti: L’Autore genera, concepisce, esprime, formula.
L’Attore incarna, rende vivo, realizza, presta alla parola dell’autore presenza e azione.
Il Regista ispira, suggerisce, dirige, orchestra, armonizza.
Pensiamo ad un dramma in cui i tre sono coinvolti allo stesso modo: perché l’attore è la persona più cara per l’autore, perché nell’attore persona e ruolo coincidono, il dramma cioè è qualcosa in cui non si recita ma si vive, chi fa la parte del re è re davvero, non si muore per finta, ma con vero spargimento di sangue.
La bellezza della rappresentazione dipende tutta dalla sintonia del regista e dell’attore con l’autore.
Il pubblico è coinvolto, ci sono ponti fluidi tra platea e scena.
Chi sono l’Autore, l’Attore e il Regista del dramma divino che coinvolge l’uomo? Sono proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito.
Il Padre genera, esprime, formula, dà tutto ciò che è.
Il Figlio incarna, rende vivo, realizza, dà presenza e azione.
Lo Spirito Santo ispira, suggerisce, dirige, orchestra, unisce nella distanza.
La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.
Il Padre non troneggia immobile, giudice sopra il dramma.
Il suo testo è il suo stesso piegarsi sulla sua creatura.
L’Attore, il Figlio è ciò che di più caro il Padre abbia.
In lui persona e ruolo coincidono perfettamente, non c’è neppure un minuto in cui reciti, vive! Muore e risorge realmente.
Lo Spirito Santo sa cogliere perfettamente lo spirito del testo: è lui! È allo Spirito che il Padre affida il suo testo, è all’interpretazione e alla guida dello Spirito che il Figlio si affida per tradurre in vita il testo.
Che il mondo lo voglia o no il suo dramma è dramma trinitario, dramma dell’amore puro dono di sé.
Noi cristiani lo sappiamo, e sappiamo che sta qui il senso vero, ultimo della vita.
Sta a noi lasciarci coinvolgere fino in fondo e portare questo nella vita di ogni giorno.
Gloria tibi Trinitas! Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.
Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui.
Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose.
Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito.
Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6].
Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio.
A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6).
Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.
(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp.
88-90).
Dio è Amore Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?” Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile.
Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.
La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.
La prima conclusione suona allora così: se il mondo c’è, Dio è Amore.
Il patto di Dio Dio ha fatto un patto con noi.
Il termine inglese covenant (patto, alleanza) significa ‘con-venire’: Dio vuole venire insieme con noi.
In molti dei racconti della Bibbia ebraica, troviamo che Dio appare come un Dio che ci difende contro i nostri nemici, ci protegge contro i pericoli e ci guida alla libertà.
Dio è un Dio-per-noi.
Quando Gesù viene, si rivela una nuova dimensione dell’alleanza.
In Gesù Dio è nato, diviene adulto, vive, soffre e muore come noi.
Dio è un Dio-con-noi.
Infine, quando Gesù lascia questa terra, promette lo Spirito Santo.
Nello Spirito Santo Dio rivela pienamente la profondità del suo patto.
Dio vuole essere vicino a noi quanto il nostro respiro, Dio vuole respirare in noi, affinché tutto quello che diciamo, pensiamo o facciamo sia completamente ispirato da Dio.
Dio è Dio-in-noi.
Il patto di Dio ci rivela dunque quanto Dio ci ami.
(Henri J.M.
NOUWEN, Pane per il viaggio, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 59).
Preghiera Lode a te, o Dio, che sei Padre, Figlio e Spirito, che sei il termine eccedente del mio desiderio e la fonte inesauribile del mio stupore.
Lode a te che hai voluto entrare nella nostra e nella mia storia per mostrare che la mia solitudine radicale è vinta, che la mia morte non potrà avvincermi in forma definitiva.
Lode a te che vinci il mio timore di perdermi se ti lascio spazio nel mio cuore.
Lode a te che mi avvolgi nella tua nube e in essa mi sveli il tuo mistero, che è il mistero della mia stessa vita ardentemente indagato.
Lode a te che sei l’amore traboccante e perennemente accogli e salvi la mia fragilità.
Lode a te che mi concedi di entrare nella tua comunione e mi dischiudi possibilità di relazioni vertiginose.
Lode a te che mi conduci sulla via della dedizione seducendo il mio spirito desideroso di pienezza.
Lode a te che sei il principio, l’ambiente e la meta di tutto quanto io posso fruire.
Lode a te che sei il mio Tutto.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
SANTISSIMA TRINITA’ Lectio Anno c Prima lettura: Proverbi 8,22-31 Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine.
Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra.
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo.
Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».
v Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18).
Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica.
La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36).
Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera.
Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.
La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio.
Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v.
22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf.
Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv.
24s).
Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v.
23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v.
22).
«Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.
La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio.
«Io ero là» (v.
26) non significa di per sé una presenza attiva.
Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v.
30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona».
E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v.
31).
Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.
Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità.
Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui.
Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4).
E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.
Seconda lettura: Romani 5,1-5 Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
v Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8.
Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.
Prima (vv.
1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita.
A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita.
È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf.
Rm 8 ed Ef 1,3-14).
Poi (vv.
3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza.
Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede.
Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.
Infine (v.
5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone.
Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo.
Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf.
Rm 8,15-16.22-24,26-27).
Vangelo: Giovanni 16,12-15 In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Esegesi In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo.
Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf.
Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna).
Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.
Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi.
Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso.
Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi.
E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore.
Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «vi annuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.
Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi.
È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso).
Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito…
prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.
L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi.
Essa passa per l’opera del Figlio.
Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio».
Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito.
E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.
Meditazione Solennità della Santissima Trinità.
Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18).
Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda…
Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma
I film del Festival di Cannes 2010
La lista dei vincitori con relative schede e trama dei film.
Palma d´Oro Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives – Apichatpong Weerasethakul (TH/UK/FR/DE/ES) UNCLE BOONMEE WHO CAN RECALL HIS PAST LIVES titolo internazionale: Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives titolo originale: Loong Boonmee Raleuk Chaat paese: Spagna, Thailandia, Germania, Regno Unito, Francia anno: 2010 genere: fiction regia: Apichatpong Weerasethakul durata: 113′ sceneggiatura: Apichatpong Weerasethakul cast: Natthakarn Aphaiwonk, Sakda Kaewbuadee, Geerasak Kulhong, Jenjira Pongpas, Thanapat Saisaymar fotografia: Yukontorn Mingmongkon, Charin Pengpanich, Sayombhu Mukdeeprom montaggio: Lee Chatametikool scenografia: Akekarat Homlaor produttore: Keith Griffiths, Simon Field, Charles de Meaux, Luis Miñarro produzione: Illuminations Films, Anna Sanders Films, GFF Geissendörfer Film- und Fernsehproduktion GmbH, Eddie Saeta S.A., Kick the Machine (TH) rivenditore estero: The Match Factory Tramai Zio Boonmee soffre di un’insufficienza renale.
Pratica lo yoga con passione e conosce bene il suo corpo.
Sa che morirà entro 48 ore.
Chiama i suoi lontani parenti e chiede loro di farlo uscire dall’ospedale affinché possa morire a casa.
Lì vengono accolti dal fantasma della moglie defunta, riapparsa per curarlo.
Anche suo figlio morto torna dalla giungla sotto forma di scimmia.
Questo si è accoppiato con una creatura conosciuta con il nome di “scimmia-fantasma”, con la quale ha vissuto sugli alberi per 15 anni.
Gran Premio Des hommes et des dieux – Xavier Beauvois (FR) OF GODS AND MEN titolo internazionale: Of Gods and Men titolo originale: Des hommes et des dieux paese: Francia anno: 2010 genere: fiction regia: Xavier Beauvois durata: 120′ data di uscita: FR 08/09/2010 sceneggiatura: Etienne Comar, Xavier Beauvois cast: Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Roschdy Zem, Jacques Herlin, Sabrina Ouazani fotografia: Caroline Champetier montaggio: Marie-Julie Maille scenografia: Michel Bartelemy costumi: Alice Cambournac produzione: Why Not Productions, Armada Films supporto: MEDIA Programme distributori: Mars Distribution rivenditore estero: Wild Bunch Trama Un monastero sulle montagne del Magreb negli anni ’90.
Otto monaci cristiani francesi vivono in armonia con i fratelli musulmani.
Quando un gruppo di lavoratori stranieri viene massacrato da un gruppo islamico, si diffonde il terrore nella regione.
L’esercito offre protezione ai monaci, ma questi la rifiutano.
Malgrado le minacce crescenti, i monaci decidono di restare.
Il film si ispira liberamente alla vita di alcuni monaci cistercensi di Tibhirine, in Algeria, dal 1993 fino alla loro partenza nel 1996.
Migliore Interpretazione Femminile Juliette Binoche – Copie conforme] – Abbas Kiarostami (IT/FR) titolo internazionale: Certified Copy titolo originale: Copie conforme paese: Francia, Italia anno: 2010 genere: fiction regia: Abbas Kiarostami durata: 106′ data di uscita: FR 19/05/2010, IT 21/05/2010 sceneggiatura: Abbas Kiarostami cast: Juliette Binoche, William Shimell fotografia: Luca Bigazzi montaggio: Bahman Kiarostami scenografia: Ludovica Ferrario, Giancarlo Basili produttore: Marin Karmitz, Charles Gillibert, Nathanaël Karmitz produzione: MK2 Productions, Bi Bi Film, France 3 Cinéma, Canal +, Centre National du Cinéma et de l’image animée (CNC) supporto: MEDIA Programme distributori: MK2 Distribution, BIM Distribuzione rivenditore estero: MK2 Diffusion Trama James, scrittore inglese di mezza età, in occasione dell’uscita in Italia del suo ultimo libro, conosce una giovane gallerista d’origine francese con la quale passa qualche ora per le stradine di San Gimignano, un piccolo paese del sud della Toscana…
Miglior Interpretazione Maschile (ex-aequo) Javier Bardem – Biutiful – Alejandro González Inárritu (ES/MX) titolo internazionale: Biutiful titolo originale: Biutiful paese: Spagna, Messico anno: 2010 genere: fiction regia: Alejandro González Iñárritu durata: 138′ data di uscita: FR 25/08/2010 sceneggiatura:
Non è ancora domani (la pivellina)
Si può fare buon cinema con pochi mezzi e attori presi dalla strada se si hanno sensibilità e capacità di raccontare con semplicità storie che, seppur inventate, odorano comunque di vita vera, vissuta nella quotidianità.
Un cinema che cattura con l’essenzialità del mezzo tecnico la complessità dell’esistenza.
Come avviene in Non è ancora domani (la pivellina), un film di Tizza Covi e Rainer Frimmel, giunto nelle sale italiane dopo essere passato con successo lo scorso anno a Cannes nell’ambito della Quinzaine des réalisateurs aggiudicandosi il Label Europa Cinemas come miglior film europeo. Una storia semplice, dunque; il racconto di una genitorialità tardiva, certo singolare; sicuramente non voluta ma accettata, accolta con disponibilità, anzi con quella generosità tipica di chi da sempre vive ai margini della società e sa bene quanto siano importanti i vincoli di solidarietà.
Infatti, pur con le difficoltà che la famiglia deve affrontare in questa situazione inattesa, dovute alla precarietà delle condizioni economiche e di vita, nonché al dover imparare all’improvviso a essere genitori sia pure temporaneamente, i coniugi regalano a quella piccola sconosciuta il loro amore.
Un amore sincero, e tuttavia adulto, capace cioè di porsi un limite di fronte a una situazione che sanno non potrà durare.
E in questa attesa di un lieto fine, auspicato eppure vissuto con comprensibile tristezza, si coglie l’essenza dei protagonisti: dei due coniugi e del tredicenne, anch’egli con un’infanzia difficile – vive con la nonna dopo la separazione dei genitori – che si prende cura della bimba come fosse una sorella.
Un’essenza che si scopre affatto diversa da quella che emerge dai pregiudizi che disegnano in modo rozzo e meschino, come tutti gli stereotipi, la vita degli artisti di strada e di quanti, come loro, vivono ai bordi della società.
Una vita marginalizzata e discriminata, ma non sminuita, semmai arricchita da esperienze e da rapporti resi più veri e saldi proprio dall’incertezza.
Seguendo la piccola Asia, il suo accattivante e contagioso sorriso, lo spettatore è costretto a entrare in una realtà povera e precaria, ma ricca di calore umano e di allegria.
E attraverso la storia di questa vivace e simpatica bambina, scopre un mondo diverso.
Grazie alla spontaneità degli attori, chiamati semplicemente a essere se stessi con una sceneggiatura ridotta all’osso, a una fotografia che non camuffa la realtà, restituendo i colori veri dell’inverno in un’anonima periferia urbana, nonché a riprese rese ancora più realistiche dall’uso di un super 16 millimetri e senza l’ausilio di luce artificiale, i due autori – di cui si coglie l’esperienza di documentaristi – confezionano un film intenso, toccante, delicato.
Il cui pregio, come avveniva per il neorealismo, sta proprio nel mostrare una realtà senza filtri, senza costruzioni fittizie, con il suo scorrere naturale, centrando la storia su persone semplici.
Un film che con sensibilità e misura lascia cadere tanti piccoli semi: il valore della famiglia, la genitorialità vissuta anche verso figli non propri, la spontaneità dell’accoglienza e della solidarietà, la dignità pur nella precarietà, la stupidità di preconcetti che negano umanità laddove forse ce n’è più che altrove.
Peccato che Non è ancora domani (la pivellina) bisognerà andarselo a cercare, e in fretta, in quelle poche sale che hanno avuto il coraggio di accettare la scommessa di un film piccolo piccolo.
Ma migliore di tante pubblicizzate pellicole, grandiose per spettacolarità ed effetti speciali, ma incapaci di emozionare.
di Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 27 maggio 2010) Ambientato a San Basilio, periferia di Roma, la pellicola racconta la storia – non vera ma credibile – di Asia, due anni, abbandonata in un parco su un’altalena, con in tasca un messaggio della mamma che promette un giorno di tornare a riprenderla.
La piccola viene trovata dalla cinquantenne Patti, una donna che vive assieme al marito Walter in una roulotte in un campo in cui sosta una comunità di circensi.
Patti convince l’uomo a non rivolgersi alla polizia e con l’aiuto di Tairo, un ragazzino loro vicino di casa, inizia a cercare la madre della bambina.
Ma nel frattempo le dona, con il marito e il ragazzo, affetto sincero e una casa.
Pentecoste Anno C
Preghiere e Racconti La Pentecoste La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito.
La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion.
La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45).
La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano.
Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.
In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.
Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.
Vieni Spirito Santo.
Vento impetuoso, fuoco che divora, ma anche brezza leggera, scintilla di luce.
Vieni in me.
Parola potente, ma anche lieve sussurro.
Vieni in me.
Fresca cascata, ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…
Dammi occhi nuovi, dammi ali di libertà, dammi trasparenza di vita, dammi tenerezza e audacia e attenderò con te, nella speranza, il nuovo Giorno.
(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare.
40 immagini di un’iconografa).
Spirito di Dio Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti.
Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria.
Spirito Santo, che riempivi di luce i profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza.
Frantuma la corazza della nostra assuefazione all’esilio.
Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.
Spirito Santo, che hai invaso l’anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza.
Donaci il gusto di sentirci estroversi, rivolti cioè verso il mondo, che non è una specie di Chiesa mancata, ma l’oggetto ultimo di quell’incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.
Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l’hai proclamato Messia, dilaga sul tuo corpo sacerdotale, adornalo di una veste di grazia, consacralo con l’unzione e invialo «a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l’anno di misericordia del Signore» (cfr.
Lc 4,18-19).
Spirito Santo, dono del Cristo morente, fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero.
Trattienila ai piedi di tutte le croci, quelle dei singoli e quelle dei popoli.
Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini.
Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto, e ripeta col salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9).
(Don Tonino Bello).
La fiamma dello Spirito Santo «Lo Spirito Santo accende sempre il suo fuoco, questa fiamma leggera, silenziosa, che non distrugge e anzi è carica di forza salvifica.
Dicendo questo, però, sorge spontaneo chiedersi: Arde ancora, oggi, nella Chiesa, questa fiamma? […].
Arde ancora nella Chiesa questa fiamma riconciliatrice e salvatrice, oppure è soffocata dalla polvere e dalle macerie di una quantità di abitudini, istituzioni, paure? Il cristianesimo è ancora fuoco e Spirito, oppure alla fine anche nel cristianesimo è rimasta solo acqua? l’acqua sollevata dalle teorie e dai discorsi ispirati, che cercano invano di nascondere con belle parole la perdita di realtà che vi si cela? Quasi ogni giorno, traversando piazza San Pietro mentre vado al lavoro, mi capita di incontrare giovani provenienti da ogni parte del mondo che non rincorrono la carriera, non vogliono solo mettersi in mostra, ma che sono colmi della gioia della fede e vogliono servire Cristo.
In essi riluce la gioia e il coraggio della conversione a Cristo.
Da incontri come questi io vedo che, sì, quella fiamma arde.
E quando incontro uomini nel pieno degli anni che, senza darsi grande importanza, giorno per giorno, con grande pazienza e umiltà, con bontà e costanza, portano avanti una vita spesso difficile – potrei raccontare parecchie piccole storie di bontà, di cui continuamente vengo a conoscenza – allora so che, sì, quella fiamma silenziosa e pur tuttavia potente arde ancora oggi.
E quando vedo dei vecchi che non hanno in sé alcuna amarezza ma la pura e matura bontà che viene dalla fede, dalla prossimità a Dio in Cristo, allora so che, sì, anche oggi nella Chiesa non c’è solo acqua, ma la fiamma dello Spirito Santo.
[…].
Certo, se da qualche parte scoppia uno scandalo, lo si viene a sapere subito in tutto il mondo.
La fiamma dello Spirito Santo non dà notizie mediatiche, ma è qui ed è ciò in cui confidiamo.
Rimettiamoci ad essa e voglia la Pentecoste aprire gli occhi del nostro cuore affinché possiamo vederla di nuovo.
[…] La fede è risanamento e salvezza.
Ma non possiamo essere salvati dalla fede se non accettiamo anche il dolore della trasformazione.
Nella lingua di Gesù Cristo, «fuoco» è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce.
Senza questa ardente condivisione della croce non esiste cristianesimo.
Ma il fuoco è anche un’immagine d’amore.
Anzi, in realtà queste due immagini coincidono perché la croce è amore e l’amore è croce: proprio in questo stanno la grandezza e la salvezza, e per averne coscienza la semplice esperienza umana è sufficiente.
L’attimo di grande entusiasmo e di coinvolgimento non basta, porta a promesse vuote e a delusioni, se non gli diamo continuità e una forma pura attraverso il quotidiano sopportarsi reciproco e sorreggersi, accettarsi e darsi, maturando un amore reale.
Vieni Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! È una preghiera temeraria, perché chiediamo di essere incendiati dalla fiamma dello Spirito Santo; ma è anche una grande preghiera di salvezza, perché solo questa fiamma ha potere di salvezza.
Se ci sottraiamo a essa per voler conservare la nostra vita attuale, perdiamo proprio la vera vita.
Solo la fiamma dello Spirito Santo può salvarci, perché solo l’amore redime.
Amen».
(J.
RATZINGER [Benedetto XVI], Spirito e fuoco.
Discorso tenuto nel Duomo di Regensburg, 4 giugno 1995 in J.
Ratzinger [Benedetto XVI], Vieni spirito Creatore, Lindau, Torino, 2006, 67-76).
«Vieni!» La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste.
Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo.
La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita inferiore.
La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio.
La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».
E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato».
Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato.
Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa.
Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa.
Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa.
Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!».
(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972).
Non lasciarmi senza il tuo Spirito O Signore, ascolta la mia preghiera.
Tu hai promesso ai tuoi discepoli che non li avresti lasciati soli, ma avresti mandato lo Spirito Santo per guidarli e condurli alla piena Verità.
Mi sembra di brancolare nel buio.
Ho ricevuto tanto da te, eppure è difficile per me stare semplicemente quieto e presente dinanzi a te.
La mia mente è così caotica, così piena di idee disperse, di piani, di memorie, di fantasie.
Voglio stare con te e con te soltanto, concentrarmi sulla tua Parola, ascoltare la tua voce e guardare a te mentre ti riveli ai tuoi amici.
Ma, anche con le migliori intenzioni, divago pensando a cose meno impor-tanti e scopro che il mio cuore è attirato verso i miei piccoli tesori senza valore.
Non posso pregare senza la potenza dall’alto, la potenza del tuo Spirito.
Manda il tuo Spirito, Signore, affinché il tuo Spirito possa pregare in me, possa dire «Signor Gesù» e gridare «Abbà, Padre».
Io aspetto, Signore, sono in attesa, spero.
Non lasciarmi senza il tuo Spirito.
Dammi il tuo Spirito che unisce e consola.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, Manoscritto inedito, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 243-244).
Credere nello Spirito santo Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile.
E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù.
Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà.
Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno.
I1 suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio.
Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17).
E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per 1’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia.
E ciò ad onta di tutte le carenze delle strutture e di tutti i tradimenti del singolo.
Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.
E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti.
Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile.
No lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo.
E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo.
Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.
Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio – da ricevere con fiducia incondizionata.
Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede.
No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».
Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io.
E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa.
Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa.
Credo sanctam ecclesiam.
(H.
KUNG, Credo) Preghiera allo Spirito Santo Spirito Santo, eterno Amore, che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore; Tu ci guidi qual mano di una mamma; ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo! Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.
Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla, da dove all’esser mi chiamasti.
Tu a me vicino più di me stessa, più intimo dell’intimo mio.
Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende e d’ogni nome infrangi le catene.
Spirito Santo, eterno Amore.
(Edit Stein [S.
Teresa Benedetta della Croce]).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
Preghiera e solidarietà: 16 maggio, in piazza con il Papa
Sarà il card.
Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ad aprire domenica mattina il grande raduno in Piazza San Pietro per esprimere solidarietà al Papa, nel quale si pregherà anche per le vittime dei preti pedofili.
«La grande presenza è un segno efficace di affetto», ha sottolineato il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ricordando l’attualità della richiesta di penitenza contenuta nel Messaggio di Fatima.
Per padre Lombardi, «il Papa ha certamente gradito» nei giorni scorsi la partecipazione massiccia dei cattolici portoghesi ai diversi appuntamenti del viaggio che si è appena concluso.
Riferendosi allo scandalo degli abusi che il Pontefice ha letto nei giorni scorsi alla luce del messaggio di Fatima, Lombardi ha sottolineato ancora una volta che per Benedetto XVI «le sofferenze e le difficoltà della Chiesa vengono anche, in particolare, dal nostro interno, cioè dal nostro essere peccatori, e per questo il messaggio di conversione e di penitenza ha una particolare attualità e importanza».
Con questo spirito «pregheremo sicuramente per tutte le vittime», assicura Paola Dal Toso, segretaria delal Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laiclai, che ha promosso l’iniziativa.
«È subito emerso questo bisogno – rivela ai microfoni della Radio Vaticana – nel momento in cui abbiamo cominciato a pensare anche a questo tipo d’iniziativa.
Così come vogliamo anche ricordare il tanto bene che non fa rumore, che viene compiuto da tanti sacerdoti, dove si trovano, nell’anonimato, il tanto bene che realizzano e che non fa certamente pubblicità».
La nostra, ricorda, «è un’iniziativa che parte proprio dalla base, cioè proprio dalle associazioni, dalle aggregazioni, alle quali poi si sono unite alcune che non fanno parte della Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali.
Ma di sicuro ci saranno anche moltissime parrocchie, scuole cattoliche, le famiglie e tutta quella realtà di laici, che anche spontaneamente, sicuramente, saranno presenti, perché sensibili e perchè vogliono condividere».
La vigilia.
Dare voce ai sentimenti, molto diffusi a livello popolare di fedeltà, gratitudine e sostegno filiale a Benedetto XVI.
È l’aria che si respira alla vigilia dell’arrivo a Roma di decine di migliaia di fedeli da tutta Italia che hanno raccolto l’invito della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali a ritrovarsi in piazza domani.
La parola d’ordine è arrivare per tempo ben prima della preghiera del Regina Coeli.
Alle 11, infatti, il colonnato del Bernini accoglierà gli aderenti ad associazioni e movimenti ecclesiali che parteciperanno a una celebrazione della Parola presieduta dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei.
«Come pastori siamo accanto al laicato cattolico, raccogliendo l’invito delle realtà che aderiscono alla Consulta nazionale delle aggregazioni laicali.
La solidarietà al Papa in questo tempo di prova – sottolinea il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei dal sito http://www.cnal.it/ – e l’adesione convinta al suo magistero sono un segno concreto di comunione ecclesiale».
Un gesto di unità che si è venuto costruendo in questi giorni come Avvenire ha puntualmente documentato ospitando le adesioni di numerosi movimenti e associazioni e le testimonianze di chi si prepara a partire.
«Testimoniare l’affetto e la vicinanza a Benedetto XVI è dovere morale per ogni cristiano, e lo è anche per ogni vincenziano», nota Claudia Nodari, presidente nazionale della Federazione della Società di San Vincenzo De Paoli.
«Siamo vicini al Papa – prosegue – anche contro il tentativo di cancellare tutto il bene che la Chiesa ed i suoi ministri hanno fatto e continuano a fare per il bene spirituale e materiale delle persone in ogni parte del mondo».
«Sentiamo il dovere di ringraziare il Pontefice per l’esempio che ci offre e per il suo costante insegnamento a fronteggiare il male non con il male, ma con il bene», sottolinea il presidente nazionale dell’Unione giuristi cattolici italiani, Francesco D’Agostino.
Anche i giuristi cattolici, aggiunge il presidente, saranno in San Pietro domani «per pregare e per dare un segno della comunione che unisce tutti coloro che sono in ascolto della Parola di Dio».
Anche il consiglio esecutivo dell’Assemblea dei dipendenti laici vaticani in un comunicato ha segnalato ai propri associati l’appuntamento di domenica.
«Condividiamo l’iniziativa nel desiderio di far sentire a Benedetto XVI tutto il nostro affetto e supporto in questo momento, come fedeli e come suoi collaboratori» si legge.
E sono decine i comunicati e le segnalazioni di adesione all’iniziativa – pervenuti anche dalle diocesi italiane, molte delle quali hanno anche promosso iniziative specifiche – che stanno giungendo in queste ore alla segreteria della Cnal, disponibili nel sito www.cnal.it.
Il sito della Consulta a partire dalle 10,55 di domani fino alle 12,20 trasmetterà in diretta audio-video il momento di preghiera e di incontro.
Attesi treni speciali e centinaia di autobus da tutta la Penisola provenienti anche da diocesi, parrocchie, scuole e università.
L’incontro sarà seguito in diretta da Tv2000 a partire dalle 10,55 e da «A Sua immagine» (Raiuno) dalle 10,30.
Il blog www.asuaimmagine.blog.rai.it, che ha lanciato l’iniziativa «Il tuo sms al Papa», è stato raggiunto da 15mila contatti al numero 335.1863091.
A conclusione della giornata domani alle 15, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, Bagnasco presiederà una Messa.
Avvenire 15 05 2010
Ascensione del Signore Anno C
ASCENSIONE DEL SIGNORE Lectio Anno c Prima lettura: Atti 1,1-11 Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio.
Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?».
Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.
Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
v I primi tre versetti del libro degli Atti lo collegano strettamente al terzo vangelo: ne riassumono infatti il contenuto e ripetono il nome del personaggio a cui ambedue i libri sono dedicati: Teofilo (che può essere il nome di un personaggio storico o può essere soltanto il titolo dato al prototipo del cristiano: l’amico di Dio).
Il riassunto del terzo vangelo qui proposto si sofferma soprattutto (nell’intero versetto 3) sul fatto che gli Apostoli sperimentarono a lungo e in maniera pienamente convincente che Cristo era tornato a vivere, dopo la sua passione e morte (cioè, era risorto): infatti era apparso a loro ripetutamente, istruendoli sul regno di Dio.
L’espressione «per quaranta giorni» deve avere qui un valore simbolico: deve voler significare che l’esperienza del Cristo risorto fu bensì limitata e conclusa nel tempo, ma sufficiente perché agli Apostoli fosse dato un insegnamento pieno sulla missione a loro affidata.
Nei vv.
4.8 sono quasi condensati, in un unico episodio, il lungo rapporto intercorso tra Gesù risorto e gli Undici e l’insegnamento che essi da lui ricevettero.
L’espressione «mentre si trovava a tavola con essi» contiene forse una allusione alla verità indiscutibile della sua risurrezione (non era un fantasma!) e alla familiarità conviviale con cui il risorto si intratteneva con i suoi.
Elemento importante dell’insegnamento di Gesù risorto è considerato quello che riguarda lo Spirito Santo, il quale con la sua forza avrebbe portato a compimento la loro formazione di discepoli.
Altro elemento importantissimo di quell’insegnamento è l’orizzonte universale della missione affidata agli Undici da Gesù: «di me sarete testimoni…
fino agli estremi confini della terra».
L’universalità di questa prospettiva è presentata con grande decisione, tale da far apparire quasi insignificante il desiderio di conoscere i tempi e i momenti della ricostruzione del regno di Israele; quel desiderio è destinato quasi ad annegare nella vastità dei disegni del Padre.
I versi 9-11 contengono diversi messaggi tra loro coordinati.
Il primo è che Gesù ha concluso la sua presenza visibile sulla terra, essendo rientrato nel modo di essere proprio di Dio, come suggerisce la frase: «una nube lo sottrasse ai loro occhi» (la nube è infatti, nell’Antico Testamento, il nascondiglio e insieme il segno della presenza di Dio).
Un altro insegnamento è che ormai la testimonianza su Gesù e del suo vangelo è affidata esclusivamente ai suoi discepoli: questo sembra vogliano suggerire i due misteriosi uomini in bianche vesti, che li invitano a non restarsene lì incantati a cercare con lo sguardo colui che fu elevato in alto.
Un ultimo insegnamento è che quel Gesù che non è più visibile con gli occhi, tornerà un giorno e sarà di nuovo visibile, nella sua veste di giudice supremo e universale.
Seconda lettura: Ebrei 9,24-28; 10,19-23 Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.
E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura.
Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
v La lettera agli Ebrei, nel brano che costituisce la nostra seconda lettura, pur non facendo alcun riferimento al racconto del libro degli Atti che include il fatto dell’ascensione del Signore, sembra che ne illustri il profondo significato teologico.
Come nel libro degli Atti, anche qui è detto che Gesù «è entrato…
nel cielo…
per comparire ora al cospetto di Dio» (9,24).
Per poter approfondire il significato dell’ingresso di Gesù nel cielo, che era un elemento comune della predicazione nella Chiesa primitiva, l’ignoto autore della lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra la persona di Gesù e le pratiche cultuali degli Ebrei, concentrate nel tempio di Gerusalemme.
In particolare, qui sembra evocata la festa dell’Espiazione, quella che oggi è per gli ebrei, accanto alla Pasqua, una delle feste religiose più importanti, col nome di iòm Kippùr.
Elemento centrale di questa celebrazione era quello che si può chiamare il rito del sangue: il sommo sacerdote, passando oltre il velo che separava il luogo santissimo dalla zona del sacrificio, ungeva il coperchio dell’Arca (detto in ebraico kappòret e tradotto con il termine propiziatorio) con il sangue del vitello e del capro offerti quel giorno in sacrificio per l’espiazione dei peccati dello stesso sacerdote e di tutti gli israeliti (Vedi Levitico, 16).
Nella nostra lettura, Gesù Cristo è visto come il celebrante di una nuova festa dell’Espiazione: egli è penetrato nel cielo stesso portando il proprio sangue, quello sgorgato dalla sua persona, e ha ottenuto una volta per tutte di togliere i peccati di molti.
Conseguenza grandiosa di questi fatti è che si è aperta una via nuova e vivente, la persona stessa di Gesù Cristo immolatasi per il mondo intero, che consente anche a noi di entrare nel santuario, cioè nella casa di Dio.
Perché questo accada è però necessario avere il cuore purificato e il corpo lavato con acqua pura, nella luce della fede e nella professione della speranza: il che vuol dire avere accolto la testimonianza della predicazione apostolica ed essere entrati a far parte della Chiesa voluta da Gesù.
Vangelo: Luca 24,46-53 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.
Di questo voi siete testimoni.
Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.
Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo.
Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Esegesi Chi pensasse di trovare nel vangelo di Luca il racconto circostanziato dell’ascensione al cielo di Gesù, così come in certi apocrifi è raccontata l’ascensione di altri personaggi biblici, resterebbe deluso.
Al fatto in se stesso il testo evangelico dedica solo queste parole: «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo».
Queste parole appartengono alla sezione conclusiva del terzo vangelo, che abbraccia l’intero capitolo 24 e lega tra loro strettamente gli avvenimenti che scandirono un’intera giornata, il «primo giorno dopo il sabato» (24,1): le donne scoprirono la tomba vuota e, ricevuto l’annunzio della risurrezione di Gesù, lo comunicarono agli Undici; anche Pietro andò a vedere la tomba vuota e restò «pieno di stupore»; due discepoli che andavano a Emmaus si imbatterono in Gesù, vennero da lui istruiti sul significato delle Scritture e finirono per riconoscerlo nella frazione del pane; finalmente, a tarda sera, Gesù in persona apparve agli apostoli riuniti, diede loro le ultime istruzioni, affidò a loro la missione della testimonianza, li benedisse e si staccò da loro.
Come si vede, il tema che riempie tutta la durata di questo specialissimo giorno è quello della risurrezione del Signore Gesù, che si conclude con il mandato, affidato agli Undici, di testimoniarla «sino ai confini della terra».
Diamo qui di seguito il senso globale del brano conclusivo del terzo vangelo, che costituisce la nostra lettura evangelica, senza indugiare sull’analisi dettagliata delle sue singole frasi.
Poiché Gesù Cristo è realmente risorto, la sua passione e la sua morte non sono e non debbono considerarsi una sconfitta, ma una vittoria sul peccato, sicché a tutti è adesso accessibile il perdono dei peccati.
E se il peccato è stato sconfitto non c’è più ragione che l’umanità continui a camminare nella strada della sua rovina, ma può cambiare strada, può dare inizio alla propria conversione.
È per l’appunto questa la missione che Gesù intende affidare ai suoi discepoli: egli vuole che essi siano i suoi testimoni.
Cominciando da Gerusalemme, la loro testimonianza dovrà arrivare a tutte le genti.
A tutte le nazioni della terra, a tutti i popoli, dovrà arrivare la lieta notizia di Gesù Cristo, che ha predicato il vangelo e per questo è stato inchiodato sulla croce ed è morto, ma il terzo giorno è risorto.
Per intraprendere questa missione, i discepoli di Gesù hanno però bisogno di una forza dall’alto, hanno bisogno cioè che scenda su di loro la forza dello Spirito Santo, secondo la promessa già fatta ai profeti per gli ultimi tempi.
Dopo aver raccomandato loro di restare in Gerusalemme fino alla discesa dello Spirito, con un’ultima benedizione, Gesù «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo».
La testimonianza della risurrezione poteva così essere completata con quest’ultimo elemento: l’ingresso di Gesù nella vita divina del cielo.
Egli dunque non doveva essere considerato assente o lontano dalla vita degli uomini sulla terra, ma doveva essere considerato sempre vicino quanto Dio lo è a tutta la sua creazione.
Meditazione La liturgia della parola della solennità odierna ci presenta due racconti del medesimo avvenimento – lo staccarsi definitivo di Gesù, in modo fisico, da questa terra e dai discepoli – narrati dallo stesso autore.
Ciò è dovuto alla grande maestria letteraria e teologica dell’evangelista Luca, non certo a una svista! La differenza che salta maggiormente agli occhi è la cronologia: nel brano evangelico l’ascensione avviene la sera stessa di Pasqua (dato storicamente inverosimile, dal momento che nel racconto dei due discepoli di Emmaus siamo già a sera inoltrata), mentre negli Atti degli apostoli si situa alla conclusione di un periodo di quaranta giorni di apparizioni.
Tale diversità si spiega a partire da una diversa prospettiva teologica: nell’evangelo tutta l’attenzione è concentrata su Gesù e sulla novità che il giorno di Pasqua porta, non c’è più tempo e spazio per narrare dei discepoli ed è Gesù che domina l’ultima scena; negli Atti degli apostoli è la comunità dei discepoli che diviene soggetto, il tempo è più disteso e si sviluppa il cammino della Chiesa.
Comunque sia, il fatto si svolge a Gerusalemme, meta del pellegrinaggio terreno di Gesù (cfr.
Lc 9,51 ss.) e luogo della sua morte e risurrezione.
Lo spazio più sacro della città santa è il tempio, con cui si apre (cfr.
1,8 ss.) e si chiude il racconto evangelico.
Ma ora è Gesù stesso il tempio, il luogo dove abita la presenza di Dio e noi siamo portati, insieme con lui, alla destra dell’Altissimo! Gerusalemme è anche il luogo dove scenderà lo Spirito santo (cfr.
Lc 24,49; At 1,5), che i discepoli devono attendere: si compie l’ultima e principale promessa di Gesù, che introduce alla comunione trinitaria e che abilita alla missione tra le genti.
L’Ascensione è pertanto momento di passaggio, di attesa tra la Pasqua e la Pentecoste: c’è il tempo per prepararsi a rendere testimonianza al Signore risorto, che ora siede nei cieli.
Ma qual è dunque il messaggio, l’incarico a cui sono chiamati i discepoli «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8)? «La conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47), la possibilità per ogni uomo di veder rinascere la propria esistenza, di vederla segnata dalla misericordia affinché a tutti si rechi nuovamente misericordia.
Il contenuto del messaggio sembra semplice, seppur straordinario; ciononostante, perfino in quel momento, regna l’incomprensione: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6).
Quanta fatica a staccarsi dai propri progetti, quale conversione chiede tenere insieme il nostro mondo con quello di Dio…
È lo stesso Gesù a guidare il gruppo nel momento del distacco.
Come i patriarchi, si separa da loro mediante la benedizione, un ultimo gesto di sostegno e vicinanza che sostituisce le parole.
Se la prima reazione dei discepoli è quella dello sconcerto, della perplessità, del disorientamento, forse anche della nostalgia – «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1,11) – subito subentra l’azione missionaria e della preghiera, da svolgersi nella lode (cfr.
Lc 24,53) e nell’attesa del ritorno del Signore: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
Non c’è pertanto un distacco radicale, una separazione: la tristezza che aveva caratterizzato i discepoli nell’ultima sera trascorsa insieme a Gesù viene rimpiazzata dalla le-tizia di saperlo non nel regno dei morti ma dei viventi, di Dio! Ecco perché l’ultimo gesto nei confronti di Gesù è quello della prostrazione – unico caso in tutto il vangelo di Luca – attraverso il quale si riconosce la divinità del Signore.
Mi sembra estremamente significativo che il Signore Gesù introduca i discepoli alla predicazione missionaria mediante il richiamo alle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (Lc 24,46).
Nonostante siano compiute, le Scritture restano determinanti per interpretare e conoscere sempre meglio la persona di Gesù: sono il compagno di viaggio dell’autentico discepolo del Signore.
Preghiere e Racconti Trasfigurati dalla speranza Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore; chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima. Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare. La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo. Questa gente , si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli: Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo.
C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana.
Quella, per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sembrava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”. Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo.
Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza.
(Albino Lucani [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll.
VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).
Racconto Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo.
Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.
Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…
Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.
Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.
Guardarsi dentro Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato.
Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie.
Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente.
Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera! “Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose: “No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso.
Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro.
Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono.
Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”! Il cielo «Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.
Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.
Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie.
Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico.
Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K.
Rahner, La risurrezione della carne, p.
459).
L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.
In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione».
(Joseph Ratzinger [BENEDETTO XVI], Imparare ad amare.
Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).
«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11) «[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.
La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste.
Prima la realtà terrena: «Perché state?
Strategie per gestire i comportamenti di disturbo
Riprendo il contributo di questo lavoro, partendo dalla conclusione dell’articolo precedente, dove ho evidenziato alcuni comportamenti di disturbo.
Dicevo che il clima comunicativo del gruppo comprende anche i momenti di noia e di disturbo: sono tutti stimoli che se adeguatamente rilevati possono consentire al gruppo di evolvere verso il compito: fare del disturbo un motivo di apprendimento, utilizzare il segnale della noia per riorientare i lavori.
Per la gestione dei gruppi si possono utilizzare due strumenti fondamentali: a) lo strumento della parola, pensando agli stili di comunicazione efficace b) lo strumento ancora più efficace: l’intervento sul e con il “non verbale”, molte volte infatti i disturbi si gestiscono con movimenti del corpo, avvicinamento alla persona che parla e inoltre con giochi/esercizi centrati sul non verbale.
Nella comunicazione efficace è presente in maniera sinergica il mondo verbale e non verbale delle persone.
La distinzione qui riportata è solo per motivi didattici.
Il contenuto che segue è un tentativo di riflettere su quello che spesso osservo e faccio durante la conduzione di gruppi di lavoro.
Questo è il resoconto di una mia riflessione sulla pratica di conduzione dei gruppi.
Questa esperienza non ha un intento di tipo teorico, ma semplicemente narrativo.
Tale dimensione narrativa però, nel prossimo articolo, sarà inserita all’interno di un modello teorico di riferimento.
Infatti, nel prossimo articolo affronteremo il tema del team building secondo l’approccio del costruttivismo.
IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI CON IL PRIMATO DELLA VOCE La nostra voce è uno strumento di espressione molto differenziato, che orchestra e interpreta il nostro discorso: il timbro della voce, l’altezza del suono, il volume, il modo di usare il respiro, il ritmo dell’articolazione, la risonanza, la velocità e la lentezza nel parlare: tutto questo dice parecchio di chi parla, a volte più che non il contenuto del messaggio.
Si possono comprendere anche aspetti della personalità di chi parla, se si fa attenzione alla sua voce.
– Come gestire chi parla troppo Quando nel gruppo ci troviamo di fronte ad una persona che parla tanto e velocemente, un modo per aiutarla a contenersi e modellizzare un nuovo comportamento è quello di rispondere con un timbro molto basso e lentamente.
Certo, il limite di questa considerazione, che qui facciamo, sta nel fatto che non possiamo vedere quello che realmente succede.
Se provate però ad avvicinarvi alla persona che parla troppo veloce e provate a rispondere in maniera lenta, vedrete gli effetti.
A bassa voce potreste dire: “Mi chiedo qual è l’obiettivo di questa tua considerazione.
Ti chiedo di fermarti, perché faccio fatica a seguirti e voglio dare spazio anche agli altri”.
– Come gestire il tacere Talvolta capita che all’inizio di un incontro, la persona più timida per evitare di esplorare lo spazio della stanza si siede sulla prima sedia che trova libera e cioè quella più vicina alla porta.
Questa persona osserva, ascolta, ma in silenzio.
Un primo modo per aiutarla ad entrare nella relazione con il gruppo è quello di avvicinarsi e, mentre si parla, mettere la mano sulla spalla in modo tale che sul piano non verbale lo si include nel processo comunicativo.
Sul piano della comunicazione verbale si può chiedere un parere su quello che si dice, mostrandogli così stima e considerazione.
Naturalmente tutto questo dovrà essere fatto con autenticità: se facciamo finta di includere una persona taciturna, l’effetto di questa azione sarà il rinforzo delle sue resistenze.
Il silenzio dell’intero gruppo può indicare che le idee di base di una discussione non sono chiare.
In questo caso il facilitatore può essere di aiuto collegando le idee dei singoli partecipanti e facendo, per esempio, uno schema di sintesi.
Inoltre il silenzio può provenire dalla paura di impegnarsi e di esporsi, se c’è poca fiducia negli altri membri del gruppo.
Il silenzio può inoltre esprimere noia se i partecipanti pensano che si pretende troppo poco nel gruppo o se le loro aspettative non corrispondono all’azione del momento del gruppo.
Il facilitatore per tentare di risolvere la situazione di silenzio nel gruppo può chiedere cosa si pensa del silenzio e che cosa si è pensato e sentito durante tale periodo.
Il silenzio del singolo partecipante inoltre può essere un’azione consapevole del soggetto per “punire” il facilitatore o altri partecipanti.
Il silenzio inoltre può essere una fuga per contattare, per via immaginativa, altre scene primarie della storia personale.
Il silenzio può dunque esprimere aspetti molti diversi della situazione del gruppo.
Non c’è uno schema prestabilito secondo il quale il facilitatore potrebbe agire, ma rispetto al silenzio il facilitatore dovrà essere lucido, prendersi del tempo e porsi alcune domande: – se e in quale misura il facilitatore è preoccupato per tale silenzio e quale sia la sua reazione emozionale; – se e in quale misura il gruppo sia preoccupato del silenzio stesso; – se un certo partecipante con il silenzio esprima una ritirata improduttiva; – quale sia il messaggio specifico del silenzio; – e in ultimo, il fattore più importante, quali segnali non verbali del gruppo “commentano” il silenzio… Ecco alcune vie verbali per entrare in contatto: il facilitatore potrebbe dire: “Al momento ho poco contatto con te e vorrei sapere che cosa ci comunichi con il tuo silenzio”.
Se tace tutto il gruppo invece, il facilitatore potrebbe dire: “Non sono sicuro di che cosa voglia dire il vostro silenzio.
Che cosa volete esprimere con questo silenzio?” – Come gestire il generalizzare Di solito una comunicazione efficace con le persone che generalizzano si esprime con una domanda: “Ti chiedo, per favore, di fare un esempio concreto.
Prova ad immaginare di parlare ad un bimbo di sei anni”.
In tal modo, chi di solito generalizza apprende gradualmente l’importanza di essere concreto e circostanziato.
Non sono gli altri che devono capire o gli altri che non ascoltano.
Il punto è quanto io ascolto, quanto capisco gli altri, quanto mi assumo la responsabilità di farmi capire.
Chi generalizza non parla di persone, parla di oggetti (loro, quelli, sempre…).
– Come gestire chi fa domande in continuazione Il punto è individuare che tipo di domanda fa il componente del gruppo e perché la fa.
Dalla mia esperienza le domande evidenziano spesso un attacco verso il leader, sono un tentativo di far capire che si conosce bene l’argomento, quasi a intendere che il leader è un sapiente onnisciente che ha ricevuto il “Verbo”.
Con queste persone, se il leader evidenzia che a quella domanda non sa rispondere e dice di prendersi del tempo per studiare la risposta, si modellizza in questo modo l’idea che il leader non è la persona che sa tutto ma al contrario quella che è disposta ad imparare.
– Come gestire il frequente interpretare Ci sono persone che nel gruppo di solito sono influenzate da modelli, teorie, punti di vista, esperienze che talvolta vengono assolutizzati e attraverso i quali si leggono le situazioni, i fatti, le persone, quello che si dice ecc.
Questi modelli vengono applicati senza criterio ad ogni situazione comunicativa e quindi ci si può sentir dire: “Siccome non mi hai guardato negli occhi, tu non mi ascolti” e magari questa comunicazione arriva da uno che sta in fondo alla sala, mentre si lavora in gruppo! Il punto di fondo del frequente interpretare sta nel fatto che molte volte non siamo consapevoli di proiettare il nostro vissuto emotivo e cognitivo sulla vita degli altri.
– Come gestire i colloqui “fuori la porta” Molti partecipanti, durante il lavoro di gruppo, tendono a bisbigliare con il loro vicino mentre sta parlando un’altra persona.
Se il facilitatore non interviene, la coesione del gruppo ne soffrirà notevolmente, perché questi colloqui possono provocare diffidenza e irritazione.
Il facilitatore in questo caso domanderà a coloro che fanno il colloquio a parte se siano disposti a comunicare il contenuto del colloquio a tutto il gruppo.
– Come gestire ritardi e assenze Spesso succede che i singoli partecipanti tardano o non vengono ai gruppi di lavoro, esprimendo così la loro opposizione all’attività di gruppo o nei confronti del facilitatore.
In alcuni casi l’assenza evidenzia il fatto che c’è un’attività che procura paura.
In altri casi alcune esigenze personali sembrano non rispettate.
Cosa deve fare il facilitatore? Una prima ipotesi potrebbe essere la seguente: “Che cosa vuol dire per voi il fatto che questa persona non c’è”.
Il facilitatore dovrà anche parlare del fatto che ognuno ha il diritto di ritirarsi in ogni momento dell’interazione di gruppo, ma è importante che avverta di volersi ritirare.
E’ una indicazione di adultità l’assumersi la responsabilità di non voler lavorare con questo gruppo perché non risponde né ai bisogni personali e nemmeno a quelli professionali.
PER CONCLUDERE Gestire i disturbi: non ci sono ricette o procedure standard, è necessario fare esperienze, riflettere e provare nuove strategie.
L’esperienza, l’ascolto e soprattutto la supervisione ci consentono di imparare nuove modalità di aiutare il gruppo a sviluppare le risorse personali e quelle professionali.
Nel prossimo articolo svilupperemo la dimensione teorica di questo approccio al lavoro di gruppo.
Parleremo di costruttivismo.