L’UA, è stata costruita nella primavera 2010 coi ragazzi, dopo la visita a Roma della mostra su Caravaggio.
Introduzione: Passa la bellezza nei tuoi occhi neri, scende sui tuoi fianchi e sono sogni i tuoi pensieri…
Venezia “inverosimile più di ogni altra città è un canto di sirene, l’ultima opportunità ho la morte e la vita tra le mani coi miei trucchi da vecchio senza dignità: se avessi vent’anni ti verrei a cercare, se ne avessi quaranta, ti potrei comprare, a cinquanta, come invece ne ho ti sto solo a guardare …
Passa la bellezza nei tuoi occhi neri e stravolge il canto della vita mia di ieri; tutta la bellezza, l’allegria del pianto che mi fa tremare quando tu mi passi accanto…
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Tutta la bellezza che non ho mai colto, tutta la bellezza immaginata che c’era sul tuo volto, tutta la bellezza se ne va in un canto, questa tua bellezza che è la mia muore dentro un canto.
(Roberto Vecchioni) OBIETTIVO FORMATIVO: Far scoprire che la bellezza riesce a far emergere il senso dell’incanto e del meraviglioso e ci apre al mistero Domande : • Cos’è il Bello? E’ riferito solo ad una ragazza o a un ragazzo? Alla natura? • Cos’è il Vero? Esiste? • Esistono il Bello e il Vero ? Sono solo dei concetti , delle intuizioni/percezioni o esistono di per sé? • È vero che il Bello aiuta a sublimarci? • Attraverso il Bello e il Vero si può arrivare a Dio? • L’ arte ci può aiutare in questo percorso? • (puoi continuare a fare domande…) PERCORSO Dopo aver visitato la mostra a Roma sul grande pittore Caravaggio, che ha incantato tutti, i ragazzi hanno fatto una ricerca sulla sua opera.
CARAVAGGIO Il grande artista lombardo che visse tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, come l’Ulisse omerico, ebbe una vicenda umana identificabile con l’ “odissea” di mari e di spiagge dell’eroe greco, anch’egli ricercò quel senso, che approfondisce ed esemplifica l’uomo, anch’egli fu oppresso dalla solitudine.
Ma là dove Ulisse “inseguiva”, Caravaggio “sfuggiva”, alla ricerca di qualcosa d’altro, che la “sua” realtà non sembrava dargli e anzi che lui percepiva come prigione e incomprensione, pur amandola appassionatamente.
Si racconta che fosse un uomo rissoso, incolto, isolato, un disperato.
Non cercava nulla però, perché aveva già trovato tutto…dentro al suo genio profondissimo , dentro la sua pittura, dove le muse e gli dèi diventavano prostitute e bari, musici e natura traboccante di vita… Dipingeva con la passione dell’uomo, che vuole cogliere nell’attimo fuggevole /nel lampo improvviso la tangibilità delle cose come delle persone.
Egli aveva compreso che nella visione del sensibile erano presenti la vita e la morte contemporaneamente.
In un cesto di frutta ci sono foglie rigogliose e foglie appassite.
In ogni corpo si trovano questi due principi opposti e complementari Nello sguardo trasognato, ottuso, che accenna al sorriso o all’ironia del Bacchino, che sa di vita, troviamo contrapposte la pelle e le labbra bianche che annunciano malattia e caducità.
Alois Riegl della Scuola di Vienna lo dice “incolto ma genio”, perché ha rappresentato lucidamente la visione della solitudine storica a cui è condannato l’universo sensibile della natura e dei corpi.
Eroe tragico………o antieroe …il suo è un viaggio dentro al precipizio della colpa Mentre Omero travasa la disperazione degli uomini nella sfera degli dei e degli eroi, Caravaggio riveste su di sé tutta la sua disperazione e Roma diventa la sua Itaca.
Diventa il senso del suo esistere…che il Bello, che sapeva esprimere coi pennelli, non gli aveva dato , pur riuscendo a sublimare la realtà intorno a lui.
Nel Davide si nota da una parte la barbarie della morte e dall’altra la pietà nel volto del giovane, quasi a chiedere lui stesso pietà per il suo atto violento.
Nella conversione di Paolo le braccia spalancate ad abbracciare la luce divina, in un vivissimo incanto, ci mostrano una rara accettazione estatica del trascendente.
Per un attimo Caravaggio riesce a cogliere l’irruzione del divino nel mondo.
L’irrompere del divino nel mondo BRANI DA LEGGERE E COMMENTARE Z.Trenti : l’esistenza è fermentata da richiami interiori, ineludibili e suadenti.
Non troviamo pace se non in maldestri tentativi di darvi soddisfazione.
Il sogno riempie e riscalda l’esistenza e sta sul crinale , alimentato dalla vicenda personale, e l’orizzonte di senso ne risulta alla confluenza ODISSEA : C.XII: ‹Vieni qui, Odisseo glorioso.., se vuoi ascoltare la nostra voce.
Nessuno mai è passato di qui con la nave senza prima udire dalle nostre bocche la voce dal dolce suono, ma poi se ne va con viva gioia e conosce più cose.
Quel canto è l’oltre che non conosco ? È la bellezza che non posso cogliere??? Ecco allora il desiderio, la paura, la fuga….
ULISSE (Né..)vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto…; ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto(…) Considerate la vostra semenza: fatti non foste per viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza E’ IL SENSO DELLA VITA? GIONA Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona…«Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito;dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce.
4 Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; io dicevo: Sono scacciato lontano dai tuoi occhi;eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio….
Comprende e la SPERANZA E RINASCE AGOSTINO La pace è solo in Dio… E se invece la bellezza stesse proprio nella tensione verso l’utopia che riempie ed esalta la vita???? E se fosse l’attimo appena precedent
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
XVII Domenica Tempo Ordinario Anno C
XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno c Prima lettura: Genesi 18,20-32 In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave.
Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».
Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore.
Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?».
Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo».
Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?».
Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque».
Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta».
Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta».
Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta».
Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta».
Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti».
Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti».
Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci».
Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».
v Abramo fu chiamato «amico di Dio» (cf.
Gc 2,23).
In questa veste egli agisce nella lettura che stiamo presentando.
Nei vv.
16-19 del nostro capitolo si trova un monologo divino in cui il Signore si domanda se gli sia lecito tenere nascosto ad Abramo ciò che egli sta per fare nei confronti di Sodoma e Gomorra.
Dio sceglie così Abramo come il confidente con il quale condividere le decisioni più gravi e al quale confidare le grandi ansie del suo cuore.
Noteremo infatti che non si tratta semplicemente di comunicare ad Abramo la sentenza definitiva contro le due città, ma di dichiarare aperto un processo a loro carico.
Al v.
20 abbiamo in italiano la parola «grido» essa nel testo originale suona come un termine tecnico del linguaggio giuridico.
A Dio è arrivata una denuncia gravissima.
Egli è l’ultimo appello per dare una risposta al caso, ma per farlo è necessario che apra un’inchiesta, un’indagine che è disposto a svolgere personalmente, anche se di fatto nel capitolo 19 saranno i due angeli a visitare Sodoma, come anticipa il v.
22 omesso dalla versione liturgica della lettura.
Nel v.
21 si ha l’impressione di cogliere sulle labbra di Dio incredulità e indignazione.
Sembra che da una parte Dio stenti a credere alla denuncia che gli è pervenuta, e dall’altra sia irritato a causa della gravità di quanto gli è stato denunciato.
Il capitolo 19 presenterà un esempio concreto della malvagità di Sodoma (19,1-11).
Il fatto non è da leggere esclusivamente nella linea del peccato di omosessualità, ancor più importante è la mancanza di ospitalità.
Sodoma è l’antitesi di Abramo; mentre questi riceve Dio e lo accoglie generosamente, Sodoma riserva ai suoi inviati tutt’altro che accoglienza.
Nei vv.
23-35 abbiamo la trattativa di Abramo con Dio, un colloquio nel quale sembra riecheggiare lo stile tipicamente orientale della contrattazione.
Accanto a questa intercessione del patriarca potremmo collocare quella di Mosè (Es 32,11-13; Dt 9,26,29), e quella dei profeti (Am 7,4-6).
Siamo al primo anello di una catena che attraverserà la storia d’Israele.
Si potrebbero ricordare qui le parole di Geremia: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia (Ger 12, 1a)».
I sentimenti di Abramo nell’incominciare il dialogo con Dio sono esattamente quelli delle prime parole di Geremia, Abramo ha un senso profondo del rispetto dovuto a Dio; prende coraggio man mano che trova Dio disposto all’ascolto.
Dal punto di vista teologico questo è già un dato molto importante: Dio è disposto al dialogo, ad ascoltare amichevol-mente gli interventi degli uomini.
Non si tratta di un Dio impenetrabile e arbitrario, ma disponibile e dialogante.
Geremia poi dice che vorrebbe rivolgere a Dio una domanda circa la giustizia.
Chiaramente il contesto in cui parla il profeta è completamente diverso dal nostro, ma l’interrogativo è il medesimo.
Tutto il senso della trattativa trova qui il suo riassunto.
Cosa decide il destino di una collettività: il peccato di molti o la giustizia di pochi? Questa è la domanda fondamentale.
Essa prende ancora più rilievo se viene collocata sullo sfondo della società in cui venne formulata, una società in cui la responsabilità individuale non era ancora in primo piano.
Il testo appartiene alla tradizione jahwista.
A quel tempo il senso di appartenenza alla famiglia, alla tribù, alla città, in una parola sola alla comunità, era talmente forte da ritenere che tutti fossero solidali nel bene e nel male.
Non deve essere dimenticato questo contesto per comprendere meglio il problema teologico fondamentale della lettura: con quale criterio Dio giudica? La risposta finale è che Dio nel suo giudizio è più disposto a tenere in conto il bene di pochi che il male di molti.
Non bisogna perciò preoccuparsi molto di come concretamente le cose siano andate a finire per Sodoma, se cioè là non si trovassero in essa neppure 10 giusti.
Sodoma non diventa un caso in se stessa, ma l’occasione per esporre l’asserto teologico fondamentale in questo brano: il bene compiuto da pochi può essere più forte del male compiuto da molti e determinare il giudizio divino in senso positivo.
Questa linea teologica troverà sviluppi mirabili nel pensiero biblico.
Basti pensare a Is 52,13-53,12, in cui il servo sofferente di Dio diventa lui stesso da solo strumento di salvezza per l’intero popolo.
Si pensi poi al capitolo 5 della lettera ai Romani in cui Gesù viene presentato come il nuovo Adamo dal quale unicamente viene la salvezza dell’intera umanità.
Seconda lettura: Colossesi 2,12-14 Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.
Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.
v Il v 12 riprende un dato tradizionale della catechesi battesimale della comunità primitiva.
Rm 6,4-6 sviluppa bene questo discorso del battesimo come partecipazione personale al mistero pasquale.
Tra i due testi vi è però una importante differenza.
Per la lettera ai Romani solo la partecipazione alla morte di Gesù è una realtà presente, mentre la partecipazione alla risurrezione è lasciata al compimento escatologico.
Nel nostro brano abbiamo invece un progresso in questo senso: mediante la fede si partecipa fin da ora alla risurrezione di Gesù come nuova condizione personale di vita.
La fede è da riporre nella potenza di Dio.
Anche questa espressione ci riconduce alla lettera ai Romani: 1,4.
La risurrezione di Gesù è la manifestazione più chiara della potenza di Dio.
L’adesione di fede a questa verità fa si che la risurrezione non sia più un avvenimento che riguarda solo Gesù personalmente, ma coinvolge in modo efficace e presente anche i credenti.
Grazie alla fede, la risurrezione di Gesù non rimane un fatto isolato destinato solo alla sua persona, ma diventa un avvenimento comunitario vitale e trasformante.
Tocca al v.
13 spiegare in che modo tutto questo avvenga.
Esso ricorda la condizione dei colossesi prima che credessero.
Su di loro pesava una doppia penalizzazione: a causa dei peccati erano morti e per la loro incirconcisione erano esclusi da qualsiasi prospettiva di salvezza; non potevano beneficiare neppure dell’alleanza antica.
Da questa condizione mortale essi sono stati liberati mediante il mistero pasquale.
Il versetto ripropone la medesima espressione di quello precedente: «con lui» che non solo crea unità, ma ribadisce la centralità e l’efficacia dell’opera di Cristo della quale peraltro Paolo aveva già parlato in 1,14.20.
Tutti i peccati sono stati perdonati grazie alla morte di Gesù come già insegnava la catechesi primitiva della Chiesa: 1Cor 15,3.
Il v.
14 si rifà ad una immagine presa dal mondo commerciale per descrivere le condizioni degli uomini davanti a Dio.
Il «documento scritto» di cui si parla qui è un chirografo, cioè un atto ufficiale, legale, che reca la firma autografa di chi contrae il debito.
Fino a quando non si sono assolti gli oneri finanziari contratti si è perseguibili, non c’è scampo.
La condizione dell’uomo come debitore nei confronti di Dio appartiene all’insegnamento di Gesù stesso: Mt 6,12; 18,23-35.
L’ultimo testo mostra molto bene l’impossibilità dell’uomo di assolvere il debito con Dio.
Non c’è via d’uscita dal punto di vista umano per togliersi di dosso questa ipoteca imposta dal peccato.
Il chirografo era corredato di condizioni, nel testo originale rese con il termine dogma, che esprime precisione, sicurezza.
Ma anche queste regole precise erano a sfavore dell’uomo.
Si potrebbe vedere nel plurale di quel termine le prescrizioni della legge giudaica.
Tutto è stato tolto di mezzo dalla croce.
Ciò che prima inchiodava noi alla nostra insolvenza Dio lo ha inchiodato alla croce dandoci salvezza e speranza.
La risurrezione segna così questo grande passaggio: davanti a Dio gli uomini non sono più debitori sotto processo e in attesa di condanna, ma liberi e fruitori di un rapporto filiale.
Vangelo: Luca 11,1-13 Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».
Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
Esegesi A Luca è molto caro presentare Gesù come modello di preghiera: 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 22,41.44; 23,34.46.
Anche qui in 11,1 possiamo pensare che sia importante per l’evangelista mantenersi nella stessa linea.
La richiesta di uno dei discepoli raggiunge infatti Gesù non appena Egli ha terminato di pregare.
Si può legittimamente pensare che l’interesse sia non tanto quello di imparare una formula tipica dell’ambiente come la possedevano le diverse cerchie di discepoli riuniti intorno ad un maestro, come lo stesso accenno al Battista potrebbe far pensare, ma piuttosto di penetrare nel mistero stesso della preghiera di Gesù.
Il «Padre nostro» rivela quale tipo di relazione Gesù ha con Dio e nell’ultima parte del brano, i vv 9-13 mostrano quale frutto ci si deve attendere dalla preghiera.
Tutto ciò pone in un clima di assoluta novità, in una nuova via di relazione con Dio come solo nella preghiera di Gesù viene vissuta.
Dopo aver presentato Gesù come modello di preghiera nei vv.
2-4 si trova il «Padre nostro».
Il titolo dato a Dio è quello dell’ambiente familiare per chiamare affettuosamente il capo famiglia, sia da parte dei bambini che da parte degli adulti.
Nella lingua in cui Gesù ha insegnato la preghiera era dunque Abbà.
Il rapporto con Dio viene quindi caratterizzato dalla confidenza e dalla tenerezza.
Dio in quanto padre ha autorità e amore nello stesso tempo; in questo modo viene riconosciuto da chi prega come Gesù.
La sfumatura della tenerezza è però senz’altro la novità che Gesù insegna nel rapporto con Dio.
Quanto fosse antico nelle comunità cristiane questa prassi di approccio al Padre lo testimonia Mc 14,36 e ancor di più Gal 4,6 e Rm 8,15.
La prima richiesta riguarda la santificazione del nome divino.
Per comprenderla si dovrebbe ricordare Ez 36,20-28.
In quel testo Dio promette di manifestare la santità del suo nome ricostruendo l’unità del suo popolo disperso nell’esilio e ridonando agli israeliti il possesso della loro terra.
In una parola Dio manifesterà la santità del suo nome realizzando la salvezza del suo popolo.
Questa prospettiva fa cogliere molto bene il clima escatologico nel quale le prime due domande collocano l’orante.
Con la prima domanda si chiede a Dio di realizzare definitivamente la salvezza degli uomini, con la seconda che sia portata a compimento l’opera di Gesù che ha proprio come scopo il risanamento definitivo dell’umanità.
In 4,43 Gesù presenta come fine della sua missione appunto l’annuncio del regno.
La stessa cosa devono fare gli inviati di Gesù: 9,2; 10,10.
La seconda richiesta pertanto domanda che giunga a compimento l’opera che Gesù ha iniziato e che la Chiesa porta avanti con la sua missione.
La terza richiesta riguarda il pane, l’alimento necessario alla vita.
Nel testo originale la qualifica di questo pane non è chiaramente comprensibile; il participio epiousion infatti è di difficile interpretazione.
Normalmente viene interpretato come la razione di cibo necessaria alla giornata: «quotidiano».
In questo modo non avremmo uno scadimento nella richiesta, come se dopo aver domandato realtà spirituali si precipitasse nella materialità.
Rimarremmo ancora in un tipo di rapporto con Dio fondato sulla fiducia e sull’abbandono riconoscendolo come colui dal quale unicamente dipende il proprio esistere.
Bisognerebbe anticipare quanto dirà Gesù in 12,22-31.
Nonostante che il Padre sappia di cosa si ha bisogno Gesù invita però a chiedere.
Il «Padre nostro» è veramente la preghiera del discepolo di Gesù di colui che ha fatto suo lo stile di povertà radicale che Gesù praticava (9,58) abbandonando tutto per lui (18,18-23.28-30).
In questa richiesta si nasconde allora il desiderio di essere discepoli di Gesù secondo lo stile da lui voluto e praticato.
La quarta domanda presenta una realtà alla quale solo Dio può dare soluzione: il peccato.
A questa condizione che distrugge le relazioni dell’uomo con Dio e con gli altri il Padre risponde con il perdono.
Viene fatta questa richiesta a Dio perché solo lui può concedere quel dono e solo lui può far sì che dall’uomo perdonato nasca la capacità di perdonare.
Da ultimo si domanda a Dio l’aiuto necessario per superare positivamente la tentazione, o meglio in un senso più generale la «prova».
Bisogna guardarsi bene infatti dall’attribuire a Dio il ruolo di Satana.
Non è infatti certamente Dio ad incitare al male.
La prova invece è una condizione che l’uomo praticamente non può evitare dal momento che non è stata risparmiata neppure a Gesù (4,1-11; Eb 2,18).
In quella situazione l’aiuto di Dio è necessario perche l’uomo non soccomba, ma resti fedele.
I vv 5-8 raccontano una piccola parabola che invita alla più grande fiducia nella preghiera.
Il clima del vicino oriente scoraggia i viaggi durante le ore calde; l’arrivo dell’amico a mezzanotte non è pertanto un fatto eccezionale, spesso bisogna approfittare delle ore notturne per gli spostamenti.
Il pane poi era produzione casalinga, ogni famiglia lo produceva nel proprio forno.
Inoltre la tipica casa palestinese prevedeva come locale destinato agli uomini una sola stanza poliuso: di giorno serviva da abitazione, di notte da dormitorio per tutta la famiglia.
I congiunti deponevano stuoie a terra e dormivano tutti l’uno accanto all’altro.
Il pane veniva conservato nel locale attiguo, dove si trovavano anche il forno e i silos per le scorte dei cereali.
Andare a prendere il pane significava pertanto correre il rischio serio di calpestare i bambini che dormivano sul pavimento accanto ai genitori.
La parabola all’inizio insiste sul legame di amicizia che esiste tra i protagonisti messi in scena da Gesù.
Questo e il sentimento che spinge a chiedere, anzi a disturbare in un’ora scomoda.
L’amicizia spingerà ad esaudire la richiesta e se dovesse venire meno questa, sarà l’insistenza a garantire il risultato.
A dire il vero la parola originale che viene tradotta con «insistenza» indica piuttosto la mancanza di pudore, potremmo dire il non avere paura di presentarsi ad un orario inopportuno.
Gesù vuole così dare fondamento all’audacia nella preghiera.
Su che cosa si basa la sicurezza di essere esauditi? Innanzitutto sul fatto che Dio è un amico e di conseguenza nella preghiera si può osare molto senza paura.
I vv 9-10 contengono tre verbi che illustrano la preghiera: chiedere, cercare, bussare.
Sono immagini classiche per indicarla.
La terna costruita ponendo agli estremi due passivi teologici (vi sarà dato, vi sarà aperto) evidenzia ulteriormente le buone disposizioni di Dio verso chi si rivolge a Lui.
I primi due verbi poi si ricollegano direttamente alla parabola appena raccontata ribadendone il messaggio.
I vv 11-13 possono essere considerati un’altra piccola parabola che potremmo intitolare «del figlio affamato».
Anche in questo caso, come nella parabola dell’amico importuno, Gesù fa appello all’esperienza degli ascoltatori.
Si deve sottolineare bene che il soggetto scelto è di nuovo il padre, nonostante che concretamente e normalmente sia la madre ad occuparsi dell’alimentazione dei figli.
Si vuole proseguire pertanto, come dice chiaramente il v 13, nella presentazione del Padre e della risposta che Egli dà alle richieste degli uomini.
La novità di Luca rispetto a Matteo (7,7-11) è però che il Padre non concede «cose buone», ma lo Spirito Santo.
L’importanza dello Spirito Santo in Luca è nota: 1,15.35.41.67,2,26.27; 3,22; 4,1.14.18.
Da queste ricorrenze si capisce bene come per Luca lo Spirito Santo è il dono escatologico, il dono che realizza i tempi della salvezza.
C’è indubbiamente un salto di qualità incredibile, ma senza contraddizione.
Il salto di qualità consiste nel fatto che mentre fin qui l’oggetto della preghiera erano realtà materiali, ciò di cui l’uomo necessita per il suo sostentamento, la risposta di Dio si colloca su un piano ben superiore.
Egli è disposto a concedere molto di più, a dare una partecipazione piena alla sua vita, a segnare per quanti lo domandano il compimento della salvezza nel quale nulla mancherà all’uomo né il necessario per il quotidiano, né l’intimità con Dio.
Mentre la preghiera umana si appiattisce spesso su realtà materiali Gesù invita a questo grande cambiamento di prospettiva: passare dal vedere Dio come colui che provvede semplicemente all’esistenza terrena a colui che assicura pienezza di vita attraverso il dono del suo Spirito.
La considerazione è particolarmente preziosa in questo anno dedicato allo Spirito Santo e potrebbe diventare il vero fulcro dell’omelia.
Meditazione Il tema della preghiera domina la liturgia della Parola in questa domenica e la domanda che risuona sulle labbra dei discepoli – «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1) – può costituire anche per noi l’interrogativo, o più ampiamente l’atteggiamento interiore con cui celebrare questa eucaristia.
Alla richiesta dei discepoli Gesù risponde con una piccola catechesi, suddivisibile in tre parti.
Dapprima consegna il Padre Nostro (vv.
2-4); quindi racconta una breve parabola (vv.
5-8); infine offre un insegnamento sull’efficacia della preghiera (vv.
9-13).
Se la prima e la terza parte trovano dei paralleli nella tradizione sinotti-ca, la parabola centrale è invece propria di Luca e rivela pertanto la prospettiva peculiare con cui il terzo vangelo comprende il mistero della preghiera.
Potremmo anche dire che, se nel Padre Nostro Gesù mostra quale debba essere il nostro modo di stare davanti a Dio, attraverso la parabola rivela piuttosto quale sia il modo stesso con cui Dio si relaziona con i suoi figli.
Le parabole infatti (e questa del capitolo undicesimo non fa eccezione) sono anzitutto una rivelazione del modo di essere e di agire del Padre, che ci interpella personalmente e ci chiede di trasformare il nostro stesso modo di essere e di agire.
Per Gesù, la contemplazione del volto del Padre consente sempre – e nello stesso tempo esige – una trasfigurazione dell’agire umano.
Per imparare a pregare occorre dunque anzitutto guardare a come Dio si relaziona con noi.
La parabola presenta la relazione tra tre amici.
Il primo giunge nel cuore della notte a casa di un suo amico ed è per noi facile immaginare il suo bisogno: è provato dal viaggio, probabilmente non ha ancora cenato, necessita di ristorarsi e riposarsi.
In questa situazione, cosa fare? Ciò che viene subito in mente al protagonista della parabola è ricorrere all’aiuto di un terzo amico.
Non cerca di risolvere da sé, in modo autonomo e autosufficiente, la difficoltà: riconosce la propria impossibilità e accetta di rivolgersi a qualcun altro.
Poco importa se è notte fonda: è un amico, mi aiuterà.
Così ragiona il protagonista della pa-rabola e così agisce.
Il racconto, in questo modo, ci sollecita a metterci nei panni di questo uomo e a domandarci: avremmo agito come lui? È un primo interrogativo con cui la parabola ci interpella personalmente.
A scavare più a fondo nel brano emerge però un secondo interrogativo, più importante del primo.
La traduzione italiana di fatto elimina la domanda che nel testo greco è possibile intravedere.
Infatti, nel testo originario Gesù introduce il suo racconto con un pronome interrogativo: chi di voi? La parabola inizia con una domanda; il problema è stabilire fin dove essa giunge.
Probabilmente si conclude al v.
7 (in greco c’è un’unica frase) dove, anziché un punto e virgola, occorrerebbe mettere un bel punto interrogativo.
Questo amico – domanda Gesù – gli dirà così: «Non m’importunare…
non posso alzarmi per darti i pani?».
La risposta la dà lo stesso Gesù, al v.
8: «vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono».
La vera domanda posta dalla parabola riguarda dunque il comportamento del personaggio che viene importunato nel cuore della notte.
Che cosa farà: si alzerà o no per esaudire la richiesta del suo amico? Il vero protagonista è lui e su di lui Gesù attira l’attenzione dei suoi ascoltatori.
Più che ‘parabola dell’amico importuno’, dovremmo intitolare questo racconto ‘parabola dell’amico importunato’: è lui il protagonista principale di quanto avviene.
Nonostante tutte le difficoltà alle quali questo tale deve andare incontro, la risposta di Gesù non tollera dubbi: l’amico importunato esaudirà la richiesta di chi lo ha svegliato a notte fonda.
E lo farà almeno per due motivi: a) per amicizia: colui che ha bisogno è un amico, e gli amici si aiutano volentieri; b) ma anche per la sua invadenza.
Il vocabolo qui usato da Luca — anaideia — significa letteralmente ‘senza faccia’, dunque senza timore, senza vergogna, in modo quasi sfacciato, impudente, disinvolto.
La preghiera di questo tale non è soltanto insistente o invadente; è anche audace e confidente.
Non ha timore o ritegno nello svegliare l’amico nel cuore della notte.
Sa che è un amico; sa che con lui può avere confidenza e fiducia, può osare.
È importante comprendere che si può pregare in questo modo soltanto chi sappiamo essere nostro amico.
Con gli amici ci si comporta in modo diverso rispetto agli estranei.
A questo riguardo, dobbiamo fare attenzione a come Gesù conclude la parabola, al v.
8: «almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono».
Il testo greco recita più esattamente: «gli darà tutto quello di cui ha bisogno».
L’amico importuno chiedeva tre pani; riceve molto di più: torna a casa con tutto quello di cui ha bisogno.
In questo ‘tutto’ va inclusa anche la bellezza della relazione che ha sperimentato: insieme al pane, ha ricevuto la certezza di avere un amico sicuro, in cui poter confidare senza esitazione e senza timore.
Troviamo così nella parabola una dinamica tipica della preghiera cristiana, sottesa anche al Padre Nostro: preghiamo chiedendo il pane per ogni giorno, e insieme al pane ogni altro bene necessario alla vita, ma perché attraverso i suoi doni Dio santifichi il suo nome, cioè ci faccia conoscere il suo volto; ci conceda il suo Regno, introducendoci nella relazione d’amore con la sua persona; compia la sua volontà, che è la salvezza di ogni suo figlio.
L’esaudimento nella preghiera supera la nostra richiesta.
Il protagonista della parabola insieme al pane riceve il volto dell’amico che si prende cura del suo bisogno; così noi, nella nostra preghiera, riceviamo il volto stesso di Dio che ci rivela il suo nome di Padre e ci dona il suo Regno e la sua salvezza.
Gesù ribadisce questo aspetto anche nella terza parte della sua catechesi, laddove parlando dell’efficacia della preghiera conclude: «quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (v.
13).
Lo Spirito, come dono per eccellenza di Dio, ci testimonia che il Padre buono, anche quando si rende sollecito verso i nostri bisogni, non intende semplicemente donarci dei beni, ma attraverso di essi desidera comunicarci la sua paternità, il suo abbraccio di Padre, la sua comunione d’amore.
Nello Spirito Dio ci dona
19° Meeting Internazionale dei Giovani
19° MEETING INTERNAZIONALE DEI GIOVANI San Martino – SCHIO (VI) – 12 13 14 15 Agosto 2010 “Tutti tuoi o Maria… per avere la vita eterna” Schio, 10 Luglio 2010: L’Associazione Opera dell’Amore di Schio (Vicenza), presenta il 19° Meeting Internazionale dei Giovani dal titolo “Tutti tuoi o Maria… per avere la vita eterna” che si svolgerà a San Martino di Schio dal 12 al 15 Agosto 2010.
Questo evento ha l’intento di comunicare, attraverso la preghiera, le catechesi, le testimonianze, la musica, profondi valori di vita e di fede cristiana.
Sarà un momento per confrontarci e per condividere insieme momenti di gioia, di amicizia, di riflessione, importanti per la crescita spirituale ed umana.
E’ una manifestazione nata per i giovani e con i giovani.
Per molti di essi è diventata una tappa importante e, se vogliamo, alternativa per trascorrere le proprie vacanze estive, tanto è vero, che il Meeting è diventato un appuntamento fisso per molti giovani provenienti dall’Italia e da altri Paesi europei che, spinti dal desiderio di arricchire il proprio bagaglio spirituale, vogliono essere “luce del mondo e sale della terra” in questo mondo che sta perdendo ogni riferimento etico.
Ecco perché, nel corso della manifestazione, si alternano interventi e testimonianze relativi alle varie attività e iniziative sorte in questi luoghi (fede, difesa della vita, opere per i bambini dei paesi poveri, casa di riposo, recital, musica, cori, radio, pubblicazioni…) con ospiti esperti nei temi di comune interesse, privilegiando l’aspetto propriamente spirituale.
Quest’anno, il titolo che abbiamo scelto per riflettere e vivere il 19° Meeting Internazionale dei Giovani è “Tutti tuoi o Maria… per avere la vita eterna”.
In sintonia col messaggio del Papa rivolto ai giovani alla XXV Giornata Mondiale della Gioventù “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna (Mc 10,17)”, chiederemo a Maria di guidare i giovani del mondo intero all’incontro con il suo Figlio divino Gesù e di continuare ad essere la celeste custode della loro fedeltà al Vangelo e della loro speranza.
(cfr messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la XXIV GMG – 5 Aprile 2009) Appuntamenti principali del 19° Meeting Internazionale dei Giovani Il programma del 19° Meeting Internazionale dei Giovani è molto denso e vario: il momento centrale di ogni giornata è la Santa Messa, alla quale susseguono momenti di canto, di animazione, di riflessione con catechesi, di testimonianze di conversione, di preghiera, momenti di gioia e di vera amicizia.
Gli appuntamenti principali della manifestazione sono: Giovedì 12 Agosto – ore 20.30: “IL MONDO CANTA MARIA” quinta tappa del tour 2010 del Festival Internazionale di Musica Cristiana organizzato da Radio Kolbe Sat.
Per questo atteso appuntamento ospiteremo sul palco del Meeting Cristina Grego da Bassano del Grappa (Vicenza), Angelo Maugeri da Milano e Greg Wolton da Nashville U.S.A.
vincitore di 5 oscar mondiali della musica cristiana.
Venerdì 13 Agosto – ore 17.30: “COME SATANA CORROMPE LA SOCIETA’” intervento di Annalisa Colzi, scrittrice.
Da sempre interessata ai problemi giovanili, Annalisa, proveniente da Montemurlo (Prato), presenterà il suo ultimo libro “Come Satana corrompe la società”, il cui scopo è capire come il maligno utilizza i vari strumenti moderni per portare le anime alla perdizione.
Nell’intervento toccherà temi quali la teledipendenza (Grande Fratello, L’Isola dei famosi…), internet, libri e riviste (Harry Potter…), musica da sballo, cartoons (Dragon Ball, Pokèmon, Naruto, I Simpson..
) e Hallowen.
Il fine non è quello di condannare il mondo mediatico e l’universo giovanile, quanto quello di mettere il dito in quella che è veramente una piaga purulenta che infetta molti giovani.
Sabato 14 Agosto – ore 10.30: intervento-testimonianza di MAGDI CRISTIANO ALLAM.
Magdi Cristiano Allam è attualmente Deputato al Parlamento Europeo in seno al PPE.
E’ stato vicedirettore ad personam del Corriere della Sera fino al novembre 2008.
E’ particolarmente attento e appassionato alle tematiche che concernono la realtà dei modelli di convivenza sociale in Occidente, quali democrazia e diritti umani, identità nazionale e cittadinanza, immigrazione e integrazione.
Nato al Cairo il 22 Aprile 1952, il 22 Marzo 2008, durante la Veglia pasquale, ha ricevuto il Battesimo, la Cresima e l’Eucaristia in San Pietro da Papa Benedetto XVI, abbandonando l’islam.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali.
Tramite il sito www.ioamolitalia.it promuove un movimento per la riforma etica della cultura politica e delle istituzioni pubbliche in Italia.
E’ sposato con Valentina Colombo e ha quattro figli.
Sabato 14 Agosto – ore 21.00: “PER LA VITA ETERNA” proiezione di un filmato in ricordo di Renato Baron, animatore del Movimento Mariano Regina dell’Amore.
Domenica 15 Agosto – ore 11.30: “RICORDANDO RENATO” intervento di Rita Baron, moglie di Renato Baron.
Domenica 15 Agosto – ore 16.00: “IL MOVIMENTO IN CAMMINO” con gli interventi di Mons.
Giuseppe Bonato, assistente diocesano del Movimento Mariano Regina dell’Amore, Gino Marta, presidente dell’Associazione Opera dell’Amore, Mirco Agerde, coordinatore della spiritualità del Movimento Mariano Regina dell’Amore.
Informazioni e servizi ACCOGLIENZA: Per le intere giornate del Meeting sarà attivo un punto di accoglienza e di informazione.
Per tutti i giovani, fino ai 30 anni, saranno distribuiti gadget con i quali partecipare alle attività e ricevere sconti sulle consumazioni.
CAMPEGGIO e CAMPER GRATUITO: Dal 11 al 16 Agosto funzionerà gratuitamente in zona meeting un campeggio attrezzato di tutti i servizi necessari (docce, servizi igienici ecc…).
Inoltre a due passi dal campeggio è prevista un’area gratuita per la sosta camper.
Per garantire la piazzola per la tenda e il posto camper è consigliata la prenotazione inviando una e-mail all’indirizzo info@meetingdeigiovani.it oppure telefonando in orario d’ufficio presso Radio Kolbe Sat al numero 0445 505035.
STAND GASTRONOMICO SELF SERVICE: Per le intere giornate del meeting funzionerà, in un tendone adiacente alla tendo struttura che ospiterà la manifestazione, un ricco stand gastronomico self service gestito dal nostro personale competente.
BABY SITTING: Tutte le famiglie partecipanti con bambini di età compresa dai 4 ai 12 anni, potranno usufruire di un servizio giornaliero gestito dal nostro personale, che garantirà servizi di animazione, gioco e attività varie.
RADIO KOLBE SAT, media partner dell’evento, seguirà in diretta mondiale sulle frequenze audio tutto il 19° Meeting Internazionale dei Giovani con ampie interviste ai protagonisti che animeranno la manifestazione.
Inoltre tutto il Meeting sarà trasmesso in mondovisione sul sito internet www.radiokolbe.it.
Per ulteriori informazioni e per l’intero programma del 18° Meeting Internazionale dei Giovani visitate il sito internet: www.reginadellamore.org Il comitato del Meeting
Arcipelago islam
Nel suo celebre discorso all’università cairota di Al-Azhar, Barack Obama reclamò la necessità di un nuovo inizio, «basato su interesse e rispetto reciproci», tra gli Stati Uniti e i musulmani nel mondo, e si assunse la diretta responsabilità, «in quanto presidente degli Stati Uniti, di combattere contro gli stereotipi dell’Islam dovunque si presentino».
Poco più di un anno è passato da quel 4 giugno 2009 che a molti sembrò prefigurare la costruzione di una nuova strategia diplomatica e, insieme, di una cornice narrativo-simbolica opposta a quella del suo predecessore, e la battaglia di Barack Obama contro le letture semplicistiche, parziali e politicamente orientate del complesso mondo islamico sembra essere più necessaria che allora.
Lo dimostra l’interesse polemico suscitato dal saggista americano Paul Berman che nel suo ultimo libro, The Flight of the Intellectuals, critica pesantemente l’acquiescenza degli occidentali verso l’Islam moderato (accusato, sotto le sue vesti liberali, di nascondere progetti egemonici radicali, violenti e jihadisti) e per questo si è meritato – dopo quelle di Pankaj Mishra sul «New Yorker» e di Andrew March su «American Prospect» – le critiche severe di Marc Lynch, docente di Scienze politiche e Direttore dell’Institute for Middle East Studies alla George Washington University.
Il quale, su «Foreign Affairs», smontando i presupposti ideologici sottesi alla «cultura di guerra» di Berman che «marginalizza i pragmatisti e rafforza gli estremisti», ribadisce la necessità di distinguere i grandi mutamenti e la competizione antagonistica tra i gruppi riconducibili all’Islam politico.
Processi irreversibili Nel tentativo di analizzare l’islamismo – sostiene infatti Lynch – sono possibili due approcci: «il primo vede l’islamismo essenzialmente come un unico progetto con diverse varianti, in cui le similitudini sono più importanti delle differenze»; il secondo invece riconosce «le differenze nell’ideologia e nel comportamento dei vari filoni islamisti».
A questo secondo orientamento, che rappresenta per Lynch uno strumento essenziale per indebolire l’idea fittizia che l’Occidente sia in guerra con l’Islam, e che distingue e differenzia anziché accomunare indistintamente, che articola e argomenta anziché sentenziare e accusare, si ispirano diversi testi, pubblicati di recente, dedicati all’arcipelago dell’Islam politico.
Tra questi, va segnalato innanzitutto la (tardiva) traduzione italiana di Islam, Popolo e Stato.
Idee e movimenti politici in Medio Oriente (traduzione di Mattia Guidetti, Jaca Book, euro 28, pp.
256) di Sami Zubaida, professore emerito di Scienze politiche e Sociologia al Birbeck College di Londra.
Un libro, come ricorda l’autore introducendo la terza edizione, scritto negli anni Ottanta, nel decennio successivo alla rivoluzione iraniana del ’79, quando cioè l’Islam politico rappresentava ancora una novità, e nel quale non vengono solo criticate esplicitamente le spiegazioni «essenzialiste», che assumono il fenomeno islamico «come un’emanazione delle essenze culturali dei popoli musulmani, considerate storicamente senza soluzione di continuità», ma viene contestualizzata la nascita e la natura dell’Islam politico moderno.
Quell’insieme di «idee e movimenti, per lo più di opposizione, che in un modo o nell’altro vogliono istituire uno stato islamico, e che ne cercano il modello nella ‘storia sacra’ della comunità politica dei fedeli delle origini stabilita dal Profeta Muhammad a Medina nel VII secolo».
Di contro alle letture essenzialiste à la Paul Berman, che si riferisce all’Islam «fondamentalista» e all’Islam tout court come a una forma di religione caratterizzata da uniformità ideologica e da una visione monolitica e impermeabile alle idee e alle concezioni «moderne» e occidentali, Sami Zubaida ricorda come «gli edifici dottrinali e politici che si costruiscono a partire dai ‘fondamenti’ possano differire largamente»; che l’islamismo ha mostrato una grande diversità di ideologie e stili politici; che «qualsiasi ritorno alle ‘fonti’ comporta una costruzione di queste fonti in linea con le conclusioni desiderate».
E, soprattutto, che revival religioso, «fondamentalismo» e Islam politico sono reazioni politicizzate a irreversibili processi di secolarizzazione.
In questo senso, sostiene Zubaida, i movimenti islamici, proprio perché operano ideologicamente (anche laddove le loro aspirazioni vengono teorizzate come panislamiche) all’interno dei paradigmi politici di statonazione e «popolo» ispirati dall’Occidente, possono e devono essere compresi solo nei termini dettati dalle condizioni socio-economiche contemporanee, oltre che attraverso un’analisi attenta dei particolari processi di istituzionalizzazione della religione all’interno dei confini statali entro cui si manifestano.
Processi dagli esiti imprevedibili e diversi, come dimostrano il caso dell’Iran, «dove la rivoluzione islamica si è normalizzata in uno stato ‘regolare’», e dell’Egitto, dove «la richiesta di uno stato islamico è stata dismessa a favore di una islamizzazione conservatrice della società e della condotta dei costumi a tutti i livelli della società».
Al pari di Sami Zubaida, anche Georges Corm, economista e storico, già docente di Pensiero politico arabo contemporaneo, Sociologia dello sviluppo e Storia economica nelle università libanesi, ministro delle Finanze in Libano dal 1998 al 2000, rifiuta un’analisi limitata ai riferimenti storico-religiosi.
E nella sua Storia del Medio Oriente.
Dall’antichità ai nostri giorni (Jaca Book, pp.
175, euro 16, traduzione di Ida Bonali), si disfa dei sistemi di periodizzazione stabiliti per la storia europea, così come del «prisma politico dell’analisi storica contrassegnata dalle suddivisioni ‘nazionali’ che l’Europa si è forgiata», e offre una conoscenza «profana» di questa regione del mondo, identificando la «geologia delle culture» che si è formata in Medio Oriente sui grandi zoccoli geografici regionali: l’Anatolia, l’altopiano iranico, la bassa (babilonese e caldea) e l’alta Mesopotamia e l’Egitto.
Nel suo itinerario lungo l’evoluzione del Medio Oriente, dall’antichità fino all’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti passando per il periodo del dominio coloniale, Corm individua tre modelli specifici di resistenza e reazione al dominio europeo e di modernizzazione: quello turco, «forgiato dall’ideologia laica e nazionalista degli ufficiali dei Giovani Turchi che nasce alla fine del XIX secolo, nonché dal kemalismo»; quello arabo, più precisamente nasseriano, «di rivoluzione e dittatura militare nazionalista, vagamente ispirato al modello kemalista»; quello iraniano, fortemente segnato dal nazionalismo europeo e «caratterizzato da una miscela contraddittoria di conservatorismo e di progressismo nei religiosi, di antimperialismo e di rivolte sociali contro gli interessi della corte reale e dei ricchi proprietari terrieri».
Per poi tentare di delineare le ragioni che stanno alla base «della decadenza del Medio Oriente a partire dal XVIII secolo», tra le quali annovera l’uso selettivo e occasionale del diritto internazionale da parte delle potenze occidentali, che continuano a intervenire con operazioni «dal carattere ibrido e contraddittorio, insieme democratico e coloniale».
Un fenomeno moderno Anziché concentrarsi in maniera specifica, come fa Corm, sull’aspetto geografico e sulla roccaforte regionale dell’Islam, su quella «zona strategica fin dalla spedizione di Napoleone Bonaparte» che è il Medio Oriente, Berverley Milton-Edwards, docente di Politica e Relazioni internazionali alla School of Politics della Queen’s University di Belfast, punta l’attenzione «sul mondo musulmano nella sua totalità, o meglio ancora su quei paesi in cui la maggioranza della popolazione è di fede musulmana».
E nel libro Il fondamentalismo islamico dal 1945 (presentazione di Francesca Sforza, Salerno Editrice, 18 euro, pp.
240) ricostruisce la storia del fondamentalismo islamico in chiave politica (perché l’Islam, sostiene l’autrice, sin dalle sue radici nell’Arabia del VII secolo «è sempre stato collegato alla politica»), contestando l’idea che l’Islam sia un «anacronismo, una casa monolitica sotto il cui tetto risiede un miliardo di musulmani» e dimostrando l’infondatezza della tesi secondo cui il fondamentalismo islamico sarebbe in rotta di collisione col secolarismo: una tesi, scrive Milton-Edwards, «che si è rivelata incapace di comprendere che islamismo e fondamentalismo sono sostanzialmente un fenomeno moderno».
Un fenomeno che a partire dal 1945, e proprio in virtù della sua matrice politica primaria, ha assunto un posto centrale nello scenario della maggior parte degli stati musulmani.
E al «movimento-madre dell’islamismo contemporaneo», I Fratelli musulmani (Jama’a al-Ikhwan al- Muslimin) – la cui nascita non a caso è avvenuta in Egitto nel 1928, «in un periodo in cui il processo di modernizzazione e di secolarizzazione dello stato egiziano si era esteso a tutti i compartimenti del politico» – è dedicato il volume collettaneo curato da Massimo Campanini, docente di Storia dei paesi islamici all’Università di Napoli l’Orientale, e Karim Mezran, direttore del Centro Studi Americani di Roma e docente universitario: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo (Utet,pp.
282, euro 22).
Distinzioni ambigue.
Un testo utilissimo per diverse ragioni: perché non solo analizza in profondità (con il bel saggio di Anthony Santilli) le diverse fasi attraverso le quali il movimento fondato da Hassan al-Banna ha ottenuto legittimazione sociale e politica in Egitto, ma allarga la prospettiva a un’analisi regionale (con i testi di Campanini sul Sudan, di Daniele Atzori sulla Giordania, di Tiziana Giuliani sul Maghreb, di Marco Di Donato sulla filiazione di Hamas) e globale, con i testi di di Stefano Allievi e Brigitte Maréchal sull’influenza del movimento in Europa e di Mezran sulla Fratellanza musulmana negli Usa (in cui si riconosce «il potenziale politico positivo» che i movimenti islamici potrebbero giocare «nel permettere l’integrazione con la cultura e i valori politici del mondo americano»).
E soprattutto perché è animato da una ricerca onesta e rigorosa, che giudica «ambigua, euro-centrica, occidentalo-centrica» la stessa distinzione tra islamismo moderato e islamismo radicale, ricusando le accuse di linguaggio biforcuto mosse ai movimenti islamisti «moderati» come «frutto di un pregiudizio ideologico».
Per approdare alla consapevolezza che, se è vero che la «presenza contemporanea dell’Islam in Europa è probabilmente da considerare uno dei principali avvenimenti culturali della seconda metà del XX secolo», dobbiamo dotarci di un’adeguata attrezzatura concettuale.
Di cui non possono far parte le tartufesche tesi di Berman sull’Islam fascista.
in “il manifesto” del 16 luglio 2010
Prima che cali il buio.
JAN DOBRACZYNSKI, Prima che cali il buio.
Il romanzo di Geremia, Gribaudi, Milano, pp.
352, € 18,00.
Le fatiche del timido Geremia L’anno prima della sua morte, avvenuta nel 1994, ricevetti a sorpresa una sua lettera attraverso la sua traduttrice italiana: Jan Dobraczynski, uno dei più popolari scrittori polacchi, mi inviava in quell’occasione alcune sue considerazioni dopo aver letto un mio libro tradotto nella sua lingua.
Io mi ero accostato a lui da liceale, quando mi erano state regalate le sue Lettere di Nicodemo, pubblicate dalla Morcelliana nel 1959, forse la sua opera più nota, la cui tesi teologica centrale era in queste righe: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi.
Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?».
Credere per comprendere, dunque, e non viceversa.
Quando egli mi scriveva nel 1993, l’astro di questo scrittore cattolico – che aveva combattuto nella famosa insurrezione di Varsavia ed era stato relegato nei lager nazisti e che poi aveva girato per l’Europa, conoscendo Papini, Ungaretti, Mauriac e Cesbron – si era di molto appannato agli occhi del mondo ecclesiale polacco.
Egli, infatti, più per spirito di pacificazione che per ragioni politiche, aveva deciso di aderire al movimento cattolico-progressista Pax in dialogo col regime comunista, divenendo anche deputato della Dieta polacca.
Questo gli aveva alienato le simpatie della Chiesa.
Tuttavia, Dobraczynski non aveva cessato di scrivere sino alla fine della vita, nonostante una grave affezione oftalmica, e la lettera che aveva voluto dettare e indirizzare a un ignoto autore come me era segno di questa sua appassionata e fin frenetica ricerca filosofico-religiosa.
Ora, l’editore italiano che in passato ha tradotto non poche sue opere, ripropone un altro dei suoi romanzi biblici più significativi, pubblicato nel 1948 col titolo originario un po’ enfatico Wybrancy Gwiazd, ossia “prescelti dalle stelle”, mentre la prima versione italiana (Sei, Torino 1961) aveva optato per il più immediato L’uomo di Anathoth.
Sì, perché protagonista è il profeta Geremia, nato appunto in un villaggio a sei chilometri a nord-est di Gerusalemme, Anatot.
Là «nell’armo decimoterzo del re Giosia», cioè nel 626 a.C., questo giovane impacciato e timido era stato chiamato da Dio a essere il suo portavoce, ossia il suo profeta.
proprio in una delle fasi più tragiche della storia d’Israele, quella che sarebbe approdata al crollo della nazione, alla distruzione di Gerusalemme e del suo tempio e all’avvio degli Ebrei verso l’esilio «lungo i fiumi di Babilonia».
Quel giovane inesperto, provinciale, sentimentale, patriottico sarebbe stato scaraventato nel groviglio degli intrighi politici degli ultimi re di Giuda, sarebbe stato arrestato e sbeffeggiato, avrebbe assistito alla tragedia nazionale e alla fine sarebbe stato costretto all’esilio in Egitto contro la sua stessa volontà, nella più totale solitudine umana (Dio gli aveva imposto un celibato dal significato emblematico) e nello stesso silenzio di Dio.
Di tutta questa vicenda, piena di colpi di scena, rimane la testimonianza nel libro che reca il suo nome, il libro più lungo dell’Antico Testamento (21.819 parole ebraiche, seguito a ruota solo dalla Genesi con 20.611 vocaboli), ma anche il j più complesso nella sua redazione, dato che – accanto alla voce diretta dello stesso profeta coi suoi oracoli – si hanno tante presenze indirette, come quella del suo fedele segretario Baruk.
Si comprende, così, la ragione per cui questo personaggio dall’esistenza drammatica (si legga, ad esempio, il terribile passo del cap.
20 in cui maledice il giorno della sua stessa nascita) abbia affascinato non pochi scrittori e naturalmente anche Dobraczynski che lo colloca al centro di quello scontro planetario che allora era in corso tra le due superpotenze, Babilonia e l’Egitto, avente come linea di frontiera e area-cuscinetto proprio la terra di Israele che non si rassegnava a essere una semplice pedina, scatenando così reazioni e ritorsioni.
Davanti ai due imperatori si erge allora proprio lui, l’ex-ragazzo timido di Anatot, che riesce a fermare per ben due volte il decreto di eliminazione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, re di Babilonia, ma che non è in grado di tenere a bada i suoi connazionali, un popolo ribelle, ostinato superbo, quel regno di Giuda che precipiterà verso il baratro preannunciato dal profeta inascoltato.
Scriveva il romanziere polacco nella nota introduttiva a questo ritratto libero ma potente di Geremia: «Ho voluto far rivivere la figura di un uomo che, schiacciato da una missione superiore alle sue forze, la portò fedelmente a termine in mezzo a un’umanità sorda e cieca al suo immenso dolore».
Lo scrittore s’era preoccupato di documentarsi storicamente ed esegeticamente sia pure nei limiti della sua preparazione, sulla scia, ad esempio, dell’infaticabile Thomas Mann col suo Giuseppe l’egiziano, che però alla fine si rivela più indipendente dalla matrice biblica originaria.
Il risultato ottenuto dallo scrittore polacco è coinvolgente e il percorso di lettura è attraente fino all’ultima scena grandiosa, ove l’uomo di Anatot si leva davanti all’«interminabile colonna di deportati, carichi sulle spalle del triste fardello dell’esiliato, che si trascinano attraverso il deserto…
con un lamento che sale verso il cielo pieno di nubi indifferenti: l’eterno pianto del dolore umano».
A margine ricordiamo che Jeremias sarà il titolo e il protagonista anche del dramma antimilitarista dell’ebreo viennese Stefan Zweig (1917), e lo stesso profeta dominerà il romanzo Höret die Stimme (Ascoltate la voce) di un altro ebreo, il praghese Franz Werfel, che lo ripubblicherà nel 1956 col titolo esplicito Jeremias.
Anche il giovane Karol Wojtyla, nel 1940, in una Polonia invasa, scriveva un dramma intitolato Geremia.
La lista potrebbe continuare, a testimonianza del fascino esercitato da questo personaggio imprigionato – a livello popolare – nel cliché delle “geremiadi” a causa della tensione di certe sue pagine e della connessione con le elegie delle Lamentazioni che seguono il suo libro.
In realtà la sua è una figura possente, è la voce più “personale” e, oseremmo dire, “romantica” delle Sacre Scritture, che ben ha meritato anche la sinfonia Jeremiah che a lui dedicò nel 1942 Leonard Bernstein.
di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 18 luglio 2010
Giovanni e Paolo e il Mistero dei Pupi
Parodia all’italiana di Philippe Ridet in “Le Monde” del 18 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org) Due ragazzini in pantaloni corti e i loro amici sfidano un mago che terrorizza gli uomini e li trasforma in marionette di legno.
È il riassunto del cartone animato di ventisei minuti, la cui diffusione è prevista per domenica 18 luglio sul terzo canale della televisione pubblica italiana (RAI 3) alle 9 [ndr: 8,40], quando la guardano i bambini.
Con il loro coraggio, i due ragazzi, di nome Giovanni e Paolo, finiranno col trionfare sui malefìci del mago.
Giovanni e Paolo…
come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i due giudici assassinato dalla mafia a Palermo nel 1992.
Il mago che concede i suoi favori in cambio delle sottomissione, è evidentemente Cosa Nostra.
Per Rosalba Vitellaro, la regista, e Alessandra Viola, la sceneggiatrice, tutto comincia in macchina un mattino del 2007.
La radio trasmette una canzone di Carmen Consoli, Mulini a vento, dedicata alla scomparsa dei due magistrati.
Perché non noi?, si dicono.
Hanno appena terminato un film d’animazione, Benedetta, che presenta i bambini sfruttati e poveri della Sicilia, che vendono fazzoletti di carta e accendini ai semafori.
Poco tempo dopo, la pubblicazione di un sondaggio realizzato nelle scuole dimostra che i nomi di Falcone e Borsellino sono già stati dimenticati dagli scolari.
L’idea di dedicare un cartone animato pensato per il pubblico giovane a queste due figure dell’antimafia diventa a quel punto per loro una sorta di necessità civica e pedagogica.
Messe al corrente del progetto, la regione Sicilia e la RAI accettano di assicurarne in parte il finanziamento e la diffusione.
Anche le famiglie dei due giudici accettano di sostenere questa impresa.
Altri sponsor interpellati hanno rifiutato.
“Mi dicevano: un cartone animato sulla mafia? In Sicilia? Ma lei è matta!”, ricorda Rosalba Vitellaro.
Legge del silenzio? Volontà di negare la realtà? Tutto questo insieme.
“In Italia, un presidente del consiglio ritiene che parlare di ciò che non funziona faccia torto al paese.
Per me, è proprio il contrario”, prosegue.
Già proiettato a Palermo il 23 maggio, anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, presentato al Festival del film di televisione a Cannes, Giovanni e Paolo, il mistero dei pupi” gode già di un’incoraggiante pubblicità di bocca in bocca.
Il Messico, in preda anch’esso al traffico e alla violenza, acquisirà i diritti del film per la televisione pubblica.
Rosalba Vitellaro e Alessandra Viola riflettono ad un altro soggetto tratto dalla recente storia italiana.
“Un lungometraggio tipo Persepolis” la striscia di Marjane Satrapi.
L’attualità recente è colma di scandali di corruzione, di assassini misteriosi, di affari mai chiariti.
“È un onore partecipare alla costruzione di una opinione pubblica, spiega ancora Rosalba.
Gli eroi non sono quei mafiosi che marciscono in prigione ma quelli che, come Falcone e Borsellino, li hanno combattuti.” Una storia ambientata negli anni Cinquanta a Palermo, nella quale i nostri due amici, con l’aiuto di altri compagni, cercheranno di liberare dal Male oscuro la loro città e i suoi abitanti.
Dire Dio nel processo di apprendimento scolastico
Dire Dio Secondo l’approccio psicologico e psicoanalitico Massimo Diana Pozza di Fassa, mercoledì 30 giugno 2010.
La relazione si può scaricare dagli allegati a destra DIRE DIO IN UNA SCUOLA LAICA 1.
Le resistenze nella scuola laica Dire… l’indicibile?: Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto (Romani, 1, 19) 1.1 Dire Dio: Legittimo? Giobbe finalmente si arrende a Dio: “ Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti vedono.” (Giobbe, 42, 59) Non c’è uomo che non lo conosca, almeno per sentito dire; perché se ne parla: non c’è lingua che non lo nomini.
(Spaemann, 2008).
Legittimamente? Per garantirsi, la ragione ha percorso piste rigorose ed ha tentato di vagliarne la fidabilità.
Con esito incerto: una tradizione secolare e autorevole lo ha riconosciuto all’origine della realtà, causa e fondamento del mondo.
Ma la stessa tradizione trova resistenze tenaci, magari proprio sul versante di chi fa del riferimento a Dio l’orizzonte di significato definitivo per la propria esistenza.
Pascal e Kierkegaard rappresentano solo gli esponenti più illustri fra i credenti che hanno avanzato dubbi e perplessità sulla dimostrazione razionale, sulla cosiddetta via rationis.
In epoca moderna scuole filosofiche di impatto straordinariamente vasto e accreditato hanno negato alla ragione umana il diritto di parlare di Dio (Kant); hanno screditato l’intera compagine tradizionale che ne esigeva la presenza (Nietzsche); hanno denunciato il riferimento a Dio come evasivo di un impegno umano responsabile (Feuerbach-Marx).
Insomma la compagine della credibilità appare scossa.
E tuttavia il tema di Dio non è di quelli che si possano sottacere; ha tutta la provocazione di un confronto che mette in gioco o addirittura a repentaglio l’esistenza.
1.2 Resistenze in ambito divulgativo: In chi… crede colui che crede? Quasi un secolo fa un pensatore credente J.
Rivière, s’interrogava sulla resistenza dell’a-teo di fronte a tante verità, di cui la fede è depositaria.
Mettendosi nei panni dell’interlocutore, ripeteva a se stesso: – com’è possibile che un uomo intelligente, di buona cultura ammetta… – E faceva un elenco discreto di affermazioni, cui il credente dà normalmente la propria adesione (Rivière, 1925, 32).
Per cui si era proposto un compito singolare: spiegargli il suo punto di vista, dipanargli la logica e la coerenza del proprio modo di pensare, con la… presunzione di metterlo a parte di un’esperienza singolarmente illuminante Qualche anno fa il cardinal Martini, allora arcivescovo di Milano, aveva avviato una interessante iniziativa: la cattedra dei non credenti.
In un dibattito assai vivace aveva chiamato in causa il non credente e l’aveva sollecitato a spiegare la propria posizione.
Uno di loro, che si riconosce in questa schiera, riprende recentemente le fila (Savater, 2007).
“In che cosa crede chi non crede?” era la domanda.
“Crediamo, risponde F.
Savater, nella constatazione dei fenomeni naturali stabiliti dalla scienza, in quel che è verificato da studi storici e sociali, nell’opportunità di alcuni valori morali, eccetera.” (Savater, 2007, 85).
Considerazioni piuttosto evasiva:[1] Più incalzante è invece la domanda che, a sua volta, Savater propone: “- In cosa credono coloro che credono… – Perché ci credono una volta che riescono a chiarire in cosa credono.
… – Non si tratta di pretendere da chi crede in ‘Dio’ che chiarisca il contenuto della sua fede e le ragioni che lo portano ad adottarla…” ( Savater, 2007, 86).
Invece noi pensiamo che proprio di questo si tratti: che chi crede in Dio sia in dovere di mettere a punto la risposta e dire con chiarezza in che cosa e in Chi crede e le ragioni per cui ci crede! Appunto perché vive in un contesto in cui ‘credere in Dio’ non è affatto ovvio.
Nel trecento l’amico di Dante, Guido Cavalcanti, è passato alla storia perché, secondo il suo biografo, ‘passò la vita a cercar se trovar si potesse che Dio non fusse…’ Savater sembra essersi proposto lo stesso compito; ma data la situazione culturale odierna non passerà alla storia per questo.
Fa parte di quella schiera piuttosto numerosa che Sartre ha già lucidamente identificata una sessantina di anni fa.
Il nostro problema, scriveva Sartre, non è l’esistenza di Dio, ma che “l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio.” (Sartre, 1968, 93).
1.3 Resistenze nelle matrici culturali Nihilismo contemporaneo e le sue matrici: la visione di Heidegger[2].
Dicono a me tutto il giorno Dov’è il tuo Dio? (Salmo 41) Sintetizzando.
Nella visione più radicale di Heidegger la tradizione occidentale, metafisica s’innesta al pensiero filosofico e lo oscura allorché il pensiero occidentale, piegandosi esclusivamente sull’ente ne ha raggruppata la problematica attorno a due nodi centrali: “…la metafisica distingue infatti da sempre fra ciò che l’ente è e fra il fatto che esista o meno…
Con questa distintnzione comincia la storia dell’essere come metafisica” (Heidegger, 1961, 2°, 400-401).
La distinzione fra essenza ed esistenza viene in quel momento definitivamente formulata.
Platone specialmente si piega sulla considerazione dell’essenza con la segreta fiducia di tracciare il problema dell’essere.
In realtà risale ultimamente proprio a questa distinzione l’oblio dell’essere: allorché i due aspetti dell’ente – essenza ed esistenza – vengono considerati come l’opposizione più profonda e definitiva finiscono con l’oscurare l’originaria distinzione fra essere ed ente.[3] L’ente si propone e s’impone, occupando l’intero orizzonte della riflessione, senza rimando a fondamento alcuno.
L’insita inconsistenza dell’ente e la conseguente aspirazione del pensiero a rilevarne la fondazione induce ad elaborare una gerarchia fra gli enti; e la loro reciproca azione si trasforma in causalità.
che tende a dare ragione di ciascuno di loro.
Si vanno dunque rinsaldando gli anelli d’una lunga catena che, risalendo di ente in ente, crede finalmente di potersi agganciare ad un anello definitivo, rappresentato da un ente che sia pura causalità, da cui tutti gli altri trarrebbero origine ed in cui troverebbero giustificazione.
La meta sembra suggestiva: il solco fra essenza ed esistenza, di cui sono segnati tutti gli altri enti, qui trova finalmente modo di essere colmato.
L’actualitas ha assunto tali proporzioni da assorbire e fondere in sé i due ‘con-principi’, essenza ed esistenza. L’attualità è l’essenza stessa di tale essere sommo, gli appartiene necessariamente; non solo, ma trova in lui la propria scaturigine ultima: ‘E l’ente che non può non essere: teologicamente pensato tale ente si chiama Dio” (Heidegger, 1961, 2°, 4I5).
1.2 La concezione metafisica del mondo [4]Di fronte alla metafisica e contro di essa Nietzsche ha preso apertamente posizione.
Ha tentato di rilevarne l’inconsistenza: ha affermato che il suo fondamento vivente, il summum ens, non poteva più reggere ed ha decretato la morte di Dio, non tanto come ribellione religiosa (Heidegger, 1961, 1°, 183), quanto come rivalsa di un pensiero più moderno e maturo di fronte alla tradizione filosofica occidentale.
Decretare la morte di Dio è decretare l’inanità di tutte le prospettive che a lui venivano rapportate. Tutta la gerarchia dei valori tradizionali si affloscia perchè è crollato il loro punto di convergenza, il loro centro di attrazione.
L’ente stesso, segnato nella sua essenza da un inconfondibile impronta teologico-cristiana ne esce irrimediabilmente compromesso.
E il vuoto, scavato al centro, nel cuore degli enti, si allarga irresistibilmente alla periferia, vanificandone man mano uno strato sempre più largo.
La morte di Dio ha creato, per così dire, la base di lancio del nihilismo; il suo inarrestabile allargarsi ne segna le tappe successive.
Nietzsche non si preoccupa che la storia provi o contesti la validità delle sue affermazioni; per lui queste vanno assumendo la garanzia d’una certezza originaria, indiscutibile.
Se il mondo sembra ancora ruotare attorno all’antica stella, illuminarsi della sua luce, si tratta di un movimento che si protrae solo per forza d’inerzia, d’una luce destinata a spegnersi perchè appunto esaurita nella sua sorgente.
“Le scene del teatro del mondo possono ancora per qualche tempo apparire le stesse, ma il dramma che si rappresenta è già un altro” (Heidegger, 1961, 2°, 33)• Dio potrà ancora per qualche tempo sembrare il regista, in realtà intreccio, trama, azione gli sono sfuggite di mano.
Al punto che la sua presenza si fa inutile e superflua.
Se il mondo può stare da sé, da solo, il destino di Dio è segnato; non c’è più ragione per cui egli debba esser chiamato in causa….
La sua scomparsa ha scavato un vuoto profondo: ha suscitato quell’indefinibile sensazione di inconsistenza, di inanità che N.
chiama ‘sensazione di insignificanza’, che s’allarga oltre i singoli enti fino al cuore, all’essenza stessa dell’ente (Heidegger, 1961, 2°, 80).
1.4 Il linguaggio su Dio perde la presa La lettura che Heidegger propone della sentenza di Nietzsche ha il pregio della sintesi e della radicalità.
Andrà naturalmente verificata e senza dubbio ridimensionata.
Lascia tuttavia la sensazione di aver colto un aspetto profondo e conturbante del linguaggio tradizionale su Dio: che cioè qualcosa suoni a vuoto; non penetri nel cuore della realtà, di cui presume di parlare.
La verità di Dio non sembra scalfitta da un discorrere insistente e continuo, quanto evasivo e inefficace.
Soprattutto il linguaggio non sembra in grado di parlare di Dio, anche se il suo nome ritorna fino al parossismo.
Giustifica di conseguenza una riflessione in grado di rivederne le matrici e i percorsi.
Vi si addensano richiami e suggestioni che possono sollecitare un autentico rinnovamento del linguaggio anche su Dio.
Dio è assente dalla vita; se c’è, costituisce il fulcro dell’esistenza, ma questa sembra scorrere senza avvertirlo Ha ancora senso parlarne? Si può parlarne? Nichilismo in atto L’ospite inquietante Galimberti L’orizzonte di senso I Giovani? Ricerche Iard, 2007 Perché non sono cristiano – e tanto meno cattolico? Odifreddi Una diceria irrinunciabile – non negoziabile Spaemann Verità oggettiva o interpretazione? Essere e tempo il linguaggio in Heidegger Verità come alétheia Verità e metodo il linguaggio in Gadamer Ricupero dell’ontologia Verità e interpretazione Pareyson Percorso razionale legittimo in ambito religioso? 2.
Ipotesi orientativa: L’orizzonte ermeneutico 2.1 La teorizzazione: Cfr.
Trenti, Il linguaggio… p.
69 e ss.
2.2 Esemplificazioni: (da verificare in dialogo) A.
Marcel – La promessa La fedeltà è uno dei temi preferiti dall’analisi di Marcel.
La sua ricerca attorno alla dignità dell’uomo e alle sue radici trascendenti trova qui uno dei riferimenti qualificati e marcatamente originali.
( Cfr.
Marcel, 1940, 192 e ss.).
Senza data (1930) L’altro giorno ho promesso a C… che andrò a visitarlo di nuovo nella clinica in cui agonizza da settimane.
Promessa che, nel momento in cui la formulavo, è scaturita, almeno credo, da più intimo di me stesso.
Promessa generata da un’ondata di pietà: è condannato, egli lo sa, egli sa che io lo so. Dalla mia ultima visita son trascorsi diversi giorni.
L’insieme di cose, che ha causato la mia promessa, non si è modificato e su questo punto non posso farmi alcuna illusione.
Devo poter dire, anzi ne sono proprio sicuro, che egli m’ispira sempre la stessa compassione.
Come potrei giustificare un cambiamento nella mia disposizione interiore, dato che nulla è venuto ad alterarla? Tuttavia la mia pietà sentita dell’altro giorno, è diventata una pietà teorica.
Penso ancora che egli è infelice, che è opportuno compiangerlo, ma l’altro giorno non avrei pensato proprio a formulare questo giudizio.
Era proprio inutile.
Tutto il mio essere era uno slancio irresistibile verso di lui, con un immenso desiderio di aiutarlo, di mostrargli che ero con lui, che la sua sofferenza era la mia.
Devo riconoscere che questo slancio non esiste più; potrò soltanto imitarlo con un artificio, ma qualcosa in me rifiuta questo inganno.
Tutto ciò che posso fare è di osservare che C… è infelice, solitario e che io non posso abbandonarlo; d’altronde ho promesso di ritornare; la mia firma è in fondo ad un atto di stipulazione e questo atto è in suo possesso.
(MARCEL Gabriel, 1964,.
262-263).
E, quasi a convalida, ci si potrebbe domandare se fuori dell’ambito, almeno largo e generale, per un impegno risoluto attorno ad una ‘ragione di vita’ si possa conferire unità all’esistenza: quindi se la fedeltà non si porti a perno dell’identità della persona; e tuttavia non esiga anche un riferimento che trascende la persona.
La fedeltà annuncia un singolare rapporto fra iniziativa interiore e appello trascendente: quasi vigile valorizzazione d’un dono offerto in permanenza; operante appena la libertà vi si desta, lo avverte e lo accoglie.
A sua volta l’esistenza stessa sembra risvegliarsi all’appello di una misteriosa sollecitazione, proveniente da un mondo che, senza esserle estraneo, la trascende.
La persona sembra situarsi in un rapporto misterioso con sorgenti profonde e definitive – il filosofo potrebbe dire che è in rapporto con la totalità, con l’essere -; sembra comunque portare la percezione oscura di una consegna radicalmente impegnativa.
Certo non cessa di risultare cattivante la volontà di essere pari a se stessi, di stare alla parola proprio come affermazione che l’uomo è prima e oltre le situazioni in cui la sua vita si snoda.
Resta tuttavia difficile ribadire il significato della fedeltà quando sono in gioco valori decisivi o la vita stessa. Appare anzi illusoria una fedeltà a se stessi che non ha testimone, né interpreta una consegna, data da uno che attende risposta e sa misurarla.
Proprio dove la promessa si radica in una valutazione pensosa, interprete di aspirazioni profonde che fermentano l’esistenza, induce a risalirne all’origine.
Letta in profondità l’esperienza pare scaturire da una consegna; la promessa sembra in grado di evocarla e la fedeltà appare la traccia privilegiata per compierla.
In ultima analisi la fedeltà letta nei suoi rimandi sembra sottendere un appello all’assoluto; risolversi in invocazione, almeno implicita.
B.
Buber: La risorsa evocativa del linguaggio Il linguaggio sembra posarsi sulla superficie delle cose, preoccupato di descriverle; invece le attraversa e chiama in causa la vita nei suoi risvolti, spesso impenetrabili, forse evocativi di una presenza arcana che si lascia presagire.
La religione sembra avanzare una pretesa inconciliabile con la natura stessa del linguaggio: chiamare per nome una realtà trascendente per definizione, quindi ‘altra’ da ogni realtà finita; perciò indicibile.
E tuttavia proprio questa presunzione attraversa da sempre la ricerca individuale e collettiva: la religione è palesemente patrimonio della cultura umana.
Ha rivendicato al proprio linguaggio un senso autentico; forse addirittura un senso risolutivo per l’esistenza.
Vi ha privilegiato l’uso di forme peculiari che ne hanno potenziato la risorsa evocativa.
Buber in tutto il suo ragionare che potremmo definire ‘sapienziale’ fa perno su la parola fondamentale, che non è una formula magica: è progressiva umanizzazione dell’esperienza consueta, capace di trasfigurare la quotidianità: “ Ma, per noi, più grande di ogni enigma tessuto ai margini dell’essere è la centrale realtà del tempo terreno e quotidiano con il suo raggio di sole sul ramo dell’acero e il presentimento del Tu eterno.” (Buber, 1993, 122) La relazione costituisce la pista privilegiata all’affermazione e alla consapevolezza religiosa.
Presentimento e presagio risultano l’atteggiamento che apre e legittima il riferimento a Dio: sono parole-chiave per aprire alla ricerca umana l’orizzonte religioso: la realtà ha uno spessore che affonda le radici nel mistero; l’uomo ne porta una indefinita intuizione – presentimento -.
Costituisce la traccia rivelativa della verità delle cose create e perciò costitutivamente relazionate al loro creatore.
La relazione con il Tu non è né magica né scontata, è cercata, attraverso il processo dell’interpretazione! Viene illuminandosi appena la crosta dell’ovvietà si spacca: ‘sai sempre nel tuo cuore che hai bisogno di Dio… e Dio ha bisogno di Te.’ (Buber, 1993, 118) Il Tu è costitutivamente in relazione; senza di questa non è: – donde la parzialità di ogni interpretazione individualistica, – in grado di approfondire perfino l’intuizione del ‘singolo’ di Kierkegaard, dove la relazione risulta perentoriamente affermata proprio a partire dal versante religioso: l’uomo sta di fronte a Dio.
Il rapporto costituisce l’esperienza religiosa, che Buber interpreta e scandisce in una sintesi indovinata ed efficace: “Relazione originaria che da Dio all’uomo è missione e comando, dall’uomo a Dio visione e intelligenza, fra i due conoscenza e amore.” (Buber, 1993, 121) La relazione dunque è costitutiva dell’uomo.
Orienta all’interpretazione del rapporto con Dio, contemplato nel gesto creatore, che non riguarda tanto l’origine della creazione quanto l’esperienza attuale che l’uomo ne assume.
L’incontro e la conseguente affermazione di Dio avviene nel presentimento che esplora il mistero, e progressivamente nella consapevolezza della relazione, di cui vive l’universo creato.
2.3 Esistenza e rapporto costitutivo con Dio Lucido 2.4 Esistenza e presagio Lucido 2.5 Per il credente? inno al Dio ignoto Trenti, Linguaggio…, p.
87 Guardate i gigli: Lc.
12 “ p.
88 Credere in… “ p.
95 Banchetto: Mt.
22 2.6 Fusione di orizzonti nell’ambito credente, Trenti, Linguaggio… p.109 e ss.
3.
Per un’ applicazione al triennio dei Licei Elaborazione esemplificativa.
Gruppo di studio: Roberto Cristina &
“dire Dio”
“Nel momento di nominare Dio, le parole della fede vengono meno, ed ogni discorso che Gli viene applicato non potrà dire né come Lui è, né quanto Lui è grande”: già nel IV secolo Sant’Ilario di Poitiers esprimeva la difficoltà di “dire Dio” con le parole di cui gli uomini dispongono.
Una constatazione tanto più cruciale nel contesto attuale, in cui, malgrado una forte richiesta di spiritualità, ogni discorso su Dio viene sospettato di essere una proiezione delle nostre rappresentazioni umane o, anche, di “mettere le mani su Dio”.
Organizzando, dal 2 al 5 luglio, nell’antica città di Poitiers in cui ancora aleggia la memoria di Sant’Ilario e di santa Radegonda, il 2° forum delle spiritualità cristiane, il mensile Panorama (proprietà del gruppo Bayard, editore di La Croix) ha offerto ai 400 partecipanti venuti da tutta la Francia e anche dal Belgio, l’occasione di approfondire quella che può essere una spiritualità cristiana oggi: come dire l’indicibile, l’inesplicabile? Quali relazioni tra linguaggio e vita spirituale?…
Il forum ecumenico era organizzato con la diocesi di Poitiers, col suo arcivescovo Mons.
Albert Rouet, e con la vicina abbazia di Saint Martin de Ligugé.
Come faceva notare padre Jean-Marie Ploux, prete della Missione di Francia (1), la sfida attuale viene in particolare dal fatto che le teologie da noi ereditate sono tributarie di un mondo in cui l’esistenza di Dio appariva ovvia, mentre oggi non è più così.
“La teologia dominante della Redenzione, forgiata sulla nozione di peccato originale, risolve in maniera semplicistica la disgrazia, il male, ciò che deriva dalle “disfunzioni” della natura.
Per molti, il problema della disgrazia è divenuto un ostacolo insormontabile sulla via del riconoscimento del Dio redentore.
Parlare di Dio con il linguaggio dei primi secoli, significa condannarsi a non essere capiti.” Per Padre Ploux, Dio non rientra più nell’ambito del bisogno o della necessità, ma della gratuità.
Dire Dio oggi significa scegliere di vedere il mondo a partire dai più deboli: “Quando i cristiani vivono così, le persone lo capiscono bene”, ha aggiunto, lungamente applaudito…
Spesso, le parole riducono, rinchiudono.
Anche i gesti o una preghiera silenziosa possono “dire” la presenza di Dio.
Diverse persone intervenendo hanno insistito sulla necessità del silenzio.
“Si può arrivare a parlare di Dio senza deserto, senza notte, senza esodo, senza silenzio?” chiedeva Mons.
Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, che suggeriva del resto che “più della precisione del vocabolario, sono importanti il tono, il timbro della voce, il modo in cui si dice”.
Tutte le forme di linguaggio – oggetto di diversi laboratori – meritano di essere esplorate come vie di accesso alla vita spirituale: arti plastiche, musica, letteratura, poesia, ascolto dei Padri del deserto, “lectio divina”, fotografia…
E anche il linguaggio cinematografico non deve essere trascurato tra i mezzi moderni di dire Dio, come ha spiegato Henri Quinson (2), parlando delle riprese del film Des hommes et des dieux.
Pluripremiato a Cannes, questo film, dedicato ai monaci di Tibhirine (sarà nelle sale cinematografiche francesi a partire dall’8 settembre), ha già segnato profondamente i suoi attori.
Un’osservazione liminare di Dom Jean-Pierre Longeat, abate di Ligugé, merita di essere meditata: “Se cerchiamo solo delle parole per dire Dio, è inutile che stiamo qui.
Noi cerchiamo della parole per fare l’esperienza di Dio, e per formare insieme il Corpo di Cristo…” Nel cristianesimo, dire e fare, cioè vivere, non sono separabili.
(1) autore di Dieu n’est pas ce que vous croyez, Bayard, 2009 (2) autore di Moine des cités.
De Wall Street aux Quartiers-Nord de Marseille, Ed.
Nouvelle Cité 2008 Gli atti del Forum saranno inviati gratuitamente su semplice richiesta a panorama@bayardpresse.com di Béatrice Bazil in “La Croix” del 6 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
The Blind Side (Il lato cieco)
La domanda sorge spontanea: com’è possibile che un film campione d’incassi negli Stati Uniti, forte di un Oscar per la migliore attrice protagonista, sia proiettato solo al Fiuggi Family Festival e non trovi spazio nei nostri cinema? «Magie» della distribuzione all’italiana, capace inizialmente di rifiutare perché «deprimente» un film come The Road, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, considerato un capolavoro della letteratura contemporanea.
Ma qui, si è andato oltre.
The Blind Side, il film che ha premiato Sandra Bullock, in un inedito ruolo drammatico, prima con il Golden Globe e poi con l’Oscar, che ha fatto commuovere famiglie di americani con quella storia, vera, di un gigante buono del football americano e ha rastrellato 255 milioni di euro, quarto incasso assoluto della stagione, in Italia è disponibile solo in dvd, dopo una fugace apparizione su Mediaset Premium.
Una scelta in controtendenza, per la pellicola che, nata dal nulla, al botteghino ha scalzato in America addirittura i teen vampiri amati da orde di adolescenti, di Twilight: New Moon Resta la domanda.
perché questo film che parla di sport e adozione non è degno di arrivare nei cinema italiani? «D’accordo con la società produttrice del film – ha raccontato Paolo Ferrari, presidente di Warner Bros Italia – abbiamo ritenuto che il soggetto fosse poco adatto al pubblico italiano, che ha sempre mostrato di gradire poco i film sullo sport e in particolare sulle discipline, come il football americano, sconosciute nel nostro paese.
L’investimento promozionale per lanciare un film sul mercato delle sale è diventato gravoso e le previsioni di incasso per Blind Side sconsigliavano di rischiare».
Insomma, secondo al Warner, agli italiani, popolo che vive di pane e calcio, non piacciono i film sullo sport.
Eppure Invictus di Clint Eastwood, sembra dimostrare il contrario.
Quel film, dove il rugby è uno strumento di lotta politica, dove non si gioca soltanto una partita ma si raccontano emozioni e storie individuali, o collettive (il Sudafrica di Mandela) da noi è andato molto bene.
E non è l’unico.
Anche in The Blind Side il football è un pretesto.
Anzi è il contesto, dentro cui si dibatte il destino di Michael Oher, un grattacielo d’uomo, campione dei Baltimore Ravens.
Oggi, a soli 24 anni, la sua storia è diventata un libro e un film.
La storia di un ragazzo afroamericano di Memphis, orfano di padre e con una madre tossicodipendente, che non ha nulla, se non un futuro di degrado e la stazza per fendere il quadrilatero verde.
Alle soglie di un destino senza destino lo salva Leigh Anne Tuohy (Sandra Bullock appunto), assieme al marito e a due figlie.
Reginetta della commedia sentimentale per un’intera generazione, l’attrice ha abbandonato impacci romantici e buffi corteggiamenti, per un ruolo che lei stessa ha definito «impegnato e impegnativo»: «Ha subito avuto un significato molto importante per me: perché parla delle mamme, che si occupano sempre dei figli, naturali o adottati, e non importa da dove vengono».
Anne apre la propria casa di bianchi benestanti a quel bambinone triste di colore.
Lo adottano, gli pagano gli studi, lo seguono e gli fanno coltivare il suo sogno, racchiuso in potenza nel suo talento innato: il football.
Michael avrà la ribalta, ma soprattutto avrà una famiglia.
È la quinta essenza dell’american dream, nella sua versione caritatevole.
Il razzismo della povertà battuto dalla pietà e dallo sport che è sfida, conquista e successo.
E, anche se spesso ci sfugge di mente, solidarietà.
Ilario Lombardo Avvenire 27 07 2010
Il problema dell’ateismo
L’Occidente non è soltanto ateismo e razionalismo Nel centenario della nascita torna in libreria per Il Mulino un volume del filosofo Augusto Del Noce.
Con una postfazione di Cacciari che anticipiamo.
di Massimo Cacciari (Corriere della SerA, 18 giugno 2010) La novità e l’importanza de Il problema dell’ateismo consistono nell’aver posto al centro della storia della filosofia moderno-contemporanea la posizione (che si fa opzione o postulato) ateistica; questa non è più considerata come il «punto di vista» di questo o quel pensatore, ma come il destino stesso del razionalismo e dell’idealismo europei.
Poiché la filosofia è il farsi cosciente del significato di un’epoca, tale suo esito rappresenta perciò la «realtà invadente», «senza precedenti storici» (p.
335) del fenomeno dell’ateismo nel Moderno in tutti i suoi aspetti.
La stretta connessione nel libro tra dimensione teoretica e meta-politica, elemento essenziale dell’intera ricerca di Del Noce, si arricchisce qui dell’apporto decisivo della prospettiva propriamente teologica.
Se la filosofia moderna è «segnata» fin dalle sue origini dall’esito ateistico, è evidente come la sua storia debba essere tracciata in connessione stretta con la teologia (p.
75), a differenza di ciò che avviene in quelle «storie» che si muovono dal tacito, e inindagato, presupposto del «progresso» atheos del pensiero occidentale.
L’ateismo non potrebbe definirsi, infatti, se non in opposizione a elementi essenziali della tradizione teologica.
Per Del Noce ciò non comporta affatto una semplice «sistemazione» storiografica, per quanto originale e «spaesante», il problema dell’ateismo rimane per lui fondamentalmente irrisolto, e cioè permane come aporia immanente allo sviluppo del razionalismo e idealismo moderni fino a quei suoi esiti contemporanei (tra Nietzsche e Heidegger), che potrebbero anche apparire nel più radicale contrasto con le sue premesse.
Un assunto di così straordinario impegno può essere svolto soltanto attraverso una pluralità di approcci, teoretici, teologici, storico-politici, «sincronicamente» e insieme una, direi, vichiana sensibilità per la storia del pensiero, dove la considerazione puntuale dei suoi diversi momenti, nel loro intreccio, sia sempre riportata al comune «destino» di cui appaiono necessaria manifestazione.
Da questo punto di vista, la prima domanda riguarda la differenza essenziale tra l’ateismo moderno e quello antico, ovvero in che termini l’ateismo nella cristianità rappresenti una autentica novitas rispetto alle sue testimonianze grecoromane; su tale base, occorrerà procedere nel distinguere i diversi momenti della storia dell’opzione ateistica, in rapporto alle diverse forme che assumono razionalismo e idealismo moderni, fino al loro apparente dissolversi; infine, si dovranno analizzare proprio tali esiti, esplicitamente ateistici, per coglierne non solo le stridenti differenze, ma come, dal loro stesso interno, riemerga o ri-corra proprio quel problema di Dio, che l’ateismo assoluto o compiuto aveva dichiarato risolto.
È a questo punto che si farà maggiormente valere la posizione filosofica e teologica dello stesso Del Noce, e che si renderanno manifesti i presupposti e le ragioni della sua «lotta» al dilagante affermarsi del postulato ateistico (…).
Ma che cosa intendiamo con il termine ateismo? Ne è possibile una definizione in generale, che ne abbracci le diverse epoche? L’ateo è colui che nega l’esistenza di Dio? Ma quale Dio? O ateo è invece chi sostiene che non-è Dio tutto ciò di cui è dimostrabile l’esistenza? In quest’ultimo caso, la posizione atea si avvicinerebbe «pericolosamente» proprio ad un misticismo di impronta neoplatonica.
Forse è possibile, in primissima istanza, e sulla scorta delle indicazioni dello stesso Del Noce, definire ateistica la negazione della possibilità stessa del soprannaturale (p.
356), l’affermazione (che Del Noce ritiene «senza prove») che ogni idea di «trascendenza» determina un’insanabile lacerazione nell’unità dell’Io.
Un simile «postulato» sembra precedere e fondare l’ateismo in quanto «certezza» che al termine «Dio» nulla corrisponda di determinato o determinabile.
Questa «certezza» si fa strada nella storia della filosofia e nella cultura, nel significato antropologico del termine, europee insieme con la «evidenza» del successo straordinario della comprensione razionale-scientifica della natura.
Da un iniziale agnosticismo è necessario, per Del Noce, che si giunga per questa via ad un ateismo assoluto, e che questo dia vita ad una prassi, ad un agire politico, che si configura per lui come un autentico «stato di guerra» contro Dio.
Ma i passaggi attraverso i quali questo «destino» si dispiega sono essenziali per comprenderne l’intero impianto, poiché essi non segnano momenti che progressivamente si oltrepassano, bensì invece, piuttosto, fattori interni dell’idea stessa di ateismo.
AUGUSTO DEL NOCE , Il problema dell’ateismo, Il Mulino Bologna, 2010, pp.
656, € 22.00.
Ritorna in libreria oggi, edito da Il Mulino, uno dei libri importanti del Novecento, Il problema dell’ateismo di Augusto Del Noce (pp.
656, € 22), filosofo del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita.
La prima edizione uscì nel 1964, l’ultima nel 2001 (con un’introduzione di Nicola Matteucci).
Ora l’opera è riproposta con l’aggiunta di un’ampia postfazione di Massimo Cacciari, intitolata Sulla critica della ragione ateistica (della quale, in questa pagina, diamo in anteprima un estratto).
In essa — un vero e proprio saggio sull’argomento, in cui sono messe in luce le qualità dell’analisi di Del Noce — oltre a rimeditare le tesi de Il problema, vengono esaminate numerose tematiche inerenti alla negazione di Dio.
Cacciari ricostruisce momenti di storia e consegna a questo scritto non poche riflessioni personali.
Per offrire un esempio, diremo di una pagina in cui sottolinea come l’ateismo si presenti oggi quale oblio di se stesso: non è più un’idea, una visione del mondo, «non si predica più».
Del Noce riteneva che la negazione di Dio non fosse il destino dell’Occidente, ma soltanto il suo problema.
Vide alla base di esso quel razionalismo sterile, nemico del mistero e del soprannaturale, che molta parte ha avuto nella filosofia moderna.
Cacciari mette in luce il percorso individuato da Del Noce: il «segreto» teologico dell’ateismo, intorno alla cui «scoperta» ruota il libro riproposto, è costituito dal rifiuto «senza prove» dello «status naturae lapsae», ovvero dello stato di natura decaduta.
E la sua opzione fondamentale è nel «rifiuto della concezione biblica del peccato».
Oltre a esaminare l’«irreligione occidentale» e «Il problema Pascal e l’ateismo contemporaneo» con rara acribia, il libro dedica un ampio capitolo alla «non filosofia» di Marx e al comunismo.
Nella conclusione Del Noce scrive con preveggenza che «l’ateismo, insomma, rappresenterebbe il momento della “morte di Dio”, preludio a quello della sua Resurrezione.
Può essere quindi considerato e vissuto dal cristiano come un momento di «teologia negativa».
Nel 1964 tali parole potevano essere contestate, o irrise, dagli intellettuali militanti; oggi assumono quasi un valore profetico.
di Armando Torno in “Corriere della Sera” del 18 giugno 2010