Famiglia di popoli, famiglia di Dio.

«Questo mondo non è un albergo».
È lo slogan della Comunità di Sant’Egidio, qui a Barcellona, dove si è concluso l’incontro numero ventiquattro della serie “Uomini e religioni”.
Non è un albergo dove ognuno vive per conto suo, chiuso in una stanza, senza avvertire la responsabilità della vita e del bene degli altri.
Non è un albergo, ma una casa comune.
E allora forza, bando alle depressioni indotte dal bombardamento di cattive notizie, e lasciamo spazio alla speranza.
La convivenza molto spesso è una realtà, la pace si può fare, un futuro di amore non solo è possibile ma è già in via di costruzione da parte di tanti giusti che magari non fanno notizia ma lavorano, in silenzio.
«Uno degli effetti più pericolosi della crisi economica – dice il presidente di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo – è la perdita di fiducia.
Nella crisi l’uomo rischia di diventare più duro ma meno forte.
Più duro di cuore, meno forte nel disegnare il futuro e resistere alla stanchezza».
Così è la paura a farsi strada, alimentata da chi vuole costruire muri e non ponti.
Per tornare a essere forti c’è bisogno di luoghi di incontro che siano riconoscibili come tali.
Qui al meeting di Sant’Egidio in questi giorni il miracolo si è ripetuto.
Israeliani e palestinesi si sono parlati, cattolici e ortodossi si sono confrontati da amici, ebrei e musulmani si sono guardati negli occhi e hanno parlato di pace.  Dare un orientamento a tante esistenze ripiegate su se stesse, questo deve essere l’impegno oggi degli uomini di buona volontà e soprattutto delle persone veramente religiose.
Dice Mario Marazziti: «Usciamo da un decennio, quello seguito all’attentato alle torri gemelle, in cui le religioni sono state usate strumentalmente per fomentare conflitti e coltivare l’odio.
È il momento di dire basta.
Chi invoca il nome di Dio per fare la guerra è contro Dio.
Togliamo quest’arma micidiale dalle mani di tutti i fondamentalisti».
E impediamo, attraverso la ragione, che la paura continui a tenerci prigionieri di stereotipi e immagini fuorvianti.
Una delle relazioni più illuminanti in questo senso è stata quella di Daniela Pompei, della Comunità di Sant’Egidio, su “Migrazione e futuro”.
Un vero colpo di spugna su tanti luoghi comuni.
A livello planetario il fenomeno migratorio non si presenta come un flagello ma sta andando, al contrario, verso un radicale ridimensionamento.
Secondo uno degli studiosi più accreditati, Jeffrey Williamson, già tra il 2020 e il 2030 il flusso dei lavoratori dai paesi più poveri subirà una graduale diminuzione fino scomparire entro il 2050.
Ma per gli ingressi in Europa questa è già una realtà, specie per quanto riguarda i tanto temuti clandestini: la riduzione in tre anni è stata del 39 per cento.
E le permanenze irregolari sul territorio europeo, sempre nel triennio, sono scese del 26 per cento.
Dati verificabili, ma tenuti nascosti da chi costruisce il consenso politico sulla paura, sulla questione sicurezza e su un costante stato di emergenza sociale.
Gli immigrati sono una risorsa, non un problema.
Sono mediamente più giovani di noi europei, hanno mediamente un alto livello di istruzione e svolgono lavori che hanno a che fare con le persone.
Prestano servizi agli ammalati, agli anziani, ai bambini.
In Austria gli infermieri ormai sono quasi esclusivamente stranieri, in Gran Bretagna i maestri sono indiani, in Italia una famiglia su dieci ormai non può fare a meno dell’aiuto di un immigrato.
Dice Daniela Pompei: «Anziani e immigrati, coloro che nell’immaginario collettivo sono percepiti come fonte di problemi e sono la rappresentazione delle maggiori paure, sono invece il segno di un grande traguardo raggiunto (l’allungamento della vita) e di una grande risorsa e opportunità per il nostro continente (i cittadini stranieri).
Accanto a una popolazione europea che invecchia c’è bisogno di un giovane.
Accanto all’anziano e insieme allo straniero si può costruire una nuova società.
O, se si preferisce, una nuova comunità, una famiglia».
“Famiglia di popoli, famiglia di Dio”.
È stato proprio questo il titolo del meeting.
E di “famiglia di nazioni” ha parlato l’ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Miguel Diaz, esule da Cuba, ricordando la realtà degli Stati Uniti guidati dal presidente Barack Obama (padre del Kenya e madre del Kansas).
«La storia dell’America – ha detto – è testimone di questo potenziale creativo.
Come esule, come americano e ora come servitore degli Usa, sono profondamente grato al mio paese per avermi accolto come un figlio.
La sola tolleranza non è sufficiente.
Occorrono fraternità, solidarietà e servizio nella giustizia».
in “Europa” del 7 ottobre 2010

XXVIII Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   Un giorno San Francesco… Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbattè in un lebbroso.
Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.
(Dalla Leggenda Maggiore).
I Samaritani e i lebbrosi Oggi, non bisogna forse chiedersi chi sono coloro che abbiamo trasformato in samaritani e in lebbrosi? Nel nostro mondo lacerato, ma anche fra i nostri vicini, fra i nostri compagni di lavoro, forse nella nostra stessa famiglia? La domanda è urgente: si tratta di rispettare e di accogliere tutti gli uomini, si tratta di rispettare e di accogliere Dio.
(G.
Bessière, Il fuoco che rinfresca)   I dieci lebbrosi I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole tutti guariti, mostrandosi la pelle sana liberati dall’immonda raganella che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.
Uno solo si gira, inquieto di camminare fra due ombre: una dietro di lui come i nove compagni e l’altra leggera, davanti a lui, già calante come se il suo dorso restasse rischiarato dall’oriente, lo sguardo intravisto che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti – la Vita che si dona, dimenticata dalla vita che segue e ricomincia.
Dov’era il miracolo prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.
Gli altri nove sono lontano.
Allora, lui decide di risalire il fiume della strada.
(J.P.
Lemaire, La rotta)   Grazie! L’immagine che mai dimenticherò è la serie di donne che alle 6 del mattino trovo ad attendermi fuori della porta della mia stanza.
Nessuna parla, nessuna mi guarda negli occhi.
Con i loro bambini rachitici e senza più latte, sono lì ad aspettare.
Se non dessi niente, se ne andrebbero via senza una parola.
Nessuna chiede, è scontato il perché del loro essere lì.
Devo capire e, se posso, aiutare! Una mamma mi mette in braccio il suo bambino dicendo che non vuole vederlo morire.
Con il raccolto di fine agosto la grande paura passa e la vita pian piano riprende normalmente.
Tutte, e sottolineo tutte, le donne che abbiamo aiutato sono tornate con un dono: chi una gallina, chi un gallo, chi un’anatra…
Così la missione ha avuto finalmente il suo pollaio.
La sera, passeggiando in giro per la missione, rifletto sulla giornata trascorsa, mi fermo, guardo i polli, ripenso ai poveri di Fianga, ai poveri del mondo, che ogni giorno, in silenzio, tra le lacrime ma con grande dignità, sanno magistralmente dire grazie alla Vita! (Saverio Fassina, in Piccole storie d’Africa.
Da Fianga, nel Ciad).
  Dire grazie Tenerezza è dire grazie con la vita: e ringraziare è gioia perché è umile riconoscimento dell’essere amati.
(B.
Forte)   Gesù l’ha denunciato Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia.
Nel Vangelo di Luca (17,11) quando vide che dei dieci lebbrosi guariti ne era tornato uno solo a dire grazie, esclamò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?”.
“E gli altri nove dove sono?”.
È pesante questa denuncia di Cristo.
La percentuale di chi pensa e ringrazia sarà sempre così ridotta? L’uomo è proprio inguaribile nel suo egoismo? Abbiamo addosso la lebbra dell’ingratitudine.
Il Signore aspetta il nostro ringraziamento come logica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci apriamo alla gratitudine.
Il Signore non ha dato ai nove lebbrosi guariti un ordine, ma si attendeva che i nove guariti dessero un ordine a se stessi.
La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del cuore retto.
Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno di ringraziare.
Per questo non esiste un comando specifico per il ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo; avrebbe senso la riconoscenza imposta? “E gli altri nove dove sono?”.
In quei nove ci siamo tutti, perché sono innumerevoli le nostre negligenze verso la bontà di Dio.
Purtroppo in quei nove siamo presenti tutti, perché tutti siamo colpevoli di ingratitudine a Dio.
L’uomo non riuscirà mai a stare al passo coi doni di Dio.
I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano.
Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma deve almeno capire che c’è! “E gli altri nove dove sono?”.
La denuncia amara di Cristo deve spingermi a rappresentare gli assenti.
Quando avremo capito e saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presentarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e rappresentarli: “Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dammi la capacità di poterli rappresentare sostituendomi ad essi…”.
(A.
GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1993, 45-46).
Dire “grazie” «”Grazie” è una parola di poche lettere, ma di molto peso: ingentilisce la terra e la profuma.
Ringraziare è un verbo da ricuperare» (Pino Pellegrino).
La fede dei lebbrosi del Vangelo è sufficiente per ottenere il miracolo della guarigione.
Ma questo deve aumentarla.
La fede del Samaritano è nuova e più profonda.
Gli altri hanno ottenuto la guarigione, lui una fede accresciuta e approfondita che ottiene la salvezza.
Questa fede è in qualche modo risposta alla domanda dei discepoli: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6; cf 27ª domenica).
Come, dunque, chi è tornato indietro per rendere gloria a Dio e per benedirlo è stato veramente salvato, ha riconosciuto che in Gesù è Dio che agisce e salva; così solo chi è capace di «Eucaristia» (bene-dizione, rendimento di grazie), culmine e fonte di tutta l’attività della Chiesa, ha la «salvezza»: superamento del caos e accesso alla casa del senso.
Il Samaritano guarito insegna a dire grazie.
Niente ci è dovuto nel nostro rapporto con Dio.
Come anche nel rapporto con i fratelli.
«Tutto è grazia», dice Bernanos.
E se tutto è grazia, solo chi sa dire «grazie» ha capito il suo posto e la sua strada.
Nei nostri rapporti pensiamo sovente che tutto ci sia dovuto e facciamo fatica a dire «grazie», a utilizzare questa piccola forma di cortesia.
«Il segreto del vivere spirituale è nella facoltà di lodare.
La lode è il racconto dell’amore e precede la fede.
Prima cantiamo e poi crediamo» (A.J.
Heschel).
Per chi legge il Vangelo non c’è niente di più impegnativo che dire «grazie».
Dal profondo del cuore.
È fare «Eucaristia».
La lode è pura gratuità per il dono dell’esistenza.
L’uomo è così restituito alla sua vocazione: «Misericordias Domini in aeterno cantabo!».
«La riconoscenza – afferma un proverbio africano – è la memoria di cuore».
È la capacità di ricordare e, pertanto, di amare.
  Grazie, Signore  Signore, ti ringrazio perché mi hai messo al mondo: aiutami perché la mia vita possa impegnarla per dare gloria a te e ai miei fratelli.
Ti ringrazio per avermi concesso questo privilegio: perché tra gli operai scelti, tu hai preso proprio me.
Mi hai chiamato per nome perché io collabori con la tua opera di salvezza.
Grazie perché il mio letto di dolore è fontana di carità, è sorgente di amore.
Di amore per te, anche di amore per tutti i fratelli.
Signore, io seguo te più da vicino, in modo più stretto.
Voglio vivere in un legame più forte per poter essere più pronto a darti una mano, più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti possano essere salutati da chi sta a valle.
Concedimi il gaudio di lavorare in comunione e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri, pretendo di fare la mia corsa da solo.
Salvami, Signore, dalla presunzione di sapere tutto.
Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.
Dalla durezza di chi non tollera i ritardi.
Dal rigore di chi non perdona le debolezze.
Dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.
Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita, perché le parole, quando veicolano la tua, non suonino false sulle mie labbra.
(Don Tonino Bello) La sofferenza come maestra Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore.
Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita.
Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono.
Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo.
Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.
Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti.
Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto.
E Ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla.  (J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).
Dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare Noi riceviamo dalla grazia di Dio molti e svariati doni; in cambio di ciò che abbiamo ricevuto dobbiamo rendere grazie con la preghiera a chi ce li ha donati.
Penso che anche se trascorressimo la nostra vita intera nel colloquio con Dio ringraziandolo e pregandolo, saremmo ancora lontani dal contraccambiarlo adeguatamente; ci troveremmo, in un certo senso, a non aver neppure cominciato a concepire il desiderio di ringraziarlo.
Il tempo si divide in tre parti: passato, presente e futuro.
In tutti e tre noi sperimentiamo la benevolenza del Signore.
Se pensi al presente, sei in vita grazie al Signore.
Se pensi al futuro, su di lui riposa la speranza di ciò che attendi.
Se guardi al passato, non saresti in vita, se il Signore non ti avesse creato.
Ti ha fatto il dono di ricevere vita da lui, e, una volta nato, ti è fatto il dono di avere in lui la vita e il movimento, come dice l’apostolo (cfr.
At 17,28).
Da questo stesso dono dipendono le tue speranze future.
Nelle tue mani è soltanto il presente.
Anche se tu non smettessi mai di ringraziare Dio, a stento potresti ringraziare per il tempo presente, ma non potresti mai rendere ciò che devi per il futuro o per il passato.
Siamo ben lontani, del resto, dal rendere grazie secondo le nostre capacità! Non facciamo il possibile per ringraziare, non dico tutto il giorno, ma neppure una piccola parte del giorno, dedicandola a meditare le opere divine.
Chi ha dispiegato la terra ai miei piedi? […] Chi ha dato a me, polvere senz’anima, vita e intelligenza? Chi ha plasmato me, che sono argilla a immagine di Dio? Chi ha restituito alla mia immagine alterata dal peccato il suo primitivo splendore? Chi riconduce alla primitiva beatitudine me che sono stato cacciato dal paradiso, allontanato dall’albero di vita, immerso nell’abisso dell’esistenza terrena? Non vi è chi comprenda (cfr.
Rm 3,11), dice la Scrittura.
Considerando queste cose, dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare per tutta la nostra vita.
(GREGORIO DI NISSA, Sul Padre nostro 1, PG 44, 1124C-1125C).
Insegnaci a non amare solo noi stessi Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano.
Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.
Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.
Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.
(Raoul Follereau)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
           XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: 2 Re 5,14-17          In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra].
Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele.
Adesso accetta un dono dal tuo servo».
Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò».
L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».
    v È in questa linea che si muove la narrazione ripresa dal secondo libro dei Re (5,14-17).
Essendo stato colpito dalla lebbra, Naaman, «il comandante dell’esercito del re di Aram» (5,1), sente dire da una giovinetta ebrea, rapita e deportata in Siria a servizio della moglie del generale, che in Israele c’è un profeta, Eliseo, che fa miracoli e può guarire anche dalla lebbra.
Se nonché, il profeta gli ordina di bagnarsi sette volte nel Giordano per ottenere la guarigione.
Il generale stenta a credere tutto questo: ma alla fine obbedisce e viene guarito.
Per riconoscenza vuole offrire dei doni, che il profeta invece respinge, perché Dio soltanto può operare prodigi.
          È a questo punto che Naaman il Siro si rende conto che solo il Dio di Israele, che il profeta ha invocato e di cui è come il portavoce, è il «vero Dio», e perciò chiede ad Eliseo il permesso di portare un «pezzo» di terra santa a Damasco per adorarvi l’unico Signore del cielo e della terra: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore» (5,17).
     Anche Gesù nella sinagoga di Nazaret, davanti all’indisposizione dei suoi concittadini che reclamavano da lui miracoli, quasi come segno di particolare «appartenenza», si riferirà a questo episodio per dire che ormai non ci sono più «stranieri» nel suo regno, che appartiene a tutti coloro che vorranno entrarvi per la fede in lui: «C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro» (Lc 4,27).
     Con Gesù, Figlio di Dio, incarnatosi nel seno di Maria e diventato uomo come tutti noi, ogni uomo è chiamato a salvezza, a prescindere dalla collocazione geografica o dell’appartenenza a qualsiasi gruppo umano: ormai, con la sua venuta in mezzo a noi, ogni «terra» è diventata sacra!   Seconda lettura:  2Timoteo 2,8-13          Figlio mio, ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;  se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.
                          v Questo riferimento a Cristo, morto e risuscitato per la salvezza di tutti, è ribadito nel brano della 2a lettera a Timoteo (2,8-13), in cui Paolo esorta il suo discepolo ad essere coraggioso testimone dell’annuncio cristiano, anche se ciò dovesse comportare inimicizia, e perfino il carcere, come di fatto è capitato a lui: «ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2,8-9).
     L’impedimento del carcere, però, non riuscirà a imprigionare la «parola» di Dio, non solo perché Paolo continuerà ad annunciarla anche in prigione, ma soprattutto perché nella sofferenza sarà anche più unito a Cristo, e così apporterà un suo particolare contributo all’opera di redenzione: «Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2,9-10).
     Segue quindi un frammento di antico inno cristiano, in cui si esalta la comunanza di vita e di destino del credente con il suo Signore, per cui soltanto il nostro rinnegamento della salvezza, da lui apportataci, potrebbe portare anche lui a rinnegarci: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà…» (2,11-13).
     C’è un riecheggiamento palese, in questa ultima espressione, delle parole di Gesù: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,33).
     Questo brano della 2a lettera a Timoteo non è soltanto un invito al coraggio dell’annuncio, sempre e dovunque, di fronte a chiunque, ma anche l’affermazione della nostra «intimità» con Cristo, per cui, se «partecipiamo» al suo destino di sofferenza, parteciperemo anche alla sua «gloria».
Noi potremmo anche essere estranei a Dio, ma lui non è mai «estraneo» a nessuno di noi!   Vangelo: Luca 17,11-19          Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».
Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo.
Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
       Esegesi      — Guarigione dei dieci lebbrosi.
     È quanto ci dice soprattutto il racconto evangelico (Lc 17,11-19), che ci descrive la guarigione dei dieci lebbrosi, di cui uno soltanto, e precisamente un samaritano, torna a «rendere grazie a Dio» per la salute riacquistata.
Già precedentemente Luca aveva narrato la guarigione di un lebbroso (5,12-16), che ritroviamo anche negli altri Sinottici (Mc 1,40-45; Mt 8,1-4).
Qui invece egli attinge a materiale proprio, e appunto per le «particolarità» con cui l’episodio viene narrato non può essere una rielaborazione del precedente racconto, come qualcuno ha ipotizzato.
     Le «particolarità» più significative sono le seguenti: a) Gesù si trova quasi alla fine del «viaggio» che lo porta a Gerusalemme, dove sarà drammaticamente respinto dal suo popolo, che era venuto a salvare; b) è un gruppo intero di lebbrosi (10) che si rivolge a lui per essere guarito e che la sciagura aveva come affratellato, senza distinzione né di razza né di religione, nonostante che Giudei e Samaritani non avessero «buone relazioni» fra di loro (cf.
Gv 4,9); c) Gesù non tocca i lebbrosi per guarirli (cf.
5,13), ma, rispettando la legge mosaica (cf.
Lev 13,4-5), a distanza comanda loro di «presentarsi ai sacerdoti» per la verifica della guarigione, che sola consentiva il normale rientro nella società: la guarigione avviene proprio lungo il loro viaggio verso Gerusalemme.
     — Solo il samaritano torna a «ringraziare».
     Ma a questo punto accade la cosa più inattesa di tutto l’episodio, che è anche la «punta» semantica di tutto il racconto: uno soltanto, e precisamente il samaritano, cioè lo «straniero», torna a ringraziare Gesù, nel quale ovviamente ha riconosciuto un inviato di Dio.
È allora che Gesù esprime la sua amarezza per l’ingratitudine degli altri, che erano tutti ebrei: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (17,17-19).
     Qui la «salvezza» ovviamente è da intendere in senso più largo: non solo quella fisica, che avevano ricevuto anche gli altri, ma anche quella spirituale, che si ottiene appunto per la fede e che introduce nella comunità di Gesù, che è aperta a tutti e non solo ai Giudei.
     Anche altrove S.
Luca dimostra simpatia per i Samaritani: si ricordi appunto la parabola del buon Samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, ebrei, passati avanti senza curarsi di lui, si china sull’uomo ferito e lo aiuta con tutti i suoi mezzi, che Gesù porta ad esempio del vero amore del prossimo (cf.
Lc 10,30-37).
     Come si vede, anche la parabola del buon Samaritano, in ultima analisi, vuol dire che la salvezza portata da Gesù non solo si allarga oltre i confini d’Israele, ma addirittura che i «lontani» sono talora più vicini a Dio di quelli che dovrebbero essergli più «prossimi».
 

Questioni di fede.

RAVASI GIANFRANCO, Questioni di fede 150 risposte ai perche’ di chi crede e di chi non crede, Mondadori, Milano 2010, EAN : 9788804604707, Prezzo € 19,00 Perché Dio permette il male e la sofferenza? Che cosa ci attende dopo la morte? Come conciliare la fede cristiana con la teoria evoluzionistica? Sono alcune delle tante domande, scomode e affascinanti al tempo stesso, che vengono spesso rivolte a monsignor Gianfranco Ravasi.
Il celebre biblista ne ha raccolte centocinquanta, offrendo a ciascuno di questi interrogativi, che accompagnano il cammino di credenti e non credenti, una risposta chiara e argomentata.
Affrontare con le corrette coordinate metodologiche i testi della tradizione giudaico-cristiana è la condizione imprescindibile per rispondere non solo alle domande più spinose e cruciali, ma anche a interrogativi insoliti e curiosi: Gesù ha mai riso? Sapeva leggere e scrivere? Quali lingue parlava? Monsignor Ravasi guida il lettore nel mistero della vita e della fede, e tra le innumerevoli sfumature di quel capolavoro irripetibile che è la Bibbia.

XXVII Domenica Tempo Ordinario Anno C

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Abacuc 1,2-3;2.2-4          Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese.  Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà.
Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».
       v Un testo forte, vorrei dire drammatico, sulla fede, sulle sue difficoltà e, pur tuttavia, sulla necessità di rimanervi attaccati con tutto il nostro essere è il brano della prima lettura, ripresa dal profeta Abacuc, di cui sappiamo quasi nulla, salvo che dovrebbe aver vissuto ed operato verso il 600 a.C., più o meno contemporaneo di Geremia.
     Davanti allo scempio che avevano fatto i Babilonesi distruggendo la città santa (587-86), davanti alla loro tracotanza e violenza, sembra che Dio si sia dimenticato del suo popolo e non voglia più ascoltare le sue suppliche.
È per questo che il profeta insorge e mette quasi sotto accusa Dio: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti…
Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (1,2-3).
     Non è un bestemmiatore, il profeta, ma molto arditamente domanda al Signore se c’è un senso in tutto questo e se il popolo può ancora continuare a sperare.
Alla fine Dio risponde e garantisce che a un tempo «stabilito», che lui solo conosce, la salvezza verrà: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (2,3).
     Il testo si conclude con una riflessione del profeta stesso, che lapidariamente descrive l’esito diverso di chi conta solo sulle proprie forze, come i Caldei, e di chi invece è «fiducioso» nel Signore, come devono esserlo i Giudei ai quali egli si rivolge: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4).
     È risaputo che Paolo adopererà questo testo, secondo la versione greca dei LXX, per formulare la sua dottrina della «giustificazione» per la sola fede in Cristo (cf.
Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38).
Nel testo originale più che di fede si parla di «fedeltà» a Dio, al suo disegno di salvezza: chi avrà il coraggio di «fidarsi» di lui, di buttarsi nelle sue mani, soprattutto nei momenti bui dell’esistenza, propria o della comunità, non verrà deluso, mentre «colui che non ha l’animo retto», perché confida solo in se stesso, «soccomberà».
  Seconda lettura: 2Timoteo 1,6-8.13-14        Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani.
Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù.
Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.
                          v Nel brano della seconda lettera a Timoteo abbiamo di nuovo il tema della fede, però considerata più nel suo contenuto (la fides quae creditur, come dicono i teologi) che come atteggiamento dell’anima, aperta a ricevere il messaggio (fides qua creditur).
     E si capisce il perché di questa prospettiva diversa: Paolo si rivolge al suo discepolo prediletto, forse scoraggiato e un po’ anche depresso per le difficoltà del suo apostolato, allo scopo di richiarmarlo al senso della sua missione pastorale: «ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6).
Nella sua consacrazione egli non ha ricevuto uno «spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (1,7): perciò non deve «vergognarsi» di rendere testimonianza al Signore Gesù, né delle «catene» in cui per il momento è costretto l’apostolo, quasi che fosse un perdente.
Piuttosto «soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (1,8), prendendo proprio come esempio il suo maestro (1,13).
     A conclusione troviamo il solenne richiamo a custodire integro il «bene prezioso», cioè la totalità del mistero cristiano, da annunciare con coraggio e fedeltà.
L’immagine del «bene prezioso» è ripresa dalla prassi giuridica del tempo, secondo la quale il depositario di qualche oggetto prezioso, o di una determinata quota di denaro, era obbligato a restituire integri, in qualsiasi momento, al depositante gli oggetti a lui affidati, pena gravissime punizioni in caso di inadempienza.
A Timoteo è stato affidato qualcosa di più prezioso che oro o argento; di qui la sua grave responsabilità: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi » (1,14).
  Vangelo: Luca 17,5-10          In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
    Esegesi      — Signore: «Accresci in noi la fede!».                     .
     Eloquente al riguardo è il brano di Vangelo, che si articola in due sezioni: la prima (Lc 7,5-6) è rintracciabile, diversa, nella comune tradizione sinottica (cf.
Mc 9 24; Mt 17,20, 21,22), la seconda (17,7-10) fa parte del tipico patrimonio lucano ed è coerente con le dinamiche del suo pensiero.                         Dunque gli Apostoli, un bel giorno, chiedono a Gesù: «Accresci in noi la fede!».
Accanto a lui, quotidianamente, non potevano non avvertire che in lui c’era qualcosa che andava oltre il comune limite dell’umano: si dovevano perciò essere aperti a un rapporto di «fiducia» altissima di fronte a Gesù.
Ma questa era davvero «fede», come pensavano gli Apostoli dal momento che lo pregano di «aumentargliela»?      Sembra che Gesù non condividesse questa convinzione, per il fatto che in forma ipotetica, afferma che di fede ne basterebbe solo un pizzico per compiere addirittura miracoli: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v.
6).
       Due testi paralleli di Matteo riportano l’immagine del «monte» che potrebbe essere spostato nel mare; Luca, più coerentemente con l’immagine del «granello di senapa», parla di un gelso, o di un sicomoro, che è una delle piante più fortemente radicate sul terreno.
Comunque, a parte la diversità delle immagini, il pensiero è chiaro: basta un mimmo di fede che sia autentica, profonda, al di là di ogni dubbio o incertezza, perché il miracolo, l’umanamente impossibile, avvenga.
     Perciò praticamente Gesù, per un verso, invita i suoi discepoli a verificare la propria fede; per un altro verso, assicura loro che la preghiera fatta con fede ottiene tutto: anche «l’aumento» e la «crescita» stessa della fede, esattamente come scrive S.
Paolo, «di fede m fede» (Rm 1,17).
     — «Siamo servi inutili»                                             E soprattutto di fede «adulta», tesa costantemente a crescere, c’è bisogno quando potrebbe sembrarci che il nostro servizio fosse di poco conto, o che non fosse sufficientemente remunerato.
È quanto si afferma nella seconda sezione del brano evangelico (vv.
7-10) con la parabola del servo che, dopo aver fatto il suo lavoro, nei campi o dietro il gregge, e pregato ancora di preparare da mangiare al padrone prima di assidersi  pure lui a mensa.
     È indubbiamente urtante per la sensibilità moderna assai mercantilizzata la conclusione che ne trae Gesù: «Forse che il padrone si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (vv.
9-10).
     Gesù si riferisce qui alle abitudini sociali del tempo (che certamente non prevedevano contratti sindacali), senza peraltro esprimere nessuna valutazione morale al riguardo.
Il quadro gli serve semplicemente per dire che davanti a Dio nessuno può avanzare delle pretese: anche il massimo che potremmo aver fatto non crea nessuna posizione di privilegio, perché abbiamo fatto solamente «quanto dovevamo fare».
Siamo tutti «servi inutili» davanti a lui: ci ha scelti per pura grazia a collaborare alla costruzione del regno e dobbiamo rispondergli con pienezza di impegno, grati solo perché ci ha chiamati ad essere «servi», e non «padroni»: lui soltanto è il «padrone»!      Questo discorso è chiaro che vale per tutti, ma soprattutto per coloro che Dio ha chiamato all’apostolato, proprio come i Dodici.
Ciò che alla luce della ragione potrebbe apparire evidente, alla luce della fede appare addirittura esaltante: «Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare», proprio perché egli ci ha dato la grazia di farlo.
     Meditazione      La fede è il tema unificante la prima lettura e il vangelo.
Nella prima lettura si tratta della fede messa alla prova dal silenzio e dall’inazione di Dio e chiamata a divenire attesa perseverante e fiduciosa nella promessa di Dio.
Così, anche in tempi bui, il giusto troverà vita grazie alla fede.
Nel vangelo si tratta della fede come realtà non quantificabile, ma qualitativa, caratterizzata dalla relazione di abbandono fiducioso del servo al suo Signore.
     Di fronte alle parole di Gesù che parlano di perdono fino a sette volte al giorno nei confronti del fratello che pecca (Lc 17,3-4), gli apostoli pregano Gesù di accrescere la loro fede (Lc 17,5).
Essi mostrano così di aver ben capito che il perdono non è solo un gesto etico, ma è evento escatologico, dono dello Spirito santo, irruzione del Regno di Dio nella vita degli uomini.
Mostrano di aver capito che la comunione nella comunità cristiana – comunione a cui è essenziale il perdono – è possibile solo grazie alla fede, al far regnare la signoria di Dio.
Ma chiedendo la fede essi mostrano anche di aver compreso che la fede è dono che trova nel Signore stesso la sua origine e la sua fonte.
     E mostrano di aver capito che della fede – propria e altrui – non si è padroni e non la si può imporre, ma solo la si può accogliere con gratitudine e nutrire con la preghiera.
E ancora che anche per loro, «gli apostoli» (Lc 17,5), i Dodici scelti direttamente da Gesù, la fede non è una realtà scontata.
Anzi la fede è sempre «poca» e i discepoli sono sempre «uomini di poca fede», ovvero incapaci di quella relazione di abbandono pieno e fiducioso, gratuito e convinto, umile e perseverante, dolce e robusto, in una parola, di quell’amore che è alla base della potenza della fede.
     La fede e null’altro è alla base dell’autorità degli apostoli: questo è sottolineato da Luca con l’annotazione che, se avessero fede quanto un minuscolo granello di senape, potrebbero farsi «obbedire» (verbo hypakoúein: Lc 17,6) anche da un albero a cui viene ordinata una cosa folle.
Solo la fede consente al predicatore, al missionario, all’apostolo di farsi eco – con la propria azione e la propria parola – dell’azione e della parola di Dio e di suscitare nel destinatario l’adesione teologale, non un’appartenenza alla propria persona.
       Nel detto parabolico dei vv.
7-10 Gesù prima paragona gli apostoli a dei padroni che hanno dei servi, poi direttamente a dei servi, e per di più, inutili.
L’autorità nella chiesa si declina come servizio ed esclude ogni rapporto di forza e di dominio.
Il passaggio dall’«avere un servo» (Lc 17,7) all’«essere servi» (Lc 17,10) è significativo: nella comunità cristiana non vi sono padroni e servi, ma vi sono dei fratelli che sono dei servi dell’unico Signore e maestro (cfr.
Mt 23,8-10).
L’autorità nella chiesa deve passare attraverso il vaglio dell’umiltà e del servizio per non esprimersi come potere e oscurare così l’unica signoria di Gesù: «Un apostolo non è più grande di chi l’ha inviato» dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi durante l’ultima cena (Gv 13,16).
     Ecco dunque la situazione, paradossale ma salvifica, in cui è posto il missionario, l’apostolo nella comunità cristiana: la sua autorità riposa interamente sul suo essere inviato come servo (Lc 17,7; At 20,19), per lavorare il campo di Dio (1Cor 3,5 ss.), per arare (Lc 17,7; 1Cor 9,10) o pascolare (Lc 17,7; At 20,28; 1Cor 9,7).
La sua autorità riposa sulla sua obbedienza alla parola del Signore (Lc 17,10).
Ed ecco la coscienza con cui il servo è chiamato ad esercitare il suo ministero: l’inutilità.
Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che anima l’apostolo è liberante e liberata quando egli compie tutto senza nulla far risalire a se stesso, ma tutto rinviando al Signore che è all’origine della sua chiamata e di ogni fecondità apostolica.
Paolo, dopo aver ricordato di aver «servito il Signore con tutta umiltà» (At 20,19) dice: «La mia vita non è meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi e stato affidato dal Signore Gesù» (At 20,24).
  Preghiere e Racconti   La possibilità della fede “Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20).
Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento.
Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore.
Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé.
Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane.
Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi.
“Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard).
Eppure, credere non è un atto irragionevole.
È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.
(Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28) L’inquietudine della notte della fede Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora.
Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo.
Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo.
Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi.
Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza.
Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).
Fede La fede non è una sicurezza ma un cammino silenzioso.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 184).
  La ricerca di Dio Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia.
E che anche la Fede è una Notte Buia.
Di certo, non può dirsi una sorpresa.
Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia.
Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti.
Perché ‘confidano’.
Perché hanno Fede.
[…] Ogni momento della vita è un atto di fede.
(Paulo COELO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31) Dona a ogni istante il mio amore eterno Mio Dio, sorgente senza fondo della dolcezza umana, addormentandomi lascio scorrere il mio cuore in Te come un recipiente caduto nell’acqua di una fontana e che Tu riempi di Te stesso senza di noi.
In Te domattina ritornerò a prenderlo pieno dell’amore che occorre per la giornata.
O Dio, ne tiene poco, aihmè! Per quanto Tu spanda i Tuoi flutti su di esso, non ne trattiene mai più di un po’.
Ma rinnovami senza fine questo po’ di acqua viva, donamelo fin dall’alba, ai piedi dell’arduo giorno e ridonamelo ancora quando giunge la sera, prima di sera, Signore, poiché l’avrò perduto.
O Tu dal quale il giorno riceve senza sosta il giorno grazie al quale l’erba che cresce è cresciuta nella notte, che continuamente aggiungi all’albero che cresce l’invisibile altezza che lo conduce in aria, dona al mio cuore debole e molto limitato, al mio cuore con tanta fatica amante e fraterno.
Dio paziente delle opere lente e piccole, dona a ogni istante il mio amore eterno.
(M.
Noël, I canti della pietà).
La tentazione dell’impazienza «Cercare subito il grande successo, i grandi numeri… non è il metodo di Dio.
Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr.
Mc 4, 31-32).
Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno.
[…] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale.
Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».
(J.
RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia.
Studi in onore del Card.
Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).
Il dubbio e la grazia Ogni mattino, Dio nomina il suo governo.
Un giorno è il sole a presiederlo, con il marmo e la rugiada come grandi funzionari, e laggiù nei mondi molto evanescenti un albero di virtù porta la sua ambasciata.
L’indomani, Dio capovolge l’ordine: il nero oceano gode della sua fiducia, ed esso delega i suoi poteri alla dolce collina, al ruscello che canticchia, a qualche mezzofico trovato nella polvere.
Ma Dio deve perfezionarsi: è la sua legge; oggi si circonda di un pangolino esperto in scienze occulte, di un’isola che gli mostra discretamente della tenerezza, di una pioggia fine dalle favole edificanti, di una lunetta un po’ gobba che gli riferisce le voci che circolano.
Dio non ha mai trovato un buon ministro degli affari divini.
(A.
Bosquet, Il libro del dubbio e della grazia) Aumenta la nostra fede «Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5).
Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio.
Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32).
Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24).
I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro.
E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali.
Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).
(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp.
160-161).
Preghiera Signore, fa di me ciò che vuoi! Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me, voglio ciò che Tu vuoi per me.
Non dico: “Dovunque andrai,

XXVI Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   I poveri come tempio Spoglia l’altare della Vergine e vendine i vari arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno.
Credimi, le sarà più caro che sia osservato il Vangelo del Figlio suo e nudo il suo altare piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio.
Il Signore manderà poi chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito.
(Vita seconda di Francesco d’Assisi- Tommaso da Celano).
  Ricchezza e povertà «Il denaro non è “disonesto” in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo.
Si tratta dunque di operare una sorta di “conversione” dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – “da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà” (2 Cor 8,9).
Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.
Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato.
La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria.
Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico.
Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: “la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi” (n.
32).
Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35).
L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta.
Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile».
Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.
(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 23-IX-2007).
  Come i gigli dei prati e gli uccelli del cielo Uno dei confratelli chiese ad un anziano: Sarebbe giusto se io tenessi due monete per me, nel caso mi ammalassi ? L’anziano, leggendo nei suoi pensieri che egli voleva tenerle, disse: Tienile.
Il fratello, ritornando alla sua cella, cominciò a lottare con i suoi pensieri, dicendo: Mi chiedo se il padre mi ha dato la sua benedizione oppure no.
Alzandosi, tornò dal padre e gli rivolse queste parole: in nome di Dio, dimmi la verità, perché sono tutto ansioso per queste due monete.
L’anziano gli disse: Dal momento che ho visto i tuoi pensieri e il tuo desiderio di tenere quelle monete, ti ho detto di tenerle.
Ma non è bene tenere più di quello che ci serve per il corpo.
Ora queste due monete sono la tua speranza.
Ma se le perdessi, Dio non si prenderebbe forse cura di te ? Lasciate ogni preoccupazione a Dio, allora, perché egli si prenderà cura di voi.
( Thomas Merton, La saggezza del deserto) Essere caritatevoli Il movimento Emmaus, che non è confessionale, rappresenta un pugno nello stomaco per tante “brave persone” – praticanti impeccabili, si dice – che lasciano crepare quanti abitano alla porta accanto, senza neppure accorgersene, consentendo tranquillamente il permanere, sul piano politico, di un ordine ingiusto di cui esse profittano..
Dentro di me tutto questo esplode con la violenza di una bomba, poiché sono ferito della ferita del disoccupato, della ferita della giovane donna di strada..
come una madre è malata della malattia del suo bambino.
Ecco che cos’è la carità, si dirà con un sorriso un po’ sprezzante, poiché il termine, disprezzato, evoca le “opere buone” delle belle e ricche dame di un tempo.
Essere caritatevoli non è solo dare, è essere stati, essere feriti della ferita altrui.
Ed è anche congiungere tutte le mie forze con le forze dell’altro per guarire insieme dal suo male diventato il mio.
(Abbé Pierre, Testamento)   Ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro Sta scritto: C’era un tale, che era ricco, e subito dopo si aggiunge: e c’era un mendicante di nome Lazzaro (Lc 16,19).
Di certo presso la gente sono più noti i nomi dei ricchi che quelli dei poveri.
Perché dunque il Signore parlando di un povero e di un ricco dice il nome del povero e non dice quello del ricco, se non perché Dio conosce gli umili e li approva, e ignora invece i superbi? Per questo, nell’ultimo giorno, a certuni che si sono insuperbiti per il potere di fare miracoli dirà: Non so di dove siete; via da me, voi tutti, operatori di iniquità (Mt 7,23).
A Mosè invece è detto: Ti ho conosciuto per nome (Es 33,12).
Del ricco, dunque, il Signore dice: C’era un tale, e riguardo al povero: un mendicante, di nome Lazzaro; è come se dicesse: «Conosco il povero che è umile, non il ricco che è superbo.
L’uno lo conosco e lo approvo, l’altro lo ignoro poiché lo condanno» […] Ecco, Lazzaro, il mendicante, giace tutto piagato davanti alla porta del ricco.
Con quest’unico fatto il Signore esprime due giudizi.
Il ricco, infatti, avrebbe forse avuto qualche giustificazione se Lazzaro non fosse rimasto a giacere davanti alla sua porta povero e piagato, se fosse stato lontano, se la sua povertà non avesse importunato il suo sguardo.
Inoltre, se il ricco fosse stato lontano dallo sguardo del povero mendicante, questi avrebbe dovuto sopportare nel suo animo una tentazione meno forte.
Ma poiché il Signore pone il povero e coperto di piaghe davanti alla porta del ricco che godeva di tanti piaceri, da un’unica e medesima situazione questo derivò: vi fu grave condanna per il ricco che vedeva il povero e non ne ebbe compassione; ma anche, vi fu una quotidiana tentazione per il povero che vedeva il ricco.
Non credete che quest’uomo povero e piagato abbia dovuto sopportare gravi tentazioni al pensiero che lui mancava di pane ed era malato e davanti a sé vedeva un ricco in piena salute, immerso nei piaceri? […] Ma voi, fratelli, conoscendo il riposo donato a Lazzaro e il castigo inflitto al ricco, datevi da fare, cercate degli intercessori per le vostre colpe, fate in modo di avere i poveri quali vostri avvocati nel giorno del giudizio.
Avete ora molti Lazzari; stanno davanti alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno dopo che vi siete saziati, cade dalla vostra mensa.
Le parole del libro sacro ci devono predisporre a praticare i precetti della carità.
Ogni giorno possiamo trovare Lazzaro, se lo cerchiamo; ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro.
(GREGORIO MAGNO, Omelie sui vangeli 40,3-4.10, Opere di Gregario Magno, Omelie sui vangeli, pp.
568-570.578-580).
  La povertà del predicatore Nella povertà del discepolo e dell’apostolo il destinatario del vangelo può cogliere il segno stesso del contenuto del messaggio.
La povertà del predicatore è, per così dire, il sacramento, cioè la manifestazione visibile del vangelo e dell’uomo che dal vangelo si lascia coinvolgere.
Il cuore della lieta novella, che il regno di Dio viene e la figura di questo mondo passa, che il Crocifisso è il Risorto e che morte significa vita, ma che la vita vera passa sempre attraverso la morte, tutto questo l’apostolo non può annunciarlo soltanto a parole, ma con il suo stesso modo di vivere.
Lui stesso deve incarnare questo messaggio.
La croce di Cristo e la speranza nella risurrezione si configurano nell’essere-crocifìssi-con-Cristo degli apostoli, che poi significa che «fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani» (cfr.
1 Cor 4,11ss.).
Nella povertà dell’apostolo è possibile cogliere il messaggio della croce e risurrezione.
Il predicatore diventa così segno vivente del suo messaggio, il segno che la figura di questo mondo passa e il Signore viene a liberarci […].
Ma la povertà deve esprimere al tempo stesso una dedizione a favore del prossimo.
Se si vuole seguire Gesù bisogna essere disposti a dare tutto ciò che si possiede ai poveri.
Come la povertà di Gesù sta a esprimere il suo amore per gli uomini – «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9) – così anche la povertà dei discepoli serve ad amare tutti gli uomini, ma soprattutto i più poveri, come fratelli e sorelle di Gesù.
La povertà porta alla solidarietà con i poveri, a una maggior solidarietà nell’amore.
Soltanto chi è povero può essere davvero amico dei poveri, dei piccoli, degli emarginati […].
Dovremo allora porci una seria domanda: nella comunità i poveri sono anche i ‘prediletti’, come lo sono stati per Gesù, o, invece, lo sono i ricchi i ‘ben educati’, i ‘più validi’ e ‘distinti’, quelli con i quali è possibile ‘dialo-  gare’? Chi rappresenta il particolare oggetto del nostro interesse e del nostro amore? (G.
GRESHAKE, Essere preti.
Teologia e spiritualità del ministero sacerdotale, Brescia 1984,193s.).
  Vendere il cuore al denaro «Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore.
Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile.
Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più.
Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi.
Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…] La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).
  Preghiera Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita.
Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene.
Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli.
Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte.
Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo.
Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica.
Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà.
Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.
        * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
   XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Amos 6,1.4-7          Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.
       v La insipienza del ricco bollata nel Vangelo ha avuto, purtroppo, tanti modelli prima, e troverà ancora tanti imitatori.
     Il tempo di Amos (VIII secolo a.C.) conosce un boom di benessere che alcuni fortunati ritrovamenti archeologici hanno potuto documentare: letti d’avorio (cf.
v.
4), case estive, (cf.
3,75), sfacciata ricchezza.
A fronte di un florido benessere per pochi, sta la povertà o la miseria per molti.
Non è ammissibile una simile sperequazione.
Lo squilibrio sociale è indice di uno squilibrio morale.
     La parola del profeta, scarna e rude perché viene da un pastore avvezzo ad una vita essenziale, giunge chiara e forte, tagliente e impietosa.
Se alcuni si danno alla ‘bella vita’, dilettandosi nel dolce far niente, nelle gozzoviglie e nei piaceri, altri sono abbandonati a se stessi.
La descrizione del lusso e della irresponsabilità della classe dirigente non ha eguali in tutto l’A.T.
Amos sferza coloro che non si rendono conto di andare verso il baratro, e non si curano della «rovina di Giuseppe», cioè della situazione disperata e tragica del paese, ormai allo sfascio politico, sociale e religioso.
     La rovina, imminente e ormai palpabile, prende il tragico nome di «esilio».
Il quadretto iniziale, quasi ‘da Olimpo’ serve da capo d’accusa per la condanna finale.
Anche qui, come già per il Vangelo, si assiste ad un catastrofico ribaltamento di situazione.
     Il messaggio diventa monito per non perdere tempo in cose fallaci e, in maniera positiva, un invito a scelte coraggiose, capaci di ripristinare un equilibrio.
Finché siamo nel tempo, abbiamo l’opportunità per un rinnovamento, certi che il futuro roseo viene preparato dall’impegno di oggi.
  Seconda lettura: 1Timoteo 6,11-16          Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.
Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre.
Amen.
              v Una lettera calda, ricca di paterna attenzione al giovane collaboratore Timoteo, che Paolo si premura di istruire e di indirizzare perché sia una corretta guida della comunità ecclesiale.
Prima di concludere la lettera, l’Apostolo sente il dovere di incoraggiare il caro amico.
Una solenne dossologia suggella il brano e, ormai, tutta la lettera.
     «Uomo di Dio» è l’onorevole titolo con il quale Paolo chiama Timoteo.
Forse è da intendere nel senso che il suo collaboratore è un uomo al servizio di Dio, uno strumento nelle sue mani, così come lo furono gli uomini dell’Antica Alleanza.
L’incoraggiamento dondola su due verbi all’imperativo: «evita», riferito, secondo la maggior parte degli esegeti al contenuto espresso nei vv.
2b-10, e «tendi» («insegui»), inteso nel senso di ricercare con l’intento di ottenere «la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza, la mitezza».
Elencando alcune virtù, sempre a mo’ di esempio, viene affermata l’esigenza di una vita totalmente e radicalmente cristiana.
Parlando di «giustizia» (greco dikaiousyne) non si intende il senso paolino di giustizia divina concessa gratuitamente (cf.
soprattutto Rm e Gal), ma la vita retta che Dio indica.
Con «pietà» si fa riferimento all’esistenza cristiana pratica.
Pertanto, considerando la coppia giustizia-pietà, abbiamo la definizione dell’intera esistenza umana in rapporto a Dio e agli uomini.
L’elenco prosegue poi con virtù che sono specifiche dell’ethos cristiano.
    Segue, al v.
12, una nuova immagine, quella del combattimento, che Paolo usa anche altrove (cf.
1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14).
L’uomo di Dio deve affrontare la gara, come un campione e con decisione, per due motivi: per rispondere alla chiamata di Dio e per onorare l’ingaggio.
Si insinua così il vero significato dell’immagine: Paolo richiama alla memoria di Timoteo — e attraverso lui a tutti i cristiani — la conoscenza che la fede viene vissuta nel contrasto, e che la vita eterna va conquistata nella lotta.
Lo sforzo, a cui va l’appello, è aperto alla speranza di conseguire lo scopo mediante la vocazione di Dio.
Oziosi e neghittosi sono categoricamente esclusi dal conseguimento della vita.
Nella chiamata è incluso l’impegno della professione di fede emessa un giorno «davanti a molti testimoni», la quale non può essere tradita.
     Grazie ad un fortunato parallelismo, la professione cristiana di Timoteo davanti a molti testimoni è posta in relazione con la testimonianza che Gesù Cristo ha reso davanti a Pilato.
Cristo è stato il primo a dare una eccellente testimonianza, mediante la sua passione e morte.
Ora spetta a Timoteo mantenersi fedele a quella professione di fede e adempiere i comandamenti di Dio con una condotta di vita irreprensibile.
     Poi il discorso si eleva.
Sembra che Paolo utilizzi il materiale di una antica professione di fede.
La giovane guida della comunità di Efeso deve custodire puro «il comandamento», fino al solenne ritorno di Cristo nella parusia.
Il termine «manifestazione» (in greco epifáneia), secondo alcuni autori, richiama l’idea di una festosa comparsa, quando improvvisa e straordinaria; comunque, di essa non è dato sapere il momento.
Nelle lettere pastorali il termine epifáneia indica la manifestazione di Cristo nel suo trionfo escatologico (cf.
2Tm 1,10; Tt 2,11).
     La sezione si chiude con una dossologia innica, che ricorda quella dell’inizio della lettera (cf.
1,17), e termina in bellezza l’incoraggiamento di Paolo a Timoteo.
In questi versi, di mirabile fattura poetica, sono condensati alcuni attributi divini di derivazione sia biblica che ellenistica.
La dossologia «a lui onore e potenza per sempre.
Amen» pone il sigillo al nostro brano.
Nel suo insieme, ricorre ancora 1Tm 1,17 e 2Tm 4,18.
Qui la gloria è sostituita da forza e potenza.
La cosa è dovuta alla forte sottolineatura del primato di Dio e della sua sovranità nei confronti di ogni presunta divinità imperiale.
Il «per sempre» taglia corto, quasi a dire che «su questo argomento non si potrà mai più tornare, tanto esso è certo e sicuro.
Per le comunità giudeocristiane, il contrario non può che essere blasfemo» (C.
Marcheselli-Casale).
Con la parola «Amen» si chiude il frammento innico.
È una parola che suggella, in questo caso, il nostro impegno.
  Vangelo: Luca 16,19-31          In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti.
Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo.
Morì anche il ricco e fu sepolto.
Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli.
Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”.
Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”.
E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.
Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

“Cento piazze per la sfida educativa”

L’emergenza educativa scende in cento piazze Da Mazara del Vallo ad Aosta, da Gorizia a Sassari e da Varese a Taranto, tutti in piazza con l’Associazione italiana maestri cattolici domenica prossima 3 ottobre, non per dividere ma per unire, non per gridare ma per ascoltare, non per rivendicare ma per dialogare.
È la proposta dell’Aimc per festeggiare, in anticipo, la giornata mondiale dell’insegnante che ricorre il 5 ottobre, istituita dall’Unesco nel 1993 per ricordare la raccomandazione sulla condizione degli insegnanti.
Ma anche un modo per celebrare i 65 anni della fondazione dell’associazione testimoniando in modo tangibile l’attenzione dei maestri cattolici alla scuola tutta e ai più piccoli, anche attraverso forme di solidarietà.
Un’iniziativa in collaborazione con l’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’Università della Cei, proposta all’intero Paese e ai singoli territori come occasione per riflessione su quello che è un tema imprescindibile per il futuro della società: l’educazione.
“Cento piazze per la sfida educativa”, questo il nome della manifestazione, «è un evento che assume il significato di un vero e proprio invito all’agorà, luogo simbolo del ritrovo e delle relazioni per richiamare l’attenzione di tutti sulla necessità di considerare l’educazione priorità irrinunciabile su cui investire in corresponsabilità, tutti e ciascuno», ha detto ieri Giuseppe Desideri, presidente nazionale dell’Aimc, nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa, moderata da Paolo Bustaffa, direttore del Sir.
L’educazione, infatti, ha ricordato don Maurizio Viviani, direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’Università della Cei, «come indicano i documenti della Conferenza episcopale italiana, non è questione riservata al contesto familiare e scolastico, ma coinvolge tutte le dimensioni e gli ambiti in cui si vive e cresce».
Educare insomma è un fatto pubblico, questione di tutti.
«La Chiesa parla di emergenza educativa – spiega don Viviani – attraverso la lettera di Benedetto XVI alla diocesi di Roma.
Per rispondere all’appello del Papa occorre allearsi e passare dall’emergenza alla sfida educativa.
In questo solco si colloca questa iniziativa che si propone di portare il tema dell’educazione oltre che all’attenzione delle scuole anche delle piazze, da sempre luoghi dell’incontro e dello scambio, dunque del dialogo e del confronto».
Esattamente, il 3 ottobre in ben 110 piazze italiane docenti, genitori, adulti, bambini e ragazzi troveranno l’allestimento di uno o più gazebo, la distribuzione di materiale informativo e il lancio dell’iniziativa “Un quaderno per amico”, per la raccolta di fondi da destinare alla costruzione di aule di scuola della comunità “Progetto famiglia” in Burkina Faso, Paese del centro Africa; al sostegno di educatori della cooperativa il “Piccolo principe” dei Frati cappuccini della Custodia di Romania e all’istituzione di borse di studio per giovani laureati su tematiche legate all’educazione o all’associazionismo professionale.
Come hanno sottolineato don Silvio Longobardi e padre Filippo Aliani, l’istruzione è l’unica strada per dare ai giovani di tutto il mondo la possibilità di progettare il futuro.
Laura Malandrino

Denaro e paradiso

E.
GOTTI TEDESCHI, R.
CAMMILLERI, Denaro e paradiso.
I cattolici e l’economia globale, Lindau, Torino, 2010, pp.
160, euro 15,00.
«Questo libro offre ulteriori motivi per riflettere sul senso da dare alla propria vita e alle proprie azioni, su cosa significhi fare economia in senso autentico perché, in realtà, l’economia ispirata ai criteri morali cristiani non manca di produrre veri e propri vantaggi competitivi.
Non si tratta di un’irrealistica, velleitaria utopia ma della concreta possibilità, oggi più che mai attuale, di un’economia capace di far convivere esigenze produttive, benessere materiale e pienezza umana.» Card.
Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di S.S.
Benedetto XVI Denaro e paradiso è il dialogo lucido e appassionato tra un intellettuale curioso e un economista non accademico sulle possibilità di applicazione in economia della morale cattolica.
Questa, lungi dall’essere contro il capitalismo o le leggi di mercato, rappresenta un potenziale vantaggio competitivo, da esaltare piuttosto che da reprimere, perché permette all’uomo di realizzare integralmente se stesso secondo la propria libertà.
Attraverso una riflessione che spazia dai grandi principî alle forme concrete assunte dai rapporti economici nel corso della storia umana, i due autori tentano una riconciliazione, in un periodo di globalizzazione e di crisi mondiale, tra morale e mercato, mostrando i benefici che ne possono derivare: la morale può rendere più efficace il mercato, senza che l’economia e la ricchezza ostacolino una vita pienamente cristiana.
GLI AUTORI Ettore Gotti Tedeschi è stato nominato dal card.
Tarcisio Bertone, nel settembre 2009, Presidente dello IOR.
È anche consigliere economico del ministro del Tesoro, consigliere della Cassa Depositi e Prestiti, presidente del Fondo italiano per le infrastrutture F2i, presidente di Santander Consumer Bank e docente all’Università Cattolica.
È inoltre editorialista dell’«Osservatore Romano» e del «Sole 24 Ore».
Rino Cammilleri è autore, presso i maggiori editori nazionali, di una trentina di libri, alcuni dei quali tradotti in più lingue.
La sua produzione spazia dalla narrativa alla saggistica.
In quest’ultimo ambito ricordiamo Gli occhi di Maria, scritto con Vittorio Messori, e, editi da Lindau, Dio è cattolico? e Antidoti.
Tiene rubriche su «Il Giornale» e sul mensile «Il Timone».
Il suo sito Internet è: www.rinocammilleri.com.
DAL LIBRO Che cosa è questa globalizzazione di cui si parla tanto? Globalizzazione vuol dire innanzitutto liberalizzazione.
Questa può riguardare i mercati, riferendosi perciò alla libera circolazione delle merci, dei capitali e degli uomini, implicando in tal modo la caduta di ogni barriera.
In quanto tale è figlia del capitalismo.
Ma la liberalizzazione potrebbe anche riguardare la cultura e i costumi, e ciò provocherebbe un’omogeneizzazione fra i popoli, la nascita di una vera «società aperta».
In quanto tale essa influenzerà il capitalismo stesso.
Caduta di ogni barriera e «società aperta» sono i due sintomi del mondo globale.
Dopo la scoperta del Nuovo Mondo e la rivoluzione industriale, la globalizzazione è la più grande trasformazione economica e sociale mai avvenuta, le cui implicazioni ancora sfuggono, sono contraddittorie e non sufficientemente comprese.
Da un punto di vista più politico essa è stata una conseguenza della fine della guerra fredda; da un punto di vista economico essa è stata accelerata dai grandi investimenti tecnologici che si sono trasferiti dalla difesa al mercato.
In sintesi, la fine della contrapposizione USA-URSS ha reso inutili i muri-barriere reali e virtuali e ha reso disponibili le risorse finanziarie e tecnologiche per una pacifica guerra di mercato.
E le sue radici culturali? Per alcuni dette radici stanno nei principi di fratellanza universale, uguaglianza e libertà (di spirito illuministico); per altri stanno invece nello spirito di progresso insito nell’uomo, che è orientato all’universalizzazione.
Io credo che le radici stiano nella capacità dell’uomo di agire quando è libero di farlo.
Quali sono i meccanismi della globalizzazione? I meccanismi sono politico-economici.
La caduta del muro di Berlino (o, meglio, la fine del comunismo) sancisce il trionfo di un modello economico e sociale che, senza più ostacoli, confini e barriere, cerca di imporre un modello liberista che promette benessere e quindi pace a tutto il mondo, Paesi poveri per primi, grazie alle capacità tecnologico-produttive disponibili (che sono frutto, anche, delle ricerche per la difesa, in particolare il cosiddetto «scudo stellare»).
Per realizzarlo si chiede l’apertura dei mercati, la fine delle regolamentazioni, dei protezionismi, degli Stati imprenditori.
Garanzia implicita che si fa sul serio è la logica dell’economia di massa che vuole tutti provvisti di potere d’acquisto omogeneo: in pratica, lo sfruttamento è finito, la tecnologia permette di farne a meno; apriamo le porte alla globalizzazione e tutti staranno meglio.
In Europa questo processo è stato avviato (curiosamente, proprio da governi di centro-sinistra) ridimensionando il ruolo degli Stati in economia (privatizzazioni, fine dello Stato sociale…) e sottraendo loro molte funzioni, poi accentrate in organismi europei dopo aver varato la moneta unica.
I Paesi poveri per ora ottengono, mancando le risorse finanziare nei Paesi ricchi, molte promesse.
Ma devono accontentarsi di molte visite di delegazioni e di sapere che staranno meglio solo se ridurranno la loro natalità.
In compenso i Paesi ricchi cominciano ad assorbire la loro manodopera onde equilibrare gli scompensi di popolazione prodottisi negli ultimi trent’anni.
L’auspicato processo di globalizzazione ha subito una battuta d’arresto con l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2001, un evento che ha peggiorato la crisi economica già in atto e ha creato lo spettro del terrorismo globale.
A seguito di questo attentato gli USA hanno fatto la guerra all’Iraq, guerra che li ha divisi da gran parte dell’Europa, rischiando di creare problemi allo stesso processo di unione europea.
Gli USA sembrano voler decidere (come sempre è accaduto dopo crisi con gli europei) nuove alleanze con Russia e Cina per accelerare il processo di globalizzazione in queste aree.
Nel vertice di Cancún del settembre 2003, USA ed Europa si sono ritrovate unanimi, questa volta contro i Paesi poveri che vorrebbero poter esportare i loro prodotti agricoli dove ci sono i soldi per comprarli, cioè da noi, mentre noi, per proteggere i nostri agricoltori, imponiamo dazi.
Sempre nel settembre 2003 noi europei ci siamo ritrovati d’accordo con i cugini americani nel lamentarci della competizione cinese che mette in difficoltà le imprese occidentali, dimenticando che molti prodotti importati dalla Cina sono fatti da imprese occidentali là operanti.
Ma il principio della globalizzazione non doveva essere l’apertura dei mercati, la fine di barriere e protezioni? Il beneficio della globalizzazione non doveva risiedere nel vantaggio di più bassi costi grazie alle importazioni di beni da chi può vendere a minor prezzo? Bene, da questo paradosso si comprende che i principi sono una cosa e le attuazioni un’altra.
INDICE Prefazione, card.
Tarcisio Bertone Premessa Introduzione Denaro e paradiso 1.
L’economia 2.
Il capitalismo 3.
La globalizzazione 4.
Economia ed etica 5.
Conclusione 6.
La crisi dell’uomo, la crisi economica e l’Enciclica «Caritas in Veritate»

Attacco a Ratzinger

PAOLO RODARI, ANDREA TORNIELLI, Attacco a Ratzinger, Piemme, Milano, pagg.
322, € 18,00.
Londra la fredda e l’indifferente si sta riscaldando alla vigilia della visita di stato di Benedetto XVI.
La regina Elisabetta che ha invitato il Pontefice – una prima in assoluto, Wojtyla ci andò nel 1982 ma in visita pastorale – ha predisposto un gesto mai verificatosi con altri capi di stato, quello di inviare il principe Filippo all’aeroporto a ricevere il papa.
Così tutta la classe politica, dal neocattolico Tony Blair al presbiteriano GordonBrown e al premier anglicano praticante David Cameron, freme per gli incontri ufficiali.
E fuori dai palazzi la temperatura sale: c’è chi chiede le dimissioni di Ratzinger per lo scandalo pedofilia, domani su Channel 4 ci sarà un documentario di Peter Tatchell, attivista gay, di sicura contestazione.
E lo scienziato Stephen Hawking con The Grand Design, appena pubblicato, ha corretto le sue tesi sulla compatibilità tra scienza e fede: la nascita del mondo non ha bisogno di Dio.
Ma Londra, culla della religione di stato, farà comunque gli onori all’anziano papa che, appena eletto, aveva chiesto: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura davanti ai lupi».
Certo il suo pontificato avrebbe dovuto essere breve, «due o tre anni, durerà solo due tre anni…» confidava un cardinale e oggi i vaticanisti Paolo Rodari e Andrea Tornielli lo ricordano nel loro saggio sulle tempeste che regolarmente si abbattono su Benedetto XVI cui «l’unica vera cosa che non gli si perdona è quella di essere stato eletto papa».
Ricordiamo alcuni episodi: la citazione «politicamente scorretta» sull’islam pronunciata a Ratisbona; il vescovo negazionista Williamson; il dialogoriavvicinamento con i lefèvriani; il Motu proprio sulla messa in latino; la crisi diplomatica sul condom e l’Aids durante il viaggio in Africa.
E poi la madre di tutte le tensioni: la pedofilia del clero che partita dagli Stati Uniti si è allargata a macchia d’olio in Europa e sulla quale Ratzinger è intervenuto con determinazione.
Realismo nell’allontanamento dei colpevoli, invito alla vigilanza e alla severità nella selezione dei sacerdoti, richiesta di perdono e offerta di aiuto alle vittime.
E per tutta la Chiesa un richiamo: purificazione.
D’altra parte era stato lui, da cardinale nel marzo 2005, a dire «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui».
Una determinazione e una lucidità, quelle del Pontefice, che il libro Attacco a Ratzinger di Rodari- Tornielli mette in luce percorrendo tutte le accuse, gli scandali, le profezie e i complotti contro il papa.
Certo non brilla molto la gestione vaticana delle crisi con una comunicazione presa spesso in contropiede.
Ma parlare di attacco non è esagerato.
Se spostiamo l’attenzione al campo editoriale troviamo il 2010 disseminato da Tutto quello che il Vaticano non vuole farvi sapere (Paul Jeffers, Castelvecchi), La crociata di Benedetto (ovvero il Vaticano in guerra contro la modernità di Alan Posener, Garzanti), I segreti del Vaticano (un Corrado Augias sul “potere millenario”, Mondadori), Propaganda Fide R.E.
Un intrigo clerical vip (Andrea Gagliarducci, il Saggiatore).
Fermiamoci qui.
Benedetto XVI, da intellettuale e teologo, non tace.
Editorialmente risponde con il primo di sedici volumi della sua Opera omnia dedicato alla liturgia che aiuta a capire la domanda «Perché crediamo?» (Libreria vaticana), annuncia la pubblicazione il marzo prossimo del secondo volume su Gesù di Nazaret e conferma che entro l’anno arriverà un libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald, già autore del colloquio Il sale della terra.
Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo (Edizioni San Paolo).
Un contrattacco di idee e di diritti.
D’autore.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 settembre 2010

Dizionario di teologie femministe

Edith Piaf la cantava con la sua voce appassionata e calda nel 1942, proprio quando io nascevo.
Ma, cresciuto, l’avevo forse sentita risuonare anche nell’eco screziata e frusciante della radio o del vinile e persino nel canticchiare di mia madre durante il lavoro domestico: La vie en rose è, certo, l’emblema di un’epoca, di un modello esistenziale, di un’atmosfera.
Tuttavia, vedere l’intera vita con lenti rosa alla fine stanca e fin sconcerta.
Questa sensazione mi accompagnava mentre percorrevo qua e là le pagine del Dizionario di teologie femministe, curato da due teologhe americane del Connecticut ed edito in italiano dall’alacre Claudiana di Torino con la consulenza di una teologa e di un teologo del nostro paese (in questa materia incandescente è necessario usare sempre il linguaggio “inclusivo”).
Intendiamoci, il volume è molto utile e quasi indispensabile per conoscere di prima mano la teologia femminista, sulla quale per altro siamo intervenuti più di una volta su queste pagine, consapevoli che la questione femminile ha registrato una presenza importante nella trama della storia recente del pensiero teologico (e non soltanto nell’orizzonte sociale, psicologico o filosofico).
Non è il caso, infatti, di documentare quanto una concezione maschilistica o patriarcale abbia pesantemente rivestito e condizionato il pensiero religioso del passato, a partire dalle stesse Scritture Sacre, immerse in un contesto “sessista”.
Tanto per esemplificare, Qohelet non esita a proclamare la donna «amara più della morte, tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia; chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta catturato…» (7,26).
E il suo collega Siracide va anche più avanti, certo com’è che «è meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna» (42,14).
È, quindi, ovvio che una grande e faticosa operazione di rilettura ermeneutica di quelli e di altri testi religiosi, così come una revisione delle prospettive e degli stili pastorali siano necessarie.
In questo senso il monito continuo presente nelle voci di questo Dizionario non è da sbeffeggiare o da smitizzare in modo radicale, ma da considerare un po’ come una spina nel fianco delle stesse Chiese.
Molto cammino al riguardo è stato compiuto, sia pure nella differente calibratura dottrinale e pastorale delle diverse confessioni cristiane, ma un altro è ancora aperto, anche perché non è con un semplice decreto o con un pronunciamento pur autoritativo che si cancellano concrezioni secolari fatte di ideologia, di prassi e di costumi.
Che c’entra, allora, La vie en rose? C’entra nell’esasperata e parallela unilateralità di certe teologie femministe che colorano tutto di rosa (forse rigettando persino l’assegnazione di questo colore come  “esclusivo”), nell’ansia di trasformare una deprecata his-story in una her-story.
Così, se prendiamo la prima voce, «Abbà/Padre», è ovvio che bisogna subito “salvare” Gesù, che usava indubbiamente questo appellativo: ma egli lo faceva in un «contesto antipatriarcale», «affermando un significato non-patriarcale» e «rovesciando l’idea stessa per porla al servizio della critica femminista del patriarcato e delle sue divinità».
La «Nascita verginale» di Gesù, tanto per proseguire negli esempi, «nelle teologie femministe o è rifiutata in quanto mito cristiano androcentrico che sostiene il patriarcato e denigra le donne» o, al contrario, è «l’inizio della fine dell’ordine patriarcale».
Persino l’apparentemente asettica «Archeologia» non svilupperà la sua vera identità «finché non saranno superati i suoi preconcetti tradizionali ed elitari» che puntano a «esaminare strutture e manufatti pubblici e monumentali, in cui predomina l’impronta maschile…
dirigendo la maggior parte delle sue energie verso i prodotti dell’atti vità maschile» e non ai contesti domestici (che, però, si riconosce essere ora fmalmente oggetto di analisi), tuttavia inesorabilmente scoprendo in essi la subordinazione al primato androcentrico.
È scontato che ben più incandescente sia la voce sui «Ministeri ecclesiastici e il culto», molto articolata ma con una netta opzione di principio: «Le femministe stanno mettendo in discussione tutte le forme gerarchiche, i ruoli tradizionali di leadership, la distinzione tra clero e laici, le forme, il linguaggio, le immagini di culto e spiritualità  che non siano inclusive.
Sono oggetto di critica anche le definizioni della vita familiare e dei ruoli sessuali che stanno alla base dell’educazione religiosa».
E qui bisognerebbe invitare il lettore a seguire alcuni temi scottanti connessi – tutti destinatari di un lemma proprio – come famiglia, educazione religiosa, sacramenti, cura pastorale, ministero, liturgia e soprattutto le varie voci dedicate al “genere” (gender), sul quale però si deve registrare una notevole polimorfia di approcci, meno automatici rispetto all’impostazione del celebre asserto «On ne naît pas femme, on le devient» della de Beauvoir, che considerava il sesso come una mera costruzione socio-culturale e non biologico-naturale.
La notevole questione del «Linguaggio inclusivo» a cui sopra accennavamo, pur nell’indiscussa istanza che propone, tende a trascendere verso estremismi che scardinano i concetti e le verità teologiche sottese (è noto che il mezzo linguistico non è mai neutro e inoffensivo rispetto al contenuto).
Queste esasperazioni giungono al punto di avanzare perplessità anche nel chiamare Dio «Madre» oltre che «Padre»: «Ci si chiede, infatti, se Madre è sufficiente come unico nome femminile di Dio, dal momento che tale uso implica che le donne sono come Dio solo quando partoriscono e allevano figli».
Ripetiamo: «Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi, dalla teologia e dall’ermeneutica femminista» (e questa frase è desunta da un documento cattolico ufficiale, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa della Pontificia Commissione Biblica).
Soprattutto Giovanni Paolo II ha ribadito la necessità di una conversione della comunità ecclesiale nei confronti della donna e del suo “carisma” (in senso teologico).
Ripetiamo pure che questo Dizionario, nella sua qualità fenomenologica, è un sussidio significativo per conoscere il variegato orizzonte delle teologie femministe.
Detto questo, rimane l’impressione di essere di fronte a una sorta di sessuologia teologica che corre il rischio di procedere in modo parallelo all’approccio adottato dal detestato patriarcalismo fallocratico, scivolando in eccessi unilaterali, in parzialità smodate, in visioni che calzano appunto solo occhiali a lenti rosa, cadendo talora in quelle trappole che si denunciano.
Ha ragione la pastora battista Lidia Maggi quando scrive, nel suo Evangelo delle donne, un volumetto che esce in contemporanea al Dizionario e che è dedicato a una quarantina di figure femminili neotestamentarie: «La riscoperta della presenza femminile non venga appiattita quale strumento per rivendicare quote rosa all’interno delle Chiese: percorso legittimo, che dà voce all’altra metà del cielo, troppo spesso messa a tacere.
Ma la posta in gioco è ben più alta, di tipo teologico: custodire e difendere la rivelazione evangelica nella sua integralità…
C’è un’eccedenza dell’evangelo rispetto al nostro desiderio di essere valorizzate da Gesù.
Eccedenza non vuol dire che l’evangelo rema contro, ma che va oltre: anche oltre il riconoscimento del ruolo delle donne».
Letty M.
Russell e J.
Shannon Clarkson (a cura di), «Dizionario di teologie femministe», edizione italiana a cura di Gabriella Lettini e Gianluigi Gugliermetto, Claudiana, Torino, pagg.
546, € 47,00; Lidia Maggi, «L’Evangelo delle donne», Claudiana, Torino, pagg.
136, € 12,00.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 settembre 2010

America religiosa, Europa laica?

P.
BERGER, G.
DAVIE, E.
FOKAS, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il Mulino 2010,  pp.215.
Nel mese di agosto il dibattito sui rapporti tra politica e religione in America ha visto due elementi nuovi: il sondaggio secondo il quale il 20 per cento degli americani crede che Obama sia musulmano, e il raduno guidato a Washington dal Beppe Grillo dei populisti del Tea Party, il tribuno di Fox News Glenn Beck, in nome di una rinascita religiosa degli Stati Uniti, che sarebbero oppressi da un leader comunista e antireligioso come Obama.
Entrambi gli elementi si aggiungono alla lista, già lunga, dei motivi di reciproca incomprensione tra i due universi politico-culturali più importanti d’Occidente, Europa e Stati Uniti: ma il ruolo della religione nella sfera pubblica è di gran lunga il più evidente degli elementi di differenza, specialmente nella storia della cultura politica americana da Carter e Reagan in poi.
Per decifrare le differenze nel ruolo pubblico della religione tra Europa e America arriva la traduzione di un libro pubblicato in lingua originale nel 2008: P.
Berger, G.
Davie, E.
Fokas, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione (Il Mulino 2010, 215 pp.).
Gli autori sono tra i massimi sociologi della religione, e il fatto che Grace Davie e Effie Fokas operino sul campo del ruolo della religione sul suolo inglese fa di questo libro anche un’utile guida alla decifrazione della visita di Benedetto XVI nel Regno Unito.
Il punto di partenza del libro è una messa in discussione della “tesi della secolarizzazione” che, a partire dagli anni Cinquanta e fino agli anni Novanta, aveva asserito un legame tra processo di modernizzazione e secolarizzazione come indebolimento del ruolo della religione.
Già prima dell’11 settembre 2001 il sociologo americano Casanova aveva messo in discussione questa tesi, che ora vede i suoi avvocati sulla difensiva, oppure scomparsi e sostituiti dagli adepti del neoateismo militante dei Dawkins e Hitchens.
È infatti diventato chiaro ormai che il fattore religioso gioca un ruolo in ogni scenario politico-pubblico, e che il cammino verso la modernità è fatto di “modernità multiple”: se in Inghilterra la secolarizzazione ha portato con sé il fenomeno della “religione vicaria” (quella in cui la grande maggioranza dei non praticanti spera che continui ad esistere un nucleo di praticanti), in altri paesi europei lo scenario muta significativamente: a seconda della storia dei rapporti tra Stato e Chiesa; del modello di immigrazione; della complessità del paesaggio religioso; della storia politica recente (specialmente nell’Europa orientale ex comunista).
Ma è sul confronto tra il mondo religioso europeo e quello americano che il caso inglese diventa interessante, perché assume i tratti di un incrocio tra «due grandi nazioni divise da una lingua comune» (come recita un famoso detto) – anche dal punto di vista religioso.
Le differenze tra Europa e Stati Uniti, quanto a storia dei rapporti tra chiese, società e Stato, sono numerose, e non era interesse degli autori del libro riassumerle.
Piuttosto, gli autori hanno inteso riflettere sulle differenze sociologicamente percepibili e riconducibili più direttamente alle diverse storie religiose.
Uno degli elementi di differenza tra esperienze di religione e laicità sulle due sponde dell’Atlantico è la dimensione “verticale” della religione in America (con le diverse denominazioni religiose disposte verticalmente su una scala di prestigio sociale) rispetto alla dimensione “orizzontale” della religione in Europa (in cui appartenere o meno ad una chiesa o ad un’altra non si presta ad una interpretazione circa l’appartenenza ad un ceto sociale o a un altro).
Un secondo elemento è quello del legame tra religiosità e reddito, che in America vede una relazione inversamente proporzionale, per cui più alto è il reddito, minore è la probabilità che il percettore sia religioso.
Un terzo elemento è la mancanza degli effetti politico-sociali di movimenti socialisti e anticlericali in America, in cui non esiste un sistema di sicurezze sociali garantite dallo Stato (e alla parola welfare si associano significati negativi e diametralmente opposti rispetto a quelli prodotti dal modello sociale europeo).
Il quarto elemento è l’impatto dell’immigrazione sull’evoluzione del paesaggio religioso di Europa e America, con la prima soggetta ad una serie di flussi migratori da paesi arabi e musulmani, e la seconda fecondata dai latinos della zona sud del continente americano.
Il libro è di indubbio interesse, anche per un lettore non specialista, anche grazie ad alcuni aneddoti illuminanti: come quello del ricercatore che, diventato professore universitario, decide di passare dalla proletaria chiesa battista alla più borghese chiesa metodista – ma non alla chiesa episcopaliana, appannaggio delle classi più abbienti.
Su alcuni punti l’analisi risente di un approccio esclusivamente sociologico, carente di approfondimento storico e di aggiornamento politico: come per la tesi di Berger sulla divisione degli americani tra una ristretta élite dominante di “svedesi” (laici) e una poco visibile maggioranza di “indiani” (religiosi).
In realtà gli ultimi due decenni hanno visto una riscossa degli “indiani” a tutti i livelli: basti guardare la composizione della Corte Suprema di fine 2010, in cui gli “svedesi” laici sono ben cauti nell’esprimersi su questioni religiose o morali, attorniati come sono da “indiani” che, nella Corte guidata da John Roberts, sono la maggioranza (per la prima volta nella sua storia la Corte suprema non ha nessun giudice protestante, e ha sei giudici cattolici).
Ma anche al di là del caso della Corte Suprema è chiaro il legame, agli occhi dell’americano medio, tra la chiesa di appartenenza e la posizione sulla scala sociale.
Questo spiega la posizione particolare in America di una chiesa interclassista come la chiesa cattolica.
Ma spiega anche la difficoltà per Obama di fare la pubblica scelta di una “chiesa di famiglia”, dopo la sua separazione dalla chiesa della teologia nera della liberazione del reverendo Wright nel South Side di Chicago: è un sintomo della difficoltà di ricollocarsi non solo teologicamente, ma anche socialmente, come afroamericano che ha scalato la scala sociale in fretta – troppo in fretta per i gusti del leghismo americano del Tea Party.
Il recente sondaggio sul presunto islamismo di Obama non dice che gli americani non conoscono il loro presidente: dice che lo conoscono benissimo.
in “Europa” del 14 settembre 2010