L’emergenza educativa scende in cento piazze Da Mazara del Vallo ad Aosta, da Gorizia a Sassari e da Varese a Taranto, tutti in piazza con l’Associazione italiana maestri cattolici domenica prossima 3 ottobre, non per dividere ma per unire, non per gridare ma per ascoltare, non per rivendicare ma per dialogare.
È la proposta dell’Aimc per festeggiare, in anticipo, la giornata mondiale dell’insegnante che ricorre il 5 ottobre, istituita dall’Unesco nel 1993 per ricordare la raccomandazione sulla condizione degli insegnanti.
Ma anche un modo per celebrare i 65 anni della fondazione dell’associazione testimoniando in modo tangibile l’attenzione dei maestri cattolici alla scuola tutta e ai più piccoli, anche attraverso forme di solidarietà.
Un’iniziativa in collaborazione con l’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’Università della Cei, proposta all’intero Paese e ai singoli territori come occasione per riflessione su quello che è un tema imprescindibile per il futuro della società: l’educazione.
“Cento piazze per la sfida educativa”, questo il nome della manifestazione, «è un evento che assume il significato di un vero e proprio invito all’agorà, luogo simbolo del ritrovo e delle relazioni per richiamare l’attenzione di tutti sulla necessità di considerare l’educazione priorità irrinunciabile su cui investire in corresponsabilità, tutti e ciascuno», ha detto ieri Giuseppe Desideri, presidente nazionale dell’Aimc, nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa, moderata da Paolo Bustaffa, direttore del Sir.
L’educazione, infatti, ha ricordato don Maurizio Viviani, direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’Università della Cei, «come indicano i documenti della Conferenza episcopale italiana, non è questione riservata al contesto familiare e scolastico, ma coinvolge tutte le dimensioni e gli ambiti in cui si vive e cresce».
Educare insomma è un fatto pubblico, questione di tutti.
«La Chiesa parla di emergenza educativa – spiega don Viviani – attraverso la lettera di Benedetto XVI alla diocesi di Roma.
Per rispondere all’appello del Papa occorre allearsi e passare dall’emergenza alla sfida educativa.
In questo solco si colloca questa iniziativa che si propone di portare il tema dell’educazione oltre che all’attenzione delle scuole anche delle piazze, da sempre luoghi dell’incontro e dello scambio, dunque del dialogo e del confronto».
Esattamente, il 3 ottobre in ben 110 piazze italiane docenti, genitori, adulti, bambini e ragazzi troveranno l’allestimento di uno o più gazebo, la distribuzione di materiale informativo e il lancio dell’iniziativa “Un quaderno per amico”, per la raccolta di fondi da destinare alla costruzione di aule di scuola della comunità “Progetto famiglia” in Burkina Faso, Paese del centro Africa; al sostegno di educatori della cooperativa il “Piccolo principe” dei Frati cappuccini della Custodia di Romania e all’istituzione di borse di studio per giovani laureati su tematiche legate all’educazione o all’associazionismo professionale.
Come hanno sottolineato don Silvio Longobardi e padre Filippo Aliani, l’istruzione è l’unica strada per dare ai giovani di tutto il mondo la possibilità di progettare il futuro.
Laura Malandrino
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Denaro e paradiso
E.
GOTTI TEDESCHI, R.
CAMMILLERI, Denaro e paradiso.
I cattolici e l’economia globale, Lindau, Torino, 2010, pp.
160, euro 15,00.
«Questo libro offre ulteriori motivi per riflettere sul senso da dare alla propria vita e alle proprie azioni, su cosa significhi fare economia in senso autentico perché, in realtà, l’economia ispirata ai criteri morali cristiani non manca di produrre veri e propri vantaggi competitivi.
Non si tratta di un’irrealistica, velleitaria utopia ma della concreta possibilità, oggi più che mai attuale, di un’economia capace di far convivere esigenze produttive, benessere materiale e pienezza umana.» Card.
Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di S.S.
Benedetto XVI Denaro e paradiso è il dialogo lucido e appassionato tra un intellettuale curioso e un economista non accademico sulle possibilità di applicazione in economia della morale cattolica.
Questa, lungi dall’essere contro il capitalismo o le leggi di mercato, rappresenta un potenziale vantaggio competitivo, da esaltare piuttosto che da reprimere, perché permette all’uomo di realizzare integralmente se stesso secondo la propria libertà.
Attraverso una riflessione che spazia dai grandi principî alle forme concrete assunte dai rapporti economici nel corso della storia umana, i due autori tentano una riconciliazione, in un periodo di globalizzazione e di crisi mondiale, tra morale e mercato, mostrando i benefici che ne possono derivare: la morale può rendere più efficace il mercato, senza che l’economia e la ricchezza ostacolino una vita pienamente cristiana.
GLI AUTORI Ettore Gotti Tedeschi è stato nominato dal card.
Tarcisio Bertone, nel settembre 2009, Presidente dello IOR.
È anche consigliere economico del ministro del Tesoro, consigliere della Cassa Depositi e Prestiti, presidente del Fondo italiano per le infrastrutture F2i, presidente di Santander Consumer Bank e docente all’Università Cattolica.
È inoltre editorialista dell’«Osservatore Romano» e del «Sole 24 Ore».
Rino Cammilleri è autore, presso i maggiori editori nazionali, di una trentina di libri, alcuni dei quali tradotti in più lingue.
La sua produzione spazia dalla narrativa alla saggistica.
In quest’ultimo ambito ricordiamo Gli occhi di Maria, scritto con Vittorio Messori, e, editi da Lindau, Dio è cattolico? e Antidoti.
Tiene rubriche su «Il Giornale» e sul mensile «Il Timone».
Il suo sito Internet è: www.rinocammilleri.com.
DAL LIBRO Che cosa è questa globalizzazione di cui si parla tanto? Globalizzazione vuol dire innanzitutto liberalizzazione.
Questa può riguardare i mercati, riferendosi perciò alla libera circolazione delle merci, dei capitali e degli uomini, implicando in tal modo la caduta di ogni barriera.
In quanto tale è figlia del capitalismo.
Ma la liberalizzazione potrebbe anche riguardare la cultura e i costumi, e ciò provocherebbe un’omogeneizzazione fra i popoli, la nascita di una vera «società aperta».
In quanto tale essa influenzerà il capitalismo stesso.
Caduta di ogni barriera e «società aperta» sono i due sintomi del mondo globale.
Dopo la scoperta del Nuovo Mondo e la rivoluzione industriale, la globalizzazione è la più grande trasformazione economica e sociale mai avvenuta, le cui implicazioni ancora sfuggono, sono contraddittorie e non sufficientemente comprese.
Da un punto di vista più politico essa è stata una conseguenza della fine della guerra fredda; da un punto di vista economico essa è stata accelerata dai grandi investimenti tecnologici che si sono trasferiti dalla difesa al mercato.
In sintesi, la fine della contrapposizione USA-URSS ha reso inutili i muri-barriere reali e virtuali e ha reso disponibili le risorse finanziarie e tecnologiche per una pacifica guerra di mercato.
E le sue radici culturali? Per alcuni dette radici stanno nei principi di fratellanza universale, uguaglianza e libertà (di spirito illuministico); per altri stanno invece nello spirito di progresso insito nell’uomo, che è orientato all’universalizzazione.
Io credo che le radici stiano nella capacità dell’uomo di agire quando è libero di farlo.
Quali sono i meccanismi della globalizzazione? I meccanismi sono politico-economici.
La caduta del muro di Berlino (o, meglio, la fine del comunismo) sancisce il trionfo di un modello economico e sociale che, senza più ostacoli, confini e barriere, cerca di imporre un modello liberista che promette benessere e quindi pace a tutto il mondo, Paesi poveri per primi, grazie alle capacità tecnologico-produttive disponibili (che sono frutto, anche, delle ricerche per la difesa, in particolare il cosiddetto «scudo stellare»).
Per realizzarlo si chiede l’apertura dei mercati, la fine delle regolamentazioni, dei protezionismi, degli Stati imprenditori.
Garanzia implicita che si fa sul serio è la logica dell’economia di massa che vuole tutti provvisti di potere d’acquisto omogeneo: in pratica, lo sfruttamento è finito, la tecnologia permette di farne a meno; apriamo le porte alla globalizzazione e tutti staranno meglio.
In Europa questo processo è stato avviato (curiosamente, proprio da governi di centro-sinistra) ridimensionando il ruolo degli Stati in economia (privatizzazioni, fine dello Stato sociale…) e sottraendo loro molte funzioni, poi accentrate in organismi europei dopo aver varato la moneta unica.
I Paesi poveri per ora ottengono, mancando le risorse finanziare nei Paesi ricchi, molte promesse.
Ma devono accontentarsi di molte visite di delegazioni e di sapere che staranno meglio solo se ridurranno la loro natalità.
In compenso i Paesi ricchi cominciano ad assorbire la loro manodopera onde equilibrare gli scompensi di popolazione prodottisi negli ultimi trent’anni.
L’auspicato processo di globalizzazione ha subito una battuta d’arresto con l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2001, un evento che ha peggiorato la crisi economica già in atto e ha creato lo spettro del terrorismo globale.
A seguito di questo attentato gli USA hanno fatto la guerra all’Iraq, guerra che li ha divisi da gran parte dell’Europa, rischiando di creare problemi allo stesso processo di unione europea.
Gli USA sembrano voler decidere (come sempre è accaduto dopo crisi con gli europei) nuove alleanze con Russia e Cina per accelerare il processo di globalizzazione in queste aree.
Nel vertice di Cancún del settembre 2003, USA ed Europa si sono ritrovate unanimi, questa volta contro i Paesi poveri che vorrebbero poter esportare i loro prodotti agricoli dove ci sono i soldi per comprarli, cioè da noi, mentre noi, per proteggere i nostri agricoltori, imponiamo dazi.
Sempre nel settembre 2003 noi europei ci siamo ritrovati d’accordo con i cugini americani nel lamentarci della competizione cinese che mette in difficoltà le imprese occidentali, dimenticando che molti prodotti importati dalla Cina sono fatti da imprese occidentali là operanti.
Ma il principio della globalizzazione non doveva essere l’apertura dei mercati, la fine di barriere e protezioni? Il beneficio della globalizzazione non doveva risiedere nel vantaggio di più bassi costi grazie alle importazioni di beni da chi può vendere a minor prezzo? Bene, da questo paradosso si comprende che i principi sono una cosa e le attuazioni un’altra.
INDICE Prefazione, card.
Tarcisio Bertone Premessa Introduzione Denaro e paradiso 1.
L’economia 2.
Il capitalismo 3.
La globalizzazione 4.
Economia ed etica 5.
Conclusione 6.
La crisi dell’uomo, la crisi economica e l’Enciclica «Caritas in Veritate»
Attacco a Ratzinger
PAOLO RODARI, ANDREA TORNIELLI, Attacco a Ratzinger, Piemme, Milano, pagg.
322, € 18,00.
Londra la fredda e l’indifferente si sta riscaldando alla vigilia della visita di stato di Benedetto XVI.
La regina Elisabetta che ha invitato il Pontefice – una prima in assoluto, Wojtyla ci andò nel 1982 ma in visita pastorale – ha predisposto un gesto mai verificatosi con altri capi di stato, quello di inviare il principe Filippo all’aeroporto a ricevere il papa.
Così tutta la classe politica, dal neocattolico Tony Blair al presbiteriano GordonBrown e al premier anglicano praticante David Cameron, freme per gli incontri ufficiali.
E fuori dai palazzi la temperatura sale: c’è chi chiede le dimissioni di Ratzinger per lo scandalo pedofilia, domani su Channel 4 ci sarà un documentario di Peter Tatchell, attivista gay, di sicura contestazione.
E lo scienziato Stephen Hawking con The Grand Design, appena pubblicato, ha corretto le sue tesi sulla compatibilità tra scienza e fede: la nascita del mondo non ha bisogno di Dio.
Ma Londra, culla della religione di stato, farà comunque gli onori all’anziano papa che, appena eletto, aveva chiesto: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura davanti ai lupi».
Certo il suo pontificato avrebbe dovuto essere breve, «due o tre anni, durerà solo due tre anni…» confidava un cardinale e oggi i vaticanisti Paolo Rodari e Andrea Tornielli lo ricordano nel loro saggio sulle tempeste che regolarmente si abbattono su Benedetto XVI cui «l’unica vera cosa che non gli si perdona è quella di essere stato eletto papa».
Ricordiamo alcuni episodi: la citazione «politicamente scorretta» sull’islam pronunciata a Ratisbona; il vescovo negazionista Williamson; il dialogoriavvicinamento con i lefèvriani; il Motu proprio sulla messa in latino; la crisi diplomatica sul condom e l’Aids durante il viaggio in Africa.
E poi la madre di tutte le tensioni: la pedofilia del clero che partita dagli Stati Uniti si è allargata a macchia d’olio in Europa e sulla quale Ratzinger è intervenuto con determinazione.
Realismo nell’allontanamento dei colpevoli, invito alla vigilanza e alla severità nella selezione dei sacerdoti, richiesta di perdono e offerta di aiuto alle vittime.
E per tutta la Chiesa un richiamo: purificazione.
D’altra parte era stato lui, da cardinale nel marzo 2005, a dire «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui».
Una determinazione e una lucidità, quelle del Pontefice, che il libro Attacco a Ratzinger di Rodari- Tornielli mette in luce percorrendo tutte le accuse, gli scandali, le profezie e i complotti contro il papa.
Certo non brilla molto la gestione vaticana delle crisi con una comunicazione presa spesso in contropiede.
Ma parlare di attacco non è esagerato.
Se spostiamo l’attenzione al campo editoriale troviamo il 2010 disseminato da Tutto quello che il Vaticano non vuole farvi sapere (Paul Jeffers, Castelvecchi), La crociata di Benedetto (ovvero il Vaticano in guerra contro la modernità di Alan Posener, Garzanti), I segreti del Vaticano (un Corrado Augias sul “potere millenario”, Mondadori), Propaganda Fide R.E.
Un intrigo clerical vip (Andrea Gagliarducci, il Saggiatore).
Fermiamoci qui.
Benedetto XVI, da intellettuale e teologo, non tace.
Editorialmente risponde con il primo di sedici volumi della sua Opera omnia dedicato alla liturgia che aiuta a capire la domanda «Perché crediamo?» (Libreria vaticana), annuncia la pubblicazione il marzo prossimo del secondo volume su Gesù di Nazaret e conferma che entro l’anno arriverà un libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald, già autore del colloquio Il sale della terra.
Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo (Edizioni San Paolo).
Un contrattacco di idee e di diritti.
D’autore.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 settembre 2010
Dizionario di teologie femministe
Edith Piaf la cantava con la sua voce appassionata e calda nel 1942, proprio quando io nascevo.
Ma, cresciuto, l’avevo forse sentita risuonare anche nell’eco screziata e frusciante della radio o del vinile e persino nel canticchiare di mia madre durante il lavoro domestico: La vie en rose è, certo, l’emblema di un’epoca, di un modello esistenziale, di un’atmosfera.
Tuttavia, vedere l’intera vita con lenti rosa alla fine stanca e fin sconcerta.
Questa sensazione mi accompagnava mentre percorrevo qua e là le pagine del Dizionario di teologie femministe, curato da due teologhe americane del Connecticut ed edito in italiano dall’alacre Claudiana di Torino con la consulenza di una teologa e di un teologo del nostro paese (in questa materia incandescente è necessario usare sempre il linguaggio “inclusivo”).
Intendiamoci, il volume è molto utile e quasi indispensabile per conoscere di prima mano la teologia femminista, sulla quale per altro siamo intervenuti più di una volta su queste pagine, consapevoli che la questione femminile ha registrato una presenza importante nella trama della storia recente del pensiero teologico (e non soltanto nell’orizzonte sociale, psicologico o filosofico).
Non è il caso, infatti, di documentare quanto una concezione maschilistica o patriarcale abbia pesantemente rivestito e condizionato il pensiero religioso del passato, a partire dalle stesse Scritture Sacre, immerse in un contesto “sessista”.
Tanto per esemplificare, Qohelet non esita a proclamare la donna «amara più della morte, tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia; chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta catturato…» (7,26).
E il suo collega Siracide va anche più avanti, certo com’è che «è meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna» (42,14).
È, quindi, ovvio che una grande e faticosa operazione di rilettura ermeneutica di quelli e di altri testi religiosi, così come una revisione delle prospettive e degli stili pastorali siano necessarie.
In questo senso il monito continuo presente nelle voci di questo Dizionario non è da sbeffeggiare o da smitizzare in modo radicale, ma da considerare un po’ come una spina nel fianco delle stesse Chiese.
Molto cammino al riguardo è stato compiuto, sia pure nella differente calibratura dottrinale e pastorale delle diverse confessioni cristiane, ma un altro è ancora aperto, anche perché non è con un semplice decreto o con un pronunciamento pur autoritativo che si cancellano concrezioni secolari fatte di ideologia, di prassi e di costumi.
Che c’entra, allora, La vie en rose? C’entra nell’esasperata e parallela unilateralità di certe teologie femministe che colorano tutto di rosa (forse rigettando persino l’assegnazione di questo colore come “esclusivo”), nell’ansia di trasformare una deprecata his-story in una her-story.
Così, se prendiamo la prima voce, «Abbà/Padre», è ovvio che bisogna subito “salvare” Gesù, che usava indubbiamente questo appellativo: ma egli lo faceva in un «contesto antipatriarcale», «affermando un significato non-patriarcale» e «rovesciando l’idea stessa per porla al servizio della critica femminista del patriarcato e delle sue divinità».
La «Nascita verginale» di Gesù, tanto per proseguire negli esempi, «nelle teologie femministe o è rifiutata in quanto mito cristiano androcentrico che sostiene il patriarcato e denigra le donne» o, al contrario, è «l’inizio della fine dell’ordine patriarcale».
Persino l’apparentemente asettica «Archeologia» non svilupperà la sua vera identità «finché non saranno superati i suoi preconcetti tradizionali ed elitari» che puntano a «esaminare strutture e manufatti pubblici e monumentali, in cui predomina l’impronta maschile…
dirigendo la maggior parte delle sue energie verso i prodotti dell’atti vità maschile» e non ai contesti domestici (che, però, si riconosce essere ora fmalmente oggetto di analisi), tuttavia inesorabilmente scoprendo in essi la subordinazione al primato androcentrico.
È scontato che ben più incandescente sia la voce sui «Ministeri ecclesiastici e il culto», molto articolata ma con una netta opzione di principio: «Le femministe stanno mettendo in discussione tutte le forme gerarchiche, i ruoli tradizionali di leadership, la distinzione tra clero e laici, le forme, il linguaggio, le immagini di culto e spiritualità che non siano inclusive.
Sono oggetto di critica anche le definizioni della vita familiare e dei ruoli sessuali che stanno alla base dell’educazione religiosa».
E qui bisognerebbe invitare il lettore a seguire alcuni temi scottanti connessi – tutti destinatari di un lemma proprio – come famiglia, educazione religiosa, sacramenti, cura pastorale, ministero, liturgia e soprattutto le varie voci dedicate al “genere” (gender), sul quale però si deve registrare una notevole polimorfia di approcci, meno automatici rispetto all’impostazione del celebre asserto «On ne naît pas femme, on le devient» della de Beauvoir, che considerava il sesso come una mera costruzione socio-culturale e non biologico-naturale.
La notevole questione del «Linguaggio inclusivo» a cui sopra accennavamo, pur nell’indiscussa istanza che propone, tende a trascendere verso estremismi che scardinano i concetti e le verità teologiche sottese (è noto che il mezzo linguistico non è mai neutro e inoffensivo rispetto al contenuto).
Queste esasperazioni giungono al punto di avanzare perplessità anche nel chiamare Dio «Madre» oltre che «Padre»: «Ci si chiede, infatti, se Madre è sufficiente come unico nome femminile di Dio, dal momento che tale uso implica che le donne sono come Dio solo quando partoriscono e allevano figli».
Ripetiamo: «Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi, dalla teologia e dall’ermeneutica femminista» (e questa frase è desunta da un documento cattolico ufficiale, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa della Pontificia Commissione Biblica).
Soprattutto Giovanni Paolo II ha ribadito la necessità di una conversione della comunità ecclesiale nei confronti della donna e del suo “carisma” (in senso teologico).
Ripetiamo pure che questo Dizionario, nella sua qualità fenomenologica, è un sussidio significativo per conoscere il variegato orizzonte delle teologie femministe.
Detto questo, rimane l’impressione di essere di fronte a una sorta di sessuologia teologica che corre il rischio di procedere in modo parallelo all’approccio adottato dal detestato patriarcalismo fallocratico, scivolando in eccessi unilaterali, in parzialità smodate, in visioni che calzano appunto solo occhiali a lenti rosa, cadendo talora in quelle trappole che si denunciano.
Ha ragione la pastora battista Lidia Maggi quando scrive, nel suo Evangelo delle donne, un volumetto che esce in contemporanea al Dizionario e che è dedicato a una quarantina di figure femminili neotestamentarie: «La riscoperta della presenza femminile non venga appiattita quale strumento per rivendicare quote rosa all’interno delle Chiese: percorso legittimo, che dà voce all’altra metà del cielo, troppo spesso messa a tacere.
Ma la posta in gioco è ben più alta, di tipo teologico: custodire e difendere la rivelazione evangelica nella sua integralità…
C’è un’eccedenza dell’evangelo rispetto al nostro desiderio di essere valorizzate da Gesù.
Eccedenza non vuol dire che l’evangelo rema contro, ma che va oltre: anche oltre il riconoscimento del ruolo delle donne».
Letty M.
Russell e J.
Shannon Clarkson (a cura di), «Dizionario di teologie femministe», edizione italiana a cura di Gabriella Lettini e Gianluigi Gugliermetto, Claudiana, Torino, pagg.
546, € 47,00; Lidia Maggi, «L’Evangelo delle donne», Claudiana, Torino, pagg.
136, € 12,00.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 settembre 2010
America religiosa, Europa laica?
P.
BERGER, G.
DAVIE, E.
FOKAS, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il Mulino 2010, pp.215.
Nel mese di agosto il dibattito sui rapporti tra politica e religione in America ha visto due elementi nuovi: il sondaggio secondo il quale il 20 per cento degli americani crede che Obama sia musulmano, e il raduno guidato a Washington dal Beppe Grillo dei populisti del Tea Party, il tribuno di Fox News Glenn Beck, in nome di una rinascita religiosa degli Stati Uniti, che sarebbero oppressi da un leader comunista e antireligioso come Obama.
Entrambi gli elementi si aggiungono alla lista, già lunga, dei motivi di reciproca incomprensione tra i due universi politico-culturali più importanti d’Occidente, Europa e Stati Uniti: ma il ruolo della religione nella sfera pubblica è di gran lunga il più evidente degli elementi di differenza, specialmente nella storia della cultura politica americana da Carter e Reagan in poi.
Per decifrare le differenze nel ruolo pubblico della religione tra Europa e America arriva la traduzione di un libro pubblicato in lingua originale nel 2008: P.
Berger, G.
Davie, E.
Fokas, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione (Il Mulino 2010, 215 pp.).
Gli autori sono tra i massimi sociologi della religione, e il fatto che Grace Davie e Effie Fokas operino sul campo del ruolo della religione sul suolo inglese fa di questo libro anche un’utile guida alla decifrazione della visita di Benedetto XVI nel Regno Unito.
Il punto di partenza del libro è una messa in discussione della “tesi della secolarizzazione” che, a partire dagli anni Cinquanta e fino agli anni Novanta, aveva asserito un legame tra processo di modernizzazione e secolarizzazione come indebolimento del ruolo della religione.
Già prima dell’11 settembre 2001 il sociologo americano Casanova aveva messo in discussione questa tesi, che ora vede i suoi avvocati sulla difensiva, oppure scomparsi e sostituiti dagli adepti del neoateismo militante dei Dawkins e Hitchens.
È infatti diventato chiaro ormai che il fattore religioso gioca un ruolo in ogni scenario politico-pubblico, e che il cammino verso la modernità è fatto di “modernità multiple”: se in Inghilterra la secolarizzazione ha portato con sé il fenomeno della “religione vicaria” (quella in cui la grande maggioranza dei non praticanti spera che continui ad esistere un nucleo di praticanti), in altri paesi europei lo scenario muta significativamente: a seconda della storia dei rapporti tra Stato e Chiesa; del modello di immigrazione; della complessità del paesaggio religioso; della storia politica recente (specialmente nell’Europa orientale ex comunista).
Ma è sul confronto tra il mondo religioso europeo e quello americano che il caso inglese diventa interessante, perché assume i tratti di un incrocio tra «due grandi nazioni divise da una lingua comune» (come recita un famoso detto) – anche dal punto di vista religioso.
Le differenze tra Europa e Stati Uniti, quanto a storia dei rapporti tra chiese, società e Stato, sono numerose, e non era interesse degli autori del libro riassumerle.
Piuttosto, gli autori hanno inteso riflettere sulle differenze sociologicamente percepibili e riconducibili più direttamente alle diverse storie religiose.
Uno degli elementi di differenza tra esperienze di religione e laicità sulle due sponde dell’Atlantico è la dimensione “verticale” della religione in America (con le diverse denominazioni religiose disposte verticalmente su una scala di prestigio sociale) rispetto alla dimensione “orizzontale” della religione in Europa (in cui appartenere o meno ad una chiesa o ad un’altra non si presta ad una interpretazione circa l’appartenenza ad un ceto sociale o a un altro).
Un secondo elemento è quello del legame tra religiosità e reddito, che in America vede una relazione inversamente proporzionale, per cui più alto è il reddito, minore è la probabilità che il percettore sia religioso.
Un terzo elemento è la mancanza degli effetti politico-sociali di movimenti socialisti e anticlericali in America, in cui non esiste un sistema di sicurezze sociali garantite dallo Stato (e alla parola welfare si associano significati negativi e diametralmente opposti rispetto a quelli prodotti dal modello sociale europeo).
Il quarto elemento è l’impatto dell’immigrazione sull’evoluzione del paesaggio religioso di Europa e America, con la prima soggetta ad una serie di flussi migratori da paesi arabi e musulmani, e la seconda fecondata dai latinos della zona sud del continente americano.
Il libro è di indubbio interesse, anche per un lettore non specialista, anche grazie ad alcuni aneddoti illuminanti: come quello del ricercatore che, diventato professore universitario, decide di passare dalla proletaria chiesa battista alla più borghese chiesa metodista – ma non alla chiesa episcopaliana, appannaggio delle classi più abbienti.
Su alcuni punti l’analisi risente di un approccio esclusivamente sociologico, carente di approfondimento storico e di aggiornamento politico: come per la tesi di Berger sulla divisione degli americani tra una ristretta élite dominante di “svedesi” (laici) e una poco visibile maggioranza di “indiani” (religiosi).
In realtà gli ultimi due decenni hanno visto una riscossa degli “indiani” a tutti i livelli: basti guardare la composizione della Corte Suprema di fine 2010, in cui gli “svedesi” laici sono ben cauti nell’esprimersi su questioni religiose o morali, attorniati come sono da “indiani” che, nella Corte guidata da John Roberts, sono la maggioranza (per la prima volta nella sua storia la Corte suprema non ha nessun giudice protestante, e ha sei giudici cattolici).
Ma anche al di là del caso della Corte Suprema è chiaro il legame, agli occhi dell’americano medio, tra la chiesa di appartenenza e la posizione sulla scala sociale.
Questo spiega la posizione particolare in America di una chiesa interclassista come la chiesa cattolica.
Ma spiega anche la difficoltà per Obama di fare la pubblica scelta di una “chiesa di famiglia”, dopo la sua separazione dalla chiesa della teologia nera della liberazione del reverendo Wright nel South Side di Chicago: è un sintomo della difficoltà di ricollocarsi non solo teologicamente, ma anche socialmente, come afroamericano che ha scalato la scala sociale in fretta – troppo in fretta per i gusti del leghismo americano del Tea Party.
Il recente sondaggio sul presunto islamismo di Obama non dice che gli americani non conoscono il loro presidente: dice che lo conoscono benissimo.
in “Europa” del 14 settembre 2010
Paroladidio
La Bibbia in rap.
Non tutta la Bibbia.
Ma solo alcuni tra i più famosi brani dell’Antico e del Nuovo Testamento che – su iniziativa del settimanale dei Paolini, Famiglia Cristiana – si potranno sentire nelle radio e via internet in una singolarissima versione rap dal titolo Paroladidio per il lancio della Bibbia Pocket, l’edizione tascabile del Libro dei Libri, che da giovedì prossimo, al prezzo di 7,90 euro, si potrà acquistare col settimanale in edicola.
Ma la mini Bibbia (570 grammi appena) si troverà anche nelle librerie (sia laiche che religiose), nei supermercati, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, negli autogrill, grazie ad una mega distribuzione che punterà a diffondere entro Natale oltre un milione di Bibbie.
Una grande operazione editorial-commerciale ideata per celebrare i 50 anni di una analoga iniziativa fatta nel 1960 dal fondatore della Congregazione dei Paolini, il beato Giacomo Alberione, il quale per la prima volta promosse la diffusione del testo sacro con “La Bibbia a 1000 lire” allegata al settimanale.
Dopo mezzo secolo l’operazione si ripete, spiega don Vito Fracchiolla, amministratore delegato del Gruppo editoriale San Paolo, ma con mezzi e modi assai diversi, a partire dall’uso di Internet, dagli spot radiofonici e dal “provocatorio” rap composto ed eseguito da anonimi professionisti in ossequio agli altrettanto anonimi autori delle Sacre Scritture.
La Bibbia, dunque, torna a proporsi al grande pubblico ad appena 2 anni dal successo centrato dalla “Lettura della Bibbia giorno e notte”, ideata dallo storico vaticanista del Tg1 Giuseppe De Carli, recentemente scomparso, e trasmessa in diretta dalla Rai con l’intervento di Benedetto XVI lettore del primo libro della Genesi.
Con la Bibbia rap non si prevedono benedizioni papali, ma – assicurano in Vaticano – l’operazione viene vista con «interesse e simpatia» con la speranza che l’iniziativa, oltre a coinvolgere le famiglie italiane, serva ad avvicinare in particolare i giovani, magari tramite proprio quel pezzo rappeggiante che, a prima vista, potrebbe far storcere la bocca a tradizionalisti e benpensanti.
Eppure – assicura don Fracchiolla – «tutta l’operazione è stata fatta con scrupolo e serietà col preciso scopo di contribuire a diffondere un testo tanto importante, non solo per i credenti, come è la Bibbia».
Scrupolo e serietà con cui – giurano alla San Paolo – è stato fatto anche il pezzo rap che in apertura presenta il famoso incipit del Libro dell’Esodo “Io sono colui che sono/Questo è il mio nome per sempre/e questo è il mio ricordo…”.
Seguito da uno dei versi più poetici della Bibbia, il Salmo 64: “Hanno bocca e non parlano/hanno occhi e non vedono…”.
Non potevano mancare citazioni notissime e comunemente considerate in sintonia proprio con i ritmi rappeggianti come “Chi mi offende distrugge se stesso/tutti coloro che mi amano, amano la morte!” (Libro dei Proverbi), “O vanità immensa, o vanità immensa/tutto è vanità./ Una generazione va e una generazione viene….(Ecclesiaste).
Per passare dal Prologo del Vangelo di Giovanni “La vita era la luce degli uomini, e le tenebre non la compresero”.
Testi biblici, in passato, ampiamente usati anche da grandi esponenti della musica pop come Bob Dylan, Bruce Springsteen, Bono degli U2, più volte ricordati dal ministro della Cultura del Vaticano, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, nell’incontro di papa Ratzinger con gli artisti del 2009.
in “la Repubblica” del 14 settembre 2010
Bianca come il latte rossa come il sangue
A.
D’AVENIA, Bianca come il latte, rossa come il sangue, Moindadori, Milano 2010, EAN: 9788804595182, pp.254, Euro 19.
Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino.
Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori “una specie non protetta che speri si estingua presto”.
Così, quando arriva un nuovo supplente di Storia e Filosofia, il protagonista si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva.
Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno.
E il sogno di Leo si chiama Beatrice, la ragazza più bella della scuola.
Beatrice è la passione, colei che, con uno sguardo, sa dischiudere le porte del Paradiso.
Quando scoprirà che Beatrice è ammalata di leucemia, il protagonista dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.
Un romanzo coraggioso che, attraverso il monologo di Leo – ora scanzonato e brillante, ora intimo e tormentato – racconta cosa succede quando nella vita di un adolescente fanno irruzione la sofferenza, la paura, la morte, e prova a offrire, con forza e intensità, qualche risposta, non definitiva ma neppure scontata.
Alessandro D’Avenia è un giovane professore alle prese con la pubblicazione del suo primo romanzo.
Si propone una sfida: far interessare noi giovani ad un nuovo stile di lettura differente dalla solita storia d’amore a lieto fine.
Vuole farci scoprire l’importanza di qualcosa di innato in noi, ovvero la speranza e la gioia di poter coltivare, inseguire e portare a termine i nostri sogni.
Ciò però comporta molta fatica proprio come avviene al protagonista Leo, un normale sedicenne ribelle che sfoga tutti i suoi pensieri facendo corse pazze con il motorino in compagnia del suo migliore amico, Nico, ma che prova anche molti sentimenti rivelandoli alla sua amica Silvia e dandole frequentemente appuntamento ad una panchina rossa.
Il colore non è casuale, tutta questa storia infatti si incentra sulla contrapposizione tra il Bianco e il Rosso.
Il primo, colore della noia, della solitudine, della paura, del niente, il secondo invece il colore ideale, perfetto che sta ad indicare i capelli rossi che incorniciano il dolce viso della ragazza di cui Leo è tanto innamorato: Beatrice.
Lei sì che è decisamente rossa, rossa come l’amore che prova per lei, rossa come il suo sangue.
A poco a poco anche lei verrà, però, avvolta dal bianco, che farà diventare tutta la sua vita bianca, come il letto dell’ospedale, come il suo sangue, che con il passare dei giorni prenderà sempre di più le sembianze di quell’ “inutile serpente bianco”.
Il bianco che per molto tempo ha fatto provare quell’orribile sensazione di paura a Leo, ora si è impossessato anche del suo sogno, della sua unica speranza, ma questo lo aiuterà ad andare avanti proprio per dare a Beatrice quella forza in più che a lui manca, ma di cui lei ha certamente bisogno. D’Avenia con questo libro può certamente coinvolgere tutti partendo dai giovani, dai genitori per arrivare anche agli insegnanti che almeno per una volta non sono descritti come degli “inutili sfigati”, ma come persone che possono aiutare i propri alunni ad affrontare le difficoltà come riesce a fare il Sognatore con Leo.
Questo romanzo incuriosirà molto, così come è accaduto a noi che ne siamo state del tutto folgorate, per il semplice fatto che i giovani del ventunesimo secolo si immedesimano molto nella figura di Leo, un ragazzo come tanti, privo di obbiettivi, che grazie all’aiuto del Sognatore è riuscito a capire qual era il suo unico vero sogno.
Così anche noi come Leo dobbiamo avere dei sogni “perché questi sono il sangue della nostra vita anche se spesso costano difficoltà e insuccessi.
Non rinunciare mai ai tuoi sogni! Non avere paura di sognare, anche se gli altri ti ridono dietro, poiché rinunceresti ad essere te stesso”.
Recensione di Emanuela Micalizio e di Marta Cacicia (Centro Scolastico Imera )
XXV Domenica Tempo Ordinario Anno C
Preghiere e Racconti Perché ascoltandole diventino più avveduti Le parole che abbiamo letto sono molto chiare nel loro significato letterale e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli.
Ci dice il Signore stesso perché raccontò questa parabola.
Perché, egli dice, i figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce (Lc 16,8).
Il Signore non loda l’agire iniquo dell’amministratore, ma la sua avvedutezza.
Non lo loda per la frode che ha attuato, ma per l’espediente con il quale ha provveduto al suo futuro.
Non sapendo in che modo vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava a mendicare, trovò uno stratagemma particolare: dopo aver dissipato i beni del padrone, alla fine compì questa frode.
Viene lodato, dunque, non per una qualche buona azione, ma per la scaltrezza e l’astuzia del suo inganno; siccome ormai non poteva più rubare i beni del suo padrone, li sottrasse di nascosto.
E a questa scaltrezza non applaude soltanto il padrone dell’amministratore, ma anche il Signore di tutti, quando dice: I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce.
Quelli sono avveduti nel male più di quanto gli ultimi lo siano nel bene.
A stento, infatti, si trovano alcuni cristiani che siano tanto accorti nell’acquistare i beni eterni, quanto sono scaltri costoro nell’acquistare i beni caduchi di questo mondo.
Per questi essi vegliano giorno e notte, faticano, si angustiano e non smettono mai di accumulare tali ricchezze con inganni, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi.
E chi può dire a quanta scaltrezza e astuzia ricorrano per ingannarsi a vicenda i figli di questo mondo? Ascoltino dunque i figli della luce e arrossiscano di lasciarsi vincere dai figli di questo mondo.
Queste cose sono state scritte perché, ascoltandole, diventino più avveduti, non perché imitando l’agire iniquo dell’amministratore frodino altri o commettano ingiustizie.
Perciò viene aggiunto: E io vi dico: Fatevi degli amici con il mammona d’iniquità (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore iniquo.
Non frodando l’altrui, ma dando del vostro.
Tutte le ricchezze che sono conservate con avarizia, infatti, nuocciono ai propri padroni […] Il Signore continua dicendo: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco è ingiusto anche nel molto (Lc 16,10).
Questo vale in particolare per gli apostoli e per gli altri ministri della chiesa, per i presbiteri.
Con questo principio evangelico si dice quello che il Signore aveva detto ai suoi discepoli.
Non si devono dunque affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli e non si sono serviti di quel poco che avevano per opere di amore e di misericordia.
Ma quanto a coloro che vediamo, con il poco che possiedono, provvedere volenterosamente ad altri non dobbiamo dubitare della loro fedeltà nell’amministrare.
Per questo motivo l’Apostolo ammonisce i vescovi a non essere avidi di denaro né a ricercare un guadagno disonesto (cfr.
Tt,7).
(BRUNO DI SEGNI, Su Luca 2,7, PL 165,420C-421C.422A).
La ricchezza Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26).
La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli».
Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» (16,1 -13).
In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo.
Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.
La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona».
Eppure questo non significa un masochismo pauperista.
Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola.
La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).
(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).
Quello che non abbiamo cercato “Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato.
Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui.
La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato.
A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.
(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).
La porta del cielo Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo.
Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.
Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…
Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.
Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.
Chiesi a Dio Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi: Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà.
Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese: Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.
Gli domandai la ricchezza per possedere tutto: Mi ha fatto povero per non essere egoista.
Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me: Egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro.
Domandai a Dio tutto per godere la vita: Mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà.
Le preghiere che non feci furono esaudite.
Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini nessuno possiede quello che ho io!” (Kirk Kilgour famoso pallavolista rimasto paralizzato nel ’76 a seguito di un incidente durante un allenamento.
La preghiera è stata letta da lui in persona di fronte al Papa durante il Giubileo dei malati a Roma) Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro? Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi.
Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro.
È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria.
Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.
Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria.
Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza.
Vogliono averne sempre di più.
Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia.
In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro.
Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso.
Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri.
Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri.
Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità.
Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri.
O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano.
Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.
Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro.
Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo.
Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli.
Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente.
Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità.
E sono necessari criteri etici.
Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici.
Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia.
Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità.
È necessaria soprattutto la libertà interiore.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).
«Una cosa ti manca» In che consiste la tristezza dell’uomo ricco? Nel suo fallire il proprio desiderio, nel lasciarsi vincere dalla paura che lo porta a preferire la sicurezza dei beni all’incertezza della relazione con Gesù, nel chiudersi all’amore, nel precludersi un futuro regredendo nel già noto del suo passato, nel cogliersi in maniera unidimensionale come «uno che ha molto», nel temere la sofferenza della vita interiore e del lavoro di ordinamento della propria umanità a cui Gesù lo invita (Mc 10,18-19).
Quest’uomo è posseduto da ciò che possiede e sembra dar ragione in anticipo a Marx quando scrive: «Più si ha e più è alienata la propria vita».
Proprio in questa condizione di «troppo pieno», di fiducia posta in beni esteriori che arrivano a schiavizzare mentre ci si crede liberi, risiede l’ostacolo che le ricchezze pongono alla salvezza.
Entrare nella relazione con Gesù e dunque nello spazio della salvezza implica il doloroso riconoscimento di un vuoto, di una carenza, di una ferita attraverso cui può farsi strada l’azione salvifica del Signore.
Non a caso l’uomo ricco è rinviato da Gesù a riconoscere la propria povertà interiore e profonda («Una cosa ti manca») e proprio lì egli fallisce: il possesso delle ricchezze dà sicurezza e consente di rimuovere il doloroso lavoro di riconoscere la propria mancanza.
In realtà, dice Gesù, non solo le ricchezze sono un ostacolo, ma la salvezza in quanto tale non è impresa possibile alle sole forze dell’uomo: ogni autosufficienza, di qualunque tipo, ostacola il Regno di Dio.
Ma, certamente, il possibile di Dio può incontrare l’impossibile degli uomini (Mc 10,27).
Quanto ai discepoli, che hanno abbandonato tutto ciò che possedevano per seguire Gesù, a loro è rivolta la promessa di Gesù del centuple quaggiù, insieme a persecuzioni, e la vita eterna.
C’è una benedizione insita nell’abbandonarsi al Signore, ma della promessa del Signore fanno parte anche le persecuzioni, dunque le contraddizioni, le difficoltà.
Se il discepolo sa che esse sono parte integrante della promessa del Signore, allora esse potranno non scoraggiarlo o indurlo ad abbandonare.
I privilegi come debiti La miseria impedisce di essere uomini.
La povertà come la concepisce il Vangelo non è per tutti quella di S.
Francesco d’Assisi, che abbandonò tutto.
Un direttore di azienda può essere povero secondo il Vangelo se ha coscienza che tutti i privilegi sono un debito.
Non è obbligato a proporsi l’ideale di lasciare tutto, ma di fare il suo mestiere, di operare affinché ci sia lavoro e salario giusto per tutti.
Se vive con questo pensiero, egli è povero secondo il Vangelo.
(Abbè Pierre) Preghiera Signore, quando credo che il mio cuore sia straripante d’amore e mi accorgo, in un momento di onestà, di amare me stesso nella persona amata, liberami da me stesso.
Signore, quando credo di aver dato tutto quello che ho da dare e mi accorgo, in un momento di onestà, che sono io a ricevere, liberami da me stesso.
Signore, quando mi sono convinto di essere povero e mi accorgo, in un momento di onestà, di essere ricco di orgoglio e di invidia, liberami da me stesso.
E, Signore, quando il regno dei cieli si confonde falsamente con i regni di questo mondo, fa’ che io trovi felicità e conforto solo in Te.
(Madre Teresa di Calcutta) * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno c Prima lettura: Amos 8,4-7 Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”».
Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».
v Anche questo oracolo di Amos contro i mercanti disonesti, come il precedente insegnamento di Gesù, colpisce un sistema di ingiustizie ancor più dei singoli casi denunciati.
Destinatari sono coloro che calpestano, fino a soffocarli, i poveri, gli umili della terra.
Calpestatori sono i ricchi commercianti, rapaci e prepotenti.
Calpestati sono coloro che Dio ha più a cuore, come l’orfano, la vedova, l’oppresso (cf.
Is 1,17).
Sono gli umili della terra che Sofonia dirà i più fedeli e osservanti delle disposizioni di Dio e ai quali, per la salvezza di tutto il popolo, domanderà di continuare a cercare JHWH, di cercare la vera giustizia nella fedeltà all’alleanza e di accettare pure la miseria per umile sottomissione a lui (Sof 2,3).
Sono coloro che a sostegno della loro vita pongono la fiducia nel Signore (Sof 3,12), i poveri di JHWH, il vero popolo di JHWH.
Amos delinea la mentalità e i comportamenti dei mercanti rapaci con un monologo messo loro in bocca, che traduce i loro intimi sentimenti.
Alla radice essi sono insofferenti della religione, se non proprio miscredenti.
Le loro prime espressioni suonano come se dicessero: le celebrazioni religiose ci rovinano gli affari! Il sabato e gli inizi del mese ci bloccano i commerci! Così si manifestano avidi di guadagni assai più che disponibili a Dio e al prossimo.
Di conseguenza sono volutamente imbroglioni, programmando la alterazione di monete e pesi e lo smercio degli scarti, e sono strozzini dei miseri e dei poveri.
È per questi comportamenti, sviluppatisi nelle classi dominanti del periodo monarchico, che i profeti denunciano la ricchezza come pregiudiziale di ingiustizia e anzi di empietà (cf.
Is 53,9), mentre nella condivisione comunitaria del tempo dei Patriarchi e dei Giudici era salutata solo come una benedizione.
Ma Dio non resta indifferente ai soprusi.
Nell’ultimo versetto del brano, Amos ammonisce che JHWH si impegna con giuramento a non dimenticare le opere dei disonesti sfruttatori, cioè a punirle a suo tempo.
Lo giura per il vanto di Giacobbe.
La espressione non è chiara: può intendersi per l’orgoglio dei corrotti in Giacobbe oppure per l’onore con il quale Dio ha impegnato se stesso con il suo popolo (cf.
Am 6,8 e 1Sam 15,29).
In ogni caso si tratta della vendetta che JHWH farà per riportare la sua giustizia in mezzo al suo popolo.
Amos infatti prosegue annunciando prossimo il terribile giorno del Signore (Am 8,8-14), che sarà tenebre e non luce (Am 5,18).
E colloca il tutto fra le ultime due visioni: quella del canestro di frutta ormai matura che sta per essere staccata dall’albero (Am 8,1-3) e quella dell’abbattimento del santuario sopra i frequentatori indegni, a loro rovina (Am 9,1-4).
Seconda lettura: 1Timoteo 2,1-8 Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio.
Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità.
Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
v A Timoteo, nel primo capitolo di questa lettera, Paolo ricorda la particolare vigilanza verso le deviazioni nella fede, che ha motivato l’incarico affidategli di rimanere a Efeso (cf.
1Tm 1,3).
Nel secondo capitolo passa alla parte costruttiva e gli raccomanda prima di tutto e a base di tutto la preghiera.
È quanto riportato in questo brano liturgico, che si apre e si chiude con tale raccomandazione.
Paolo si riferisce alla preghiera pubblica liturgica, della quale Timoteo è guida, e anche a quella privata dei fedeli, dovunque si trovino (cf.
v.
S).
E dice come va fatta. Dev’essere universale anzitutto (v.
1), cioè esprimersi in tutte le forme sue proprie (domanda, suppliche, ringraziamenti) e a favore di tutti gli uomini.
Ma in modo particolare deve riguardare i re e i governanti (v.
2), perché siano in grado di garantire il bene comune e uno sviluppo della vita sociale nella pace e nella dignità di tutti.
Per questo, sia la preghiera sia le cose che essa domanda si ricollegano ai disegni di Dio (vv.
3-4), alla sua volontà che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità.
Per questo ancora la preghiera va stabilita sulla mediazione dell’uomo-Dio Cristo Gesù (vv.
5-6) e più precisamente sul suo mistero di morte e resurrezione per il riscatto di tutti.
Infine Paolo richiama a incoraggiamento la propria partecipazione al mistero di Cristo (v.
7), tutta opera della grazia che lo ha trasformato da bestemmiatore e persecutore violento ad apostolo e maestro dei pagani (cf.
1Tm 1,12-14).
Tema del brano è dunque la preghiera.
Ma le dimensioni che Paolo le assegna la pongono alla radice dello sviluppo del nuovo popolo di Dio, quindi anche della giustizia dei poveri di JHWH (prima lettura) e della scaltrezza e affidabilità con le quali i figli della luce hanno da superare i figli di questo mondo (Vangelo).
Vangelo: Luca 16,1-13 In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.
Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno.
So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”.
Quello rispose: “Cento barili d’olio”.
Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”.
Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”.
Rispose: “Cento misure di grano”.
Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza.
I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti.
Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.
Non potete servire Dio e la ricchezza».
Esegesi Abbiamo qui uno degli insegnamenti di Gesù, che Luca riunisce nei lunghi capitoli dedicati al ministero itinerante dalla Galilea alla Giudea (Lc 9,51-19,27), da lui presentato, più che come un viaggio geografico, come un itinerario formativo dei discepoli, dopo che lo hanno riconosciuto come il Cristo, perché sappiamo seguirlo fino alla croce.
L’insegnamento riguarda il buon uso delle ricchezze materiali e si sviluppa in due momenti: prima un racconto-parabola (vv.
1-8) e poi una serie di massime (vv.
9-73).
La parabola (vv.
1-8) fa il caso di un amministratore incapace che, denunciato, non cerca scusanti e, costretto a pensare al futuro e ad altre situazioni della vita, si dà subito da fare per non restare travolto.
Per questo, si converte un poco anche all’amore del prossimo, ma perché gli conviene non per altruismo: un amore egoistico dunque.
E lo mette in atto con mezzi illeciti, condonando debiti ingenti a persone forse inguaiate per essi, e diventando pure imbroglione del suo padrone dopo che sperperatore.
Il padrone passa sopra alla disonestà del suo dipendente e ne loda invece la scaltrezza.
Ed è appunto la scaltrezza o avvedutezza l’insegnamento che Ges
Decimo Congresso nazionale di archeologia cristiana
Solitudine e comunione, si può sostenere, non si escludono a vicenda.
Sono interdipendenti e complementari.
È questa una verità che Cicerone evidenzia quando parla di se stesso come di persona «mai meno sola di quando è sola».
Una persona, in altri termini, può essere sola nel senso che non è nell’immediata compagnia di altri, e tuttavia, se vive un’intensa e creativa vita spirituale, nelle proprie profondità scopre un indissolubile vincolo di comunione con gli altri.
Ritiro non significa necessariamente isolamento, solitudine non implica lontananza e disinteresse.
Quanti sono compartecipi della nostra umanità possono essere fisicamente assenti, ma sono spiritualmente presenti.
La comunione può esistere a molti diversi livelli.
Dal suo deserto cristiano, Evagrio Pontico afferma la stessa cosa quando dice che il monachòs, con cui forse intende non solo il monaco ma proprio il solitario, è «separato da tutti e unito a tutti».
Questo descrive esattamente la situazione dell’anacoreta, uomo o donna che sia: «separato da tutti» esternamente, in termini spaziali o topografici, ma interiormente e spiritualmente «unito a tutti» attraverso la preghiera.
Come dice abba Lukios nei Detti dei padri del deserto, «se non impari prima a vivere con gli altri, non sarai capace di vivere in solitudine come dovresti».
Il futuro eremita deve prima essere provato e saggiato dall’esperienza della vita nel cenobio.
Come dovrebbe un solitario organizzare il suo tempo ogni giorno? Anche qui c’è varietà, ed è giusto che sia così.
Come afferma William Blake, «una sola legge per il leone e per il bue significa oppressione ».
San Cristodulos prevede che i suoi eremiti vivano di vegetali crudi e che mangino una volta al giorno di pomeriggio.
Una descrizione un po’ più completa del programma quotidiano dell’eremita e della sua dieta ci è fornita da un testimone del XIV secolo, san Gregorio Sinaita.
E gli divide il giorno in 4 periodi di tre ore ciascuno.
Partendo dall’aurora, il solitario esicasta impiega la prima ora del giorno in ciò che Gregorio chiama «ricordo di Dio attraverso la preghiera e la vigilanza del cuore », cioè in primo luogo la recitazione della preghiera di Gesù.
La seconda ora è dedicata alla lettura e la terza alla psalmodia, la recitazione del salterio.
Gregorio probabilmente prevede che il solitario conosca il salterio a memoria.
Il secondo e il terzo di questi periodi di tre ore sono consacrati alle stesse tre attività, nello stesso ordine.
Poi, alla decima ora del giorno il solitario prepara e consuma il suo pasto.
All’undicesima ora, se vuole, può prendersi un breve riposo.
Alla dodicesima ora recita vespro.
Per la notte Gregorio propone tre programmi alternativi.
Gli «incipienti» devono passare metà della notte svegli e l’altra metà dormendo, con mezzanotte come punto di divisione; non importa quale metà della notte è usata come veglia.
Quelli «a metà del cammino» (mesoi) devono passare le prime due ore della notte svegli, le successive 4 dormendo e le 6 restanti svegli.
Il «perfetto», aggiunge Gregorio con asciutto tocco di umorismo, non ha bisogno di dormire, per cui può passare tutta la notte stando in piedi e rimanendo sveglio.
Nelle ore di veglia della notte il solitario recita il mattutino (orthros) e probabilmente prima di esso il mesonykton, o ufficio di mezzanotte; poi, all’aurora, l’ora prima.
Il resto della veglia notturna si può passare ancora nella recitazione del salterio, nella lettura, e soprattutto nella pratica della preghiera di Gesù.
È significativo che il solitario non è esentato dalla recitazione dell’ufficio divino.
Ma cosa succede se non sa leggere? Gregorio non lo dice; probabilmente in questo caso si prevede che egli dica la preghiera di Gesù, e di fatto esistono regole precise, che specificano quante centinaia di preghiere di Gesù devono sostituire le diverse parti dell’ufficio divino.
Come nei regolamenti per Patmos, Gregorio prevede che il solitario mangi solo una volta al giorno, dopo l’ora nona e prima del vespro.
Egli non fa menzione di alcun pasto leggero prima di questo.
Probabilmente durante la quaresima il solitario, seguendo le normali regole ortodosse, non mangiava fino a dopo vespro.
Nella prima settimana di quaresima e nella settimana santa osservava indubbiamente un digiuno più rigoroso, come fanno molti monaci nei cenobi.
Gregorio permette al solitario di mangiare una libbra di pane al giorno, di bere due coppe di vino e tre di acqua.
Altrimenti il suo cibo deve consistere in «qualunque cosa sia a portata di mano, non qualunque cosa il tuo impulso naturale ricerca, ma ciò che la provvidenza provvede, da essere mangiato senza troppa spesa».
Questo probabilmente comprendeva verdure fresche, quando ce n’erano; perché molti eremiti, e tale è il caso al Monte Athos oggi, hanno un piccolo orto.
Ma come possiamo rispondere a san Basilio quando chiede: «Di chi laverai i piedi… se vivi in solitudine?».
Che servizio rende il solitario al mondo che lo attornia? Non è egoista e antisociale ritirarsi in reclusione, volgendo le spalle, così sembra, alle angosce e alle sofferenze degli altri uomini? Si tratta di una critica alla vita solitaria che è stata fatta spesso, già nel passato e più diffusamente nel nostro tempo.
Cosa rispondiamo? È ovviamente possibile replicare con le parole di Cristo: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto» (Mt 6,6).
Cristo stesso si ritirava regolarmente «in un luogo deserto» per pregare (Mc 1,35; Lc 4,42).
Ma certamente, quando Cristo dice «chiudi la porta» parla di qualcosa che dobbiamo fare ogni tanto, in modo temporaneo, prima di tornare nuovamente ai doveri e alle richieste della nostra vita quotidiana in società.
Non suggerisce di tenere la porta costantemente chiusa.
Afferma semplicemente che nella vita di ogni persona attiva nel lavoro sociale occorre una dimensione di solitudine.
Cosa diremo dunque di coloro per i quali la solitudine è una condizione permanente? Fra tutte le possibili risposte alla domanda di san Basilio, la migliore a mia conoscenza è quella fornita da san Serafino: «Acquisisci la pace interiore – egli dice – e migliaia attorno a te troveranno la salvezza».
Il solitario è in grado supremo uno che cerca con la grazia di Dio di acquisire la pace interiore; ed è precisamente in questo modo che assiste agli altri.
Se in ogni generazione ci sono non più di un pugno di persone, uomini e donne, che nella reclusione hanno acquisito la pace del cuore, essi hanno sull’intera comunità umana che li circonda un effetto creativo che supera ogni calcolo (anche se naturalmente l’acquisizione della pace interiore è possibile anche a quelli che vivono in mezzo alla società).
Ora i solitari che hanno acquisito la pace interiore possono certamente aiutare gli altri uomini direttamente agendo da padri e madri spirituali, dando consigli a quanti vanno da loro di persona cercando assistenza.
Una guida di questo tipo fu l’eremita egiziano sant’Antonio, che nella seconda metà della sua vita divenne, con le parole del suo biografo sant’Atanasio di Alessandria, «un medico dato all’Egitto da Dio».
Ma le parole di san Serafino hanno un campo d’applicazione più ampio.
Attraverso la loro preghiera nascosta i solitari aiutano anche moltissimi altri ai quali la loro esistenza è totalmente sconosciuta.
Diventando fiamme ardenti di preghiera i solitari trasformano il mondo circostante solo con la loro esistenza, con il semplice fatto della loro segreta presenza.
È questo il fondamentale contributo fornito da chi è «separato da tutti e unito a tutti».
*metropolita ortodosso, Diokleia in “Avvenire” dell’8 settembre 2010
XXIV Domenica Tempo Ordinario Anno C
Preghiere e Racconti Tornare a casa e stare dove Dio dimora (tratto dal libro di Henri J.M.
NOUWEN, L’abbraccio benedicente.
Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Brescia, Queriniana 21994, pp.
212.
Commento spirituale al dipinto di Rembrandt, +1669, attualmente nel museo di San Pietroburgo).
Il figlio più giovane parte Andarsene da casa è molto più di un evento storico legato al tempo e al luogo.
E’ la negazione della realtà che appartengo a Dio in ogni parte del mio essere, che Dio mi tiene al sicuro in un abbraccio eterno, che sono veramente scolpito nelle palme delle mani di Dio e nascosto alla loro ombra.
Quando dimentico la voce del primo amore incondizionato, altri suggerimenti possono facilmente cominciare a dominare la mia vita e trascinarmi nel “paese lontano”: rabbia, risentimento, gelosia, desiderio di vendetta, sensualità, avidità, antagonismi e rivalità [«ti amo se sei bello, intelligente e ricco.
Ti amo se sei istruito, hai un buon lavoro e le giuste conoscenze.
Ti amo se produci molto, vendi molto e compri molto»] sono i segni evidenti che me ne sono andato da casa.
Il padre non poteva costringere il figlio a rimanere a casa.
Non poteva imporre con la forza il uso amore al prediletto.
Doveva lasciarlo andare in libertà, anche se sapeva il dolore che ciò avrebbe causato sia al figlio che a se stesso.
E’ stato l’amore a impedirgli di trattenere il figlio a casa a tutti i costi.
E’ stato l’amore a consentirgli di lasciare che il figlio vivesse la sua vita, anche a rischio di perderlo.
Sono amato a tal punto che Dio mi lascia libero di andarmene da casa.
La benedizione c’ è fin dall’inizio.
L’ho lasciata e persisto a lasciarla.
Ma il Padre continua a cercarmi sempre con le braccia tese per accogliermi di nuovo e sussurrarmi ancora all’orecchio: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» Il ritorno del figlio più giovane Il giovane abbracciato e benedetto dal padre è un uomo povero, molto povero.
L’unico segno di dignità che gli rimane è la piccola spada che gli pende dal fianco, l’emblema della sua nobiltà.
Pur in mezzo alla degradazione, non ha perso del tutto la consapevolezza di essere ancora il figlio di suo padre.
Vedo davanti a me un uomo che se n’è andato lontano in un paese straniero e ha perso tutto ciò che aveva con sé.
Vedo vuoto, umiliazione e sconfitta.
Lui che era tanto simile al padre, ora sembra peggiore dei servi di suo padre.
E’ diventato come uno schiavo.
Il figlio più giovane si rese pienamente conto della sua totale rovina quando più nessuno nel suo ambiente mostrò il benché minimo interesse nei suoi confronti.
Lo avevano tenuto in considerazione soltanto finché era stato utile ai loro interessi.
Ma quando non ebbe più denaro da spendere e doni da fare, per loro cessò di esistere.
E’ difficile immaginare cosa significhi essere un individuo del tutto estraneo, una persona cui nessuno mostra un qualche segno di riconoscimento.
La vera solitudine arriva quando non si riesce più a sentire di avere delle cose in comune.
Ogni volta che incontro una persona nuova, in lei cerco sempre qualcosa che si possa avere in comune.
Meno abbiamo in comune, più difficile è stare insieme e più ci sentiamo alienati.
Il figlio più giovane si era talmente sradicato da ciò che dà vita, -famiglia, amici, comunità, conoscenti, e persino vitto-, che si rese conto che la morte sarebbe stata il fatale prossimo passo.
In quel momento critico, quale molla lo fece optare per la vita? Fu la riscoperta della parte più profonda di se stesso: rimanere sempre il figlio del proprio padre.
E’ stata la perdita di ogni cosa a portarlo alla radice della sua identità.
Quando si è trovato a desiderare di essere trattato come uno dei porci, si è reso conto di non essere un porco, ma un essere umano, un figlio di suo padre.
Dio dice: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui…”.
Vogliamo accettare il rifiuto del mondo che ci imprigiona oppure rivendicare la libertà dei figli di Dio? A noi scegliere.
Quando Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, vide che quanto aveva fatto «era cosa molto buona», e, nonostante le voci oscure, né uomo né donna potranno mai cambiare quell’evento.
Nella strada di ritorno non preparare sceneggiature [«mi leverò e andrò da mio padre…»] devo semplicemente credere che anche se i miei fallimenti sono grandi «la grazia è ancora più grande».
Una delle più grandi provocazioni della vita è ricevere il perdono di Dio.
C’ è qualcosa in noi, essere umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo.
Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte.
Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò da garzone.
Ma voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Il figlio maggiore parte Non si è perduto soltanto il figlio più giovane, che se n’ è andato da casa per cercare libertà e felicità in un paese lontano, ma anche quello che è rimasto.
Esteriormente faceva tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si era allontanato da suo padre.
Faceva il proprio dovere, lavorava sodo ogni giorno e adempiva tutti i suoi obblighi, ma era diventato sempre più infelice e meno libero.
[Sono nato, battezzato, cresimato nella Chiesa e sono stato obbediente ai miei genitori, insegnanti e al mio Dio.
Non sono mai scappato di casa, non ho mai sprecato il mio tempo e il mio denaro nella ricerca del piacere e non mi sono mai perduto in «dissipazioni e ubriachezze».
Per tutta la vita sono stato piuttosto responsabile, tradizionalista e legato alla famiglia.
Ma, con tutto ciò, posso in realtà essermi perduto proprio come il figlio più giovane.
Ho visto la mia gelosia, la mia rabbia, la mia permalosità, la mia caparbietà, il mio astio e soprattutto la sottile convinzione di essere sempre nel giusto.
Ero certo il figlio maggiore, ma perduto come il fratello minore, anche se ero rimasto a casa tutta la vita.
Avevo lavorato moltissimo nell’azienda agricola di mio padre, ma non avevo mai gustato pienamente la gioia di essere a casa].
Nel lamento del figlio maggiore [«ecco, ti ho servito da tanti anni…»] l’obbedienza e il dovere sono diventati un peso e il servizio è una schiavitù.
Il figlio giovane ha peccato in un modo che possiamo facilmente identificare.
Abbiamo un tipico fallimento umano, piuttosto facile da comprendere e compatire.
Lo smarrimento del figlio maggiore è molto più difficile da identificare.
Dopo tutto, faceva le cose perbene.
All’esterno era irreprensibile.
Ma, di fronte alla gioia del padre al ritorno del fratello più giovane, una forza oscura erompe in lui e ribolle in superficie.
Improvvisamente emerge una persona rimasta nascosta nel subconscio, anche se si era fatta sempre più forte e operante nel corso degli anni.
Dall’esperienza della mia vita, so con quanto zelo ho cercato di essere buono, ben accetto, amabile e di buon esempio agli altri.
Mi sono sforzato, in modo cosciente, di evitare le insidie del peccato e ho sempre avuto paura di cedere alla tentazione.
Ma nonostante questo, sono subentrati una severità e un fervore moralistici, -e perfino un tocco di fanatismo- che mi hanno reso sempre più difficile sentirmi a casa nella casa di mio Padre.
Sono diventato meno libero, meno spontaneo, meno allegro, e gli altri hanno finito per vedermi sempre più come una persona piuttosto “pesante”.
E’ il lamento che grida: «Ho faticato tanto, ho lavorato a lungo, mi sono dato sempre da fare e ancora non ho ricevuto quello che altri ottengono tanto facilmente.
Perché la gente non mi ringrazia, non mi invita, non si diverte con me, non mi rende omaggio, mentre presta tanta attenzione a coloro che prendono la vita con disinvoltura e noncuranza?».
E’ difficile vivere accanto a qualcuno che si lamenta e pochissime persone sanno come rispondere a chi rifiuta se stesso.
La tragedia è che spesso le lamentale, una volta espresse, conducono a ciò che più si teme, e cioè a un ulteriore rifiuto.
Ogni volta che ci lamentiamo per non saper accettare noi stessi, perdiamo la spontaneità al punto che non riusciamo più a lasciarci coinvolgere dalla gioia che è intorno a noi.
Gioia e risentimento non possono coesistere.
Il ritorno del figlio maggiore Anche il figlio maggiore ha bisogno di essere ritrovato e ricondotto alla casa della gioia.
Che io sia il figlio minore o il figlio maggiore, l’unico desiderio di Dio è di portarmi a casa.
Arthur Freeman scrive: «Il padre ama ogni figlio e dà ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente.
Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi.
Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una “casa”.
Come si concluderà la storia dipende da loro.
Il fatto che la parabola non abbia finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto.
L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere.
Come dice Shakespeare in uno dei suoi scritti: “L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti”».
Il padre La risposta libera e spontanea del padre al ritorno del figlio più giovane non implica alcun confronto con il figlio maggiore.
Al contrario, desidera ardentemente farlo partecipare della sua gioia.
Il nostro Dio non fa paragoni.
Il cuore del padre va incontro ai due figli; li ama entrambi; spera di vederli insieme come fratelli intorno alla stessa tavola; vuole che sentano che, per quanto diversi, appartengono alla stessa casa e sono figli dello stesso padre.
Il padre quasi cieco vede un intero orizzonte.
La sua è una vista che comprende lo smarrimento de donne e uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che capisce con compassione immensa la sofferenza di coloro che hanno scelto di andarsene da casa, che ha pianto un mare di lacrime quando si sono trovati nell’angoscia e nel dolore.
Il cuore del padre arde del desiderio di riportare i figli a casa.
Come avrebbe voluto parlare loro, metterli in guardia contro i tanti pericoli che avrebbero affrontato e convincerli che a casa si può trovare tutto quello che cercano altrove! Quanto avrebbe voluto trattenerli con la sua autorità paterna e tenerli vicino a sé perché non si facessero del male! Ma il suo amore è troppo grande per comportarsi così.
Non può forzare, costringere, spingere o trattenere.
L’immensità del amore costituisce anche la sua sofferenza.
Tanto profondo è il dolore perché tanto puro è il cuore.
Dal profondo luogo interiore dove l’amore abbraccia tutto il dolore umano, il Padre raggiunge i suoi figli.
Dio ci ama prima che qualunque essere umano possa mostrarci amore.
Non sarebbe bello aumentare la gioia di Dio lasciandomi trovare e portare a casa da lui e celebrare insieme il mio ritorno? Non sarebbe meraviglioso far sorridere Dio dandogli la possibilità di trovarmi e amarmi prodigalmente? So accettare che sono degno di essere cercato? Credo che Dio desideri davvero stare soltanto con me? Il padre esige che si faccia festa Mentre il figlio si è preparato ad essere trattato come un garzone, il padre esige che gli venga dato il vestito riservato agli ospiti di riguardo.
Il padre veste il figlio con i simboli della libertà, la libertà dei figli di Dio.
Dio vuole fare festa con noi.
Questo invito al banchetto è un invito all’intimità con Dio.
Dio si rallegra.
Non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché tutto il dolore e la sofferenza umani sono giunti alla fine, e nemmeno perché migliaia di persone si sono convertite e ora lo stanno lodando per la sua bontà.
No, Dio di rallegra perché uno dei suoi figli che era perduto è stato ritrovato.
Ciò a cui sono chiamato è partecipare a quella gioia.
E’ la gioia di vedere un figlio che cammina verso casa.
Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro Padre, dice il figlio minore.
Quale misericordia, quale tenerezza in colui che, pur essendo stato offeso, non rifiuta di sentirsi dare il nome di padre! Dice il figlio: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te (Lc 15,18) […] Così diceva dentro di sé il figlio.
Ma non basta parlare se non vieni al Padre.
Dove cercarlo, dove trovarlo? Innanzitutto alzati! Lo dico per chi stava seduto e dormiva.
Per questo l’Apostolo dice: Alzati, o tu che dormi, e levati di tra i morti (Ef 5,14) […] Alzati, vieni di corsa in chiesa: qui c’è il Padre, qui c’è il Figlio, qui c’è lo Spirito santo.
Ti corre incontro colui che ti sente conversare nel segreto del tuo cuore.
Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro.
Vede nel tuo cuore, corre perché nessuno ti trattenga e per di più ti abbraccia.
Nel suo correre incontro vi è la sua prescienza, nell’abbraccio la misericordia e, vorrei dire, vi sono i sentimenti del suo amore paterno.
Si getta al collo di chi è caduto per rialzarlo e perché si volga al cielo a cercare il suo Creatore colui che è oppresso dai peccati e chino verso le cose terrene.
Cristo ti si getta al collo per toglierti dalla nuca il giogo della schiavitù e porre sul tuo collo il giogo soave (cfr.
Mt 11,30).
Non vi sembra che si sia gettato al collo di Giovanni, quando questi riposava sul petto di Gesù, con la testa rivolta all’indietro? E così il Verbo che era presso Dio vide (cfr.
Gv 1,1), poiché era rivolto alle altezze.
Il Signore vi si getta al collo quando dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e io vi darò riposo; prendete su di voi il mio giogo che è leggero» (cfr.
Mt 11,28-30).
(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 224.229-230, SC 52, pp.
93-95).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno c Prima lettura: Esodo 32,7-11.13-14 In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito.
Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».
Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce.
Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori.
Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”».
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
v Questa lettura viene oggi utilizzata per introdurre il tema più ampiamente sviluppato nella lettura evangelica: quello della misericordia di Dio, che rinunzia a punire il popolo, responsabile di un gravissimo peccato, grazie all’intercessione di Mosé.
Il racconto del vitello d’oro, che gli Israeliti avrebbero costruito per raffigurare il Dio che li aveva tirati fuori dall’Egitto, appartiene a una sezione del libro dell’Esodo (quella dei cc.
32-34) in cui si intrecciano in maniera inestricabile le tradizioni più antiche del Pentateuco.
In particolare, il racconto del vitello d’oro della nostra lettura pare che derivi direttamente dal testo di 1 Re 12,26-28, dove si racconta come Geroboamo, che si era ribellato al figlio di Salomone, di ritorno dall’Egitto, per spezzare ogni vincolo tra le tribù ribelli settentrionali e Gerusalemme, fece fare due torelli d’oro e disse: «Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (v.
28).
Questa dipendenza può spiegare pienamente l’identità della stessa frase nella nostra lettura (v.
4).
La colpa qui attribuita agli Israeliti è quella di essere scivolati verso l’assimilazione con i popoli pagani loro contemporanei: con i Cananei, che rappresentavano Bahal-Hadad, dio della tempesta, a cavalcioni su un toro, con una folgore in mano; con gli Egiziani, che a Heliopolis rappresentavano Osiride incarnato nel toro-Apis e a Menfi adoravano il toro-Mnevis nel tempio di Ptah.
Per la nostra liturgia, sono particolarmente importanti i vv.
13-14, nei quali Mosé, nella figura dell’intercessore, espone la ragione principale che può indurre Dio a perdonare quella colpa: la promessa da lui fatta, con giuramento, ai suoi servi Abramo, Isacco e Giacobbe (Israele).
Seconda lettura: 1Timoteo 1,12-17 Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento.
Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io.
Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli.
Amen.
v Nel tempo ordinario, la seconda lettura è indipendente dalle altre due, che sono invece tra loro coordinate.
Non accade spesso dunque che il tema di quella si armonizzi perfettamente, con quello delle altre due.
Ciò capita per l’appunto questa domenica.
L’autore della prima a Timoteo (che quasi certamente non è lo stesso s.
Paolo) traccia, nel brano che fa da nostra seconda lettura, il modello ideale di un pubblico rendimento di grazie alla divina misericordia, che vuole salvi tutti i peccatori.
Il motivo del ringraziamento, che faceva parte del protocollo epistolare antico, è qui sviluppato mediante il procedimento dell’antitesi tra il prima e il dopo dell’incontro di Paolo con Cristo.
Almeno in tre passi delle lettere autentiche di Paolo è tracciato un analogo passaggio tra il prima e il dopo: In Gal 1,13-17; in 1 Cor 15,8-10; in Fil 3,6-14.
Ma in nessuno di questi testi il passato di Paolo è descritto come privo di fede e peccaminoso (un bestemmiatore…); che anzi sempre si insiste sul suo zelo per Dio e la sua legge.
È invece negli atti degli Apostoli (9,1-16; 22,1-15; 26,9-18) che il prima di Paolo è qualificato negativamente, come quello di un bestemmiatore e del persecutore spietato, che repentinamente, dopo, diventa strumento scelto per il Vangelo di Gesù.
Il ritratto di Paolo qui delineato è dunque più vicino a quello che di lui è tracciato nel libro degli Atti, anziché al suo stesso autoritratto.
Anche l’espressione «agivo per ignoranza, lontano dalla fede» riporta Paolo alla condizione dei pagani che, secondo Atti 17,30, appartenevano «ai tempi dell’ignoranza».
La descrizione a tinte fosche serve all’autore della prima a Timoteo per mettere in risalto la misericordia di Dio, manifestatasi mediante la grazia di Gesù Signore nostro.
Serve soprattutto per giungere all’enunciazione di una specie di professione di fede, ritenuta «degna di fede e di essere accolta da tutti», cioè che «Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori».
Questa succinta professione di fede sintetizza bene il principale messaggio contenuto nella liturgia di questa domenica.
Vangelo: Luca 15,1-32 In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”.
Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.
Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”.
Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci.