La vocazione di San Matteo del Caravaggio

Nella poetica di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, la ricerca degli effetti di luce e di ombre, ben più che virtuosismo pittorico, è mezzo per far passare messaggi simbolici.
Nella “Vocazione di san Matteo” della cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma il pittore traduce in immagini un tema dell’evangelista Giovanni: Cristo, il Verbo incarnato, luce del mondo, si espone all’accettazione o al rifiuto degli uomini, l’accettazione di chi nella fede gli si consegna, il rifiuto di chi preferisce le tenebre alla luce.
Dice il prologo del quarto Vangelo: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (1, 9-12).
Nel quadro, la contrapposizione risulta dall’atteggiamento dei personaggi ritratti sotto il raggio che taglia di netto l’oscurità dell’ambiente.
L’oscura bottega del pubblicano Matteo è il luogo consacrato al culto del “Mammona di iniquità”.
Questo nome, evocativo del dio della ricchezza nel pantheon degli antichi fenici, designa nel Vangelo l’idolatria del denaro.
Gesù ne fa uso quando ammonisce: “Non potete servire due padroni, Dio e Mammona” (Matteo 6, 24).
Il bancone funge da altare di un culto che raccoglie una piccola assemblea di “devoti” impegnati nel conteggio delle monete.
Al centro è Matteo che sembra officiare la peculiare liturgia di cui si è fatto ministro.
L’irruzione di Gesù accompagnato da Pietro provoca reazioni diverse.
Le due figure a sinistra sono talmente assorbite nelle operazioni di conteggio da non fare il minimo caso all’intervento e, meno che mai all’invito di Cristo a Matteo.
Al contrario, la luce improvvisa non fa che acuire l’attenzione alle monete scrutate perfino con l’ausilio di un paio di occhiali.
Sul medesimo tavolo, davanti all'”officiante” Matteo è in bella evidenza il libro delle scritture dove la penna del pubblicano annota con diligenza i movimenti d’andare e venire di quel “signore” fino a quel momento padrone della sua vita e dei suoi pensieri e progetti.
Ben altre saranno in un tempo a venire – ma che già si annuncia col visitatore che si affaccia alla porta – le scritture che Levi Matteo consegnerà col suo Vangelo alla memoria del popolo di Dio e a quella di ogni uomo di fede.
Accanto al libro la borsa delle monete richiama per contrasto la prescrizione di Cristo: “Non procuratevi oro né argento né rame nelle vostre cinture…” (Matteo 10, 9).
Non è estranea alla “liturgia” in corso la presenza di armigeri; anche la spada di quello seduto di spalle parrebbe un attrezzo che ha parte nel rituale.
Non per nulla Francesco d’Assisi farà a suo tempo notare al vescovo Guido: “Se possedessimo beni dovremmo provvederci di armi per poterli difendere!”.
Diversamente dai primi due personaggi, Matteo e i giovani armigeri si lasciano scuotere dall’irruzione dei due nuovi venuti; lo dice il movimento degli occhi, dei volti e la torsione dei corpi.
Le mani del pubblicano segnalano un evidente contrasto.
La destra è irrigidita sul banco e sulle monete, mentre la sinistra si porta vivacemente sul petto.
La faccia interroga il volto di Cristo come per chiedere: “Per me sei venuto? Proprio qui dove non si fa che negoziare e trattare denaro?” La mano tesa di Cristo e quella di Pietro non lasciano adito a dubbi: “I tuoi affari e il tuo denaro sono per te una prigione, viene a te il Regno di Dio, si fa presente con me alla porta della tua vita e ti richiede”.
Il resto, che riguarda lo stile di vita legato alla nuova avventura, lo dice l’abbigliamento dimesso ed essenziale dei due nuovi venuti, in contrasto evidente coi ricchi abiti dei presenti, ricercati nella foggia secondo gusti contemporanei al pittore.
Il tratto anacronistico rimanda alla perenne attualità di un dilemma, che non muta coi tempi o con un cambio d’abito, tra il culto di Dio e l’idolatria del denaro.
Osservando la scena con maggiore attenzione si nota un particolare che va ulteriormente indagato: la mano di Gesù, nel gesto e nella posizione delle dita ricalca con sorprendente esattezza il gesto fissato sulla volta affrescata della Sistina, dove un altro Michelangelo aveva ritratto la creazione dell’uomo.
La mano dell’Adamo della Sistina che per il tocco del dito di Dio si desta alla vita, la ritroviamo nel quadro di San Luigi dei Francesi, ed è quella di Gesù che, secondo la teologia di san Paolo, è il nuovo Adamo venuto a infondere nell’uomo la vita divina secondo lo Spirito.
Quella mano tesa verso il peccatore Matteo da parte del Figlio dell’Uomo in cui ha sede in pienezza la grazia divina, viene a colmare la distanza tra Dio e l’uomo, l’abisso scavato dal peccato del nostro comune progenitore, a danno proprio e della sua discendenza.
Sarà attraverso la mano del Figlio, nuovo Adamo, che il Padre potrà generare a sé altri figli secondo lo Spirito, affrancati dal potere invincibile che li assoggetta alla schiavitù della morte.
Con lui e per lui potrà avere inizio di un nuovo esodo di liberazione verso la vita.
È proprio in vista di quel nuovo esodo che al pubblicano Matteo è chiesto di lasciar tutto per aver parte tra i dodici che più da vicino seguiranno il Signore.
Il particolare della mano pone tra l’altro una domanda relativa all’affresco della Sistina: perché mai Michelangelo nell’interpretare il racconto della Genesi si è discostato dall’immagine biblica (Genesi 2, 7): “Dio soffiò nelle narici [dell’uomo] e divenne l’uomo un’anima vivente”?  È solo per una scelta formale che il pittore ha evitato di ritrarre il Creatore nell’atto esteticamente meno gradevole di soffiare sul volto di Adamo e ha preferito la movenza armoniosa delle due mani protese? La risposta si trova nell’inno notissimo della liturgia romana, il “Veni Creator” che designa lo Spirito Santo col titolo di “digitus paternae dexterae”, dito della destra del Padre.
Nei versetti seguenti troviamo poi invocazioni del tutto in carattere col tema della vita divina infusa nell’uomo: “Accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus”, accendi di luce i sensi, infondi l’amore nei cuori.
La folgorazione di luce e le risonanze interiori opera dello Spirito, sono ancora più chiaramente figurate dal raggio che irrompe nel luogo, simultaneamente all’ingresso di Gesù e di Pietro, e che dà vita al contrasto di colori, di ombre e di espressioni, nelle figure e nei volti della piccola corte adunata.
È proprio all’ingresso di Cristo che la buia stanza si illumina.
Infatti, dalla finestra nessun barlume traluce a vincere l’ombra incombente.
Invece, nel vano di quella finestra oscurata, sopra la mano di Gesù protesa in avanti, è profilata una croce spoglia di ogni apparenza gloriosa, ma collocata in posizione eminente rispetto alla scena, con più che probabile significato simbolico.
Un’ultima osservazione concerne un fatto fuori norma rispetto all’iconografia classica: la figura di Cristo è collocata in secondo piano mentre in primo piano, ritratta di spalle, sta la figura di Pietro.
Se il primo degli apostoli – che con la mano replica a suo modo, quasi con timidezza, il gesto di Cristo – è nell’intenzione figura simbolica della Chiesa, il pittore ci sta mettendo di fronte a una indicazione precisa: l’invito a seguire Cristo passa per una Chiesa che unisce grandezze e miserie, slanci di fede e rinnegamenti.
L’obbedienza da parte di una fede matura comporta spesso l’accettazione del limite storico che sempre condiziona la Chiesa in cammino e che bisogna poter trascendere.
È proprio passando e soffrendo per le molte contraddizioni avvertite che spesso alla gente di fede è chiesto di cercare l’incontro con Cristo, fino a ritrovare la nobiltà del volto di lui e l’autorevolezza del gesto con cui ci chiama a seguirlo.
di Giorgio Alessandrini Il giornale della Santa Sede da cui è ripreso l’articolo: > L’Osservatore Romano

XXIX Domenica Tempo Ordinario Anno C

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Esodo 17,8-13          In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm.
Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk.
Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio».
Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle.
Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk.
Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani.
Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.
Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.
    v Il libro dell’Esodo nella sua prima parte (1,1-15,21) descrive la liberazione dall’Egitto del popolo di Israele; nella seconda parte (15,22-18,27) presenta il cammino del popolo nel deserto: nella terza parte (19-40) si ha l’alleanza sul Sinai con tutte le prescrizioni.
Il testo della lettura è collocato nella seconda parte, all’inizio; descrive il combattimento di Israele contro Amalek.
     Aspetti di esegesi      Tra l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia e l’episodio dell’incontro di Ietro con Mosé, si ha il racconto della vittoria di Israele contro Amalek: «In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm.
Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk.
Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio».
Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle.
Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk.
Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani.
Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.
Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada» (Es 17,8-13).
     Questo racconto antico, rappresenta una tradizione delle tribù del sud.
Esso è legato alla stessa località in cui si svolse il fatto precedente dell’acqua scaturita dalla roccia, Refidim.
Gli Amaleciti avevano la loro abitazione sulle montagne di Seir.
Di Amalek si parla nel libro della Genesi, come nipote di Esau (Gn 36,12.16); si tratta di un popolo molto antico; nell’oracolo di Balaam è detto: «Poi vide Amalek e pronunciò il suo poema e disse: Amalek è la prima delle nazioni, ma il suo avvenire sarà eterna rovina» (Nm 24,20).
Al tempo dei giudici lo vediamo associato ai saccheggiatori di Madian: Davide lo combatte ancora; in seguito viene menzionato nel primo libro delle Cronache, dicendo che fu eliminato dai discendenti di Simeone (1Cr 4,43) e nel Salmo 83,8 che lo enumera tra i nemici di Israele.
Il significato del racconto contenuto nella lettura sta nel fatto che la preghiera perseverante di Mosé, sostenuto da Aronne e da Cur, ottiene la vittoria del mediatore presso Dio a favore della comunità.
La sua è la preghiera di chi è costituito capo in mezzo al suo popolo.
  Seconda lettura: 2Timoteo 3,14-4,2          Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.
Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù.
Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.
                                      v La seconda lettera a Timoteo dopo l’indirizzo di saluto e ringraziamento, tratta anzitutto delle grazie ricevute da Timoteo, espone poi il significato delle sofferenze dell’apostolo e dell’apostolato, richiama la lotta contro il pericolo attuale dei falsi maestri, esorta a fare attenzione ai pericoli degli ultimi tempi, propone a Timoteo con uno scongiuro solenne, il suo dovere di annuncio della parola, dà infine le ultime raccomandazioni.
Il brano della lettura si pone nell’avvertimento sui pericoli e si conclude con lo scongiuro solenne.
     Aspetti di esegesi      La esortazione con cui inizia il brano riguarda il rimanere fermo, stabile, irremovibile nelle verità che sono state comunicate non come vane teorie ma come rivelazione immutabile, contro le tendenze deviazioniste dei falsi dottori di cui ha parlato precedentemente, seduttori e sedotti: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.
Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù» (2 Tm 3,14-15).
     Tali verità sono contenute nelle sacre Scritture: esse danno la vera sapienza della salvezza: la rivelazione divina ha come centro Gesù Cristo; perciò conduce a lui.
«Tutta la Scrittura, ispirata da Dio» (2Tm 3,16).
L’affermazione che tutta la Scrittura è ispirata da Dio è importante poiché esprime a sua volta in modo ispirato una verità e cioè la ispirazione divina delle Scritture: è nella pratica assidua della Scrittura che l’uomo di Dio nutre la sua fede e il suo zelo apostolico: La scrittura poi è «utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,16): l’Autore indica a quali scopi è utile la Scrittura: insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia: la prima utilità è di natura didattica; infatti la Scrittura contiene la verità, e la verità è tema di insegnamento; la seconda utilità sta nella convinzione, nella persuasione degli spiriti, rivolta a condurli alla verità e a confutare gli errori; la terza è la correzione, per condurre gli erranti e i peccatori alla verità e alla vita morale; infine la Scrittura aiuta la formazione alla giustizia, cioè alla vita morale secondo la quale Dio vuole che si viva; in tale modo la Scrittura opera una formazione dell’uomo credente e dell’apostolo il quale con la Scrittura è in grado di adempiere il suo ministero, essendo provveduto di ogni strumento per esercitarlo con frutto.
     Viene ora un solenne scongiuro: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2 Tm 4,1-2)».
È un appello rivolto al discepolo, quasi una parola di commiato al termine della lettera.
Dominato dal pensiero di una morte vicina e della venuta del Signore, Paolo chiede solennemente a Timoteo di perseguire, senza venire meno, la missione che gli trasmette.
Scongiura chiamando in causa Gesù Cristo che verrà a giudicare i vivi e i morti: proclama così la verità che Gesù sarà il giudice di tutti gli uomini, quelli che saranno in vita alla sua venuta e quelli che allora risusciteranno; questa affermazione, che apparteneva all’annuncio primitivo, è entrata nel simbolo della fede.
Il tema dello scongiuro riguarda la predicazione; l’apostolo ammonisce ed esorta gravemente Timoteo, invocando a testimonio Dio e Gesù Cristo: l’autore è consapevole di compiere un suo dovere nel prescrivere a Timoteo la predicazione; Timoteo deve predicare la parola come un araldo che ha la lieta notizia da comunicare; deve insistere, prendere ogni occasione, l’inopportunità è da intendere da parte degli uditori; anche quando agli uditori sembri inopportuna la voce del predicatore della verità; deve convincere quello che erano, mostrare loro che sono colpevoli, riprenderli, esortarli; ma la predicazione in sé è sempre opportuna; tutta la predicazione, inoltre, anche quando rimprovera e mostra l’errore deve essere fatta con dolcezza, aspettando con pazienza il suo frutto, e deve avere per solida base la dottrina, la parola di Dio, che è efficace per se stessa.
Leggendo queste norme teoriche e pratiche di pedagogia pastorale il ministro della parola saprà congiungere insieme la prudenza e l’audacia, la forza nel rimproverare e nel convincere dell’errore e la mitezza dell’amore paterno; saprà istruire le menti con la luce della verità e istruire i cuori con il calore dello zelo apostolico.
  Vangelo: Luca 18,1-8          In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno.
In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto.
E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.
Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
       Esegesi      Il testo si trova nella sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme; è la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna e riguarda il tema della preghiera: «In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1).
     Aspetti di esegesi      Questa parabola e quella che segue, del fariseo e del pubblicano, trattano della preghiera sotto punti di vista differenti.
La parabola del giudice iniquo che fa giustizia alla donna per non essere da lei importunato, concorda, nel suo pensiero fondamentale, con la parabola dell’amico importuno (Lc 11,5-8) e mette in evidenza la potenza della preghiera di petizione esprimendo la conclusione come una deduzione da una cosa più piccola a una più grande.
Il pensiero fondamentale della parabola è questo: i discepoli devono pregare sempre e non devono scoraggiarsi se l’esaudimento delle loro preghiere si fa attendere.
L’insegnamento centrale, che Gesù stesso esprime con il «sempre» significa: per qualsiasi cosa vi stia a cuore: «non stancarsi» significa di conseguenza non mai dubitare della forza della preghiera.
A mettere in evidenza questo insegnamento serve un caso preso dalla vita umana; una vedova (che già nell’antico Testamento era l’immagine di una persona indifesa e debole) sta di fronte a un giudice iniquo e lo vince con la sua ostinazione; la figura del giudice qui delineata non è un caso di eccezione, ma il tipo frequente, forse normale, del giudice cui erano abituati a quel tempo; la vedova si trova implicata in un processo e chiede al giudice una sentenza con cui le venga resa giustizia: il giudice non pensa di accondiscendere alla preghiera di una persona sola e debole; il suo soliloquio svela i suoi sentimenti; egli però risolve alla fine di esaudirla non per un senso di giustizia ma unicamente perché l’insistere di lei nel pregare, gli da noia e fastidio: «poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi » (Lc 18,4-5).
     Secondo l’insegnamento finale: «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente».
(Lc 18,7-8), insegnamento che opera la deduzione dal più piccolo al più grande, cioè dal giudice iniquo a Dio, il personaggio principale della parabola non è la vedova orante, che stanca il giudice, ma il giudice stesso.
Egli viene paragonato a Dio.
Il punto culminante della parabola non sta nella ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento.
Non viene detto come dobbiamo comportarci nella preghiera di petizione nei confronti di Dio, ma come Dio si comporta di fronte alle nostre preghiere.
Se già un uomo cattivo come il giudice per semplice egoismo si lascia indurre dalla domanda di una povera donna indifesa ad aiutarla, quanto più Dio esaudirà le grida di implorazione dei suoi eletti.
L’esitazione di Dio è apparente; egli non lascerà mancare il suo aiuto; egli farà giustizia nel senso che ascolterà le preghiere dei suoi.
Dio non può restare sordo di fronte alla domanda insistente dei suoi figli e può dare solo cose buone.
     Il detto finale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8) è una affermazione a se stante, non collegata con il racconto della parabola: esso presenta l’apostasia che deve verificarsi negli ultimi tempi, è tema classico della apocalittica (cf.
2 Ts 2,3; Mt 24,10-12).
  Meditazione La preghiera come lotta e intercessione (I lettura); la preghiera insistente e che non viene meno (vangelo): questo il tema che unisce prima lettura e vangelo.
La preghiera non come opera di forti, ma di deboli: Mosè viene aiutato a sostenere le sue braccia stese nella preghiera; nel vangelo è una povera vedova che si fa soggetto di una preghiera insistente.
Deboli resi forti dalla fede e che perseverano nella preghiera.
La perseveranza come elemento di verità della preghiera e la preghiera come autentificazione della fede sono altri elementi che arricchiscono la catechesi sulla preghiera contenuta nei testi biblici di questa domenica.
L’immagine di Mosè con le mani tese verso l’alto nello sforzo dell’intercessione, aiutato da due uomini che sostengono le sue braccia che diventano sempre più pesanti con il passare del tempo, è una bella immagine della fatica della preghiera.
La preghiera è uno sforzo, è lavoro, e come ogni lavoro è faticoso, per il corpo come per lo spirito.
Ma quella immagine indica anche un aspetto della dimensione comunitaria della preghiera.
La comunità cristiana non è solo il luogo in cui si è chiamati a pregare gli uni per gli altri, a intercedere, ma anche a porsi a servizio della preghiera dell’altro.
Sostenersi e incoraggiarsi nella fede e nella preghiera, è compito richiesto ai credenti nella comunità cristiana.
Un aspetto di questa difficoltà della preghiera è il suo divenire quotidiana, il suo essere perseverante, il suo non venire meno.
Aspetto espresso nella parabola evangelica (Lc 18,1 ).
La preoccupazione di insistere sulla necessità di pregare sempre, senza tralasciare, è rivelatrice della situazione della comunità cristiana a cui si rivolge Luca: una comunità in cui è ormai presente il fenomeno del rilassamento della fede e della preghiera.
A distanza di qualche decennio dagli eventi della vita di Gesù, la comunità conosce fenomeni di mondanizzazione della fede e di abbandono (cfr.
Lc 8,13).
Luca avverte: abbandonare la preghiera è l’anticamera dell’abbandono della fede.
Il passare del tempo è la grande prova della fede e della preghiera.
La preghiera insistente fa della fede una relazione quotidiana con il Signore.
La fatica di perseverare nella preghiera è la fatica di dare del tempo alla preghiera.
Pregare è dare la vita per il Signore.
La preghiera comporta un confronto con la morte e per questo spesso ci risulta ostica: pregando, non «facciamo» nulla, non «produciamo», ci vediamo sterili e inefficaci.
Ma essa è lo spazio e il tempo che noi predisponiamo affinché il Signore faccia qualcosa di noi.
Le parole di Gesù comportano anche un insegnamento sulla dimensione escatologica della preghiera.
Alla domanda rivoltagli dai farisei «Quando verrà il Regno di Dio?» (Lc 17,20), Gesù ha risposto nel capitolo precedente (Lc 17,21-37), ma ora completa la sua risposta con una contro-domanda: «Il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
Non si tratta di porre domande sulla venuta finale, ma di cogliere la venuta finale del Signore come domanda, e domanda che interpella i cristiani sulla fede.
A noi che spesso ci chiediamo: «Dov’è Dio?», «Dov’è la promessa della venuta del Signore?» (2Pt 3,4), risponde il Signore che chiede conto a noi della nostra fede: «Dov’è la vostra fede?» (Lc 8,25).
La venuta del Signore non è tema di astratte speculazioni teologiche, ma realtà di fede da viversi e sperimentarsi come attesa e desiderio nella preghiera.
La preghiera della vedova che chiede giustizia indica anche gli aspetti di audacia e di determinazione della preghiera.
La preghiera non si vergogna di chiedere, non esita a insistere, non cessa di bussare, non teme di importunare.
La preghiera esige coraggio.
Il coraggio della fede che conduce a non lasciar perdere, a non tralasciare, a non dire: «Non serve a nulla».
Preghiera e fede stanno in un rapporto inscindibile: credere significa pregare.
E se noi possiamo pregare solo grazie ad una fede viva, è anche vero che la nostra fede resta viva grazie alla preghiera.
       Preghiere e Racconti   La preghiera insistente del cristiano «Attàccati alla preghiera di un povero e sarai unito a Dio» diceva un maestro di Israele.
L’insegnamento sulla preghiera nei testi biblici di oggi è posto all’interno della prospettiva della parusia.
La preghiera del cristiano si caratterizza come insistente.
Se c’è una preghiera da fare nel momento del bisogno, c’è anche una preghiera da rivolgere in ogni tempo, e questa è la preghiera di fronte alla venuta del Signore.
Il tempo dell’attesa deve spingere il discepolo non ad addormentarsi, ma a una veglia ancora più intensa.
La donna del Vangelo è indifesa, debole, ma piena di intraprendenza e coraggio, di perseveranza e insistenza.
«Il punto culminante della parabola non sta nell’ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento» (J.
Schmid).
Pregare, dunque, per mantenere viva, anche di fronte al ritardo, l’attesa di Dio.
Perseverare nella preghiera diventa un radicarsi in Cristo, rimanere «stabili» in lui lungo tutto il cammino della vita anche nell’ora in cui dobbiamo passare «per la valle oscura» del dolore e della prova.
Scriveva un giovane monaco: «Noi preghiamo per mettere una spina nel cuore di Dio.
Noi, uomini della cocolla, ci confermiamo qui in rappresentanza degli altri uomini, di tutti.
Per ridire chiaro al Signore, ora dopo ora: Vedi, Signore! Ti premiamo, ti sollecitiamo; alziamo la voce, la sommiamo; tempestiamo con le nocche la tua porta, non ti diamo tregua perché tu non perda mai l’entusiasmo della creazione, perché tu veda e provveda a tutti».
L’uomo di preghiera «Tu farai un’autentica esperienza di Dio, o, più semplicemente, sei un uomo di preghiera quando possiedi il coraggio di gettarti, durante tutta la vita, in questo mistero silenzioso di Dio senza ricevere apparentemente altra risposta che la forza di credere, di operare, di amare Dio e i tuoi fratelli, e quando, in definitiva, continui a pregare».
(Jean Lafrance).
Comunità, «scuola di preghiera»  «Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche “scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero “invaghimento” del cuore.
Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall’impegno nella storia: aprendo il cuore all’amore di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio».
(Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, n.
33).
Cuore, labbra, mani Metti, Signore, nei nostri cuori desideri che tu possa colmare.
Metti sulle nostre labbra preghiere che tu possa esaudire.
Metti nelle nostre opere atti che tu possa benedire.
(Liturgia mozarabica spagnola).
Pregare…
Hai un problema grandissimo? Incomincia a pregare, a lodare Dio e ti accorgerai che quel problema diventerà sempre più piccolo, perché lo vedrai con gli occhi di Dio.
  Perché pregare? «Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.
Si, per vivere veramente, bisogna pregare.
Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita.
È solitudine vuota, è prigione e tristezza.
Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore.
Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore.
Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità.
Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo.
Perciò, chi prega vive nel tempo e per l’eternità.
E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.
Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po’ di tempo a Dio.
All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente.
Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti».
(Bruno Forte, Lettera sulla preghiera).
Le vere domande «L’uomo si eleva verso Dio per mezzo delle domande che gli pone.
Ecco il vero dialogo: l’uomo interroga e Dio risponde.
Ma le sue risposte non si comprendono, non si possono comprendere perché vengono dal fondo dell’anima e vi rimangono fino alla morte.
Le vere risposte, Eliezer, tu non le troverai che in te.
E tu, Moshè, perché preghi?- gli domandai.
Prego Dio di darmi la forza di potergli fare delle vere domande».
(Elie Wiesel, scrittore ebreo).
La preghiera  “La preghiera è un bene sommo, è una comunione intima con Dio, deve venire dal cuore, deve fiorire continuamente, giorno e notte.
È luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l’uomo; è un desiderare Dio, è un amore ineffabile prodotto dalla grazia divina”.
(San Giovanni Crisostomo)   Gioia, preghiera, ringraziamento e carità Ci hai esortato alla gioia, Signore: «State lieti, sempre».
Anzi, ci hai insegnato le parole per dire la gioia: «Io esulto e gioisco nel Signore, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza».
Fa’ di me, o Signore, un cristiano lieto: lieto come Giovanni nel vedere la luce che già viene, nel sentirsi voce al servizio della Parola; lieto come il profeta, nel sapersi riempito del tuo Spirito di santità; lieto come Maria nel riconoscere e magnificare quello che tu hai già compiuto per me e in me.
Ci hai esortato alla preghiera, Signore: «Pregate incessantemente».
Mi sembra quasi impossibile: abituato a separare preghiera e lavoro, penso sempre che la preghiera si possa fare solo stando in ginocchio.
Eppure lo so che sei continuamente presente, a condividere le mie giornate e il mio lavoro.
Sei tu, anzi, che mi vuoi santificare «fino alla perfezione», tu che guidi i miei passi incerti sul sentiero della santità.
Insegnami a vivere costantemente alla tua presenza, a fare ogni cosa per amore tuo.
Ci hai esortato al ringraziamento, Signore: «In ogni cosa rendete grazie».
Nell’eucaristia ci unisci al tuo ringraziamento.
Fa’ che non mi limiti a pronunciare parole di riconoscenza, magari stanche e convenzionali, ma a dire grazie al Padre testimoniando il suo amore, nel servizio concreto del prossimo.
Vieni, Spirito Santo, diventa in noi gioia, preghiera, ringraziamento, carità.
Aiutami a pregare

Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese

“Cattolici nell’Italia di oggi.
Un’agenda di speranza per il futuro del Paese” è il tema della 46ma Settima Sociale (Reggio Calabria, 14-17 ottobre 2010), che ha avuto una preparazione di due anni, con circa 100 incontri in tutte le città d’Italia, e che vede la presenza di 1200 partecipanti e la rappresentanza di 177 associazioni.
IL PROGRAMMA – IL SITO UFFICIALE (http://www.settimanesociali.it/) SETTIMANA SOCIALE Le nostre interviste 14 ottobre 2010 SOCIETA’ E VALORI Miglio: «A Reggio per dare un supplemento di speranza» 14 ottobre 2010 Mimmo Muolo UN’AGENDA PER L’ITALIA Una mappa per il bene comune 14 ottobre 2010 Matteo Liut Pasquali (Retinopera) «Serve un progetto per l’Italia» 06 ottobre 2010 Paolo Viana Riccardi (S.
Egidio) «Ai laici cattolici il compito di indicare nuove strade» 03 ottobre 2010 Giovanni Ruggiero Martinez (Rns) «Cattolici uniti per i più deboli» 01 ottobre 2010 Paolo Viana Tutti gli articoli

Una sconfinata giovinezza

Dopo venticinque anni di matrimonio Lino e Francesca (Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri) sono ancora una coppia molto unita.
Superata l’amarezza per non aver avuto figli e ormai raggiunta la mezza età, hanno trovato una serenità profonda, corroborata anche da un discreto successo professionale, come giornalista sportivo lui, come docente universitaria lei.
Il loro solido equilibrio viene messo alla prova quando Lino comincia a manifestare disturbi della memoria.
Dapprima arginata soprattutto grazie all’amore di Francesca, la malattia è destinata a diventare sempre meno gestibile, tanto da impedire presto a Lino di proseguire il suo lavoro, e portarlo a maltrattare la compagna di tutta una vita.
 In questo progressivo allontanamento dalla quotidianità, si fanno però strada i ricordi dell’infanzia trascorsa nella campagna emiliana, rivissuta con straordinaria fedeltà percettiva.
Per Lino sarà l’inizio di un percorso a ritroso solitario ma anche misteriosamente salvifico.
È senz’altro ingiusto che il film di Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza, sia stato maltrattato ancor prima di uscire nelle sale, con l’esclusione dal concorso del Festival di Venezia.
Ma in fondo è anche comprensibile.
Perché al di là della qualità strettamente artistica, si tratta di un’opera destabilizzante.
A sorprendere è in particolare la capacità di questo regista e sceneggiatore dalla carriera ormai lunga e consolidata di immergersi completamente nel dolore dei suoi personaggi.
Investendo energie emotive che altrove aveva paventato salvo poi tenerle sapientemente a bada, magari rintanandosi in quei personaggi di sveviana memoria di cui è ottimo depositario, ma a cui ultimamente aveva fatto sin troppo affidamento.
Qui, al contrario, la materia emotiva è quasi incandescente, tanto che il rischio poteva essere casomai quello opposto, ossia di finire al di là del crinale scosceso del melodramma.
Rischio scampato grazie alla scelta coraggiosa di evitare il teorema dei sentimenti, e di riservare momenti di gioia dove ci si aspetterebbe solo angoscia, e viceversa.
Succede allora che una malattia che colpisce la memoria diventi la macroscopica madeleine con cui schiudere tutto uno scrigno di ricordi infantili, e che quella stessa infanzia, di contro, non si riveli un quadretto idilliaco, ma alterni accenti di dionisiaca vivacità a riflessi amari e persino inquietanti.
“Per quanto possa essere stata vissuta nelle condizioni più penalizzanti – ci ha spiegato lo stesso Avati – il ricordo dell’infanzia ha sempre degli accenti di suggestione e di rassicurazione che ti richiamano a un rientro a casa.
È un sentimento comune a tutte le persone che hanno raggiunto la mia età.
Io ho cominciato ad avvertire questa grandissima nostalgia nei riguardi della mia infanzia perché è il chiudersi di una circolarità della vita attraverso un  ritrovarsi.
E io penso che le persone  che  vedranno e che hanno già visto  il  film, consapevolmente o meno riconoscano nel profondo questo tipo di tensione, che è dentro ognuno di noi”.
Il senso di emotività quasi debordante sorprende ancor di più se messo in rapporto al precedente e ancora recentissimo film del regista, il sottovalutato Il figlio più piccolo, in cui al contrario il suo sguardo si era fatto tanto lucido quanto distante dalle proprie creature, viste come in un vetrino dal placido piedistallo dell’entomologo.
Col senno di poi, si potrebbe dire che Avati avesse bisogno di prendere il fiato prima di tuffarsi in questo tour de force di sentimenti.
 “In Il figlio più piccolo – prosegue il regista – si contrapponevano due anime:  il mondo terribile, glaciale di chi considera la vita attraverso gli affari e il potere, appartenente al padre e lontano anni luce da quello che io sono, e quello appunto del figlio minore e di sua madre, che è di un’ingenuità e di un candore estremi.
Entrambi però visti, in effetti, con una partecipazione relativa, perché io non mi riconoscevo né nel figlio né tanto meno in suo padre.
In quest’ultimo film invece la storia è ben diversa:  qui c’è un coinvolgimento umano che è dato dalla responsabilità di dover mettere in scena un dramma sociale, il morbo di Alzheimer, che coinvolge molte famiglie in occidente e che è destinato purtroppo a crescere proprio per l’aumentare dell’aspettativa della vita media.
E allora non potevo che raccontarlo con vicinanza.
Con questo film cerco di essere affettivamente vicino a chi vive questo dramma”.
Il film sorprende e rischia molto anche nella scelta degli attori.
Bentivoglio e Neri, entrambi bravissimi, recitano per tutto il film – caso più unico che raro – con un trucco che li invecchia.
Una scelta dettata ancora una volta non solo dall’evidente ammirazione di Avati per i due interpreti, ma dalla cura che sente di dovere al disegno dei personaggi.
Alla domanda sul perché non scegliere direttamente attori più anziani, il regista ha infatti osservato:  “Era mia intenzione tenere sempre molto vicini fra loro da una parte i momenti dell’amore tradizionale fra un uomo e una donna, fatto dunque anche di passione, e dall’altra la senescenza, in cui l’amore si trasforma in affetto, e i ruoli mutano, come in questo caso, dove Francesca diventa in pratica la madre del figlio che non ha mai avuto.
Non potevo dunque affidare i ruoli a due  attori la cui immagine fosse troppo  lontana  da  quel  primo percorso di  giovinezza,  in  cui penso molti spettatori  possano  facilmente  identificarsi”.
L’idea dell’avvicinamento alla malattia e alla morte come momento di arricchimento spirituale viene curiosamente affrontato anche da un altro film che esce in questi giorni, il thailandese Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti.
Il ricorrere di questo tema sta forse a denunciare un’esigenza di allontanarsi per un attimo da questo presente, dalla modernità? “Per chi ha già vissuto tanti anni come me – risponde il regista – il presente diventa sempre complicato, di conseguenza si vanno a imporre, con maggiore nitore, dei mondi, dei paesaggi, degli sfondi che ti suggestionano e che ti seducono, e che ti fanno capire che in qualche maniera il mondo può essere più grande, più vasto, più sacro addirittura di quanto non lo consideriamo o non lo immaginiamo ragionando solo attraverso calcoli di carattere egoistico o bracci di ferro di potere.
Io penso che questo sia un film molto affettuoso nei riguardi dell’essere umano, che è un atteggiamento che il cinema italiano non sempre mette in campo.
Nel film precedente ho già detto cosa non mi piace del mondo presente, ma, avendo dei figli, avendo dei nipoti, sarebbe anche profondamente scorretto da parte mia infierire, continuando a raccontare come il presente sia invivibile.
Mi sembra una forma di esprimersi troppo dissuasiva nei confronti dei sogni e delle aspettative che i ragazzi di oggi devono legittimamente tenere dentro di sé”.
Non a caso torna dunque nelle parole di Avati l’idea che questo film sia stato fatto pensando agli altri.
Che sia, neanche troppo velatamente, un atto d’amore più che un’opera d’arte.
E come tale incappa sporadicamente in difetti dovuti alla generosità, come quando a due terzi del racconto l’autore vi insinua un piano psicanalitico invadente, di cui la materia trattata, già così carica di significati, non aveva ovviamente alcun bisogno, e che comunque arriva troppo tardi e in modo troppo esplicito.
È un errore comprensibilissimo, da manuale addirittura:  Avati ha intravisto in questi personaggi e in questa storia la possibilità di parlare di tutta una vita, e a tratti è caduto nella tentazione di strafare.
Ma nel terreno arido del cinema d’oggi il suo sbagliare per abbondanza ha il sapore di un sorso d’acqua fresca.
di Emilio Ranzato (©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2010)

Il cattolico in politica

Come negoziare i principi non negoziabili di Stefano Ceccanti in “Europa” del 12 ottobre 2010 Monsignor Giampaolo Crepaldi, da tempo impegnato sulla dottrina sociale, ha scritto questo Manuale, destinato soprattutto ai politici, con una struttura agile e comprensibile: dopo la prefazione del cardinal Bagnasco che ne elogia l’originalità, un’introduzione generale, una indicazione dei criteri, una specificazione di alcuni contenuti, dei cenni conclusivi.
L’introduzione mira a ribadire il valore pubblico del fatto religioso contro visioni rinunciatarie: un obiettivo largamente condivisibile anche se in realtà questo tipo di impostazione ha alle spalle una forte tradizione anche negli anni Settanta e Ottanta, su cui lo sguardo di Crepaldi sembra essere invece di un certo pessimismo retrospettivo.
Indubbiamente la cesura della fine dell’unità politica dei cattolici ha rappresentato un momento di sbandamento, ma se per certi versi esso è stato superato si deve anche alla preparazione precedente.
Rispetto ai criteri monsignor Crepaldi invita opportunamente a non selezionare a piacere la dottrina o a trattarla in modo astorico, a considerarla invece più correttamente come «un unico corpus, che contiene elementi permanenti ed altri che cambiano, che non va vivisezionata e adoperata a brandelli, che appartiene alla missione della Chiesa e quindi va intesa dentro un contesto ecclesiale, ma che non per questo perde anche la sua capacità di dare indicazioni politiche, che essa ha prodotto e produce cultura politica anche se non scende direttamente nel dibattito politico delle cose da fare».
Viene poi avanzata la preoccupazione che lo schema classico vedere-giudicare-agire dei movimenti di azione cattolica costruisca un “vedere” neutro, che non incorpori sin dall’inizio le ragioni di un giudizio critico, per il cui il successivo “giudicare” sarebbe poi indebolito e produrrebbe un agire debole.
In realtà, al di là del fatto che qualsiasi schema sintetico ha dei pro e dei contro e rischia di essere curvato in modo sbagliato, quello schema reagiva a un’impostazione astorica e deduttiva della dottrina (quella stessa a cui vuole sfuggire l’autore).
Anche se non riusciva a farlo bene, considerando che finiva col trascurare la natura sempre precaria e storicamente limitata del giudizio pratico.
Significativa la parte sulla libertà religiosa in cui si ricorda che nei nostri ordinamenti si tratta certo di un diritto fondamentale soggetto però ad alcuni limiti: quelli che il Concilio Vaticano II indica nella nozione di “ordine pubblico”, che conducono ad esempio alla non accettabilità della poligamia.
Delicata è poi la questione del giudizio politico sulle coerenze personali e sulle impostazioni dei partiti.
È ragionevole sostenere che spostare l’accento su valutazioni pubbliche della coerenza dei singoli può portare a un approccio moralistico e inefficace.
Il giudizio politico deve primariamente vertere sulla coerenza della politica perseguita senza trascurare la rilevanza implicita dei comportamenti privati anche per la valutazione della credibilità politica.
Certo, le modalità di esprimere questa distinzione devono essere tali da non far sembrare che il richiamo alla coerenza  personale sia un optional e debbono sfociare su una verifica effettiva dell’impatto delle dichiarazioni.
Rispetto ai contenuti le pagine più interessanti paiono essere quelle sul ruolo dello Stato che, nonostante la crisi, non viene visto come una panacea nel suo ruolo di gestore diretto, se ne valuta positivamente soprattutto il ruolo di regolatore, di una realtà che «crea la cornice giuridica, fa da garante, coordina» più che erogare direttamente.
Analoga visione aggiornata delle grandi finalità solidali è proposta per il mercato del lavoro e per il ruolo dei sindacato che dovrebbero essere tra i primi a contribuire «a spostare la loro attenzione dai già garantiti ai non garantiti (…) sacrificando anche modalità e comportamenti consolidati per andare incontro alle nuove necessità» con la «continua invenzione di nuove configurazioni giuridiche».
Idem per le delocalizzazioni, che non si tratta di condannare moralisticamente, ma di prevenire con «politiche industriali e del mercato del lavoro che le disincentivino».
Ovviamente il politico cattolico che dovesse viceversa scrivere un manuale ai vescovi farebbe presenti altre due problematiche.
Il primo è che il problema della necessaria anche se paradossale negoziazione dei principi non negoziabili (visto che la politica è negoziazione) non deriva dall’intento di sfuggire ai princìpi o di adeguarsi ai principi di altri, ma dal fatto che in ogni decisione di norma vengono in gioco più principi e lo sforzo per armonizzarli dentro soluzioni accettabili e creative anche se imperfette va perseguito sino in fondo, la strada dell’obiezione è invece l’extrema ratio.
L’esigenza della «continua invenzione di nuove configurazioni giuridiche» proposta per il mercato del lavoro perché lì bisogna conciliare le esigenze di flessibilità dell’impresa con quelle di sicurezza dei lavoratori si pone ad esempio anche per i diritti e i doveri delle persone omosessuali su cui  esistono dei vuoti giuridici e che non si possono inquadrare in un rigido schema tra irrilevanza ed equiparazione al matrimonio.
Senza dimenticare poi che il bilanciamento tra diversi principi è il cuore dell’esperienza giuridica, ben oltre le negoziazioni tipiche dei procedimenti parlamentari di produzione legislativa.
Il secondo è nell’indicazione di priorità in questa fase italiana: al di là di criteri e contenuti mi sembra che il miglior servizio che la Chiesa italiana possa rendere e che sta già rendendo con la Settimana sociale sia quella di aprirsi ai contributi dei cattolici che cercano di realizzare una pratica cristiana della politica non perché riunendoli debbano arrivare alle medesime scelte, ma perché in tal modo la Chiesa riduce il tasso di incomunicabilità del nostro bipolarismo.
Questo si sta già facendo, ma non c’è forse ancora una teoria che lo spieghi bene e che ne allarghi il rilievo GIAMPAOLO CREPALDI,  Il cattolico in politica.
Manuale per la ripresa, Edizioni Cantagalli,  2010, pp.
236, € 14,50 Qual è il ruolo oggi del cattolico che si dedica alla politica? Con un linguaggio preciso, efficace e a tratti coraggioso Crepaldi fornisce indicazioni chiare e univoche ai cattolici che desiderano intraprendere l’avventura politica o che già inseriti nelle strutture di partito trovano difficile conciliare la loro vita di fede con la vita pubblica.
Un manuale strutturato per punti, che ricorda alla coscienza del politico i principi non negoziabili e traccia una scala di valori in cui rintracciare i necessari spazi del compromesso.
Tutela della vita, protezione della famiglia e del lavoro, immigrazione, gestione responsabile dell’ambiente devono essere gli obiettivi primari nell’impegno politico del cattolico da tenere sempre presente e perseguire con decisione.
Sono i temi su cui oggi si gioca il futuro della società e che meritano una riflessione attenta e un’azione efficace.

Famiglia di popoli, famiglia di Dio.

«Questo mondo non è un albergo».
È lo slogan della Comunità di Sant’Egidio, qui a Barcellona, dove si è concluso l’incontro numero ventiquattro della serie “Uomini e religioni”.
Non è un albergo dove ognuno vive per conto suo, chiuso in una stanza, senza avvertire la responsabilità della vita e del bene degli altri.
Non è un albergo, ma una casa comune.
E allora forza, bando alle depressioni indotte dal bombardamento di cattive notizie, e lasciamo spazio alla speranza.
La convivenza molto spesso è una realtà, la pace si può fare, un futuro di amore non solo è possibile ma è già in via di costruzione da parte di tanti giusti che magari non fanno notizia ma lavorano, in silenzio.
«Uno degli effetti più pericolosi della crisi economica – dice il presidente di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo – è la perdita di fiducia.
Nella crisi l’uomo rischia di diventare più duro ma meno forte.
Più duro di cuore, meno forte nel disegnare il futuro e resistere alla stanchezza».
Così è la paura a farsi strada, alimentata da chi vuole costruire muri e non ponti.
Per tornare a essere forti c’è bisogno di luoghi di incontro che siano riconoscibili come tali.
Qui al meeting di Sant’Egidio in questi giorni il miracolo si è ripetuto.
Israeliani e palestinesi si sono parlati, cattolici e ortodossi si sono confrontati da amici, ebrei e musulmani si sono guardati negli occhi e hanno parlato di pace.  Dare un orientamento a tante esistenze ripiegate su se stesse, questo deve essere l’impegno oggi degli uomini di buona volontà e soprattutto delle persone veramente religiose.
Dice Mario Marazziti: «Usciamo da un decennio, quello seguito all’attentato alle torri gemelle, in cui le religioni sono state usate strumentalmente per fomentare conflitti e coltivare l’odio.
È il momento di dire basta.
Chi invoca il nome di Dio per fare la guerra è contro Dio.
Togliamo quest’arma micidiale dalle mani di tutti i fondamentalisti».
E impediamo, attraverso la ragione, che la paura continui a tenerci prigionieri di stereotipi e immagini fuorvianti.
Una delle relazioni più illuminanti in questo senso è stata quella di Daniela Pompei, della Comunità di Sant’Egidio, su “Migrazione e futuro”.
Un vero colpo di spugna su tanti luoghi comuni.
A livello planetario il fenomeno migratorio non si presenta come un flagello ma sta andando, al contrario, verso un radicale ridimensionamento.
Secondo uno degli studiosi più accreditati, Jeffrey Williamson, già tra il 2020 e il 2030 il flusso dei lavoratori dai paesi più poveri subirà una graduale diminuzione fino scomparire entro il 2050.
Ma per gli ingressi in Europa questa è già una realtà, specie per quanto riguarda i tanto temuti clandestini: la riduzione in tre anni è stata del 39 per cento.
E le permanenze irregolari sul territorio europeo, sempre nel triennio, sono scese del 26 per cento.
Dati verificabili, ma tenuti nascosti da chi costruisce il consenso politico sulla paura, sulla questione sicurezza e su un costante stato di emergenza sociale.
Gli immigrati sono una risorsa, non un problema.
Sono mediamente più giovani di noi europei, hanno mediamente un alto livello di istruzione e svolgono lavori che hanno a che fare con le persone.
Prestano servizi agli ammalati, agli anziani, ai bambini.
In Austria gli infermieri ormai sono quasi esclusivamente stranieri, in Gran Bretagna i maestri sono indiani, in Italia una famiglia su dieci ormai non può fare a meno dell’aiuto di un immigrato.
Dice Daniela Pompei: «Anziani e immigrati, coloro che nell’immaginario collettivo sono percepiti come fonte di problemi e sono la rappresentazione delle maggiori paure, sono invece il segno di un grande traguardo raggiunto (l’allungamento della vita) e di una grande risorsa e opportunità per il nostro continente (i cittadini stranieri).
Accanto a una popolazione europea che invecchia c’è bisogno di un giovane.
Accanto all’anziano e insieme allo straniero si può costruire una nuova società.
O, se si preferisce, una nuova comunità, una famiglia».
“Famiglia di popoli, famiglia di Dio”.
È stato proprio questo il titolo del meeting.
E di “famiglia di nazioni” ha parlato l’ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Miguel Diaz, esule da Cuba, ricordando la realtà degli Stati Uniti guidati dal presidente Barack Obama (padre del Kenya e madre del Kansas).
«La storia dell’America – ha detto – è testimone di questo potenziale creativo.
Come esule, come americano e ora come servitore degli Usa, sono profondamente grato al mio paese per avermi accolto come un figlio.
La sola tolleranza non è sufficiente.
Occorrono fraternità, solidarietà e servizio nella giustizia».
in “Europa” del 7 ottobre 2010

XXVIII Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   Un giorno San Francesco… Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbattè in un lebbroso.
Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.
(Dalla Leggenda Maggiore).
I Samaritani e i lebbrosi Oggi, non bisogna forse chiedersi chi sono coloro che abbiamo trasformato in samaritani e in lebbrosi? Nel nostro mondo lacerato, ma anche fra i nostri vicini, fra i nostri compagni di lavoro, forse nella nostra stessa famiglia? La domanda è urgente: si tratta di rispettare e di accogliere tutti gli uomini, si tratta di rispettare e di accogliere Dio.
(G.
Bessière, Il fuoco che rinfresca)   I dieci lebbrosi I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole tutti guariti, mostrandosi la pelle sana liberati dall’immonda raganella che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.
Uno solo si gira, inquieto di camminare fra due ombre: una dietro di lui come i nove compagni e l’altra leggera, davanti a lui, già calante come se il suo dorso restasse rischiarato dall’oriente, lo sguardo intravisto che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti – la Vita che si dona, dimenticata dalla vita che segue e ricomincia.
Dov’era il miracolo prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.
Gli altri nove sono lontano.
Allora, lui decide di risalire il fiume della strada.
(J.P.
Lemaire, La rotta)   Grazie! L’immagine che mai dimenticherò è la serie di donne che alle 6 del mattino trovo ad attendermi fuori della porta della mia stanza.
Nessuna parla, nessuna mi guarda negli occhi.
Con i loro bambini rachitici e senza più latte, sono lì ad aspettare.
Se non dessi niente, se ne andrebbero via senza una parola.
Nessuna chiede, è scontato il perché del loro essere lì.
Devo capire e, se posso, aiutare! Una mamma mi mette in braccio il suo bambino dicendo che non vuole vederlo morire.
Con il raccolto di fine agosto la grande paura passa e la vita pian piano riprende normalmente.
Tutte, e sottolineo tutte, le donne che abbiamo aiutato sono tornate con un dono: chi una gallina, chi un gallo, chi un’anatra…
Così la missione ha avuto finalmente il suo pollaio.
La sera, passeggiando in giro per la missione, rifletto sulla giornata trascorsa, mi fermo, guardo i polli, ripenso ai poveri di Fianga, ai poveri del mondo, che ogni giorno, in silenzio, tra le lacrime ma con grande dignità, sanno magistralmente dire grazie alla Vita! (Saverio Fassina, in Piccole storie d’Africa.
Da Fianga, nel Ciad).
  Dire grazie Tenerezza è dire grazie con la vita: e ringraziare è gioia perché è umile riconoscimento dell’essere amati.
(B.
Forte)   Gesù l’ha denunciato Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia.
Nel Vangelo di Luca (17,11) quando vide che dei dieci lebbrosi guariti ne era tornato uno solo a dire grazie, esclamò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?”.
“E gli altri nove dove sono?”.
È pesante questa denuncia di Cristo.
La percentuale di chi pensa e ringrazia sarà sempre così ridotta? L’uomo è proprio inguaribile nel suo egoismo? Abbiamo addosso la lebbra dell’ingratitudine.
Il Signore aspetta il nostro ringraziamento come logica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci apriamo alla gratitudine.
Il Signore non ha dato ai nove lebbrosi guariti un ordine, ma si attendeva che i nove guariti dessero un ordine a se stessi.
La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del cuore retto.
Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno di ringraziare.
Per questo non esiste un comando specifico per il ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo; avrebbe senso la riconoscenza imposta? “E gli altri nove dove sono?”.
In quei nove ci siamo tutti, perché sono innumerevoli le nostre negligenze verso la bontà di Dio.
Purtroppo in quei nove siamo presenti tutti, perché tutti siamo colpevoli di ingratitudine a Dio.
L’uomo non riuscirà mai a stare al passo coi doni di Dio.
I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano.
Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma deve almeno capire che c’è! “E gli altri nove dove sono?”.
La denuncia amara di Cristo deve spingermi a rappresentare gli assenti.
Quando avremo capito e saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presentarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e rappresentarli: “Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dammi la capacità di poterli rappresentare sostituendomi ad essi…”.
(A.
GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1993, 45-46).
Dire “grazie” «”Grazie” è una parola di poche lettere, ma di molto peso: ingentilisce la terra e la profuma.
Ringraziare è un verbo da ricuperare» (Pino Pellegrino).
La fede dei lebbrosi del Vangelo è sufficiente per ottenere il miracolo della guarigione.
Ma questo deve aumentarla.
La fede del Samaritano è nuova e più profonda.
Gli altri hanno ottenuto la guarigione, lui una fede accresciuta e approfondita che ottiene la salvezza.
Questa fede è in qualche modo risposta alla domanda dei discepoli: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6; cf 27ª domenica).
Come, dunque, chi è tornato indietro per rendere gloria a Dio e per benedirlo è stato veramente salvato, ha riconosciuto che in Gesù è Dio che agisce e salva; così solo chi è capace di «Eucaristia» (bene-dizione, rendimento di grazie), culmine e fonte di tutta l’attività della Chiesa, ha la «salvezza»: superamento del caos e accesso alla casa del senso.
Il Samaritano guarito insegna a dire grazie.
Niente ci è dovuto nel nostro rapporto con Dio.
Come anche nel rapporto con i fratelli.
«Tutto è grazia», dice Bernanos.
E se tutto è grazia, solo chi sa dire «grazie» ha capito il suo posto e la sua strada.
Nei nostri rapporti pensiamo sovente che tutto ci sia dovuto e facciamo fatica a dire «grazie», a utilizzare questa piccola forma di cortesia.
«Il segreto del vivere spirituale è nella facoltà di lodare.
La lode è il racconto dell’amore e precede la fede.
Prima cantiamo e poi crediamo» (A.J.
Heschel).
Per chi legge il Vangelo non c’è niente di più impegnativo che dire «grazie».
Dal profondo del cuore.
È fare «Eucaristia».
La lode è pura gratuità per il dono dell’esistenza.
L’uomo è così restituito alla sua vocazione: «Misericordias Domini in aeterno cantabo!».
«La riconoscenza – afferma un proverbio africano – è la memoria di cuore».
È la capacità di ricordare e, pertanto, di amare.
  Grazie, Signore  Signore, ti ringrazio perché mi hai messo al mondo: aiutami perché la mia vita possa impegnarla per dare gloria a te e ai miei fratelli.
Ti ringrazio per avermi concesso questo privilegio: perché tra gli operai scelti, tu hai preso proprio me.
Mi hai chiamato per nome perché io collabori con la tua opera di salvezza.
Grazie perché il mio letto di dolore è fontana di carità, è sorgente di amore.
Di amore per te, anche di amore per tutti i fratelli.
Signore, io seguo te più da vicino, in modo più stretto.
Voglio vivere in un legame più forte per poter essere più pronto a darti una mano, più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti possano essere salutati da chi sta a valle.
Concedimi il gaudio di lavorare in comunione e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri, pretendo di fare la mia corsa da solo.
Salvami, Signore, dalla presunzione di sapere tutto.
Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.
Dalla durezza di chi non tollera i ritardi.
Dal rigore di chi non perdona le debolezze.
Dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.
Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita, perché le parole, quando veicolano la tua, non suonino false sulle mie labbra.
(Don Tonino Bello) La sofferenza come maestra Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore.
Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita.
Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono.
Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo.
Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.
Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti.
Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto.
E Ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla.  (J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).
Dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare Noi riceviamo dalla grazia di Dio molti e svariati doni; in cambio di ciò che abbiamo ricevuto dobbiamo rendere grazie con la preghiera a chi ce li ha donati.
Penso che anche se trascorressimo la nostra vita intera nel colloquio con Dio ringraziandolo e pregandolo, saremmo ancora lontani dal contraccambiarlo adeguatamente; ci troveremmo, in un certo senso, a non aver neppure cominciato a concepire il desiderio di ringraziarlo.
Il tempo si divide in tre parti: passato, presente e futuro.
In tutti e tre noi sperimentiamo la benevolenza del Signore.
Se pensi al presente, sei in vita grazie al Signore.
Se pensi al futuro, su di lui riposa la speranza di ciò che attendi.
Se guardi al passato, non saresti in vita, se il Signore non ti avesse creato.
Ti ha fatto il dono di ricevere vita da lui, e, una volta nato, ti è fatto il dono di avere in lui la vita e il movimento, come dice l’apostolo (cfr.
At 17,28).
Da questo stesso dono dipendono le tue speranze future.
Nelle tue mani è soltanto il presente.
Anche se tu non smettessi mai di ringraziare Dio, a stento potresti ringraziare per il tempo presente, ma non potresti mai rendere ciò che devi per il futuro o per il passato.
Siamo ben lontani, del resto, dal rendere grazie secondo le nostre capacità! Non facciamo il possibile per ringraziare, non dico tutto il giorno, ma neppure una piccola parte del giorno, dedicandola a meditare le opere divine.
Chi ha dispiegato la terra ai miei piedi? […] Chi ha dato a me, polvere senz’anima, vita e intelligenza? Chi ha plasmato me, che sono argilla a immagine di Dio? Chi ha restituito alla mia immagine alterata dal peccato il suo primitivo splendore? Chi riconduce alla primitiva beatitudine me che sono stato cacciato dal paradiso, allontanato dall’albero di vita, immerso nell’abisso dell’esistenza terrena? Non vi è chi comprenda (cfr.
Rm 3,11), dice la Scrittura.
Considerando queste cose, dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare per tutta la nostra vita.
(GREGORIO DI NISSA, Sul Padre nostro 1, PG 44, 1124C-1125C).
Insegnaci a non amare solo noi stessi Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano.
Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.
Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.
Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.
(Raoul Follereau)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
           XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: 2 Re 5,14-17          In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra].
Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele.
Adesso accetta un dono dal tuo servo».
Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò».
L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».
    v È in questa linea che si muove la narrazione ripresa dal secondo libro dei Re (5,14-17).
Essendo stato colpito dalla lebbra, Naaman, «il comandante dell’esercito del re di Aram» (5,1), sente dire da una giovinetta ebrea, rapita e deportata in Siria a servizio della moglie del generale, che in Israele c’è un profeta, Eliseo, che fa miracoli e può guarire anche dalla lebbra.
Se nonché, il profeta gli ordina di bagnarsi sette volte nel Giordano per ottenere la guarigione.
Il generale stenta a credere tutto questo: ma alla fine obbedisce e viene guarito.
Per riconoscenza vuole offrire dei doni, che il profeta invece respinge, perché Dio soltanto può operare prodigi.
          È a questo punto che Naaman il Siro si rende conto che solo il Dio di Israele, che il profeta ha invocato e di cui è come il portavoce, è il «vero Dio», e perciò chiede ad Eliseo il permesso di portare un «pezzo» di terra santa a Damasco per adorarvi l’unico Signore del cielo e della terra: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore» (5,17).
     Anche Gesù nella sinagoga di Nazaret, davanti all’indisposizione dei suoi concittadini che reclamavano da lui miracoli, quasi come segno di particolare «appartenenza», si riferirà a questo episodio per dire che ormai non ci sono più «stranieri» nel suo regno, che appartiene a tutti coloro che vorranno entrarvi per la fede in lui: «C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro» (Lc 4,27).
     Con Gesù, Figlio di Dio, incarnatosi nel seno di Maria e diventato uomo come tutti noi, ogni uomo è chiamato a salvezza, a prescindere dalla collocazione geografica o dell’appartenenza a qualsiasi gruppo umano: ormai, con la sua venuta in mezzo a noi, ogni «terra» è diventata sacra!   Seconda lettura:  2Timoteo 2,8-13          Figlio mio, ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;  se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.
                          v Questo riferimento a Cristo, morto e risuscitato per la salvezza di tutti, è ribadito nel brano della 2a lettera a Timoteo (2,8-13), in cui Paolo esorta il suo discepolo ad essere coraggioso testimone dell’annuncio cristiano, anche se ciò dovesse comportare inimicizia, e perfino il carcere, come di fatto è capitato a lui: «ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2,8-9).
     L’impedimento del carcere, però, non riuscirà a imprigionare la «parola» di Dio, non solo perché Paolo continuerà ad annunciarla anche in prigione, ma soprattutto perché nella sofferenza sarà anche più unito a Cristo, e così apporterà un suo particolare contributo all’opera di redenzione: «Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2,9-10).
     Segue quindi un frammento di antico inno cristiano, in cui si esalta la comunanza di vita e di destino del credente con il suo Signore, per cui soltanto il nostro rinnegamento della salvezza, da lui apportataci, potrebbe portare anche lui a rinnegarci: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà…» (2,11-13).
     C’è un riecheggiamento palese, in questa ultima espressione, delle parole di Gesù: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,33).
     Questo brano della 2a lettera a Timoteo non è soltanto un invito al coraggio dell’annuncio, sempre e dovunque, di fronte a chiunque, ma anche l’affermazione della nostra «intimità» con Cristo, per cui, se «partecipiamo» al suo destino di sofferenza, parteciperemo anche alla sua «gloria».
Noi potremmo anche essere estranei a Dio, ma lui non è mai «estraneo» a nessuno di noi!   Vangelo: Luca 17,11-19          Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».
Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo.
Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
       Esegesi      — Guarigione dei dieci lebbrosi.
     È quanto ci dice soprattutto il racconto evangelico (Lc 17,11-19), che ci descrive la guarigione dei dieci lebbrosi, di cui uno soltanto, e precisamente un samaritano, torna a «rendere grazie a Dio» per la salute riacquistata.
Già precedentemente Luca aveva narrato la guarigione di un lebbroso (5,12-16), che ritroviamo anche negli altri Sinottici (Mc 1,40-45; Mt 8,1-4).
Qui invece egli attinge a materiale proprio, e appunto per le «particolarità» con cui l’episodio viene narrato non può essere una rielaborazione del precedente racconto, come qualcuno ha ipotizzato.
     Le «particolarità» più significative sono le seguenti: a) Gesù si trova quasi alla fine del «viaggio» che lo porta a Gerusalemme, dove sarà drammaticamente respinto dal suo popolo, che era venuto a salvare; b) è un gruppo intero di lebbrosi (10) che si rivolge a lui per essere guarito e che la sciagura aveva come affratellato, senza distinzione né di razza né di religione, nonostante che Giudei e Samaritani non avessero «buone relazioni» fra di loro (cf.
Gv 4,9); c) Gesù non tocca i lebbrosi per guarirli (cf.
5,13), ma, rispettando la legge mosaica (cf.
Lev 13,4-5), a distanza comanda loro di «presentarsi ai sacerdoti» per la verifica della guarigione, che sola consentiva il normale rientro nella società: la guarigione avviene proprio lungo il loro viaggio verso Gerusalemme.
     — Solo il samaritano torna a «ringraziare».
     Ma a questo punto accade la cosa più inattesa di tutto l’episodio, che è anche la «punta» semantica di tutto il racconto: uno soltanto, e precisamente il samaritano, cioè lo «straniero», torna a ringraziare Gesù, nel quale ovviamente ha riconosciuto un inviato di Dio.
È allora che Gesù esprime la sua amarezza per l’ingratitudine degli altri, che erano tutti ebrei: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (17,17-19).
     Qui la «salvezza» ovviamente è da intendere in senso più largo: non solo quella fisica, che avevano ricevuto anche gli altri, ma anche quella spirituale, che si ottiene appunto per la fede e che introduce nella comunità di Gesù, che è aperta a tutti e non solo ai Giudei.
     Anche altrove S.
Luca dimostra simpatia per i Samaritani: si ricordi appunto la parabola del buon Samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, ebrei, passati avanti senza curarsi di lui, si china sull’uomo ferito e lo aiuta con tutti i suoi mezzi, che Gesù porta ad esempio del vero amore del prossimo (cf.
Lc 10,30-37).
     Come si vede, anche la parabola del buon Samaritano, in ultima analisi, vuol dire che la salvezza portata da Gesù non solo si allarga oltre i confini d’Israele, ma addirittura che i «lontani» sono talora più vicini a Dio di quelli che dovrebbero essergli più «prossimi».
 

Questioni di fede.

RAVASI GIANFRANCO, Questioni di fede 150 risposte ai perche’ di chi crede e di chi non crede, Mondadori, Milano 2010, EAN : 9788804604707, Prezzo € 19,00 Perché Dio permette il male e la sofferenza? Che cosa ci attende dopo la morte? Come conciliare la fede cristiana con la teoria evoluzionistica? Sono alcune delle tante domande, scomode e affascinanti al tempo stesso, che vengono spesso rivolte a monsignor Gianfranco Ravasi.
Il celebre biblista ne ha raccolte centocinquanta, offrendo a ciascuno di questi interrogativi, che accompagnano il cammino di credenti e non credenti, una risposta chiara e argomentata.
Affrontare con le corrette coordinate metodologiche i testi della tradizione giudaico-cristiana è la condizione imprescindibile per rispondere non solo alle domande più spinose e cruciali, ma anche a interrogativi insoliti e curiosi: Gesù ha mai riso? Sapeva leggere e scrivere? Quali lingue parlava? Monsignor Ravasi guida il lettore nel mistero della vita e della fede, e tra le innumerevoli sfumature di quel capolavoro irripetibile che è la Bibbia.

XXVII Domenica Tempo Ordinario Anno C

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Abacuc 1,2-3;2.2-4          Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese.  Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà.
Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».
       v Un testo forte, vorrei dire drammatico, sulla fede, sulle sue difficoltà e, pur tuttavia, sulla necessità di rimanervi attaccati con tutto il nostro essere è il brano della prima lettura, ripresa dal profeta Abacuc, di cui sappiamo quasi nulla, salvo che dovrebbe aver vissuto ed operato verso il 600 a.C., più o meno contemporaneo di Geremia.
     Davanti allo scempio che avevano fatto i Babilonesi distruggendo la città santa (587-86), davanti alla loro tracotanza e violenza, sembra che Dio si sia dimenticato del suo popolo e non voglia più ascoltare le sue suppliche.
È per questo che il profeta insorge e mette quasi sotto accusa Dio: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti…
Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (1,2-3).
     Non è un bestemmiatore, il profeta, ma molto arditamente domanda al Signore se c’è un senso in tutto questo e se il popolo può ancora continuare a sperare.
Alla fine Dio risponde e garantisce che a un tempo «stabilito», che lui solo conosce, la salvezza verrà: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (2,3).
     Il testo si conclude con una riflessione del profeta stesso, che lapidariamente descrive l’esito diverso di chi conta solo sulle proprie forze, come i Caldei, e di chi invece è «fiducioso» nel Signore, come devono esserlo i Giudei ai quali egli si rivolge: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4).
     È risaputo che Paolo adopererà questo testo, secondo la versione greca dei LXX, per formulare la sua dottrina della «giustificazione» per la sola fede in Cristo (cf.
Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38).
Nel testo originale più che di fede si parla di «fedeltà» a Dio, al suo disegno di salvezza: chi avrà il coraggio di «fidarsi» di lui, di buttarsi nelle sue mani, soprattutto nei momenti bui dell’esistenza, propria o della comunità, non verrà deluso, mentre «colui che non ha l’animo retto», perché confida solo in se stesso, «soccomberà».
  Seconda lettura: 2Timoteo 1,6-8.13-14        Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani.
Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù.
Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.
                          v Nel brano della seconda lettera a Timoteo abbiamo di nuovo il tema della fede, però considerata più nel suo contenuto (la fides quae creditur, come dicono i teologi) che come atteggiamento dell’anima, aperta a ricevere il messaggio (fides qua creditur).
     E si capisce il perché di questa prospettiva diversa: Paolo si rivolge al suo discepolo prediletto, forse scoraggiato e un po’ anche depresso per le difficoltà del suo apostolato, allo scopo di richiarmarlo al senso della sua missione pastorale: «ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6).
Nella sua consacrazione egli non ha ricevuto uno «spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (1,7): perciò non deve «vergognarsi» di rendere testimonianza al Signore Gesù, né delle «catene» in cui per il momento è costretto l’apostolo, quasi che fosse un perdente.
Piuttosto «soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (1,8), prendendo proprio come esempio il suo maestro (1,13).
     A conclusione troviamo il solenne richiamo a custodire integro il «bene prezioso», cioè la totalità del mistero cristiano, da annunciare con coraggio e fedeltà.
L’immagine del «bene prezioso» è ripresa dalla prassi giuridica del tempo, secondo la quale il depositario di qualche oggetto prezioso, o di una determinata quota di denaro, era obbligato a restituire integri, in qualsiasi momento, al depositante gli oggetti a lui affidati, pena gravissime punizioni in caso di inadempienza.
A Timoteo è stato affidato qualcosa di più prezioso che oro o argento; di qui la sua grave responsabilità: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi » (1,14).
  Vangelo: Luca 17,5-10          In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
    Esegesi      — Signore: «Accresci in noi la fede!».                     .
     Eloquente al riguardo è il brano di Vangelo, che si articola in due sezioni: la prima (Lc 7,5-6) è rintracciabile, diversa, nella comune tradizione sinottica (cf.
Mc 9 24; Mt 17,20, 21,22), la seconda (17,7-10) fa parte del tipico patrimonio lucano ed è coerente con le dinamiche del suo pensiero.                         Dunque gli Apostoli, un bel giorno, chiedono a Gesù: «Accresci in noi la fede!».
Accanto a lui, quotidianamente, non potevano non avvertire che in lui c’era qualcosa che andava oltre il comune limite dell’umano: si dovevano perciò essere aperti a un rapporto di «fiducia» altissima di fronte a Gesù.
Ma questa era davvero «fede», come pensavano gli Apostoli dal momento che lo pregano di «aumentargliela»?      Sembra che Gesù non condividesse questa convinzione, per il fatto che in forma ipotetica, afferma che di fede ne basterebbe solo un pizzico per compiere addirittura miracoli: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v.
6).
       Due testi paralleli di Matteo riportano l’immagine del «monte» che potrebbe essere spostato nel mare; Luca, più coerentemente con l’immagine del «granello di senapa», parla di un gelso, o di un sicomoro, che è una delle piante più fortemente radicate sul terreno.
Comunque, a parte la diversità delle immagini, il pensiero è chiaro: basta un mimmo di fede che sia autentica, profonda, al di là di ogni dubbio o incertezza, perché il miracolo, l’umanamente impossibile, avvenga.
     Perciò praticamente Gesù, per un verso, invita i suoi discepoli a verificare la propria fede; per un altro verso, assicura loro che la preghiera fatta con fede ottiene tutto: anche «l’aumento» e la «crescita» stessa della fede, esattamente come scrive S.
Paolo, «di fede m fede» (Rm 1,17).
     — «Siamo servi inutili»                                             E soprattutto di fede «adulta», tesa costantemente a crescere, c’è bisogno quando potrebbe sembrarci che il nostro servizio fosse di poco conto, o che non fosse sufficientemente remunerato.
È quanto si afferma nella seconda sezione del brano evangelico (vv.
7-10) con la parabola del servo che, dopo aver fatto il suo lavoro, nei campi o dietro il gregge, e pregato ancora di preparare da mangiare al padrone prima di assidersi  pure lui a mensa.
     È indubbiamente urtante per la sensibilità moderna assai mercantilizzata la conclusione che ne trae Gesù: «Forse che il padrone si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (vv.
9-10).
     Gesù si riferisce qui alle abitudini sociali del tempo (che certamente non prevedevano contratti sindacali), senza peraltro esprimere nessuna valutazione morale al riguardo.
Il quadro gli serve semplicemente per dire che davanti a Dio nessuno può avanzare delle pretese: anche il massimo che potremmo aver fatto non crea nessuna posizione di privilegio, perché abbiamo fatto solamente «quanto dovevamo fare».
Siamo tutti «servi inutili» davanti a lui: ci ha scelti per pura grazia a collaborare alla costruzione del regno e dobbiamo rispondergli con pienezza di impegno, grati solo perché ci ha chiamati ad essere «servi», e non «padroni»: lui soltanto è il «padrone»!      Questo discorso è chiaro che vale per tutti, ma soprattutto per coloro che Dio ha chiamato all’apostolato, proprio come i Dodici.
Ciò che alla luce della ragione potrebbe apparire evidente, alla luce della fede appare addirittura esaltante: «Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare», proprio perché egli ci ha dato la grazia di farlo.
     Meditazione      La fede è il tema unificante la prima lettura e il vangelo.
Nella prima lettura si tratta della fede messa alla prova dal silenzio e dall’inazione di Dio e chiamata a divenire attesa perseverante e fiduciosa nella promessa di Dio.
Così, anche in tempi bui, il giusto troverà vita grazie alla fede.
Nel vangelo si tratta della fede come realtà non quantificabile, ma qualitativa, caratterizzata dalla relazione di abbandono fiducioso del servo al suo Signore.
     Di fronte alle parole di Gesù che parlano di perdono fino a sette volte al giorno nei confronti del fratello che pecca (Lc 17,3-4), gli apostoli pregano Gesù di accrescere la loro fede (Lc 17,5).
Essi mostrano così di aver ben capito che il perdono non è solo un gesto etico, ma è evento escatologico, dono dello Spirito santo, irruzione del Regno di Dio nella vita degli uomini.
Mostrano di aver capito che la comunione nella comunità cristiana – comunione a cui è essenziale il perdono – è possibile solo grazie alla fede, al far regnare la signoria di Dio.
Ma chiedendo la fede essi mostrano anche di aver compreso che la fede è dono che trova nel Signore stesso la sua origine e la sua fonte.
     E mostrano di aver capito che della fede – propria e altrui – non si è padroni e non la si può imporre, ma solo la si può accogliere con gratitudine e nutrire con la preghiera.
E ancora che anche per loro, «gli apostoli» (Lc 17,5), i Dodici scelti direttamente da Gesù, la fede non è una realtà scontata.
Anzi la fede è sempre «poca» e i discepoli sono sempre «uomini di poca fede», ovvero incapaci di quella relazione di abbandono pieno e fiducioso, gratuito e convinto, umile e perseverante, dolce e robusto, in una parola, di quell’amore che è alla base della potenza della fede.
     La fede e null’altro è alla base dell’autorità degli apostoli: questo è sottolineato da Luca con l’annotazione che, se avessero fede quanto un minuscolo granello di senape, potrebbero farsi «obbedire» (verbo hypakoúein: Lc 17,6) anche da un albero a cui viene ordinata una cosa folle.
Solo la fede consente al predicatore, al missionario, all’apostolo di farsi eco – con la propria azione e la propria parola – dell’azione e della parola di Dio e di suscitare nel destinatario l’adesione teologale, non un’appartenenza alla propria persona.
       Nel detto parabolico dei vv.
7-10 Gesù prima paragona gli apostoli a dei padroni che hanno dei servi, poi direttamente a dei servi, e per di più, inutili.
L’autorità nella chiesa si declina come servizio ed esclude ogni rapporto di forza e di dominio.
Il passaggio dall’«avere un servo» (Lc 17,7) all’«essere servi» (Lc 17,10) è significativo: nella comunità cristiana non vi sono padroni e servi, ma vi sono dei fratelli che sono dei servi dell’unico Signore e maestro (cfr.
Mt 23,8-10).
L’autorità nella chiesa deve passare attraverso il vaglio dell’umiltà e del servizio per non esprimersi come potere e oscurare così l’unica signoria di Gesù: «Un apostolo non è più grande di chi l’ha inviato» dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi durante l’ultima cena (Gv 13,16).
     Ecco dunque la situazione, paradossale ma salvifica, in cui è posto il missionario, l’apostolo nella comunità cristiana: la sua autorità riposa interamente sul suo essere inviato come servo (Lc 17,7; At 20,19), per lavorare il campo di Dio (1Cor 3,5 ss.), per arare (Lc 17,7; 1Cor 9,10) o pascolare (Lc 17,7; At 20,28; 1Cor 9,7).
La sua autorità riposa sulla sua obbedienza alla parola del Signore (Lc 17,10).
Ed ecco la coscienza con cui il servo è chiamato ad esercitare il suo ministero: l’inutilità.
Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che anima l’apostolo è liberante e liberata quando egli compie tutto senza nulla far risalire a se stesso, ma tutto rinviando al Signore che è all’origine della sua chiamata e di ogni fecondità apostolica.
Paolo, dopo aver ricordato di aver «servito il Signore con tutta umiltà» (At 20,19) dice: «La mia vita non è meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi e stato affidato dal Signore Gesù» (At 20,24).
  Preghiere e Racconti   La possibilità della fede “Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20).
Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento.
Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore.
Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé.
Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane.
Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi.
“Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard).
Eppure, credere non è un atto irragionevole.
È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.
(Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28) L’inquietudine della notte della fede Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora.
Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo.
Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo.
Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi.
Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza.
Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).
Fede La fede non è una sicurezza ma un cammino silenzioso.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 184).
  La ricerca di Dio Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia.
E che anche la Fede è una Notte Buia.
Di certo, non può dirsi una sorpresa.
Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia.
Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti.
Perché ‘confidano’.
Perché hanno Fede.
[…] Ogni momento della vita è un atto di fede.
(Paulo COELO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31) Dona a ogni istante il mio amore eterno Mio Dio, sorgente senza fondo della dolcezza umana, addormentandomi lascio scorrere il mio cuore in Te come un recipiente caduto nell’acqua di una fontana e che Tu riempi di Te stesso senza di noi.
In Te domattina ritornerò a prenderlo pieno dell’amore che occorre per la giornata.
O Dio, ne tiene poco, aihmè! Per quanto Tu spanda i Tuoi flutti su di esso, non ne trattiene mai più di un po’.
Ma rinnovami senza fine questo po’ di acqua viva, donamelo fin dall’alba, ai piedi dell’arduo giorno e ridonamelo ancora quando giunge la sera, prima di sera, Signore, poiché l’avrò perduto.
O Tu dal quale il giorno riceve senza sosta il giorno grazie al quale l’erba che cresce è cresciuta nella notte, che continuamente aggiungi all’albero che cresce l’invisibile altezza che lo conduce in aria, dona al mio cuore debole e molto limitato, al mio cuore con tanta fatica amante e fraterno.
Dio paziente delle opere lente e piccole, dona a ogni istante il mio amore eterno.
(M.
Noël, I canti della pietà).
La tentazione dell’impazienza «Cercare subito il grande successo, i grandi numeri… non è il metodo di Dio.
Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr.
Mc 4, 31-32).
Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno.
[…] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale.
Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».
(J.
RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia.
Studi in onore del Card.
Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).
Il dubbio e la grazia Ogni mattino, Dio nomina il suo governo.
Un giorno è il sole a presiederlo, con il marmo e la rugiada come grandi funzionari, e laggiù nei mondi molto evanescenti un albero di virtù porta la sua ambasciata.
L’indomani, Dio capovolge l’ordine: il nero oceano gode della sua fiducia, ed esso delega i suoi poteri alla dolce collina, al ruscello che canticchia, a qualche mezzofico trovato nella polvere.
Ma Dio deve perfezionarsi: è la sua legge; oggi si circonda di un pangolino esperto in scienze occulte, di un’isola che gli mostra discretamente della tenerezza, di una pioggia fine dalle favole edificanti, di una lunetta un po’ gobba che gli riferisce le voci che circolano.
Dio non ha mai trovato un buon ministro degli affari divini.
(A.
Bosquet, Il libro del dubbio e della grazia) Aumenta la nostra fede «Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5).
Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio.
Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32).
Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24).
I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro.
E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali.
Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).
(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp.
160-161).
Preghiera Signore, fa di me ciò che vuoi! Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me, voglio ciò che Tu vuoi per me.
Non dico: “Dovunque andrai,

XXVI Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   I poveri come tempio Spoglia l’altare della Vergine e vendine i vari arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno.
Credimi, le sarà più caro che sia osservato il Vangelo del Figlio suo e nudo il suo altare piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio.
Il Signore manderà poi chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito.
(Vita seconda di Francesco d’Assisi- Tommaso da Celano).
  Ricchezza e povertà «Il denaro non è “disonesto” in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo.
Si tratta dunque di operare una sorta di “conversione” dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – “da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà” (2 Cor 8,9).
Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.
Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato.
La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria.
Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico.
Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: “la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi” (n.
32).
Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35).
L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta.
Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile».
Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.
(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 23-IX-2007).
  Come i gigli dei prati e gli uccelli del cielo Uno dei confratelli chiese ad un anziano: Sarebbe giusto se io tenessi due monete per me, nel caso mi ammalassi ? L’anziano, leggendo nei suoi pensieri che egli voleva tenerle, disse: Tienile.
Il fratello, ritornando alla sua cella, cominciò a lottare con i suoi pensieri, dicendo: Mi chiedo se il padre mi ha dato la sua benedizione oppure no.
Alzandosi, tornò dal padre e gli rivolse queste parole: in nome di Dio, dimmi la verità, perché sono tutto ansioso per queste due monete.
L’anziano gli disse: Dal momento che ho visto i tuoi pensieri e il tuo desiderio di tenere quelle monete, ti ho detto di tenerle.
Ma non è bene tenere più di quello che ci serve per il corpo.
Ora queste due monete sono la tua speranza.
Ma se le perdessi, Dio non si prenderebbe forse cura di te ? Lasciate ogni preoccupazione a Dio, allora, perché egli si prenderà cura di voi.
( Thomas Merton, La saggezza del deserto) Essere caritatevoli Il movimento Emmaus, che non è confessionale, rappresenta un pugno nello stomaco per tante “brave persone” – praticanti impeccabili, si dice – che lasciano crepare quanti abitano alla porta accanto, senza neppure accorgersene, consentendo tranquillamente il permanere, sul piano politico, di un ordine ingiusto di cui esse profittano..
Dentro di me tutto questo esplode con la violenza di una bomba, poiché sono ferito della ferita del disoccupato, della ferita della giovane donna di strada..
come una madre è malata della malattia del suo bambino.
Ecco che cos’è la carità, si dirà con un sorriso un po’ sprezzante, poiché il termine, disprezzato, evoca le “opere buone” delle belle e ricche dame di un tempo.
Essere caritatevoli non è solo dare, è essere stati, essere feriti della ferita altrui.
Ed è anche congiungere tutte le mie forze con le forze dell’altro per guarire insieme dal suo male diventato il mio.
(Abbé Pierre, Testamento)   Ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro Sta scritto: C’era un tale, che era ricco, e subito dopo si aggiunge: e c’era un mendicante di nome Lazzaro (Lc 16,19).
Di certo presso la gente sono più noti i nomi dei ricchi che quelli dei poveri.
Perché dunque il Signore parlando di un povero e di un ricco dice il nome del povero e non dice quello del ricco, se non perché Dio conosce gli umili e li approva, e ignora invece i superbi? Per questo, nell’ultimo giorno, a certuni che si sono insuperbiti per il potere di fare miracoli dirà: Non so di dove siete; via da me, voi tutti, operatori di iniquità (Mt 7,23).
A Mosè invece è detto: Ti ho conosciuto per nome (Es 33,12).
Del ricco, dunque, il Signore dice: C’era un tale, e riguardo al povero: un mendicante, di nome Lazzaro; è come se dicesse: «Conosco il povero che è umile, non il ricco che è superbo.
L’uno lo conosco e lo approvo, l’altro lo ignoro poiché lo condanno» […] Ecco, Lazzaro, il mendicante, giace tutto piagato davanti alla porta del ricco.
Con quest’unico fatto il Signore esprime due giudizi.
Il ricco, infatti, avrebbe forse avuto qualche giustificazione se Lazzaro non fosse rimasto a giacere davanti alla sua porta povero e piagato, se fosse stato lontano, se la sua povertà non avesse importunato il suo sguardo.
Inoltre, se il ricco fosse stato lontano dallo sguardo del povero mendicante, questi avrebbe dovuto sopportare nel suo animo una tentazione meno forte.
Ma poiché il Signore pone il povero e coperto di piaghe davanti alla porta del ricco che godeva di tanti piaceri, da un’unica e medesima situazione questo derivò: vi fu grave condanna per il ricco che vedeva il povero e non ne ebbe compassione; ma anche, vi fu una quotidiana tentazione per il povero che vedeva il ricco.
Non credete che quest’uomo povero e piagato abbia dovuto sopportare gravi tentazioni al pensiero che lui mancava di pane ed era malato e davanti a sé vedeva un ricco in piena salute, immerso nei piaceri? […] Ma voi, fratelli, conoscendo il riposo donato a Lazzaro e il castigo inflitto al ricco, datevi da fare, cercate degli intercessori per le vostre colpe, fate in modo di avere i poveri quali vostri avvocati nel giorno del giudizio.
Avete ora molti Lazzari; stanno davanti alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno dopo che vi siete saziati, cade dalla vostra mensa.
Le parole del libro sacro ci devono predisporre a praticare i precetti della carità.
Ogni giorno possiamo trovare Lazzaro, se lo cerchiamo; ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro.
(GREGORIO MAGNO, Omelie sui vangeli 40,3-4.10, Opere di Gregario Magno, Omelie sui vangeli, pp.
568-570.578-580).
  La povertà del predicatore Nella povertà del discepolo e dell’apostolo il destinatario del vangelo può cogliere il segno stesso del contenuto del messaggio.
La povertà del predicatore è, per così dire, il sacramento, cioè la manifestazione visibile del vangelo e dell’uomo che dal vangelo si lascia coinvolgere.
Il cuore della lieta novella, che il regno di Dio viene e la figura di questo mondo passa, che il Crocifisso è il Risorto e che morte significa vita, ma che la vita vera passa sempre attraverso la morte, tutto questo l’apostolo non può annunciarlo soltanto a parole, ma con il suo stesso modo di vivere.
Lui stesso deve incarnare questo messaggio.
La croce di Cristo e la speranza nella risurrezione si configurano nell’essere-crocifìssi-con-Cristo degli apostoli, che poi significa che «fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani» (cfr.
1 Cor 4,11ss.).
Nella povertà dell’apostolo è possibile cogliere il messaggio della croce e risurrezione.
Il predicatore diventa così segno vivente del suo messaggio, il segno che la figura di questo mondo passa e il Signore viene a liberarci […].
Ma la povertà deve esprimere al tempo stesso una dedizione a favore del prossimo.
Se si vuole seguire Gesù bisogna essere disposti a dare tutto ciò che si possiede ai poveri.
Come la povertà di Gesù sta a esprimere il suo amore per gli uomini – «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9) – così anche la povertà dei discepoli serve ad amare tutti gli uomini, ma soprattutto i più poveri, come fratelli e sorelle di Gesù.
La povertà porta alla solidarietà con i poveri, a una maggior solidarietà nell’amore.
Soltanto chi è povero può essere davvero amico dei poveri, dei piccoli, degli emarginati […].
Dovremo allora porci una seria domanda: nella comunità i poveri sono anche i ‘prediletti’, come lo sono stati per Gesù, o, invece, lo sono i ricchi i ‘ben educati’, i ‘più validi’ e ‘distinti’, quelli con i quali è possibile ‘dialo-  gare’? Chi rappresenta il particolare oggetto del nostro interesse e del nostro amore? (G.
GRESHAKE, Essere preti.
Teologia e spiritualità del ministero sacerdotale, Brescia 1984,193s.).
  Vendere il cuore al denaro «Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore.
Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile.
Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più.
Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi.
Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…] La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).
  Preghiera Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita.
Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene.
Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli.
Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte.
Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo.
Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica.
Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà.
Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.
        * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
   XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Amos 6,1.4-7          Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.
       v La insipienza del ricco bollata nel Vangelo ha avuto, purtroppo, tanti modelli prima, e troverà ancora tanti imitatori.
     Il tempo di Amos (VIII secolo a.C.) conosce un boom di benessere che alcuni fortunati ritrovamenti archeologici hanno potuto documentare: letti d’avorio (cf.
v.
4), case estive, (cf.
3,75), sfacciata ricchezza.
A fronte di un florido benessere per pochi, sta la povertà o la miseria per molti.
Non è ammissibile una simile sperequazione.
Lo squilibrio sociale è indice di uno squilibrio morale.
     La parola del profeta, scarna e rude perché viene da un pastore avvezzo ad una vita essenziale, giunge chiara e forte, tagliente e impietosa.
Se alcuni si danno alla ‘bella vita’, dilettandosi nel dolce far niente, nelle gozzoviglie e nei piaceri, altri sono abbandonati a se stessi.
La descrizione del lusso e della irresponsabilità della classe dirigente non ha eguali in tutto l’A.T.
Amos sferza coloro che non si rendono conto di andare verso il baratro, e non si curano della «rovina di Giuseppe», cioè della situazione disperata e tragica del paese, ormai allo sfascio politico, sociale e religioso.
     La rovina, imminente e ormai palpabile, prende il tragico nome di «esilio».
Il quadretto iniziale, quasi ‘da Olimpo’ serve da capo d’accusa per la condanna finale.
Anche qui, come già per il Vangelo, si assiste ad un catastrofico ribaltamento di situazione.
     Il messaggio diventa monito per non perdere tempo in cose fallaci e, in maniera positiva, un invito a scelte coraggiose, capaci di ripristinare un equilibrio.
Finché siamo nel tempo, abbiamo l’opportunità per un rinnovamento, certi che il futuro roseo viene preparato dall’impegno di oggi.
  Seconda lettura: 1Timoteo 6,11-16          Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.
Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre.
Amen.
              v Una lettera calda, ricca di paterna attenzione al giovane collaboratore Timoteo, che Paolo si premura di istruire e di indirizzare perché sia una corretta guida della comunità ecclesiale.
Prima di concludere la lettera, l’Apostolo sente il dovere di incoraggiare il caro amico.
Una solenne dossologia suggella il brano e, ormai, tutta la lettera.
     «Uomo di Dio» è l’onorevole titolo con il quale Paolo chiama Timoteo.
Forse è da intendere nel senso che il suo collaboratore è un uomo al servizio di Dio, uno strumento nelle sue mani, così come lo furono gli uomini dell’Antica Alleanza.
L’incoraggiamento dondola su due verbi all’imperativo: «evita», riferito, secondo la maggior parte degli esegeti al contenuto espresso nei vv.
2b-10, e «tendi» («insegui»), inteso nel senso di ricercare con l’intento di ottenere «la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza, la mitezza».
Elencando alcune virtù, sempre a mo’ di esempio, viene affermata l’esigenza di una vita totalmente e radicalmente cristiana.
Parlando di «giustizia» (greco dikaiousyne) non si intende il senso paolino di giustizia divina concessa gratuitamente (cf.
soprattutto Rm e Gal), ma la vita retta che Dio indica.
Con «pietà» si fa riferimento all’esistenza cristiana pratica.
Pertanto, considerando la coppia giustizia-pietà, abbiamo la definizione dell’intera esistenza umana in rapporto a Dio e agli uomini.
L’elenco prosegue poi con virtù che sono specifiche dell’ethos cristiano.
    Segue, al v.
12, una nuova immagine, quella del combattimento, che Paolo usa anche altrove (cf.
1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14).
L’uomo di Dio deve affrontare la gara, come un campione e con decisione, per due motivi: per rispondere alla chiamata di Dio e per onorare l’ingaggio.
Si insinua così il vero significato dell’immagine: Paolo richiama alla memoria di Timoteo — e attraverso lui a tutti i cristiani — la conoscenza che la fede viene vissuta nel contrasto, e che la vita eterna va conquistata nella lotta.
Lo sforzo, a cui va l’appello, è aperto alla speranza di conseguire lo scopo mediante la vocazione di Dio.
Oziosi e neghittosi sono categoricamente esclusi dal conseguimento della vita.
Nella chiamata è incluso l’impegno della professione di fede emessa un giorno «davanti a molti testimoni», la quale non può essere tradita.
     Grazie ad un fortunato parallelismo, la professione cristiana di Timoteo davanti a molti testimoni è posta in relazione con la testimonianza che Gesù Cristo ha reso davanti a Pilato.
Cristo è stato il primo a dare una eccellente testimonianza, mediante la sua passione e morte.
Ora spetta a Timoteo mantenersi fedele a quella professione di fede e adempiere i comandamenti di Dio con una condotta di vita irreprensibile.
     Poi il discorso si eleva.
Sembra che Paolo utilizzi il materiale di una antica professione di fede.
La giovane guida della comunità di Efeso deve custodire puro «il comandamento», fino al solenne ritorno di Cristo nella parusia.
Il termine «manifestazione» (in greco epifáneia), secondo alcuni autori, richiama l’idea di una festosa comparsa, quando improvvisa e straordinaria; comunque, di essa non è dato sapere il momento.
Nelle lettere pastorali il termine epifáneia indica la manifestazione di Cristo nel suo trionfo escatologico (cf.
2Tm 1,10; Tt 2,11).
     La sezione si chiude con una dossologia innica, che ricorda quella dell’inizio della lettera (cf.
1,17), e termina in bellezza l’incoraggiamento di Paolo a Timoteo.
In questi versi, di mirabile fattura poetica, sono condensati alcuni attributi divini di derivazione sia biblica che ellenistica.
La dossologia «a lui onore e potenza per sempre.
Amen» pone il sigillo al nostro brano.
Nel suo insieme, ricorre ancora 1Tm 1,17 e 2Tm 4,18.
Qui la gloria è sostituita da forza e potenza.
La cosa è dovuta alla forte sottolineatura del primato di Dio e della sua sovranità nei confronti di ogni presunta divinità imperiale.
Il «per sempre» taglia corto, quasi a dire che «su questo argomento non si potrà mai più tornare, tanto esso è certo e sicuro.
Per le comunità giudeocristiane, il contrario non può che essere blasfemo» (C.
Marcheselli-Casale).
Con la parola «Amen» si chiude il frammento innico.
È una parola che suggella, in questo caso, il nostro impegno.
  Vangelo: Luca 16,19-31          In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti.
Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo.
Morì anche il ricco e fu sepolto.
Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli.
Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”.
Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”.
E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.
Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».