XXX II Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   Fede nella vita oltre la morte Col tempo imparai a conoscere la Bibbia, e oggi mi considero una cristiana.
[…] In linea con san Paolo, credo che dopo la nostra morte corporea risorgeremo con un “corpo spirituale” in un’altra dimensione rispetto a quella fisica in cui viviamo adesso.
[…] O, per dirla con san Paolo: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti? Se non esiste resurrezione dei morti, neanche Cristo è resuscitato.
Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la vostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”.
 Io che ero entrata in crisi e avevo pianto amaramente pensando che ci fosse solo questa terrena.
Io che per alleviare questa sofferenza mi infilai nel maggiolone per andare a sciare sul ghiaccio di Jostedal.
Io che avevo sempre sofferto così tanto perché mai e poi mai mi sarei saziata di vita.
Io, improvvisamente, avevo trovato la strada verso una rassicurante fede nella vita oltre la morte.
(Jostein GAARDER, Il castello dei Pirenei, Longanesi, Milano, 2009, 215-216).
Dio dei padri, Dio dei viventi II nostro Signore e maestro nella risposta ai sadducei, i quali affermavano che non vi è resurrezione e per questo disonoravano Dio e sminuivano la Legge, dimostrò la resurrezione e fece conoscere Dio.
Disse infatti: A proposito della resurrezione dei morti non avete letto ciò che è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? (Mt 22,31-32), e aggiunse: Non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui (Lc 20,38).
Con queste parole rese assolutamente manifesto che colui che parlò a Mosè dal roveto e dichiarò di essere il Dio dei padri è il Dio dei viventi.
Ora, chi è il Dio dei vivi se non colui che è Dio e al di sopra del quale non vi è altro Dio? […] Colui che è adorato dai profeti è il Dio vivente, è il Dio dei viventi, e il suo Verbo ha parlato a Mosè, ha rimproverato i sadducei, ha donato la resurrezione, mostrando a quei ciechi due cose: la resurrezione e Dio.
Se infatti Dio non è il Dio dei morti ma dei vivi e se è detto Dio dei padri che si sono addormentati, certamente vivono per Dio e non sono morti essendo figli della resurrezione (Lc 20,36).
Proprio per insegnare questa stessa cosa diceva ai giudei: Il vostro padre Abramo esultò per vedere il mio giorno, lo vide e si rallegrò ( Gv 8,56).
Che cosa significa questo? Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia (Rm 4,3).
Innanzitutto credette che egli è il creatore del cielo e della terra, il solo Dio; poi, che avrebbe reso la sua posterità come le stelle del cielo (cfr.
Gen 15,5) e questo è ciò che è detto da Paolo [quando scrive: dovete risplendere] come astri nel mondo (Fil 2,15).
Giustamente, dunque, Abramo, dopo aver lasciato la sua parentela terrena, seguiva il Verbo di Dio, facendosi straniero con il Verbo per dimorare con il Verbo.
Giustamente anche gli apostoli che discendevano da Abramo, lasciata la barca e il padre, seguivano il Verbo.
Giustamente anche noi, che abbiamo la stessa fede di Abramo, presa la croce come Isacco prese la legna, seguiamo lui.
In Abramo l’uomo aveva imparato già da prima a seguire il Verbo di Dio.
(IRENEO DI LIONE, Contro le eresie 4, 5,2-5, SC 100, pp.
428-434).
La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’ La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’ che i discepoli di Gesù volevano annunciare al mondo.
Gesù è il Signore che ha patito, è morto, fu sepolto e il terzo giorno è risorto.
Era un annuncio che tutti dovevano conoscere: era la ‘lieta notizia’, e lo è ancor oggi.
Si può dire che tutto ciò che i vangeli dicono di Gesù mira a far risaltare il pieno significato della sua passione, morte e risurrezione.
Il vangelo è, prima e più di tutto, il racconto della morte e risurrezione di Gesù, che costituisce il cuore della vita spirituale.
Passione, morte e risurrezione di Gesù rappresenta l’avvenimento fondamentale e più importante di tutta la storia umana.
Se non riesci a sentirlo e a vederlo, allora il vangelo, nel migliore dei casi, potrà sembrarti interessante, ma non potrà rinnovarti il cuore e farti rinascere a vita nuova.
E il vangelo mira appunto a questa rinascita – a una liberazione radicale che ci sottrae al potere della morte e ci permette di amare senza paura.
Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte? La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere.
La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto.
Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte? Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire.
È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita.
Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita.
Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.
Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte.
L’anno scorso un mio amico morì di cancro.
Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere.
Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo.
Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.
Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti.
Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.
Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte.
Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti.
Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte.
Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello) La morte Infine, vi è un luogo dello Spirito del quale vi dirò molto poco, perché non ne abbiamo alcuna esperienza diretta.
Eppure è importante: forse è il più importante di tutti.
È la morte, in cui ogni cosa ci è consegnata all’improvviso, come un frutto maturo che ci attende al termine di una lunga iniziazione, un lungo esercizio.
Riguardo a questo luogo, se è vero che noi non siamo ora in condizione di rendere testimonianza all’attività dello Spirito che in quel momento ha luogo, sarebbe forse interessante studiare e analizzare le preziose testimonianze dei morenti.
Forse è grazie a loro che ci sarà dato di scoprire i veri criteri dell’esperienza spirituale.
(Tratto da A.
Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp.
9-20).
La morte è sempre puntuale C’è un’altra storia non troppo simpatica, che ha per protagonista un tale di nome Omar.
Sembra proprio si tratti del nostro vecchio amico Datu Omar che abbiamo lasciato qualche pagina fa mentre piangeva per la scomparsa della sua moglie e domandava ad Allah di salvargli la bambina che stava morendo.
Ebbene lo ritroviamo qualche tempo dopo, solo e ancora più disperato di prima.
Anche la ricchezza lo aveva abbandonato e con la ricchezza, si sa, se ne vanno via subito anche gli amici.
Decise allora che era preferibile per lui lasciarsi ghermire dalla morte.
Perciò si avvicinò alla riva di un largo fiume, pieno zeppo di coccodrilli che lo aspettavano a fauci spalancate.
Omar lanciò un grido per attirare l’attenzione su di sé e si tuffò proprio in mezzo al fiume.
Ma i coccodrilli invece di sbranarlo, si allontanarono subito da lui che cercava in tutti i modi, anche tirandoli per la coda, di farsi divorare.
In breve nel fiume rimase solo lui mentre i coccodrilli si erano tutti ritirati sulla terra ferma, dentro una caverna.
Ritornò inzuppato e deluso in paese e prima di entrare nella sua capanna, diede uno sguardo al cielo.
Esso si stava ammantando di grosse nuvole nere ed il vento stava annunciando l’arrivo di un disastroso tifone.
“Bene, bene! Il tifone getterà a terra chissà quanti alberi della foresta, pensò Omar,  è meglio che mi addentri e aspetti che qualche albero mi cada addosso e così potrò morire”.
Detto, fatto.
Scelse l’albero dal tronco più grosso ma con le radici ormai a fior di terra.
Bastava un soffio per gettarlo giù.
Si scatenò il temporale, caddero fulmini e saette e quasi tutti gli alberi accanto ad Omar furono abbattuti, eccetto proprio l’albero vicino al quale si era preparato a morire.
“Non mi vuole nessuno, neanche la morte!” pensò rassegnato Omar.
Quand’ecco accanto a lui apparve uno straniero vestito di una lunga tunica gialla e con il capo coperto da un turbante giallo con le frange orlate di nero.
“Perché ti trovi così, in mezzo alla foresta, tutto bagnato e con i vestiti a brandelli? Chiese il nuovo arrivato”.
“Sto aspettando la morte, rispose Omar,  perché la morte è per me più dolce della vita”.
“Non è ancora arrivato per te il momento di morire  replicò lo straniero  alzati e va a lavorare e cerca di essere felice della tua vita”.
Omar si alzò e seguì il nuovo amico che lo condusse fuori dalla foresta.
Quale fu la sua sorpresa quando vide aprirsi davanti al suo sguardo una bellissima campagna.
Vicino al sentiero erano allineate molte capanne leggiadre ed ordinate e davanti ad esse erano sedute tante ragazze che chiacchieravano in fraterna conversazione e cantavano e sorridevano.
I bambini stavano giocando sui prati trapuntati di fiori, mentre gli uomini lavoravano la terra e molte donne stavano preparando succulenti pranzetti.
Ritrovò la sua capanna: era diversa, più bella, più ariosa.
Mentre egli salutava tutta quella gente, provò una gioia ed una serenità del tutto nuove, e così, dopo tanti anni, finalmente il sorriso gli rifiorì sulle labbra.
Tutti gli volevano bene e lo stimavano molto per la bravura nel saper catturare gli animali selvatici della vicina foresta.
Anzi lo vollero eleggere loro capo e vollero donargli come futura sposa la più bella ragazza del villaggio.
Come era bello vivere, adesso.
Alcuni mesi più tardi però, mentre stava dormendo sentì qualcuno bussare alla porta della sua capanna.
Si alzò, accese la lampada e prese anche un coltello per maggior sicurezza.
Poi aprì la porta e con grande sorpresa si vide davanti lo strano personaggio vestito di giallo, con il turbante dorato con le frange nere.
“Omar, adesso sì che è arrivata la tua ora.
Vieni con me!” “La mia ora? Di quale ora stai parlando”.
“La tua ora è arrivata, vieni con me!” la voce dello straniero ora aveva un suono lugubre come il rumore di una pietra che cade in fondo al pozzo.
Omar chiuse subito la porta gridando: “Vattene via, io non ti conosco”.
Ma insistente, l’altro continuò: “L’ora della tua morte è arrivata”.
“No, no, è bello vivere, lasciami in pace” gridò tutto sudato il nostro Omar dall’interno della buia capanna.
La lampada infatti gli era caduta a terra e la fiamma si era spenta.
Tutto attorno a lui parlava di tenebre e di terrore.
“Lasciami un altro mese, per piacere!” supplicò.
“E va bene, tornerò tra un mese”.
Si sentirono distintamente ora i pesanti passi dello straniero allontanarsi da Omar avvertiva più distintamente nel suo petto palpiti veloci del cuore.
Aveva ancora solo un mese di tempo, e dopo? Bisognava fare qualcosa, ma che cosa? Avrebbe fatto costruire una torre alta a difesa della sua casa, oppure sarebbe scappato lontano e sarebbe vissuto nel profondo della più nascosta foresta dell’isola più distante.
Oppure si sarebbe travestito da vecchio mendicante e così la morte non lo avrebbe riconosciuto così facilmente.
Ma come poteva fare in quell’ultimo mese, accidenti? L’ultima idea gli sembrò quella più giusta.
Il giorno dopo si allontanò dal villaggio e, dopo dieci giorni di cammino, giunse ai margini di una grande foresta.
Aldilà si ergevano alcune montagne e si poteva intravedere anche la cima fumante di un vulcano.
Ci mise altri dieci giorni ad arrivare alle pendici del vulcano.
La terra gli scottava sotto i piedi e ci vollero ancora altri dieci giorni per trovare finalmente una caverna adatta al suo nascondiglio.
Lo trovò e prima di entrare si travestì da vecchio.
Con una fiaccola in mano Omar si addentrò nella grotta accolto da una nuvola di pipistrelli che lo avvolse in segno di triste presagio.
In fondo alla caverna gli sembrò di vedere qualcuno tra le pareti umide e tappezzate di muschio.
“Omar, sono qui, il mese è passato, sono venuta a prenderti!” Omar capì che non c’era più nulla da fare, aprì le braccia in segno di accoglienza, mentre la morte copriva con il suo giallo mantello il più famoso cacciatore di quelle isole sperdute.
(Illustrazioni di Federica Trivellin).
Preghiera Vieni tu da me, Signore, e allora io potrò venire da te.
Portami a te e solo allora potrò seguirti.
Donami il tuo cuore e solo così potrò amarti.
Dammi la tua vita e allora potrò morire per te.
Prendi nella tua risurrezione tutta la mia morte e sii mio, Signore, sii mio affinché io sia tua in eterno.
(Silja Walter)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
           XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: 2Maccabei 7,1-2.9-14           In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite.
Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».
[E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna».
Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo».
Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture.
Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti.
Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».
       v L’episodio raccontato s’inserisce nel contesto della persecuzione d’Antioco IV Epifane che voleva imporre la cultura greca al popolo ebraico (167-164 a.C.).
Viene ricordato il martirio dei sette fratelli, esortati dalla loro madre a testimoniare la fede.
Non solo essa ha passato loro la fede, ma li sostiene nel momento del pericolo.
Di fronte a loro il re in persona assiste al supplizio.
Egli rappresenta la luce della cultura ellenica, verso la quale molti ebrei sono attirati e per questo sono disposti al compromesso.
Quello che divide la madre dei sette fratelli e il re è una concezione opposta della vita.
Per il re la vita viene dalla cultura e dalla ragione, per la madre ebrea è un dono di Dio, perciò nessuna forza umana la può veramente togliere.
Come la madre anche i figli, ricchi di questa fede, si sentono liberi di perdere questa vita, per riceverla dalle mani di Dio: È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati (v.
14).
Anche per gli empi ci sarà una risurrezione, ma non per la vita (v.
14b).
Vivranno eternamente la morte.
Cf.
Gv 5,29: «quelli che fecero il bene per una risurrezione di vita, quanti fecero il male per una risurrezione di condanna».
  Seconda lettura: 2Tessalonicesi 2,16-3,5          Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi.
La fede infatti non è di tutti.
Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno.
Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo.
Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.
    v Paolo aveva in pochissimo tempo evangelizzato a Tessalonica, ma era stato sufficiente perché nascesse una comunità fervorosa, che si mantiene fedele al suo Signore Gesù anche nella diaspora e attaccata dalla mentalità greca e dalle gelosie ebraiche.
L’apostolo tuttavia non chiude gli occhi su alcuni problemi esistenti nella comunità e interviene a rettificare i malintesi riguardanti alcuni temi della fede tramandata: la Parusia che alcuni ritenevano imminente determinando atteggiamenti di pigrizia e di disordine.
     Nel nostro brano Paolo esprime gli auguri e chiede preghiere alla comunità.
Non sono delle pure espressioni formali, ma sintetizzano la fede che lui stesso aveva loro insegnato.
lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro…
conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene (v.
17).
Con questo augurio viene ricordato ai cristiani che il presente è importante.
È proprio esso che fa germogliare il futuro di gloria.
La vita quotidiana deve essere vissuta nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo (3,5): due qualità teologiche irraggiungibili dalle sole forze umane.
     La prima non è che la partecipazione alla vita divina, la seconda è l’accettazione delle croci seguendo le orme di Cristo.
     Il cristiano sa che il Signore gli ha dato una consolazione eterna e una buona speranza (2,16).
Pur non alienandosi dalla storia concreta, adempiendo tutti i doveri di cittadini, la sua vera patria è il cielo e già qui sulla terra vive da celeste.
    Vangelo: Luca 20,27-38          In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”.
C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli.
Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli.
Da ultimo morì anche la donna.
La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio.
Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”.
Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
       Esegesi      Gesù si trova a Gerusalemme nel momento culminante della sua missione.
Proprio a Gerusalemme era orientato tutto il suo cammino.
     Qui insegna pubblicamente presso il tempio e tutti pendono dalle sue labbra.
In questo clima s’inseriscono le controversie con gli scribi e con il gruppo loro avversario, che non credeva nella risurrezione dei corpi, i Sadducei.
Gesù per loro è un rabbi, un maestro, al quale possono fare delle domande su questioni di fede.
E gli pongono un caso curioso d’applicazione della legge del levirato (cf.
Gn 38,8; Dt 25,5-10).
Sette fratelli, scrupolosi osservanti della legge mosaica, presero uno dopo l’altro come moglie la stessa donna; questa donna, dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? (v.
33).
     Gesù risponde innanzi tutto che il mondo futuro non è simile al presente.
I figli di questo mondo, quelli che appartengono a questo mondo in cui vivono, sono legati da legami che caratterizzano la vita materiale: rapporti sessuali, vincoli coniugali, procreazione (v.
34).
     Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione (v.
35) sono coloro che hanno ricevuto la grazia di partecipare alla risurrezione.
Lo sguardo di Luca è rivolto in particolare agli eletti alla vita eterna.
Essi vivono una vita da figli della risurrezione, cioè da risorti, in quanto sono figli di Dio.
Questo fatto fonda la risurrezione: la vita che essi possiedono mediante la risurrezione è una vita che non viene da generazione carnale.
Sono uguali agli angeli (v.
36), perché il loro corpo è spiritualizzato.
     Gesù quindi si richiama alla Scrittura per confermare il fatto della risurrezione di tutti gli uomini.
Dio si è rivelato a Mosè nel roveto ardente (Es 3,2) come Dio d’Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe, cioè come Dio dei vivi (v.
37).
La loro vita viene da Dio, perché tutti vivono per lui (v.
38b), quindi non può finire con la morte.
Abramo, Isacco e Giacobbe non sono vivi nel ricordo dei figli da loro generati, ma perché essi sono generati da Dio.
Qui si pensa a tutti coloro che sono destinati alla vita eterna, ma in v.
37 si parla i

Io sono con te

Nella Nazareth di duemila anni fa.
Una madre e un figlio.
Giocano, sorridono, si guardano, si abbracciano.
Guido Chiesa, dopo una serie, pur breve, di film politicamente e socialmente impegnati, torna al cinema con Io sono con te, per raccontare la storia di Maria e del figlio Gesù.
Un lavoro pensato, voluto a tutti i costi.
Abbiamo visto in anteprima il film che sarà in concorso al Festival del cinema di Roma e la sensazione è quella che sia frutto di una sua esigenza spirituale vera.
“Nicoletta Micheli, mia moglie e autrice, insieme a me, della sceneggiatura – ci dice il regista – si è dovuta interrogare, diventando madre, su tanti nuovi problemi e sentimenti.
Ci siamo così imbattuti nella lettura dei Vangeli dell’infanzia:  ai nostri occhi, all’epoca di non credenti, è stata una sorta di epifania.
Mi sono accorto, a posteriori, che molti vivono il confronto con il religioso come se fosse qualche cosa di magico, di evanescente, non legato alla realtà quotidiana e concreta delle nostre vite.
All’inizio, ho lavorato alla sceneggiatura più con un’adesione di tipo razionale, come se fosse un percorso intellettuale, emotivo.
Alla fine è diventato un cammino di fede e tutto si è ricomposto”.
L’intervista Perché questo film è così importante per la sua vita e per quella di molti? Perché, semplicemente, propone un modello di relazione madre-figlio, genitori-bambini, che è universale.
Io sono con te riguarda tutti, sia che siamo genitori, sia che siamo figli, perché tutti siamo stati piccoli.
Ho cercato di rivolgermi a tutti, senza distinzione di cultura, di fede, privilegiando una prospettiva femminile e proponendo un modello positivo fondato sull’amore e la fiducia.
Fin dalle prime immagini, si percepisce come tutto sia spoglio, essenziale:  non ci sono angeli, comete, voci dall’alto, miracoli.
Perché? Il soprannaturale non è visibile, non può essere affrontato con i nostri strumenti di pensiero, la nostra logica, la ragione.
Il mistero trascende i limiti, per noi, non può essere rappresentato.
Però è accettabile e comprensibile.
Ho voluto spogliare tutto il racconto dell’infanzia da una possibile e pericolosa rappresentazione magica.
Mi sono interrogato e concentrato sul ruolo centrale di Maria, della Madre, ossia il ruolo della donna e della maternità.
Eppure, in alcune immagini, si avverte la forza straordinaria e speciale del rapporto d’amore tra questa Madre e il Figlio.
Il Vangelo è anche un modello antropologico e pedagogico universale e straordinario, perché fondato sull’amore positivo, sulla fiducia.
In un’epoca in cui siamo circondati da messaggi di pessimismo, di disperazione – spesso anche legittimi – è da lì che bisogna ripartire:  da una madre e un figlio.
L’amore può davvero cambiare le cose.
L’essenzialità scarna del contesto richiama in qualche modo la lezione cinematografica del Vangelo pasoliniano.
È d’accordo? Pasolini, lo dice lui stesso, cercava disperatamente Gesù e lo faceva da non credente.
Soffriva di questa sua ricerca, ha sofferto fino alla fine.
Per me è esattamente l’opposto:  sono un credente che cerca di andare verso tutti, chi crede e chi no.
Nel tentativo di convincere che il Vangelo non parla di magie, ma di cose molto concrete.
La grande sfida del cristianesimo, oggi la grande sfida nel messaggio di Benedetto XVI, è questo tentativo di armonizzare, in ogni contesto di vita, la ragione e la fede.
Si è confrontato con qualche Vangelo cinematografico, prima di iniziare le riprese? Ho visto tutti i film su Maria.
Ho visto soprattutto ciò che non mi piaceva, i film in cui Maria è costretta nell’immagine di una pia donna, sottomessa e dimessa in un angolo.
Ho voluto abbandonare un’iconografia della Madonna intesa in quel senso.
Anche il mondo ebraico circostante è particolare:  policromo, arcaico.
Ho restituito il colore – la terra, il sangue, il deserto, le vesti – i volti e gli ambienti, che ho recuperato in Tunisia, cercando di rappresentare l’ambiente più attendibile in cui è avvenuta la nascita di Gesù.
Fin dalle prime immagini la giovanissima Maria – che ha il volto berbero e sconosciuto di Nadia Khlifi da piccola e di Rabeb Srairi da adulta – si dimostra (anche se per la verità in modo del tutto implausibile) insofferente alle imposizioni rituali e cultuali, a ogni forma di sopraffazione.
Il suo atteggiamento è molto attuale.
Perché al legalismo rituale oggi si è sostituita l’interferenza medica.
Tutto ciò che riguarda la femminilità e l’intimità della donna, a cominciare dal parto, è stato violato dalla medicina e dai medici, che s’intromettono violando il ruolo della donna.
Nessuna, tra le grandi religioni, ha alla sua origine un parto come quello di Maria, che è sola dinanzi al mistero della sua maternità.
Capisce che la relazione col Figlio è simbiotica, intima, privata:  sono soli, isolati nella grotta.
Anche Giuseppe fa un passo indietro.
È un modello di paternità meno focoso, meno aggressivo, più umile.
Ma non si tira indietro quando è necessario proteggere la famiglia.
Il parto di Gesù, in ogni film, è un momento delicatissimo.
Pudicamente, in quel momento difficile, mi allontano.
Il dolore occupa uno spazio di primo piano nel film.
Un anziano pastore profetizza:  “Il dolore che tentate di risparmiare oggi al bambino, sarà uno scandalo per molti.
Ma non avete paura  per  quello  che  dovrà  subire in futuro?”.
Maria risponde con un sorriso aperto, innocente, bellissimo.
Perché? Perché si mette totalmente nelle mani di Dio.
Maria è umile, risponde semplicemente:  che cosa posso fare io, così piccola, indifesa, sola? Dio mi chiede di avere misericordia, di volergli bene, di proteggerlo, di amarlo.
Questo io faccio.
Non posso avere paura di quello che mi chiede.
Soltanto quando non troverà più il Figlio dodicenne, quando intuirà che la libertà di Gesù non si può condizionare e fermare, Maria capirà fino in fondo.
In quel momento  una  spada  le  trafigge  il cuore.
Si è chiesto come reagiranno i non credenti e i cattolici alla visione del film? L’ateo sarà colpito dall’aspetto femminile che ho voluto evidenziare, dalla pedagogia evangelica, dalla moralità del racconto.
Al mondo cattolico chiedo soltanto di capire il mio sincero tentativo.
Io non ho voluto fare scandali con il mio film.
Il vero scandalo è il cristianesimo, Cristo è lo scandalo per la società del suo tempo, la sua croce è lo scandalo per tutta l’umanità.
Maria, nelle ultime immagini, è una donna assai anziana, che confessa:  “Non possiamo capire cosa è stato, se non torniamo all’inizio”.
Spero, come Maria, che tutti riescano a riflettere sulla madre e il padre che abbiamo avuto, perché è da lì che veniamo, da loro abbiamo avuto la vita.
E sui genitori che a nostra volta siamo stati.
Il Vangelo ci dice tutto su questo rapporto.
Perché Maria sente la necessità di raccontare questo inizio? Non bastava raccontare la Passione e la Resurrezione? Perché gli Evangelisti sentono la necessità di raccontare la storia di Maria e della nascita di Gesù? Io tento di dare una risposta, raccontando la storia di una donna che ha veramente cambiato per sempre il volto dell’umanità e il posto della donna nella società.
Maria sente l’esigenza di raccontare perché è l’unica che sa degli inizi, e vuole che non li dimentichiamo.
(©L’Osservatore Romano – 31 ottobre 2010)

Conferenza Nazionale della Famiglia

Dall’8 al 10 novembre prossimi, Milano ospiterà presso il MIC – Milan Convention Centre la Conferenza nazionale della famiglia, organizzata dal Dipartimento delle politiche per la famiglia – Presidenza del Consiglio dei ministri e il supporto dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia.
L’incontro intende costituire l’occasione per dare spazio a quanti, in ambito pubblico e privato, si occupano di tematiche familiari.
I contributi conseguiti nell’occasione sono finalizzati ad arricchire la formu­lazione del Piano Nazionale delle politiche per la famiglia, che sarà presumibilmente emanato nei primi mesi del 2011.
I partecipanti, che dovranno registrarsi sull’apposito sito www.conferenzafamiglia.it entro la fine del mese di ottobre, saranno inseriti in gruppi impegnati attorno a tematiche specifiche riguardanti il rapporto della famiglia con il fisco, i diritti e l’inclusione sociale, i servizi consultoriali per l’assistenza alla maternità, l’immigrazione e l’integrazione culturale, il ruolo educativo e il sistema formativo (coordinatore del gruppo il dott.
Pasquale Capo in rappresentanza del MIUR), le adozioni, i servizi per la prima infanzia (tra i relatori, Susanna Mantovani docente presso l’Università di Milano  “La Bicocca”), le fragilità sociali, i media e le nuove tecnologie.
L’ultima giornata dei lavori sarà dedicata alla comunicazione delle sintesi delle attività dei gruppi e alle tavole rotonde sui temi delle azioni amministrative locali e agli obiettivi di breve e medio termine del governo a favore della famiglia.
tuttoscuola.com

JOB&Orienta: La fabbrica delle competenze: dall’apprendistato al dottorato

Appuntamento dal 25 al 27 novembre 2010 alla Fiera di Verona con JOB&Orienta, la più importante mostra-convegno dedicata a orientamento, scuola, formazione e lavoro che si tiene alla Fiera di Verona.
Quest’anno JOB&Orienta celebra il ventennale con un ricco calendario di iniziative speciali. L’importante ricorrenza consolida il successo del salone che, oltre ad essere di livello nazionale, vanta una rilevante valenza internazionale.
La Mostra-Convegno è strutturata in due aree tematiche: la prima dedicata al mondo dell’istruzione che comprende le sezioni JOBScuola, JOBItinere, ExpoLingue, JOBEducational e MultimediaJOB, la seconda all’università, la formazione e il lavoro con le sezioni Pianeta Università, Arti, mestieri e professioni e TopJOB.
Un’attenzione speciale è data alle realtà che offrono percorsi di istruzione, formazione e occupazione all’estero grazie al profilo JOBInternational, trasversale all’intera manifestazione.
A caratterizzare JOB&Orienta un importante calendario culturale che comprende numerosi convegni, dibattiti, tavole rotonde e seminari, con l’intervento di relatori di spicco, esperti e rappresentanti dei diversi mondi.
Non mancheranno, infine, laboratori, spettacoli e momenti di animazione che mirano a coinvolgere attivamente i visitatori e a valorizzare tutta la creatività dei giovani e delle scuole.
Oltre 42.000 i visitatori dell’edizione 2009, 450 le realtà in rassegna, 150 gli appuntamenti culturali tra convegni, dibattiti, tavole rotonde e workshop, 350 i relatori: numeri che testimoniano il costante trend di crescita e l’autorevole livello della manifestazione.
L’ingresso alla manifestazione e agli eventi correlati è libero.
 Si svolgerà alla Fiera di Verona, dal 25 al 27 novembre, la  l’annuale mostra-convegno nazionale dedicata a orientamento, scuola, formazione e lavoro.
Organizzata dalla regione Veneto e da Veronafiere, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, vede tra i partner anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il Ministero della Gioventù e i  Ministeri per i Rapporti con le Regioni e per la Coesione Territoriale, l’Ufficio scolastico regionale per il Veneto, la Provincia e il Comune di Verona, la Confindustria di Verona, l’associazione nazionale dei comuni italiani e l’Isfol – Istituto per la formazione dei lavoratori.
Strutturata in due aree tematiche, la prima dedicata al mondo dell’istruzione, la seconda all’università, la formazione e il lavoro, la mostra riserva un’attenzione speciale anche alle realtà che offrono percorsi di istruzione, formazione e occupazione all’estero grazie al profilo JOBInternational, trasversale all’intera manifestazione.
Il tema dell’edizione 2010 è “La fabbrica delle competenze: dall’apprendistato al dottorato”, argomento che sarà al centro dei lavori fin dalla giornata inaugurale, dedicata alla presentazione di esperienze condotte da alcune istituzioni scolastiche che hanno sperimentato attività di alternanza scuola-lavoro e apprendistato in Italia e all’estero.
Tra gli interventi anche quello del Ministro del lavoro Sacconi, che si confronterà direttamente con i giovani presenti all’incontro, dell’on.
Aprea, Presidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati, del prof.
Bertagna, titolare della cattedra di pedagogia Generale all’Università Statale di Bologna.
Per festeggiare il ventesimo anno di attività, JOB&Orienta promuove fra l’altro, una sfilata di abiti realizzati dagli studenti di istituti e accademie di moda, un torneo di pallavolo riservato alle scuole secondarie di I e II grado organizzato dalla FIPAV – Federazione Italiana Pallavolo e una mostra fotografica che documenta la storia della manifestazione, a partire dalla sua prima edizione nel 1990.
L’ingresso alle varie manifestazioni è gratuito.

“Erik Peterson. La presenza teologica di un outsider”

Abbiamo tutti qualcosa da imparare da lui di Karl Lehmann Negli anni tra il 1921 e il 1924 Erik Peterson è impegnato in un lavoro di ricerca straordinariamente intenso su molti temi che cerca sempre di interpretare individuandone le fonti:  la storia del concetto mistico-religioso “amico di Dio”, l’esegesi biblica nel pietismo del XVIii secolo, la prassi religiosa di pregare rivolgendosi a oriente e infine la teoria della mistica.
Molte sue recensioni documentano un confronto intenso con la storia delle religioni e con la filologia classica; vi si abbinano vari studi di bizantinistica, saggi sulla lingua e sulla cultura copta e così via.
In questo periodo e anche più tardi possiamo ammirare con quanta intensità Erik Peterson si lasci coinvolgere dallo studio di ambiti disciplinari spesso tra loro molto distanti, pur rimanendo sempre ancorato alla ricostruzione delle fonti.
In questa sua attività di ricerca subì, in un primo tempo, il fascino della scuola di storia delle religioni e, in particolare, quello di Richard Reitzenstein (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, p.
247s., 254s., 259s.).
Anche in questo periodo la conoscenza dei Padri della Chiesa svolse sempre un ruolo fondamentale.
A prevalere nella attività di ricerca e approfondimento di Peterson sono sempre le motivazioni autentiche e profonde della teologia.
Diffida di ogni “sistema” perché teme che la forza della sintesi possa fare violenza alla dimensione di mistero e di apertura propria della fede.
Persino negli studi più specialistici non si allontana mai dalle linee d’orientamento della teologia; si orienta costantemente verso la struttura sostanziale entro cui si iscrivono le relazioni di fondo della teologia, senza peraltro cedere alla tentazione di elaborare sintesi di corto respiro.
Ci si stupisce del come Peterson abbia individuato ben presto e percorso senza indugio un proprio itinerario teologico.
Si ricava non di rado l’impressione che i suoi orientamenti di fondo fossero già chiari a partire dal 1921/22, nonostante la molteplicità ed eterogeneità delle tematiche da lui trattate.
In quegli anni infatti si occupò del monachesimo e della sua storia, della tradizione e del presente della mistica, ma anche del cardinale John Henry Newman (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, p.
21s., p.
599, p.
xxXVIii) e infine di Tommaso d’Aquino durante il celebre corso frequentato da Karl Barth nel semestre invernale del 1923/1924.
Il primo incontro con Karl Barth ebbe luogo nel 1921.
Frutto particolarmente compiuto delle ricerche di questo periodo è il corso, ancora totalmente inedito, su “La storia della mistica della Chiesa antica” tenuto a Gottinga nel semestre estivo del 1924 e ripreso a Bonn nel semestre invernale del 1925/1926.
Soprattutto nelle lezioni di questi anni Peterson si è molto occupato della storia della Chiesa:  non solo di quella dei primi secoli, ma anche di quella del diciottesimo e diciannovesimo secolo (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, p 353s., p.
603s.).
In questo periodo emersero anche i suoi interessi e impulsi spirituali, talvolta caratterizzati da accenti addirittura mistici (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, pp.
277-349).
Negli anni 1924-1925, quando Peterson passò all’università di Bonn come ordinario di Storia della Chiesa e Nuovo Testamento, si aprì una nuova fase nella sua produzione teologica, nuova non tanto per i contenuti trattati, quanto invece per lo stile delle sue pubblicazioni.
I primi segnali della svolta si trovano in un confronto critico con Paul Althaus (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, pp.
303-323) e poi soprattutto nel breve opuscolo Che cosa è la teologia? dell’anno 1925, scritto come un discorso all’università in cui egli criticava aspramente l’intervento di Rudolf Bultmann su Che senso ha parlare di Dio?.
L’intervento di Peterson rappresenta una critica fondamentale della teologia dialettica e dei suoi presupposti, assume anzi nella sua sostanza il tono d’una critica dell’intera teologia protestante dell’epoca.
A esser posto in questione in termini radicali è il compito che la teologia ha fatto proprio ricorrendo al linguaggio del diciannovesimo e ventesimo secolo, cioè al voler “parlare” di Dio.
Solo Gesù Cristo ha invece il diritto di parlare “di” Dio; la teologia ha solo un’autorità derivata.
“C’è teologia solo se si presuppone l’autorità dei profeti e l’autorità di Cristo” (Ausgewählten Schriften, 1, p.
11).
Peterson difende una teologia subordinata al dogma della Chiesa.
Nonostante l’intensa discussione, condotta anche con Karl Barth e Rudolf Bultmann, non abbia portato ad alcun risultato immediato, è pur vero però che il dibattito aperto dall’opuscolo nell’ambito della teologia evangelica favorì nel medio termine un parziale riorientamento a favore di una dottrina della fede vincolata alla Chiesa; quest’influsso è avvertibile in particolare in Karl Barth, sensibile agli stimoli di Erik Peterson soprattutto a partire dal corso di Gottinga su Tommaso.
Nei tre anni successivi Peterson pubblicò lavori quasi esclusivamente storici, in particolare sulla letteratura mandea.
Un carteggio con Adolf von Harnack (1928) lo stimolò a riprendere i temi teologici centrali sinora trattati ricorrendo a un approccio più sistematico; nel 1932 pubblicò questa corrispondenza con una postfazione dettagliata sulla rivista Hochland (cfr.
Ausgewählten Schriften, 1, carteggio:  pp.
175-184, epilogo:  pp.
184-194).
La conferenza su La Chiesa risale alla fine del 1928:  Peterson vi riprende alcune idee del carteggio con Harnack, cercando soprattutto di porre in evidenza i fondamenti dell’autorità della Chiesa.
L’analisi di questa tematica rientra in una serie di studi condotti, a partire dal 1926, su questioni fondamentali attinenti la categoria dell’ ekklèsia (cfr.
Ausgewählten Schriften, volume speciale), cioè il rapporto esistente tra Rivelazione e Chiesa, tra diritto e carisma, tra le strutture ministeriali della Chiesa e la successione apostolica, i sacramenti, l’origine della Chiesa – in particolare la relazione tra la “fondazione della Chiesa” e l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù – e infine, di non minore importanza, la natura e il ruolo della liturgia.
Nel trattare di questi argomenti Peterson non aveva solamente precisato quelli che sarebbero stati i nuclei tipici della propria ricerca:  già da tempo si occupava di questi problemi e di queste tematiche; grazie alla pubblicazioni di tale opuscoli perseguiva la finalità di provocare negli interlocutori una chiara decisione.
Dopo “Che cosa è la teologia?” e “La Chiesa (Ausgewählten Schriften, 1, pp.
245-257), Peterson si trovò sempre più isolato; la reazione alle sue provocazioni si tradusse anzi non di rado in “un silenzio glaciale” (Barbara Nichtweiß).
Nel maggio 1929 chiese alla Facoltà di teologia evangelica di Bonn un’aspettativa e alcuni mesi dopo rassegnò le dimissioni al Ministero Prussiano dell’istruzione di Berlino.
Nel Natale del 1930 a Roma si convertì alla Chiesa cattolica.
Più tardi accennò al fatto che le questioni e  i  problemi  che  lo  assillavano  fin dai tempi della sua adesione al pietismo e del suo incontro con Kierkegaard avrebbero potuto e potevano trovare una risposta solo nella Chiesa cattolica (su questo cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/2, p.
325).
Peterson trascorse gli anni successivi a Roma, dove sposò nel 1933 la romana Matilde Bertini.
Tra il 1934 e il 1940 da questo matrimonio nacquero cinque figli.
Peterson ebbe grandi difficoltà a provvedere al mantenimento della sua famiglia, in particolare dopo che il governo tedesco gli tolse la sua modesta pensione (1937).
In questo periodo ottenne un incarico di insegnamento, anche se poco retribuito, al Pontifico Istituto di Archeologia Cristiana a Roma.
Morì ad Amburgo il 26 ottobre 1960, nell’anno in cui gli venne conferito il dottorato honoris causa a Bonn e a Monaco; venne seppellito a Roma nella tomba di famiglia al Campo Verano.
Quando ci si occupa di Erik Peterson non si può fare a meno di notare una svolta abbastanza significativa, non riconducibile solo alla sua venuta a Roma, alle difficoltà del periodo del nazionalsocialismo e alla seconda guerra mondiale; questa svolta coincide in particolare con la sua conversione alla Chiesa cattolica, maturata lentamente nella seconda metà degli anni Venti e conclusasi infine nel 1930.
Su entrambi i fronti coinvolti si continua a respirare tuttora un certo scetticismo.
Per non pochi esponenti del mondo evangelico Peterson continua a essere un “apostata”, anzi un traditore (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/2, p.
320s., cfr.
anche p.
306, p.
308s.) mentre per molti cattolici ha ancora l’aura di un neofita di cui non ci si può del tutto fidare.
Questa prospettiva ostacola un’adeguata valutazione del problema.
Erik Peterson ha deciso di convertirsi; pur avendo un’idea piuttosto critica della storia della Chiesa da cui proveniva, non ha però mai assunto un atteggiamento pubblico di polemica nei suoi confronti.
Si prova ancora oggi una certa commozione nel leggere la lettera che Erik Peterson ha scritto a Karl Barth il 31 dicembre 1930, il giorno di san Silvestro.
E sono toccanti per esempio anche le sue riflessioni del 1932, scritte in occasione della pubblicazione del carteggio con Adolf Harnack:  “Ho cercato di comprendere, non di condannare.
Mi sono anche preoccupato di collocare le affermazioni di Harnack nella giusta prospettiva, in modo da non dare adito a una fin troppo facile propaganda cattolica.
Spero che da parte protestante si riconosca che mi sono ben guardato dal dire qualcosa di offensivo contro la parte evangelica.
So di non essere mosso da alcun risentimento” (Ausgewählten Schriften, 9/2, p.
325s.).
Allo stesso modo i rapporti con Karl Barth, nonostante tutte le differenze, continuarono a essere improntati al rispetto reciproco ancora per molto tempo; la stessa cosa si può dire anche dei rapporti con Karl Ludwig Schmidt, Gerardus van der Leeuw e Oscar Cullmann.
Peterson ha qualcosa di particolare da dire a ciascuna Chiesa; non c’è davvero alcuna necessità che venga difeso o riabilitato.
Non si può negare che la sua opera contenga affermazioni problematiche, per esempio sugli eretici e sugli ebrei.
Desidererei ripetere oggi quanto ho scritto nel 2009 nella prefazione al volume 9 delle Ausgewählte Schriften:  “Nelle sue riflessioni di allora sulla teologia, sul dogma, sulla liturgia e sulla Chiesa, Peterson ha anticipato non poche posizioni che sono state a volte faticosamente riprese nei decenni successivi e che, per diversi motivi, dovrebbero ancora oggi esser riprese e approfondite, come di fatto già avviene.
Molte riflessioni di Erik Peterson, riguardanti soprattutto i fondamenti della Chiesa, attendono tuttora di essere riscoperte e apprezzate in ambito ecumenico.
Ogni Chiesa ha qualcosa da imparare da Erik Peterson:  i cattolici possono capire in quali aspetti la sua più intima ricchezza sia stata danneggiata o anche deturpata, gli evangelici hanno la possibilità, nel riflettere su Erik Peterson, di ripercorrere la propria storia in maniera autocritica, pur non condividendone le singole posizioni (cfr.
Ausgewählten Schriften, 9/1, pp.
353-553, pp.
603-648).
Per usare le parole di una lettera scritta nel 1956 da Hans-Urs von Balthasar a Erik Peterson potremmo anche dire:  “Quanto è sapido, quanto è straordinario tutto ciò che Lei scrive e quanto volentieri si rilegge ciò che già si sa (…) Si vorrebbe conoscere tutto ciò di cui Lei parla” (Ausgewählten Schriften, 9/2, p.
398).
(©L’Osservatore Romano – 24 ottobre 2010)  La marginalità che mantiene giovani Domenica 24 ottobre si aprirà al Pontificio Collegio Teutonico di Santa Maria in Campo Santo il convegno internazionale “Erik Peterson.
La presenza teologica di un outsider” organizzato nel cinquantenario della morte del teologo tedesco (7 giugno 1890 – 26 ottobre 1960).
Il 25 e il 26 ottobre i lavori proseguiranno presso l’Istituto Patristico Augustinianum.
Lunedì mattina i partecipanti al convegno e l’intera famiglia Peterson saranno ricevuti in udienza da Benedetto XVI.
Anticipiamo ampi stralci delle relazioni inaugurali che saranno tenute dal cardinale archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa e dal cardinale vescovo di Magonza.
di Raffaele Farina È noto che quando Peterson decise di stabilirsi a Roma, a sostenerlo fu per anni la mano provvida del mio predecessore, il cardinale Giovanni Mercati.
Fu lui che – su indicazione del Gelehrtenpapst Pio xi e del cardinale Eugenio Pacelli, allora segretario di Stato – si preoccupò di trovargli una collocazione professionale che gli consentisse di mantenere la crescente famiglia.
È meno noto il contesto in cui il cardinale bibliotecario prestò questo suo aiuto.
L’azione di aiuto del Mercati a favore di studiosi tedeschi risale all’inizio degli anni Venti, dopo la prima guerra mondiale, “nel periodo più triste dell’assedio e poi della depressione e penuria della Germania”, come scrisse egli stesso in un frammento autobiografico.
 Quest’azione di sostegno viene incrementata a partire dal 1936, l’anno in cui Mercati è creato cardinale e in cui Peterson comincia a godere in forma istituzionalizzata della sua liberalità.
In occasione della nomina a cardinale, Pio xi affida all’ex collega della Biblioteca Vaticana la gestione di una consistente somma a favore degli studiosi perseguitati per ragioni razziali.
Il cardinale risponde con intelligente generosità, sino a farsi promotore di un appello all’episcopato americano a favore degli intellettuali costretti all’emigrazione.
L’appello è fatto proprio da Pio xi che lo trasmette, il 10 gennaio 1939, come sua lettera personale, ai cardinali nordamericani:  è uno dei suoi ultimi atti ufficiali.
Come afferma lo storico Nello Vian, scriptor emeritus e segretario della Biblioteca Vaticana, fu in questo periodo della prova che la Biblioteca si rivelò essere per non pochi studiosi “un’arca di rifugio e spesso un ponte di passaggio” verso lidi attentamente sondati da Mercati grazie ai suoi contatti americani.
È forse opportuno collocare in questo contesto la mediazione attivata da Jacques Maritain a favore di Erik Peterson presso l’Università Cattolica di Washington nel 1938.
Peterson declinò l’offerta della cattedra a favore del giovane patrologo Johannes Quasten, allora residente a Roma in situazione di precarietà.
Oltreché di una provvida mano Mercati disponeva anche di un’intelligenza, provata da non pochi interrogativi, che lo accomunavano alla biografia intellettuale del teologo Peterson.
Questa prossimità impreziosiva il suo obolo, trasformandolo in un riconoscimento credibile perché al contempo autorevole e altamente simbolico.
Non era stato forse il pio cardinale il primo studioso a recensire in Italia, sulla “Rivista bibliografica italiana”, tra il 1896 ed il 1898, non senza convinto encomio, le opere di Adolf von Harnack? Non aveva egli forse intrattenuto, tra il 1892 e il 1903, una fitta corrispondenza con Alfred Loisy, di cui aveva recensito su “L’Osservatore Romano” non poche pubblicazioni? La crisi modernista colpì Mercati, figlio scientifico dell’Ottocento (“il secolo della storia”), nel vivo delle sue relazioni scientifiche.
Se da un lato non scalfì la sua sacerdotale lealtà, acuì dall’altro in lui la capacità di percepire uno dei drammi che maggiormente investirono la biografia intellettuale di Peterson, il conflitto di lealtà.
Chi tenga presente la biografia spirituale di Peterson non potrà non cogliere in quella intellettuale di Mercati più di un parallelo, sia pure all’insegna dello scarto generazionale e di una profonda differenza – il loro contrapposto rapporto teologico con la storia.
Le carte di Mercati relative al periodo successivo al 1936 non sono ancora catalogate; si è autorizzati a ipotizzare che esse riservino alcune positive sorprese per lo studioso di cose petersoniane.
Quanto si può per ora affermare è che nella relazione tra il cardinale e Peterson, al di là della mano tesa, vi fu una comune percezione della crisi che stava allora attraversando la storiografia ecclesiastica.
Dedicandogli, nella miscellanea del 1946, uno studio, divenuto classico, sull’origine del nome christianus, Peterson volle sottolineare in actu exercito questa comunanza.
Le relazioni attivate grazie al Mercati e all’ambiente a lui vicino presero col tempo una loro autonomia:  consentirono a Peterson di interagire, già a partire dalla fine degli anni Trenta, con vari esponenti della cultura italiana.
È in questo periodo che egli annoda i primi contatti con il cattolicesimo lombardo.
Il secondo dopoguerra rappresenta per Peterson un periodo di adattamento alla situazione di esilio intellettuale in cui di fatto si trova.
Svanito ben presto, anche se non del tutto, il sogno di un reinserimento nel mondo accademico tedesco, egli tenta approcci – ormai sulla soglia dei sessant’anni – a referenti editoriali che gli facciano ben sperare per la valorizzazione dei suoi studi.
Inaspettato fu per lui, nel 1947, l’affidamento della responsabilità scientifica della sezione patristica dell’Enciclopedia Cattolica.
Un rapido sguardo agli organi in cui apparvero le prime traduzioni italiane delle sue opere documenta un’impressionante eterogeneità.
Se da un lato vi sono organi semiufficiali come le “Ephemerides Liturgicae”, dall’altro vi sono la “Fiera Letteraria” e la laica casa editrice di Adriano Olivetti.
L’imprenditore, di confessione evangelica, seppe abbinare a un lungimirante progetto di industrializzazione socialmente avanzata un’azione editoriale, volta a liberare la cultura italiana dal persistente cappio dello storicismo.
Il primo volume delle sue Edizioni di Comunità altro non fu che la petersoniana Chiesa degli ebrei e dei gentili, pubblicata con la prefazione dell’allora, non indiscusso, ambasciatore Jacques Maritain.
Con Peterson escono in libreria Newmann e Kierkegaard:  è una prova che il fossato tra cultura teologica ed editoria laica non risponde – perlomeno negli anni della ricostruzione – a una legge di natura.
È con Olivetti, prima ancora che con l’editore Wild della Kösel Verlag di Monaco, che Peterson discute del progetto di pubblicazione dei futuri Trattati teologici – ed è sul primo numero della sua rivista “Comunità” che egli pubblica quella preziosa critica teologica della tecnica, che è il Nonne hic est filius fabri? La prospettiva offerta era davvero accattivante, soprattutto ove si tenga presente che i Trattati teologici documentano l’interna unità del suo itinerario teologico nelle due fasi confessionali, evangelica e cattolica.
Basti ricordare i termini con cui il protestante Olivetti presentò allora la sua concreta utopia:  “offrire all’élite italiana una possibilità di cultura totale in un senso ecumenico”.
A questo punto ci possiamo domandare:  Date queste premesse, perché allora Peterson non fu recepito? Il confronto instaurato con la sua opera dall’elite cattolica italiana del secondo dopoguerra è dominato in effetti da uno strano paradosso:  la volontà ecclesiale di recepire la sua opera coesiste con una mancata assimilazione della sua proposta teologica.
È difficile dare un’adeguata risposta agli interrogativi ecclesiali posti dal paradosso accennato.
In ultima analisi una prospettiva di soluzione è forse quella offerta dallo stesso Peterson:  il paradosso non tocca tanto lo spazio storico-ecclesiale in cui operò, quanto invece le forme radicali con cui egli maturò proprio in quegli anni il nucleo escatologico della sua proposta di spiritualità.
Gli anni della mancata ricezione coincidono con gli anni in cui l’attenzione alla cultura dello sviluppo prevalse sulla disponibilità a ripensare la natura della teologia della secolarità.
Più che nei manuali di sociologia religiosa, la risposta al paradosso indicato va forse cercata nelle petersoniane Glosse di teologia, un progetto di antropologia cristiana tuttora da riscoprire.
Certo, Peterson visse, soprattutto invecchiando, un profondo bisogno di un riconoscimento che non ebbe.
Determinante è però il fatto che, confrontandosi con questa esperienza della negatività, abbia elaborato le linee di fondo di una spiritualità della paroikia.
La positiva accettazione di una strutturale dialettica tra la marginalità e la presenza del cristiano nel mondo venne da lui declinata e teorizzata in riferimento allo scarto esistente tra i tempi di Dio e quelli dell’uomo.
Una spiritualità della paroikia, dell’esser “altro” del cristiano nel mondo, conosce un solo riconoscimento – quello maturato quotidianamente nell’accoglienza del Kyrios.
Il solecismo outsider, ripreso nel titolo del simposio a traduzione del termine greco paroikòs, è stato legittimato in italiano, dopo decenni d’ostracismo linguistico, da don Giuseppe De Luca, lo storico della pietà che di quest'”alterità spirituale” fu attivo esponente nel mondo della Biblioteca Vaticana e altrove.
Non a caso Peterson, nel suo commento al Vangelo di Giovanni, parla di un'”ora teopolitica” dell’Annuncio.
Nella citata lettera al suo editore Peterson parla di una marginalità che “mantiene giovani per la vita eterna”.
Come illustra il frammento del sarcofago di Giunio Basso, acquisito a logo del presente simposio, il Cristo che si dà, nel momento attivo e relazionale della Rivelazione, nella consegna della nuova Thora, è lo stesso che irrompe gioioso nel tempo dell’uomo per guidarlo verso la nuova Gerusalemme – ed è un Cristo incredibilmente giovane.
Sulla piazza qui vicina, all’apertura del presente pontificato, ci è stato autorevolmente ricordato da uno studioso di Peterson salito sulla cattedra di Pietro:  “La Chiesa è giovane!”.
E giovane è l’antico albero della vita da cui Peterson coglie i frutti della sua proposta teologica per farcene tuttora regalo.
(©L’Osservatore Romano – 24 ottobre 2010)

XXX Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   L’elemosina della santità «Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…”» (Lc 18, 9-14).
Mettendo in scena il primo personaggio, Gesù vuole denunciare due disposizioni sbagliate e opposte al comportamento evangelico: la presunzione di essere giusti di fronte a Dio e il sentirsi superiori agli altri tanto da disprezzarli.
I due atteggiamenti sono legati e il secondo dipende dal primo.
Lc 18,11 andrebbe meglio reso in italiano così: «Il fariseo stando ritto presso se stesso, queste cose pregava…».
Il fariseo, dunque, è tutto preso di sé, è rivolto non a Dio ma a se stesso, recita delle parole pensando di pregare ma in realtà fa un autoelogio.
Il fariseo presume di sé ed è sicuro della propria santità, si presenta così quale giudice zelante e spietato nei confronti del suo prossimo: «Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini… e neppure come questo pubblicano» (Lc 18, 11).
Il pubblicano, invece, non si preoccupa di quello che gli altri sono e fanno; è lontano dalla sua mente il giudicare il fariseo o altri.
Egli è consapevole dei suoi tradimenti e delle sue colpe e non tenta di mascherarli davanti a Dio: «Stando a molta distanza non voleva neppure alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto dicendo: “O Dio, fai elemosina a me peccatore”» (Lc 18, 13).
Si presenta con quelle che dovrebbe essere la  «carta d’identità» di ogni cristiano: peccatore!       La parabola presenta due atteggiamenti di preghiera, ma poi finisce con il descrivere due modi di vivere.
La preghiera così rivela la vita dei due personaggi.
Di conseguenza ciò che va corretto non è la preghiera ma l’idea che si ha di Dio, di se stessi e del prossimo.
Il fariseo e il pubblicano incarnano un modo diverso di porsi di fronte a Dio e agli altri, un modo opposto di guardare a se stessi, un modo opposto di concepire la santità.
Parole senza preghiera…
la perfezione del presuntuoso II fariseo entra nel tempio e rimane «in piedi»: è sicuro e fiero di sé.
Formula una preghiera di ringraziamento a Dio non per i doni ricevuti, non per la vita o la fede; ma perché non è come gli altri.
Egli si «distingue» per il suo impegno e avanza dei meriti dinanzi a Dio: «Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo» (Lc 18,12).
È più che scrupoloso nell’osservare i suoi doveri religiosi.
La sua «santità» sarebbe frutto unicamente del suo sforzo e del suo impegno.
Ma in fondo il fariseo dice la verità, perché è vero che osserva fedelmente la legge e fa grandi sacrifici; è vero che il suo zelo lo spinge a fare più di quanto la legge richiede: non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come era prescritto, ma due.
Che cosa allora non va nella sua vita? Perché la sua preghiera non è gradita a Dio?  Tutto il suo impegno lo ha realmente portato all’autorealizzazione nella santità? Il «difetto» del fariseo non è l’ipocrisia, ma il riporre la fiducia unicamente in se stesso.
La sua preghiera è un monologo: «Stando ritto presso se stesso queste cose pregava…
» (Lc 18, 11).
Egli sta «in piedi», non ha nulla da chiedere a Dio, anzi ritiene che Dio debba qualcosa a lui: nella sua preghiera non chiede misericordia, non aspetta il dono della salvezza, ma attende da Dio il premio che gli è dovuto per il bene fatto.
Nel suo monologo orante esordisce dicendo: «O Dio, ti ringrazio…
»: fa risalire in un certo modo la sua santità a Dio.
Ma questa originaria consapevolezza di dipendenza da Dio per la sua autorealizzazione si perde lungo la strada, perché il suo sguardo è tutto ripiegato in se stesso.
La sua santità non deriva da Dio e il suo modo di giudicare con disprezzo il prossimo non ha nulla a che vedere con la preghiera: è solo un autocompiacimento.
Uscirà come era entrato: con il suo orgoglio, il suo disprezzo, per gli altri, la sua presunta santità…
Nella Casa di Dio era entrato da «santo», ne esce da fallito!   II coraggio di piegarsi…
l’umiltà del peccatore II pubblicano, ebreo «rinnegato», è iscritto nell’elenco ufficiale dei «senza Dio» insieme ai ladri, alle prostitute e agli adulteri.
Consapevole che la sua vita è in forte dissonanza con la fede e la santità, «stando a molta distanza, non voleva nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto…» (Lc 18, 13).
Entra nel tempio con la coscienza di porre dinanzi a Dio tutta la sua vita, senza maschere e in tutta la sua nudità.
Il suo atteggiamento di preghiera è esattamente opposto a quello del fariseo.
La sua preghiera non è un monologo ma un dialogo; egli non parla a se stesso ma a Dio: «O Dio, fai elemosina a me peccatore».
Dice la verità: è peccatore! A Dio presenta con coraggio la sua carta di identità e, cosciente della sua fragilità, piega le ginocchia, tiene abbassato lo sguardo perché si vergogna di se stesso, resta in fondo al tempio perché non osa avvicinarsi alla santità di Dio.
La sua umiltà, tuttavia, non consiste nell’abbassarsi perché egli è realmente ciò che dice di essere, ma nel coraggio di presentarsi con verità a Dio e a se stesso, così com’è.
Al coraggio unisce il bisogno di cambiamento, consapevole di non poter pretendere nulla da Dio.
Non ha nulla di cui vantarsi e non ha nulla da esigere.
Può solo chiedere: «O Dio, fai elemosina a me», in greco: ilàstheti moi! Chiede l’elemosina di Dio, implora cioè il chinarsi misericordioso del Signore sulla sua fragilità, sul suo essere peccatore.
E si rimette a Lui, si affida completamente allo sguardo compassionevole di Dio, non a se stesso.
È questa l’umiltà, è questo l’atteggiamento che Gesù loda.
Nella Casa di Dio era entrato da peccatore, ne esce da santo! Cogliersi dallo sguardo di Dio Gesù non elogia la vita del pubblicano e non disprezza le opere del fariseo; apprezza la verità con la quale il pubblicano si pone dinanzi a Dio e a se stesso; del fariseo condanna l’atteggiamento orgoglioso e arrogante e l’inutilità della sua vuota preghiera.
L’unico modo di porsi di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita, è essere se stessi nella coscienza della propria fragile creaturalità…
liberata e redenta e perciò bella! Il fariseo considera la sua santità come frutto del suo impegno e non come dono di Dio; è lontana dalla sua mentalità di misericordia e la «prossimità» con chi è diverso da lui, con il pubblicano.
Gesù non rimprovera perciò il fariseo di ipocrisia, ma evidenzia che è sbagliato l’intero suo modo di rapportarsi a Dio: «Disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18, 9).
Gesù smaschera nel fariseo la sua «radice inquinata», il sistema religioso del quale è intriso e non una semplice incoerenza.
La parabola non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano: non sono le sue opere ad essere contestate ma egli stesso e il suo modo di essere.
L’errore sta nel guardare a Dio alla luce delle proprie opere.
Per Gesù invece è importante e necessario che l’uomo guardi a se stesso a partire da Dio, che l’uomo impari a cogliersi dallo sguardo di Dio e ad essere «vero» di fronte a Lui.
«Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18, 14); la «giustificazione» è permettere a Dio di farci dono del suo perdono, lasciare che Dio ci ami così come siamo, senza paura e senza infingimenti.
E allora la fragilità umiliata si trasforma in forza e coraggio, ci rimette nuovamente in strada da santi verso la pienezza della vita, «perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).
Santi perché peccatori La lezione della parabola è stata molto chiara.
La santità è iscritta nella nostra creaturalità, ci restituisce al nostro essere uomini.
La santità, però, inizia dove finisce l’umana presunzione perché è riconoscimento, accoglienza e offerta di ciò che si è: peccatori! È questa la nostra carta d’identità, questa la coscienza della nostra creaturalità esposta al bacio della graziosa tenerezza di Dio.
Possiamo allora dire che noi siamo santi perché peccatori.
Chi non ha la profonda consapevolezza di essere peccatore non potrà mai essere santo! (M.
RUSSOTTO, Santità come autorealizzazione? Spunti di riflessione in compagnia della Parola, in CISM, La relazione con Dio: fondamento dell’autorealizzazione del vivere con i fratelli, della passione apostolica.
«Protesi verso il futuro» (Fil 3,12)… per essere santi, Roma, Il Calamo, 2003, 55-59).
Preghiera e valutazione degli altri La valutazione degli altri, ecco l’altro parametro che bisogna accettare per riscoprirsi.
Specie se quest’altro è Dio e per lui Cristo.
Un giorno si presentano al tempio per pregare un fariseo ed un pubblicano.
Il primo prega cosi: “Dio, ti ringrazio che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, oppure come questo pubblicano.
Io digiuno due volte la settimana, pago la decima di tutto ciò che acquisto”.
L’altro invece: “Dio, sii clemente al peccatore che io sono”.
Gesù sentenzia: “Vi dico, il pubblicano se ne tornò giustificato a casa sua, a differenza dell’altro” (Lc 18,11-14).
Evidentemente il primo si è valutato da sé e lo ha fatto paragonandosi agli altri.
E chi è disposto a considerarsi peggiore degli altri? Non giudichiamo forse gli altri con estrema facilità e molto spesso con spietata severità? Il fariseo ha finito con il sopravvalutarsi, con l’essere ingiusto con sé e soprattutto con gli altri; perciò continua Gesù: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14).
Il pubblicano s’è messo di fronte a Dio e ne ha visto l’immensa distanza, l’incolmabile differenza, ha chiesto aiuto ed è stato restituito al suo posto di uomo “giusto”.
Un giorno (scrive Francesco Alberoni) rabbi Jochanan ben Zaccai domandò ai suoi discepoli quale è la retta via da seguire.
Elazar gli diede la risposta esatta: “un cuore buono”.
Ottima risposta, eppure noi riusciamo a manipolare anche l’intenzione.
A poco a poco, attraverso una sottile azione di propaganda su noi stessi, arriviamo a nasconderci i veri motivi della nostra azione: l’ambizione, l’interesse, l’odio, la vendetta.
Ci convinciamo di essere mossi soltanto dal desiderio di fare del bene, dall’altruismo.
Sartre la chiamava falsa coscienza.
Anche il grande inquisitore Torquemada pensava di essere buono, in quanto cercava di salvare l’anima immortale di coloro che condannava al rogo.
Qualsiasi virtù è automaticamente distrutta dal compiacimento di possederla.
  O Dio, abbi pietà di me, peccatore «Veglia su di te, dice la Scrittura (Dt 15,9).
Credo che colui che ha dato la legge sia ricorso a tale ammonimento anche per sradicare un’altra passione; poiché ciascuno di noi è più facilmente incline a interessarsi delle cose altrui invece che meditare sulle proprie, affinché non abbiamo ad ammalarci di questa malattia, il Signore ci dice: «Smetti di interessarti della cattiveria del tale o del tal altro; non dar tempo ai tuoi pensieri di esaminare le debolezze altrui, ma veglia su di te, cioè volgi l’occhio dell’anima a scrutare tè stesso».
Molti, infatti, secondo la parola del Signore, osservano la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vedono la trave che è nel proprio (cfr.
Mt 7,3).
Non cessare, dunque, di scrutare te stesso, se vuoi vivere secondo il comandamento.
Non stare a guardare fuori di te se ti riesce di trovare qualcosa da rimproverare agli altri, come faceva quel fariseo presuntuoso e vanaglorioso che innalzava se stesso giustificandosi e disprezzava il pubblicano (cfr.
Lc 18,10-14); non smettere di esaminare te stesso chiedendoti se hai peccato nei tuoi pensieri o se la tua lingua, più veloce del pensiero, non ha detto qualcosa di troppo, se con le opere delle tue mani non hai compiuto qualcosa al di là delle tue intenzioni.
E se trovi nella tua vita un gran numero di peccati – sei uomo e dunque ne troverai di certo – ripeti le parole del pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13).
Veglia su di te.
Se godi di grande pace, se i tuoi giorni scorrono felici, queste parole ti saranno utili come un buon consigliere che ti ricorda la realtà delle cose umane.
Se invece sei oppresso da vicende avverse, le stesse parole cantate nel cuore ti riusciranno utili per non elevarti orgogliosamente a un’insolenza eccessiva o per non cadere per disperazione in un meschino scoraggiamento».
(BASILIO DI CESAREA, Veglia su di te 5, Bose, 1993, pp.
19-20).
L’umiltà Un’ulteriore energia dello Spirito è l’abbassamento.
Non uso volutamente la parola «umiltà» perché il significato abituale che attribuiamo a quest’ultima comporta una certa dose di autodeterminazione, il che in realtà è un’impressione a posteriori.
L’umiltà è una condizione prima di essere un giudizio su noi stessi.
È una situazione di abbassamento sulle tracce di Cristo: «Chi si umilia sarà esaltato».
Un abbassamento che ha valore solo se è opera dello Spirito santo.
È indubbiamente a questo punto che entra in gioco l’obbedienza religiosa, nella misura in cui tale obbedienza consiste nel rimanere sottomessi, soggetti ad altri uomini, per amore del Signore e seguendo il suo esempio.
(Tatto da A.
Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp.
9-20).
Preghiera Il fariseo si riteneva giusto perché non uccideva.
Gesù insegna ad amare i propri nemici.
E noi cristiani pensiamo di essere giusti perché non abbiamo ucciso?   Il fariseo si riteneva giusto perché non commetteva adulterio.
Gesù ci chiede di non guardare la donna altrui con desiderio.
E noi cristiani ci riteniamo giusti quando commettiamo adulterio di fatto o di desiderio?   Il fariseo si riteneva giusto pur praticando il divorzio.
Gesù insegna che chi ripudia sua moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei.
E noi cristiani ci riteniamo giusti perché non abbiamo divorziato?   Il fariseo si riteneva giusto perché giurava e manteneva i giuramenti.
Gesù dice di non giurare affatto.
E noi cristiani ci riteniamo giusti pur giurando e giurando il falso?   Il fariseo si riteneva giusto perché digiunava e pagava le decime.
Gesù dice che quando abbiamo fatto tutto, siamo servi inutili.
E noi cristiani crediamo di essere giusti perché osserviamo le leggi?   La preghiera del fariseo non fu accetta a Dio perché stimò e lodò se stesso, non si ritenne peccatore, non chiese perdono a Dio, tornò a casa non giustificato.
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
           XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Siracide 35,15-17.20-22          Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone.
Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso.
Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento.
Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi.
La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
    v Il libro del «Siracide» (detto così dal nome del suo autore Gesù Ben Sirach) fa parte non del canone ebraico, ma della bibbia greca.
Fu scritto in ebraico (se ne sono trovati frammenti in una grotta di Qumran), ma è arrivato a noi nella traduzione greca, che risale agli inizi del II secolo avanti Cristo.
Non siamo lontanissimi dall’epoca del N.T., ed il pensiero sapienziale di Israele si esprime in un’opera di grande maturità.
     Il cap.
35 rappresenta una profonda meditazione sapienziale sul senso del culto, ma anche una sua relativizzazione.
Da una parte si esalta la bontà delle offerte e dei sacrifici (vv.
1-10), dall’altra parte si ribadisce che Dio non si lascia corrompere da vittime ingiuste e preferisce le preghiere povere ma sincere degli umili (vv.
11-24).
È da questa seconda sezione del cap.
35 che sono attinti i versetti di cui si compone la nostra lettura.
     Annotazioni esegetiche      — «Il Signore è giudice…» (v.
12).
Alla pretesa, o illusione, di valersi delle offerte cultuali per «corrompere» Dio (si legga il v.
11), questo v.
12 costituisce una risposta chiara: il Signore è al di sopra dei doni che gli offriamo come giudice imparziale.
Vana è l’illusione dell’uomo religioso di poter tirare Dio dalla propria parte semplicemente offrendo gli omaggi.
     — «Ascolta la preghiera dell’oppresso» (vv.
13-14).
L’oppresso, la vedova e l’orfano sono — nell’ambito sociale — coloro che non hanno alcun peso, perché privi di sostegni e di possibilità economiche: è gente che non conta, alla quale nessuno dà importanza.
A differenza delle autorità romane, è proprio a costoro che Dio rivolge la propria attenzione quando esprimono la loro infelicità («lamento»).
     — «La sua preghiera arriva fino alle nubi » (v.
17).
L’efficacia della preghiera (penetrare le nubi significa giungere al cielo, ossia presso Dio, ottenendo ciò che chiede) è proprio nella debolezza di chi la fa, o meglio nella consapevolezza di tale debolezza («umiltà»).
Qui si crea un importante legame col Vangelo di oggi.
     —«Abbia reso soddisfazione ai giusti» (v.
22).
I «giusti» si identificano qui chiaramente con coloro che si riconoscono deboli e confidano unicamente nella protezione di Dio.
Proprio perché fiduciosa, tale preghiera «non desiste» e finisce con l’ottenere da Dio il ristabilimento di un’equità che i criteri umani hanno ignorato o sovvertito cioè: i deboli e gli umili trovano davanti a Dio quel favore che gli uomini negano loro.
  Seconda lettura: 2Timoteo 4,6-8.16-18             Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita.
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.
Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato.
Nei loro confronti, non se ne tenga conto.
Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.  Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli.
Amen                                       v La situazione in cui viene scritta questa seconda lettera a Timoteo è quella della prigionia romana.
Paolo scrive alla vigilia della sua morte, per cui questa lettera al caro discepolo assume il tono del testamento spirituale.
Nella parte finale di questo testamento (4,6-18) si aprono le prospettive future accompagnate dalle ultime istruzioni dell’Apostolo a Timoteo.
La nostra lettura fa parte di questa sezione.
Anche se (come tendono ad affermare molti critici) questa lettera è da attribuire non a Paolo, ma ad un suo discepolo o epigono, ritroviamo comunque le idee-madri e la testimonianza sostanziale dell’Apostolo, segno che la sua paternità spirituale ha profondamente segnato la tradizione paolina successiva.
     Appunti esegetici.
– Proponiamo di concentrare la nostra attenzione sulle immagini che vengono usate per descrivere la realtà presente vissuta dall’Apostolo e applicabile alla realtà di ogni credente.
     a) La vita dell’Apostolo, che giunge verso la conclusione, è paragonata:                                                                  — con immagini atletiche, a una corsa tesa ad un traguardo («ho terminato» v.
7), ma anche in attesa di un premio («corona», v.
8), non da fruire personalmente ma da condividere con quanti hanno preso parte alla corsa (v.
8);      — con immagini strategiche: la vita del credente è battaglia buona e nobile, bella (kalos), per cui vale la pena combattere (v.
6);      — con metafora sacrificale: la vita giunge alla morte non come a epilogo oscuro ma come vittima il cui sangue si spande in libagione, è momento prezioso, al cospetto di Dio ed in favore degli uomini (propiziazione) (v.
6);      — con immagine marinara, la morte è come «sciogliere le vele», salpare per un lungo viaggio; non è fine, ma inizio.
     b) Il rapporto dell’Apostolo con il Signore si configura come rapporto tra imputato e avvocato difensore.
Il ruolo di questo difensore assume però dimensioni più vaste di quelle di un difensore giuridico.
Sottolineiamo tre dimensioni teologiche: la prima, di liberazione dal nemico («dalla bocca del leone», v.
17: cf.
Dan 6,17); la seconda, di potenza evangelizzatrice, per cui la forza di Dio si traduce in proclamazione e annunzio del Vangelo a tutti i pagani; la terza è di liberazione e salvezza escatologica: «nel suo regno» (v.
18).
     Mediante queste ricche immagini, la vita, l’apostolato e la stessa morte di Paolo vengono trasfigurate alla luce di Dio, assumendo un valore molto più grande e teologico di quello che appare ad un semplice osservatore umano delle cose.
  Vangelo: Luca 18,9-14          In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:  «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.  Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
                Esegesi      All’inizio del cap.
18 del Vangelo di Luca leggiamo due parabole riguardanti la preghiera.
Ciascuna delle due parabole mette in luce le caratteristiche particolari della preghiera cristiana: la continuità incessante (parabola del giudice iniquo e della vedova, vv.
1-8; Vangelo letto la domenica scorsa) e l’umiltà (il fariseo e il pubblicano, vv.
9-14, Vangelo odierno).
Il dittico delle due parabole va preso nel suo insieme: la preghiera incessante dev’essere caratterizzata da grande umiltà; la preghiera umile va continuata con perseveranza e insistenza.
     Annotazioni

Sentenze. gli otto spiriti della malvagità,

Evagrio Pontico, Sentenze.
gli otto spiriti della malvagità, Città Nuova, Pagine 110.
Euro 10,00 Evagrio Pontico, monaco del IV secolo, è una figura tra le più luminose in quel mosaico scintillante di fede e di vita cristiana che sono i padri del deserto.
E possiede anche una particolarità quasi unica.
Se infatti conosciamo gli altri padri quasi esclusivamente per i «detti» loro attribuiti o – come nel caso della famosissima Vita di Antonio scritta da Atanasio di Alessandria – attraverso opere di autori successivi, Evagrio ci è noto soprattutto per gli abbondanti scritti che lui stesso ci ha lasciato e che fin da subito hanno conosciuto un’enorme diffusione e influenza sia nell’area mediorientale che nel mondo latino.
Ora la benemerita collana divulgativa di «Testi patristici» edita da Città Nuova ci propone una raccolta di brevi scritti evagriani, curata da Lucio Coco: nell’agile volume, sono accostati una serie di «sentenze» e il trattato su «gli otto spiriti della malvagità», uno dei primissimi testi ad aver analizzato finemente quelli che in occidente diventeranno noti come i vizi capitali.
Se le sentenze – redatte nel genere letterario dei «proverbi» biblici – sono dirette innanzitutto ai monaci e alle vergini, le riflessioni sugli spiriti malvagi rivelano la grande universalità degli interrogativi e delle tentazioni che affliggono non solo chi conduce vita monastica, ma ogni uomo e ogni donna, di ogni epoca, cultura e latitudine.
Per il lettore che monaco non è, può essere allora molto utile tornare alle «sentenze» più specificatamente monastiche dopo aver analizzato sotto la guida di Evagrio il proprio rapporto con quelle pulsioni che abitano il corpo e la mente e che vanno sotto i nomi divenuti classici di gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia.
Chi può in verità dire di non averle sperimentate come forze che condizionano il proprio agire e il proprio pensare? Chi non riconosce come assillanti compagni di cammino questi pensieri viziati da un malvagio ripiegamento su di sé? Davvero sono tentazioni universali, proprio perché nascono dall’unica fondamentale paura che domina e aliena ogni essere umano: la paura della morte.
Paura che è alla radice di tutte le altre, nonostante nel contesto culturale attuale, specie in occidente, si faccia di tutto per rimuovere la realtà della morte, con il risultato che è proprio lei ad abitare le nostre vite come un’angoscia di cui non sappiamo decifrare il volto.
Mossi dalla paura della morte, vogliamo preservare con qualsiasi mezzo la nostra vita, vogliamo possedere per noi stessi i beni della terra, vogliamo dominare sugli altri.
Pensiamo di assicurarci in tal modo una vita abbondante, illudendoci di poter combattere la morte con l’autoaffermazione, e giungiamo a considerare ragionevole e giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a noi stessi.
E così finiamo inevitabilmente per imboccare sentieri di morte… Di fronte a questa possibile deriva dell’animo umano, chi vive nel silenzio del deserto non conosce esenzioni, non è preservato, non può vantare privilegi o certezze.
Solamente può avere a disposizione il tempo e lo spazio per discernere i moti dello spirito e sforzarsi – giorno dopo giorno, nella concretezza di un quotidiano che non rimuove ma affronta la paura della morte – di crescere nell’amore, «più forte della morte».
Altrimenti, il suo splendido isolamento non solo è inutile ma diviene dannoso perché, come osserva Evagrio, è «meglio stare in mezzo a mille uomini che da solo con odio in segrete spelonche».
in “Avvenire” del 23 ottobre 2010

CinemAfrica 2010

Un po’ di storia La rassegna CinemAfrica – film dall’Africa e sull’Africa – nasce nel 2007 su iniziativadell’associazione culturale Centro Studi “Giuseppe Donati” con lo scopo di aprire unafinestra culturale sul continente africano a beneficio in particolare degli studentidell’Università di Bologna.
Un obiettivo secondario ma altrettanto importante è quello di mostrare un’Africa “sorprendente”, lontana dallo stereotipo che viene propagato dai media mainstream,un’Africa che crea opere mature e innovative, capace di analizzarsi e – perché no – anchedi prendere in giro se stessa.
I giovani studenti della più antica università di Bologna, pensano che l’incontro con l’Africa non avvenga solo quando una barca di migranti approda sulle coste italiane: i cibi, le musiche, le letterature, la moda costituiscono occasione di contaminazione tra l’Africa e l’Europa.
In questo senso il cinema assume un ruolo fondamentale, in quanto forma espressiva popolare che riunisce in sé il gesto, la parola, l’immagine, la musica e la scrittura.
Inoltre, consapevoli  che la cinematografia africana ha scarsità di risorse, la Rassegna vuol essere un piccolissimo gesto di sostegno, quasi una sorta di “commercio equo e solidale cinematografico”, dal momento che in Africa la diffusione è davvero limitata a pochissime sale dislocate per lo più nelle capitali e nelle città più importanti(Cfr.: presentazione CinemAfrica 2010).
Gli studenti del Centro Studi “Giuseppe Donati”, vicolo Luretta, 3/A – 40126 -Bologna : www.centrostudidonati.org  si propongono di fa vedere  pellicole da un lato non “difficili” in termini di tematiche trattate e di comprensione linguistica, in modo che CinemAfrica sia un appuntamento il più possibile aperto, ampio e partecipato, privilegiando il punto di vista africano, sia per quanto riguarda la produzione, la regia e/o il soggetto delle opere presentate.
Troppo spesso infatti l’Africa, dopo aver subito un colonialismo che per quanto riguarda l’aspetto economico perdura tuttora, subisce anche un furto in termini cinematografici e culturali, essendo costretta a mostrare sempre e soltanto gli stereotipi che il pubblico occidentale si attende.
I film sono proposti sempre su grande schermo, presso una sala cinematografica cittadina di primissima qualità e con una particolare predilezione per la proiezione in pellicola.
Proprio per il carattere aperto della rassegna i film presentati sono doppiati o quanto meno sottotitolati in italiano.(Cfr.: Centro Studi “Giuseppe Donati”, vicolo Luretta, 3/A – 40126 –Bologna www.centrostudidonati.org ).
Le collaborazioni Dall’edizione 2008 CinemAfrica si avvale della collaborazione del prestigioso Festival delCinema Africano di Verona, che si svolge ogni anno dal 1980.
(cfr.
www.cinemafricano.it)Quello di Verona si configura come un vero e proprio Festival CinematograficoInternazionale; dal 2007 inoltre Verona ha stretto una collaborazione formale con il Festival del Cinema di Zanzibar in occasione del quale una delegazione veronese  partecipa alla giuria del festival..
Questo gemellaggio tra il “piccolo” CinemAfrica e il ben più solido evento veronese, oltre ariconoscere il valore dell’esperienza CinemAfrica in una città studentesca e culturalmenteattiva come Bologna, rende la rassegna sicuramente più completa e migliore sotto il profiloartistico.
Da questa edizione si è rafforzate la collaborazione con il COE (Centro Orientamento Educativo di Milano) per la selezione delle pellicole e con Radio Città del Capo di Bologna in qualità di media partner per il supporto pubblicitario e di informazione.
L’edizione 2010   Due weekend e otto film provenienti o ambientati in terra africana che svelano tradizioni,credenze religiose, politica e sentimenti del continente “così lontano e così vicino”.
Pellicole di autori africani desiderosi di raccontare storie intime, ma anche momenti politici che passeranno alla storia come le più gravi espressioni di razzismo.
Tutti collegati a temi attuali come gli “estremismi” religiosi e l’emigrazione.
I due week end della rassegna si aprono con l’omaggio a Sembène Ousmane maestro del cinema senegalese scomparso nel 2007, con GUELWAAR (sabato 16 ottobre 2010 – ore 18)e MOOLAADÈ (sabato 23 ottobre 2010 – ore 18).
Entrambi i film hanno come sfondo il villaggio africano, mentre Guelwaar rivela intrecci ed equivoci a volte anche divertenti, Moolaadè denuncia l’illegale usanza barbara dell’infibulazione delle bambine, tuttora praticata in oltre 25 paesi africani sui 52 riconosciuti dall’Onu.
A seguire nella giornata di apertura, 14 KILOMETROS di Gerardo Olivares, (sabato 16 ottobre 2010 – ore 21) film che percorre il dramma dei migranti clandestini in viaggio per raggiungere l’attraente opulenza europea; la tragica illusione dei disperati è che siano i 14 chilometri dello Stretto a separarli dall’agognata felicità.
Ed è appunto l’attesa e nello stesso tempo il desiderio di allontanare i propri legami lo sfondo principale del film di Sissako, ASPETTANDO LA FELICITA’ (domenica 17 ottobre – ore 18).
Film premiato a Cannes 2002 e al prestigioso Fespaco di Ouagadougou nel 2003.
CATCH A FIRE di Philip Noyce (domenica 17 ottobre – ore 21) è un film storico/politico capace di rappresentare con sobrietà ed efficacia il clima opprimente del Sudafrica prima dell’abolizione dell’apartheid.
Solo molti anni dopo e con grande fatica il popolo sudafricano affronterà il tema della riconciliazione che troviamo in INVICTUS (sabato 23 ottobre – ore 21), diretto con grande delicatezza ed abilità da Clint Eastwood.
Novità del cinema africano emergente è Amour, Sexe et Mobylette di Maria Silvia Bazzoli e Christian Lelong (domenica 24 ottobre – ore 18).
Concluderà la rassegna il 24 ottobre Il canto delle spose di Karin Albou, la storia e il sogno di due giovani amiche, una musulmana l’altra ebrea, che verranno divise dalla propaganda razziale del 1942 a Tunisi.
Anche quest’anno ogni proiezione sarà preceduta da una brevissima introduzione e accompagnata da una scheda informativa a disposizione del pubblico.
I film sono sempre in lingua italiana o in versione originale con sottotitoli in italianoCfr.: Centro Studi “Giuseppe Donati” , vicolo Luretta, 3/A – 40126 -Bologna , www.centrostudidonati.org ).
Il Programma: sabato 16/10 ore 18 GUELWAAR Senegal 1992 Regia Sembène OUSMANE sabato 16/10 ore 21 14 KILOMETROS Spagna 2007 Regia Gerardo OLIVARES domenica 17/10 ore 18 ASPETTANDO LAFELICITA’ Mauritania, Francia 2002 Regia Abderrahmane SISSAKO domenica 17/10 ore 21 CATCH A FIRE GB, Sudafrica, USA 2006 Regia Phillip NOYCE sabato 23/10 ore 18 MOOLAADE’ Senegal, Francia 2004 Regia Sembène OUSMANE sabato 23/10 ore 21 INVICTUS – L’INVINCIBILE USA 2009 Regia Clint EASTWOOD domenica 24/10 ore 18 AMOUR, SEXE ETMOBYLETTE Francia, Germania, Italia, Burkina 2008 Regia Maria Silvia BAZZOLI, Christian LELONG domenica 24/10 ore 21 IL CANTO DELLE SPOSE Francia 2008.
A noi non resta che augurare la partecipazione di tutta la gioventù di Bologna, affinché queste piccole “pietre” diano speranza ai tanti pessimisti che non credono che il mondo possa migliorare e stringersi in un abbraccio fraterno, affinché la convivenza globale divenga veramente “segno” dell’unico Padre.
 

Uomini di Dio

Trama del film Uomini di Dio: Un monastero in mezzo alle montagne aglerine negli anni 1990…
Otto monaci cristiani francesi vivono in perfetta armonia con i loro fratelli musulmani.
Progressivamente la situazione cambia.
La violenza e il terrore integralista si propapagano nella regione.
Nonostante l’incombente minaccia che li circonda, i monaci decidono di restare al loro posto, costi quel che costi.
USCITA CINEMA: 22/10/2010 REGIA: Xavier Beauvois SCENEGGIATURA: Etienne Comar, Xavier Beauvois ATTORI: Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Sabrina Ouazani, Philippe Laudenbach, Jacques Herlin, Xavier Maly, Jean-Marie Frin, Abdelhafid Metalsi, Olivier Perrier, Adel Bencherif Ruoli ed Interpreti FOTOGRAFIA: Caroline Champetier DISTRIBUZIONE: Lucky Red PAESE: Francia 2010 GENERE: Drammatico DURATA: 120 Min FORMATO: Colore Note: In concorso al Festival di Cannes 2010 Uomini di Dio  L’Ultima Cena dei monaci di Tibhirine prima del martirio In settembre, nei cinema parigini, sette monaci trappisti circencensi, votati al silenzio e alla preghiera, hanno sbaragliato i sontuosi incubi di Di Caprio (Inception), e i misteri seduttivi della Jolie (Salt).
Nelle prime tre settimane Uomini di Dio di Xavier Beauvois, ha più che triplicato il pubblico dei due filmoni americani, sfiorando i due milioni di spettatori.
È vero che per i francesi la storia, vera, è tuttora una ferita oscura e tragica, ma ad assegnare al film a Cannes il Gran Premio è stata una giuria internazionale presieduta dal pur bizzarro Tim Burton: e del resto al festival i monaci in saio bianco avevano già trafitto il cuore di signore ingioiellate e critici burberi, di credenti, di agnostici e persino di atei.
Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, un drappello del Gruppo Islamico Armato rapisce sette (su nove, due erano riusciti a nascondersi) monaci del monastero di Tibhirine, sui monti dell’Atlante, e due mesi dopo ne annuncia l’assassinio.
Il 30 maggio vengono ritrovate le loro teste, mai più i corpi.
Il film racconta gli ultimi mesi di vita di questa comunità religiosa, e proprio perché il regista si definisce miscredente, riesce a comunicare, anche, o soprattutto a chi non crede, il mistero insondabile della fede.
L’Algeria è in piena guerra civile, eppure i monaci vivono in tranquillità e autosufficienza la giornata di preghiera, di canti, di lettura, di lavori agricoli e domestici: il loro ordine non prevede il proselitismo, quindi c’è armonia, rispetto e fratellanza con gli abitanti del piccolo villaggio musulmano.
Il vecchio padre Luc (Michael Lonsdale) è medico e riceve gratis anche 150 pazienti al giorno, il priore padre Christian (Lambert Wilson) che conosce a memoria il Corano e legge I fioretti di San Francesco, porta il miele del convento al mercato, tutti insieme assistono alla festa per la circoncisione di un piccino e ascoltano le parole dell’Imam, che paiono tanto simili a quelle del Vangelo.
Il paesaggio che circonda il monastero è paradisiaco, immenso, intatto, e induce a provare quel sentimento inquieto d’incanto che oscuramente avvicina a un mistero, forse proprio quello della fede.
Dopo il massacro di un gruppo di lavoratori croati da parte dei terroristi, ai monaci viene imposto o di accettare la protezione dell’esercito, o di tornare in Francia.
«È stato il colonialismo francese la radice di questa guerra civile», dice un militare al priore, che rifiuta «la protezione di un governo corrotto» (un governo militare imposto da un colpo di stato per non riconoscere la vittoria elettorale del Fronte Islamico), mentre il dubbio sull’opportunità di restare comincia a inquinare la serenità e la compattezza della comunità.
Forse un quasi certo suicidio collettivo è insensato, la fede non pretende il martirio: eppure alla fine, i monaci decidono che vale la pena di restare, sapendo che non ci sarà futuro per loro.
Ci sono scene indimenticabili: il terrorista ferito viene medicato nel convento, e pare il Cristo del Mantegna, però con la faccia di Che Guevara; nella notte di addio alla vita, i monaci si riuniscono attorno alla tavola come nell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, contro la regola si stappano due bottiglie di vino, e il disco scelto è quello fragoroso del Lago dei cigni di Ciaikovskij.
I visi s’illuminano nel sorriso, si spengono davanti all’angoscia che li attende.
In primo piano, ad uno ad uno, solo quei volti, quelle teste, che due mesi dopo si troveranno mozzate ai bordi di una strada.
È un’efferatezza che Beauvois ci risparmia: rapiti e spinti su un sentiero di montagna i monaci a poco a poco svaniscono nel chiarore notturno e funebre della neve.
Nel suo testamento spirituale (pubblicato in Più forti dell’odio, editore la Comunità di Bose) padre Christian scrive (e dice dallo schermo): «L’Algeria e l’Islam per me sono un corpo e un’anima… Anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi, dico grazie… e che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due».
Quasi quindici anni dopo quella strage non si sa ancora chi furono i veri responsabili.
Solo l’anno scorso è stato tolto il segreto di Stato, e l’inchiesta giudiziaria è in corso.
La tesi ufficiale del governo algerino è che colpevole fu la GIA di Djamel Zitouni; altri che lo stesso Zitouni fu manipolato dai servizi algerini per screditare i ribelli, mentre un generale francese sostiene che fu l’esercito algerino a bombardare il campo dove erano prigionieri i monaci, e a ucciderli.
Il presidente Sarkozy ha chiesto la verità.
di Natalia Aspesi in “la Repubblica” del 19 ottobre 2010

I vangeli apocrifi. vol I

Armand Puig i Tàrrech, «I vangeli apocrifi.
I», a cura di Claudio Gianotto, San Paolo, Cinisello Balsamo, pagg.
412, C 32,00.
Da Agra, l’indimenticabile capitale moghul, la città che è nel ricordo di tutti i turisti per il suo  prodigioso Taj Mahal («una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo», come lo definiva Tagore), si scende versod sud-ovest per una quarantina di chilometri ed ecco pararsi innanzi la città fantasma di Fatehpur Sikri, edificata in pochi anni nel ‘500 dall’imperatore Akbar come una sorta di utopico crocevia interreligioso, a partire dalla base islamica.
La sua din-i-llahi, la “religione di Dio”, era un arcobaleno sincretistico di fedi diverse.
È anche per questo che sulla moschea della città era stata apposta questa iscrizione: «Gesù – che la pace sia con lui – disse: Il mondo è un ponte.
Attraversalo, ma non fermarti qui».
Siamo partiti così da lontano per parlare di una realtà letteraria e religiosa che ha sempre affascinato, quella degli “apocrifi” cristiani, cioè di quegli scritti – talora simili solo a briciole – che raccoglievano detti o vicende di Gesù (e poi dei suoi apostoli) ignoti ai quattro Vangeli canonici.
Il termine di matrice greca “apocrifo”, ossia “nascosto, celato, segreto”, in realtà aggiungeva un’ulteriore connotazione di esoterismo quasi misterico che a volte veniva favorita dagli stessi autori di tali opere.
Ad esempio, l’importante Vangelo di Tommaso, che offre un campionario molto suggestivo di114 lóghia o ‘detti” di Cristo, inizia così: «Queste sono le parole segrete che Gesù, il Vivente, ha detto.
Didimo Giuda Tommaso le ha scritte e ha detto: Colui che troverà l’interpretazione di queste parole non gusterà la morte».
Tale accezione iniziatica del termine “apocrifo” si trasformerà negativamente in quella di ‘falso”, certo, per la contrapposizione a ciò che era “canonico”, cioè la Scrittura ufficialmente accolta dalla Chiesa, ma anche per la tutt’altro che rara tentazione, rivelata da questi scritti, di aggiungere ai dati, talora storicamente autentici, la spezie della fantasia (i cosiddetti “Vangeli dell’infanzia di Gesù” ne sono la prova irrefutabile) o l’avallo delle proprie teorie teologiche.
Che siano, comunque, preziosi per ricostruire il fondale storico-culturale-spirituale della cristianità delle origini è fuori di dubbio, come lo sono anche per poter spiegare e giustificare tradizioni sopravvissute sino ai nostri giorni e per decifrare molti soggetti dell’iconografia cristiana.
Tanto per fare un esempio, se una nostra lettrice di nome Anna volesse identificare il passo esatto dove entra in scena la sua celebre omonima madre di Maria, vanamente sfoglierebbe i quattro Vangeli della sua Bibbia.
È, infatti, il Protovangelo di Giacomo, composto tra il 150 e il 200, a custodire queste e molte altre memorie sulla vita di Maria, la madre di Gesù.
Ma ritorniamo all’iscrizione indiana da cui siamo partiti.
Se prendete tra le mani il primo volume finora apparso de I vangeli apocrifi, curato dall’esegeta catalano Armand Puig i Tàrrech, troverete questa frase come la ventiseiesima di una serie classificata sotto il termine greco di ágrapha, cioè di “(parole) non scritte”, assegnate a Gesù ma ignote ai Vangeli canonici.
Il primo di questa sequenza di detti è nientemeno che nel Nuovo Testamento ed è in bocca a san Paolo: negli Atti degli Apostoli (20,35) si legge infatti che l’Apostolo invitava i capi della chiesa di Efeso a «ricordare la parola del Signore Gesù che disse: C’è più felicità a dare che a ricevere».
È, questo, un settore piuttosto significativo del pianeta letterario-teologico degli apocrifi e.
per ragioni di completezza, nel libro vengono registrati anche quegli ágrapha che sono incastonati come pagliuzze cristiane nel tessuto delle tradizioni musulmane (lo scorso anno, a cura di Sabino Chialà, la Fondazione Valla ha dedicato, nella sua collana edita da Mondadori, un testo specifico sui Detti islamici di Gesù).
È noto, infatti, non solo il rilievo del “profeta” Gesù nel Corano, ma anche i molteplici contatti che l’islam ebbe col cristianesimo, non di rado eterodosso, fin dal suo primo germogliare con Maometto.
L’epigrafe di Fatehpur Sikri potrebbe offrire un detto generato da altri detti evangelici di Gesù, come quelli sul vero tesoro, che non è nella passeggera ricchezza terrena, e sul non affannarsi nell’accumulo di beni transitori (si vedano Matteo 6,19-34 e Luca 12,16-31).
Curiosamente anche nel citato Vangelo di Tommaso abbiamo questa frase di Gesù: «Siate gente di passaggio».
Ci siamo soffermati su questo genere particolare di apocrifi, ma l’orizzonte è ben più vasto e comprende vere e proprie narrazioni  “evangeliche” elaborate in almeno tre secoli e dalle iridescenze variegate e molteplici.
Dopo tutto, già lo stesso Luca nel prologo al suo Vangelo ricordava che «molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno tramandati i testimoni oculari» (1,1-2).
E, sia pure con evidente enfasi retorica, la seconda fmale del Vangelo di Giovanni ammoniva che «vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (21,25).
La raccolta di Puig i Tàrrech dispiega una mensa ricca, comprendente i Vangeli di matrice giudeo-cristiana, quelli pittoreschi dell’infanzia di Gesù (a cui sopra accennavamo), i racconti della sua passione, morte e risurrezione (da considerare in particolare il Vangelo di Pietro, scoperto nell’inverno 1886-87 all’interno di una tomba di un monaco cristiano nell’Alto Egitto) e, infine, il testo del Transito di Maria, vale a dire il racconto della sua morte e assunzione, uno dei più rilevanti apocrifi che trattano questo tema.
Sarà come compiere un viaggio in un mondo di meraviglie narrative e spirituali ove verità e fantasia s’incrociano e ove non manca forse neanche qualche “patacca” (o sospetta tale).
È il caso di quel misterioso Vangelo segreto di Marco che lo studioso americano Morton Smith affermò di aver scoperto nel 1958 nel monastero di Mar Saba nel deserto di Giudea, citato nella copia di una lettera sconosciuta di Clemente Ale ssandrino.
Delle tre pagine di quella lettera egli fece una fotografia, ma l’originale non fu mai ritrovato e lo stesso Smith si decise a rendere pubblica la sua “scoperta” e la relativa e ormai sbiadita testimonianza solo nel 1973…
Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 17 ottobre 2010