Condividiamo il pane quotidiano”

Un messaggio semplice per dire no alla fame nel mondo e proporre la fraternità e la condivisione come nuovo stile di vita.
È il filo conduttore della campagna di comunicazione “Condividiamo il pane quotidiano”, lanciata dal Sermig di Torino.
Lunedì 31 gennaio, la presentazione in Parlamento a partire dalle ore 16, nella Sala della Lupa di Montecitorio.
Interverranno il presidente della Camera Gianfranco Fini e il fondatore del Sermig Ernesto Olivero.
Ogni giorno, – spiega Olivero – la fame uccide direttamente o indirettamente 100mila persone.
È un fatto terribile e inaccettabile! Il mondo però si può cambiare! Non è utopia, non è buonismo.
Io ci credo veramente.
Ho visto con i miei occhi che basta un pugno di giovani con un ideale per cambiare il corso della storia di una città, di un quartiere, di una famiglia, di un gruppo di amici”.
La campagna di comunicazione è stata realizzata gratuitamente dallo Studio Armando Testa: un’immagine su sfondo giallo raffigura un panino tagliato in due.
Al posto del companatico, la frase “Il pane sia con te, come il pane è con me”: una speranza, un impegno di vita.
Il Sermig – Servizio Missionario Giovani – nasce a Torino nel 1964 da un’intuizione di Ernesto Olivero e dall’impegno di un gruppo di giovani decisi a sconfiggere la fame con opere di giustizia, a promuovere sviluppo, a vivere la solidarietà verso i più poveri.
Si trasforma in Fraternità della Speranza, composta da giovani, coppie di sposi e famiglie, monaci e monache che si dedicano a tempo pieno al servizio dei poveri, alla formazione dei giovani, con il desiderio di vivere il Vangelo e di essere segno di speranza.
Attorno alla Fraternità della Speranza, centinaia di volontari e il movimento internazionale dei Giovani della Pace si ispirano alla spiritualità e al metodo del Sermig.
A oggi sono stati sostenuti 2800 progetti di sviluppo in 89 Paesi del mondo.
Dal 1983 la sede del Sermig è l’ex arsenale militare di Torino ora Arsenale della Pace, una superficie di quarantamila metri quadrati che migliaia di giovani, di donne e uomini di buona volontà, con il loro lavoro gratuito e i con contributi volontari, hanno trasformato in un monastero metropolitano, aperto 24 ore su 24.

VI Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Preghiere e racconti   Il pericolo di diventare ricchi in spirito «Secondo i Padri della Chiesa, le beatitudini riguardano innanzitutto Gesù che “si fece povero, riducendosi alla condizione di servo” (Basilio, Sul salmo 33,5), che si mostrò mite, pacifico e che fu perseguitato (cf.
Origene, Su Luca 38,1-2).
Ma va anche osservato che per i Padri “povero in spirito” non designa solo la povertà materiale, ma l’atteggiamento di chi non pensa di salvarsi da sé stesso, ma resta in attesa e confida nel Signore.
“Non ogni povertà è beata, perché spesso è dovuta alla necessità degli eventi, o è provocata  da una vita malvagia”, afferma Cromazio (Discorsi, 41,2).
Il discepolo di Gesù si fa “a motivo del Signore”, o “accetta la povertà qualunque ne sia l’origine” (Basilio, Regole brevi 205), nell’amore e nella fiducia nel Signore.
La prima dimensione della povertà in spirito è quella creaturale: nulla ci appartiene, tutto è dono; io non sono mio, sono un dono a me stesso, dono che il Padre mi ha fatto attraverso umane mediazioni e che devo custodire.
Povertà in spirito è fidarsi di colui che mi ha pensato, voluto, creato, inviato in questo mondo perché con la mia vita diventassi narrazione del suo amore per gli uomini.
C’è anche un’altra ricchezza che si oppone alla povertà in spirito, quella dell’uomo religioso, di chi si sente giusto, forte delle proprie opere buone.
“È ricco in spirito chi ha un’elevata concezione di sé, chi è arrogante e non adempie il precetto di Cristo” (Pseudo-Crisostomo, Opera incompleta su Mt 9,1).
Il povero non ha nulla, non le ricchezze, ma neppure le proprie virtù, le opere buone.
È povero anche dei suoi peccati, della parte negativa di sé; tutto questo lo ha consegnato al Signore perché nella sua misericordia lo perdoni e lo trasfiguri.
Per Gregorio di Nissa l’umiltà è l’asse dinamico della povertà evangelica: così i poveri sono beati perché conformi al Cristo povero, loro fratello e loro Signore».
(Enzo Bianchi).      Beati voi! «Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini.
“Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri.
Beati voi!”.
E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità.
Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio.
Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita.
Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.
“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana.
È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio.
Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore.
Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo.
(…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente.
E la santità non è questione di età.
La santità è vivere nello Spirito Santo”.
Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza.
Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”».
(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).
  Le beatitudini nella Bibbia d’Israele Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali.
È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città.
Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono.
Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati.
Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo.
La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza.
A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità.
E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.
Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili.
Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana.
Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.
Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).
Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.
(A.
MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato 1992,542s.).
  La felicità delle beatitudini Le beatitudini indicano il cammino della felicità.
E, tuttavia, il loro messaggio suscita spesso perplessità.
Gli Atti degli apostoli (20,35) riferiscono una frase di Gesù che non si trova nei vangeli.
Agli anziani di Efeso Paolo raccomanda di «ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”».
Da ciò si deve concludere che l’abnegazione sarebbe il segreto della felicità? Quando Gesù evoca ‘la felicità del dare’, parla in base a ciò che lui stesso fa.
È proprio questa gioia – questa felicità sentita con esultanza – che Cristo offre di sperimentare a quelli che lo seguono.
Il segreto della felicità dell’uomo sta dunque nel prender parte alla gioia di Dio.
È associandosi alla sua ‘misericordia’, dando senza nulla aspettarsi in cambio, dimenticando se stessi, fino a perdersi, che si viene associati alla ‘gioia del cielo’.
L’uomo non ‘trova se stesso’ se non perdendosi ‘per causa di Cristo’.
Questo dono senza ritorno è la chiave di tutte le beatitudini.
Cristo le vive in pienezza per consentirci di viverle a nostra volta e di ricevere da esse la felicità.
Resta tuttavia il fatto, per chi ascolta queste beatitudini, che deve fare i conti con una esitazione: quale felicità reale, concreta, tangibile viene offerta? Già gli apostoli chiedevano a Gesù: «E noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che ricompensa avremo?» (Mt 19,27).
Il regno dei cieli, la terra promessa, la consolazione, la pienezza della giustizia, la misericordia, vedere Dio, essere figli di Dio.
In tutti questi doni promessi, e che costituiscono la nostra felicità, brilla una luce abbagliante, quella di Cristo risorto, nel quale risusciteremo.
Se già fin d’ora, infatti, siamo figli di Dio, ciò che saremo non è stato ancora manifestato.
Sappiamo che quando questa manifestazione avverrà, noi saremo simili a lui «perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2).
(J.-M.
LUSTIGER, Siate felici, Marietti, Genova, 1998, 111-117).
  Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sono indicati come poveri di spirito gli umili e quelli che temono Dio, cioè che non hanno uno spirito borioso.
E non conveniva che la beatitudine cominciasse da altro dal momento che deve giungere alla somma sapienza.
«Inizio della sapienza, infatti, è il timore del Signore» (Sir 1,12); al contrario, «inizio di ogni peccato è la superbia» (Sir 10,12).
I superbi dunque desiderino e amino pure i regni della terra, ma «beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt5,3).
«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5), quella terra, credo, della quale si dice nei salmi: «Sei tu la mia speranza, la mia porzione nella terra dei viventi» (Sal 141[142],6).
[…] Sono miti, dunque, coloro che non cedono alla cattiveria e non oppongono resistenza al male, ma vincono il male con il bene (cfr.
Rm 12,21).
Litighino dunque quanti non sono miti e lottino per i beni della terra, per i beni di questo mondo, ma «beati i miti perché avranno in eredità la terra», quella da cui non possono essere scacciati.
«Beati coloro che piangono, perché saranno consolati» (Mt 5,4).
Il pianto è la tristezza per la perdita dei cari…
Saranno consolati dallo Spirito santo che soprattutto per questo è detto Paraclito, cioè consolatore, perché a quelli che perdono la gioia in questo mondo dona quella eterna.
«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6).
Di costoro si dice che amano il bene vero e incrollabile.
Saranno dunque saziati di quel cibo, di cui il Signore stesso dice: «Mio cibo è fare la volontà del Padre mio» (Gv 4,34); è questa la giustizia.
Essa è quell’acqua di cui chiunque berrà, come egli stesso dice, «scaturirà in lui una sorgente che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).
«Beati i misericordiosi, perché di loro si avrà misericordia» (Mt 5,7).
Dice beati quelli che vengono in aiuto ai miseri, perché in cambio saranno liberati dalla miseria.
«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).
Sono dunque sciocchi quelli che cercano Dio con gli occhi del corpo, poiché è con il cuore che lo si vede, come è scritto in un altro passo: «Cercatelo nella semplicità del cuore» (Sap 1,1).
Un cuore puro è un cuore semplice.
E come la luce del giorno si può vedere soltanto con gli occhi puri, così anche Dio non lo si vede se non è puro il cuore con il quale lo si vede.
«Beati gli operatori di pace, perché saranno considerati figli di Dio» (Mt 5,9).
Nella pace vi è la perfezione, in essa non vi sono contrasti, perciò gli operatori di pace sono figli di Dio, perché in essi nulla si oppone a Dio e i figli devono mantenere la somiglianza con il Padre.
E continua: «Beati coloro che soffrono persecuzione a causa della giustizia, perché di essi è il regno deicidi» (Mt 5,10).
Sono in tutto otto beatitudini […].
L’ottava ritorna, in certo senso, alla prima, perché mostra che essa è stata compiuta e realizzata.
Difatti nella prima e nell’ottava è stato nominato il regno dei cieli: «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli»; e «Beati coloro che soffrono persecuzioni a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».
Dice infatti la Scrittura: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35).
(AGOSTINO DI IPPONA, Il Discorso del Signore sul monte, 1-3, Opere di sant’Agostino, parte I/X/2, pp.
84-90).
  Essere felici donandosi «E’ bene dare quando si è richiesti, ma è meglio dare quando, pur essendo non richiesti, comprendiamo i bisogni degli altri.
E per chi è generoso, il cercare uno che riceva è gioia più grande che non il dare.
E c’ è forse qualcosa che vorresti trattenere? Tutto ciò che hai un giorno o l’altro sarà dato via.
Perciò dà adesso, sì che la stagione del dare sia la tua, non quella dei tuoi eredi».  (G.
Kahlil Gibran).
  Preghiera   Signore Gesù Cristo, custodisci questi giovani nel tuo amore.
Fa’ che odano la tua voce e credano a ciò che tu dici, poiché tu solo hai parole di vita eterna.
Insegna loro come professare la propria fede, come donare il proprio amore, come comunicare la propria speranza agli altri.
Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo, in un mondo che ha tanto bisogno della tua grazia che salva.
Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini, perché siano sale della terra e luce del mondo all’inizio del terzo millennio cristiano.
Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida questi giovani uomini e giovani donne del ventunesimo secolo.
Tienili tutti stretti al tuo materno cuore.
Amen.
(Preghiera di Giovanni Paolo II, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).
        * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
                IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Sofonia 2,3; 3,12-13          Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore.
«Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero».
Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele.
Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna; non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta.
Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti.
    v Queste parole del profeta Sofonia nascono da un medesimo contesto: un lungo periodo di dominazione straniera, quella assira, che aveva introdotto in Israele culti idolatrici, che legittimavano l’ingiustizia e l’immoralità.
Per tre volte il popolo è invitato ora a mettersi alla ricerca di Dio.
Non si tratta solo di andare a pregare nel tempio del vero Dio, ma di cercarlo nella vita concreta di ogni giorno, con una condotta conforme alla legge divina, che porti la giustizia nella società umana.
L’invito a cercare l’umiltà significa farsi piccoli davanti a Dio, riconoscendo la propria indigenza.
     L’essere piccolo è un atteggiamento che si rivelerà decisivo nel momento del giudizio.
Tutti coloro che si credono Dio, i superbi e i vanagloriosi, non reggeranno in quel giorno.
Resterà solo il nuovo popolo di coloro che confideranno nel nome del Signore, che non sarà più un resto disprezzato dagli altri popoli, perché il Signore sarà con loro.
Al centro del mondo nascerà un popolo che ha rinunciato alla violenza, all’oppressione, all’ingiustizia.
In quel popolo non esisterà più la miseria, la fame, la guerra o il terrore: «Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti».
  Seconda lettura: 1Corinzi 1,26-31          Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili.  Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.  Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.
    v Paolo invita a giudicare la realtà — e qui in concreto la realtà della comunità di Corinto — con gli occhi di Dio, per il quale quello che è debolezza è potenza, quello che stoltezza è sapienza.
Realisticamente i saggi, i potenti e i ricchi hanno in mano le sorti del mondo.
Con gli occhi della nostra ragione li vedremmo tra i primi ad essere scelti da Dio.
Dio invece sceglie come suoi strumenti i deboli, i piccoli e i disprezzati.
Non è Dio che si deve adattare alla mentalità dell’uomo, ma è l’uomo che si deve adattare alla misura di Dio.
     Nella comunità di Corinto c’erano anche sapienti, nobili e ricchi, ma il sapere, la nobiltà e la ricchezza non definivano il cristiano.
Anzi dal punto di vista umano la comunità di Corinto non poteva vantare storia passata: era un nulla.
È stato Dio a mettere insieme uomini e donne molto diversi tra loro, inserendoli nella comunione di Cristo.
Il cristiano, cosciente della propria debolezza, non si vanterà delle proprie forze, dei propri criteri di giudizio, ma di tutto ciò che viene dal Signore, che lo fa rivivere in un modo nuovo.
È esclusa perciò qualsiasi vanagloria.
  Vangelo: Matteo 5,1-12a            In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
    Esegesi   Il brano del vangelo di oggi è tratto dal «Discorso della montagna» (Mt 5-7), in cui l’evangelista Matteo raccoglie come in un programma vari discorsi di Gesù.
Non è la prima parola che ascoltavano i cristiani della chiesa primitiva.
Prima avevano già accolto nel cuore la fede attraverso un primo annuncio di Cristo morto e risorto.
Già sperimentavano la forza dello Spirito Santo.
A questi fratelli la chiesa proponeva quindi un’ulteriore catechesi presentando l’icona dell’uomo nuovo.
Ecco, si diceva, quello che diventerete se vi lasciate trasformare dalla forza dello Spirito del Signore che è in voi.
     Il discorso, o catechesi, incomincia con l’espressione «Beati», come la prima parola del Sal 1, con cui inizia il Salterio.
Nel Sal 1 è proclamato beato chi ascolta e accoglie nel cuore, meditandola, la legge di Dio, qui è beato chi accoglie con fede la nuova legge, quella del nuovo Mosè, Gesù Cristo.
     L’uomo nuovo nato dal battesimo è felice, perché vede progressivamente delinearsi nella sua vita quello che Gesù disse ai suoi apostoli: egli sarà un uomo povero in spirito, che sa di non poter provocare a forza l’avvento del Regno di Dio, ma è il primo ad attenderlo con umiltà dall’alto.
Quest’uomo nuovo sarà anche afflitto, cioè discriminato e perseguitato dal mondo a lui ostile, ma alla fine sarà consolato dal Signore col poter ereditare, come dice il Sal 37,11, la terra, che corrisponde al regno dei cieli.
Sarà ancora un uomo e una donna che avrà fame e sete della giustizia, cioè di compiere la volontà di Dio, rivelata nelle Scritture e attuata da Cristo.
Saranno uomini che seguiranno le orme di Cristo nelle vie della misericordia e nella disponibilità al perdono, saranno puri di cuore, cioè sinceri nel rapporto con Dio e con il prossimo, pacificatori: promuoveranno attivamente la riconciliazione.
Tutti costoro saranno anche perseguitati, come Gesù Cristo, a motivo della loro fedeltà alla volontà di Dio.
Si aggiunge infine una beatitudine anche per le comunità che al tempo dell’evangelista sono provate dalla discriminazione per la propria adesione a Gesù Cristo.
Queste sofferenze e tribolazioni le uniscono ancor più strettamente a lui.
Devono gioire perché, come Gesù Cristo, sperimenteranno anche la gioia della risurrezione.
  Meditazione   La predilezione di Dio è per i poveri e gli umili (I lettura), per i poveri in spirito (vangelo).
La comunità cristiana di Corinto dice la II lettura, che pur proseguendo la lectio semicontinua della I Lettera ai Corinti, rientra in qualche modo nel messaggio unitario delle altre due letture, è formata da persone irrilevanti dal punto di vista sociale ed economico: Dio infatti sceglie ciò che è debole, ignobile e disprezzato per confondere le grandezze mondane.
La parola profetica, che trasmette lo sguardo di Dio sull’

Evangeliario secondo il rito romano

CONFERENZA EPISCOPALE PIEMONTESE, Evangeliario secondo il rito romano, EMP, Padova 2010, ISBN: 8825025106, pp.340, Euro 140 Nel volume sono riportati tutti i brani dei vangeli letti nelle domeniche, nelle solennità e quelli per le messe rituali.
Le pericopi sono disposte secondo l’ordine canonico dei vangeli e per ognuna di esse è indicata la celebrazione in cui viene letta.
Quattro Vangeli da baciare e ascoltare di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 16 gennaio 2011 II diacono ha incensato prima e cantato poi il testo evangelico della solennità; richiude il volume, lo eleva e lo porta processionalmente verso il papa che presiede la celebrazione.
Il pontefice accoglie e bacia questo libro dalla legatura d’argento tempestata di gemme e con esso benedice l’assemblea che ha ascoltato in piedi.
Molti ricordano questa scena visibile nelle trasmissioni televisive dei riti papali: il gesto, che può essere ripetuto anche nelle altre liturgie locali solenni, esprime la venerazione per la Parola sacra, proclamata a voce e cristallizzata nella pagina scritta.
Già nell’ebraismo la Torah era ed è nel cuore stesso della sinagoga.
Infatti, una copia manoscritta della «Legge», i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco), usata per la pubblica lettura, è custodita nell”aron haqodesh, l’«arca santa» del luogo di culto.
Si tratta di un rotolo di pergamena sul quale un sofer, uno scriba, ha trascritto a mano l’intero testo ebraico di quei libri, con inchiostro nero brillante così da far sfolgorare ogni lettera e parola, e – secondo un’antica tradizione – con calamo vegetale o animale, perché ogni penna metallica avrebbe evocato la materia con cui si approntano le armi, negando così la missione di pace della Parola.
Anche il cristianesimo ebbe i suoi “lezionari”, ossia i testi liturgici che contenevano i brani biblici (le “pericopi”) proclamate nella celebrazione eucaristica.
Al loro interno si distinguevano gli “evangeliari” che contenevano solo i quattro Vangeli: uno studioso tedesco, Theodor Klauser, nel suo Das römische «Capitulare Evangeliorum» (Münster 1935), ne ha classificati un migliaio di latini, attestati tra il 645 e il 750.
All’interno, poi, degli evangeliari è da identificare una categoria più specifica sorta in epoca successiva, l’«evangelistario»: proprio perché nella liturgia si leggono, di volta in volta, a brani e non integralmente i quattro Vangeli, si pensò di preparare volumi nei quali fossero raccolti solo quelle “pericopi” distribuite nella sequenza delle varie domeniche e feste.
Questi «evangelistari», dall’evidente finalità pratica, acquistarono uno splendore particolare perché le loro pagine furono costellate di miniature, di capilettera in oro o argento, e furono raccolte in legature o teche impreziosite da smalti, avori e gemme.
Negli anni 80 si decise di elaborare – nello spirito del fervore liturgico post- conciliare – un «evangeliario» per le Chiese d’Italia che «avesse l’ambizione di competere per decoro e bellezza con gli splendidi esemplari trasmessi dall’antichità».
Apparve, così, nel 1987, per i tipi dei Fratelli Accetta, editori palermitani, Haec sunt Verba sancta.
Evangeliario delle Chiese d’Italia, un prodotto pregevole, ma certo non all’altezza di quegli «splendidi esemplari» del passato coi quali si voleva gareggiare.
Un nuovo Evangeliario secondo il rito romano, voluto dalla Conferenza Episcopale del Piemonte e della Valle d’Aosta, è ora disponibile per tutte le comunità ecclesiali italiane: in esso si nota il tentativo di fondere i due generi dell’«evangeliario» e dell’«evangelistario».
Infatti, da un lato, si hanno i testi integrali dei quattro Vangeli; d’altro lato, però, essi sono suddivisi secondo i vari brani che la liturgia propone nella sua articolazione annuale (anzi, triennale).
All’opera si può assegnare la definizione di «nobile semplicità» che il Concilio Vaticano II proponeva per lo stile liturgico sia per il candore della legatura, sia per il nitore tipografico, sia per la sobrietà delle immagini, riproduzioni di sculture in marmo di Trani, eseguite nel 2001da Novello Finotti per la facciata della Basilica di S.
Giustina a Padova.
Certo, si potrebbe pensare anche a un dialogo più intenso e serrato con l’arte contemporanea, auspicabile dopo gli anni del divorzio che si è consumato nel secolo scorso.
Qualcosa del genere fu tentato con coraggio dalla Conferenza Episcopale Italiana col suo recente Lezionario domenicale e festivo in tre volumi: l’idea era felice e suggestiva, anche se l’attuazione fu guidata con poco rigore e il risultato fu eterogeneo e diseguale.
Su questa scia si muove ora anche la Chiesa di Milano che sta allestendo un suo «evangeliario», illustrato da artisti contemporanei di alta qualità, considerato come il suggello della recente riforma del lezionario del rito ambrosiano (una riforma oggetto di discussioni e critiche varie da parte di alcuni esperti).
Significativo è, comunque, lo sforzo di riannodare il confronto con l’arte dei nostri tempi, propugnato da Paolo VI già nel 1964 in un memorabile discorso tenuto agli artisti nella Cappella Sistina, evento e appello reiterato il 21 novembre 2009 da Benedetto XVI nello stesso luogo mirabile, sulla scia anche della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II del 1999.
Si tratta di un incontro necessario e benefico sia per la liturgia sia per l’arte che nella storia sempre s’incrociarono, generando capolavori straordinari in una continua evoluzione: si pensi solo ai trapassi tra paleocristiano, romanico, gotico, rinascimentale, barocco, neoclassico o alla rivoluzione della polifonia rispetto alla “monodia” del gregoriano…
Ora, purtroppo, da un lato in ambito ecclesiale si ricorre spesso soltanto al ricalco di moduli, stili e generi di epoche precedenti o si adotta il puro e semplice artigianato o, peggio, ci si adatta alla bruttezza dei nuovi quartieri urbani e dell’edilizia aggressiva, innalzando edifici sacri simili, come diceva sarcasticamente padre David M.Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e quel “grande codice” che era la Bibbia.
Ha abbandonato, come pericolosa, ogni proposta di messaggio, si è consacrata a esercizi stilistici sofisticati o provocatori e fin blasfemi, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato spesso artificioso ed eccessivo.
Le parole di Benedetto XVI possono essere di stimolo ad ambedue gli ambiti: «Non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare coi credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita.
La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi, li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la meta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente».

Gli errori di Darwin

Intervista a Massimo Piattelli Palmarini sui contenuti del libro Gli errori di Darwin e le polemiche suscitate A un secolo e mezzo dalla pubblicazione delle sue prime opere sull’evoluzione biologica, Darwin fa ancora notizia.
Anzi, infiamma gli animi e scatena polemiche.
L’ultima, in ordine di tempo, è motivata dall’imminente pubblicazione di Gli errori di Darwin (Feltrinelli), annunciata per il 21 aprile, dopo altrettante polemiche suscitate negli States dall’edizione originale.
Il volume, che ha richiesto tre anni di lavoro, è scritto a quattro mani da due scienziati di livello internazionale.
Uno, vanto italiano, è Massimo Piattelli Palmarini, docente di Scienze cognitive all’Università dell’Arizona, dopo una permanenza al Mit di Boston e successivamente al San Raffaele di Milano dove ha creato il dipartimento della sua disciplina.
L’altro, Jerry Fodor, è anch’egli un’autorità nelle scienze cognitive, insegna filosofia del linguaggio alla Rutgers University del New Jersey.
Ancor prima di uscire nel nostro Paese, il volume di Piattelli Palmarini e Fodor sta riempiendo le pagine culturali e scientifiche dei nostri giornali, con pepati botta e risposta tra scienziati che si occupano di queste tematiche.
Ho raggiunto Massimo Piattelli Palmarini a Venezia, durante una sua parentesi italiana,  per un ciclo di seminari universitari. Gli ho chiesto di spiegarci le ragioni di così tanto scalpore per aver controbattuto alcune presunte idee “errate” del darwinismo.
Professor Piattelli Palmarini, ci spiega perché queste reazioni, anche emotive, al libro che ha scritto con Jerry Fodor? Ci sono varie spiegazioni.
Una è che la selezione naturale, il darwinismo, combina le due spiegazioni centrali della nostra vita e della nostra psiche.
Che sono la spiegazione di tipo meccanicistico e quella di tipo finalistico.
La spiegazione di tipo meccanicistico è quella che applichiamo nella vita di tutti i giorni, nelle cose inanimate, le cose inorganiche.
Le spiegazioni finalistiche le applichiamo nelle cose umane.
Si spiega quanto è successo nelle vicende storiche e nelle biografie di certi personaggi ricostruendo i loro scopi, le loro intenzioni, i loro progetti.
La selezione naturale mette assieme queste due forme fondamentali di spiegazione.
Fornisce una spiegazione meccanicistica a qualcosa che sembrerebbe di tipo finalistico.
Non c’è dubbio che l’idea di Darwin sia geniale e abbia conquistato gli scienziati.
In fondo, se si guarda all’evoluzione biologica si nota questo emergere di forme sempre più complesse nel tempo.
Il “match” che si verifica tra le forme e i tratti biologici degli ambienti in cui crescono.
Tutto ciò suggeriva, tradizionalmente, qualcosa di finalistico.
E con l’idea della sezione naturale si spiegherebbe questa parvenza di “disegno” in modo meccanicistico.
Questa è una idea molto forte che ha conquistato molti, e non intendono abbandonarla.
 Questo atteggiamento non assomiglia un po’ alla resistenza degli psicoanalisti quando, ad un certo punto, dovettero confrontarsi con le neuroscienze e con la psicofarmacologia? Certi saperi rischiano di costituirsi, da un certo punto di vista, come “chiese laiche”.
In un certo senso sì.
Ma è accaduto in diversi ambiti, non solo per la psicoanalisi.
E’ successo, ad esempio, pure per il marxismo.
Quando una dottrina è ritenuta “forte”, si coagulano attorno ad essa consensi altrettanto resistenti al cambiamento, e si costituisce una sorta di credenza indiscutibile.
C’è quindi anche una valenza filosofica della teoria dell’evoluzione che incide molto in questo dibattito.
Certo.
Perché si tratta di una spiegazione meccanicistica di fenomeni che avevano l’aria di essere finalistici.
Non c’è dubbio che questa sia un’idea forte.
Qual è invece l’idea forte del libro che ha scritto con Fodor? L’idea forte è che, ovviamente, l’evoluzione è un fatto.
L’appartenenza nel tempo dell’evoluzione di specie simili ad antenati comuni anche questo è un fatto.
Tutte le ricerche degli ultimi anni relative a ciò che tecnicamente viene definito “evo-devo” (cioè l’evoluzione biologica vista insieme allo sviluppo dell’embrione, dall’uovo fecondato fino all’adulto), ha mostrato che i geni sono sostanzialmente gli stessi.
Dal moscerino della frutta fino a noi.
I geni sono sempre i medesimi.
L’evoluzione è un fatto.
L’appartenenza delle specie l’una all’altra nella filogenesi, è anch’essa un fatto.
Quello che noi contestiamo è che la selezione naturale sia il meccanismo che spieghi la comparsa di specie nuove e di tutte le forme biologiche esistenti.
Questo è ciò che noi contestiamo.
Quindi contestate e lasciate un interrogativo aperto.
Voi mettete sul piatto dei dubbi, delle perplessità riguardo la possibilità di spiegazione onnicomprensiva delle teorie darwiniane.
Sì, proprio così. Non pensiamo che la teoria universale della selezione naturale debba essere sostituita da un’altra e diversa teoria onnicomprensiva.
I meccanismi sono molteplici, i livelli dei cambiamenti biologici nel tempo sono molteplici e quindi si tratta di un processo complesso, articolato, eterogeneo.
Siamo ben lungi dall’aver scoperto tutti i fattori in gioco.
Occorreranno molte altre ricerche, probabilmente per molti decenni.
In termini un po’ ironici, giocando sui vostri rispettivi doppi cognomi, Cavalli-Sforza ha esemplificato recentemente su “Repubblica” la questione dell’evoluzione culturale e l’adattamento alle necessità ed ai gusti della specie umana.
Lasciando intendere tra le righe che lei e Fodor non siete dei genetisti e quindi non avete gli strumenti concettuali  per affrontare tali tematiche.
Sì, però Cavalli-Sforza parla di linguaggio e non è un linguista.
I fenomeni linguistici che egli sottolinea sono assolutamente marginali.
E’ lo stesso problema: Cavalli-Sforza parla di piccole modifiche cumulative che si verificano nel tempo, all’esterno della lingua.
Da parte mia sottolineo invece che da cinquant’anni, da Chomsky in poi, viene riconosciuta l’importanza delle strutture interne della lingua.
Quindi, lingue tra loro remote geograficamente e storicamente che hanno fatto le stesse scelte sintattiche.
E nulla rende l’organizzazione sintattica del giapponese più funzionale nelle isole del Giappone, né quella dell’inglese più funzionale nelle isole britanniche.
Non c’è questo tipo di funzionalità che spieghi alcunché.
I vincoli e i fattori sono interni, non ambientali.
Voi siete per una teoria che comprenda anche questi aspetti.
Una teoria che enfatizza molto le strutture “interne”.
E i cambiamenti endogeni delle strutture interne, sia nel campo della linguistica che della biologia.
L’organizzazione interna dei geni: come possano riorganizzarsi.
Come la fisica e la chimica – con componenti di autorganizzazione – organizzano e strutturano in parte gli esseri viventi.
Noi enfatizziamo questa componente interna.
Il neo-darwinismo è una dottrina “esterna”: è l’ambiente che filtra e plasma le strutture e i fenomeni biologici.
C’è anche quello, però non è una componente così importante.
E’ molto più importante la componente interna.
A quale corrente “revisionista” del darwinismo vi rifate, perciò? Steve Gould e Richard Lewontin sono stati dei pionieri, importantissimi.
Ma oggi vi sono, oltre ai revisionisti, anche dei biologi che vanno oltre, che considerano la sintesi moderna (cioè il neo-darwinismo, la fusione di genetica e evoluzionismo darwiniano) decisamente superata.
Per esempio Eugene Koonin, Carl Woese, Lynn Margulis, Gabriel Dover, Stuart Newman, Leonard Kruglyak e altri.
Siamo dalla loro parte e li citiamo nel libro.
Lei ha lavorato anche all’interno di strutture, come il San Raffaele, in cui le sarà capitato di dibattere con colleghi dell’area medica.
Cosa pensa delle teorie darwiniane applicate alla medicina e alla psicologia? La medicina darwiniana è una sciocchezza.
Dello stesso genere dell’ “estetica darwiniana” e dell’ ”etica darwiniana”.
Applicazioni senza senso del darwinismo.
Una piccola corrente senza importanza.
Non vedo il clinico o il chirurgo che quando fanno le diagnosi o eseguono un intervento si rifanno alla teoria darwiniana.
Non è il caso.
Mi sembra un aspetto decisamente marginale destinato a scomparire.
Nelle scienze cognitive, c’è invece la psicologia evoluzionistica che ha centri di ricerca che sono appunto il bersaglio della nostra critica.
Infatti nel libro c’è una appendice con svariate citazioni tratte da questi psicologi evoluzionisti i quali sostengono che “tutto cambia, tutto diventa chiaro quando si applica la teoria dell’evoluzione” e così via.
Secondo noi è sbagliatissimo.
Le cosiddetta “sacra triade” di studiosi (Dennett, Dawkins e Pinker) oggetto delle vostre critice, secondo Cavalli-Sforza non sarebbe poi così “sacra”, ovvero non così autorevole nelle ricerche relative all’evoluzione biologica.
Quindi non meritevole di così tanta attenzione.
Sono comunque studiosi di queste problematiche con cattedre prestigiose, che fanno anche divulgazione.
Sono studiosi qualificati e influenti, considerati dei maestri.
Mi fa piacere che Cavalli-Sforza ed altri dicano: non state a preoccuparvi di loro dal punto di vista scientifico.
Benissimo.
Ma non è che non siano autori ininfluenti e di nessun interesse.
Sono personaggi con posizioni accademiche ben consolidate.
Sono anche autori di prestigio.
A chi è venuta l’idea di questo libro? A lei, a Fodor, ad entrambi parlando di questi temi? E’ venuta a tutti e due.
Io presentai quattro anni fa quella che ora costituisce la “parte prima” del libro alla  City University of New York.
E Fodor, con il quale siamo intimi amici da decenni, mi esortò a scriverne, perché le riteneva cose importanti.
Mi invitò a ripetere la mia conferenza il giorno dopo ai suoi studenti alla Rutgers University.
E insistè che dovevo pubblicarla.
Io ribattei che non c’era nulla da scrivere, perché si trattava di dati e scoperte già pubblicate sulle riviste scientifiche.
Fodor insistè, dicendo che però era importante riunirle tutte assieme, spiegarle in modo accessibile e discuterle criticamente.
Abbinando e integrando queste scoperte della biologia con un’analisi concettuale critica rigorosa delle idee centrali del neo-darwinismo.
Così è nata l’idea di scrivere questo libro.
Ci siamo divisi i compiti: la prima parte l’ho scritta io e la seconda Fodor.
Poi ovviamente ognuno ha letto la parte dell’altro, aggiungendo e integrando la rispettiva divisione del lavoro.
Abbiamo impiegato circa tre anni a completarlo, ovviamente alternando questo lavoro agli altri impegni.
Avete seguito anche l’ottima regola, soprattutto americana, di sottoporre i capitoli ad altri esperti, in corso d’opera? Sì, e un lettore molto importante è stato il grande biologo e genetista Richard Lewontin.
Ha suggerito vari cambiamenti che abbiamo adottato.
Il suo contributo è stato determinante.
Importante anche la critica benevola, ma serrata, di Gabriel Dover e quella amichevole, ma molto dissenziente, di Charles Randy Gallistel, eccellente amico personale sia di Fodor che mio, un critico spietato e micidiale del comportamentismo (che noi citiamo nel nostro libro), ma assai restio a criticare il neo-darwinismo.
Altri lettori sono stati filosofi, biologi e altri colleghi che ci hanno fornito suggerimenti e critiche.
Restando su Lewontin, com’è stato che qualcuno abbia avuto l’idea di fare una “petizione” contro di lei? Lewontin, come lei ha detto, l’ha informata di questa curiosa iniziativa.
Sì, è partita dal genetista Giorgio Bertorelle, il quale si vide rispondere da Lewontin “I urge you to desist” (La invito caldamente a desistere).
Ma lui ha insistito e, pur senza la firma di Lewontin, ha fatto circolare la petizione e  sostiene che i più prestigiosi evoluzionisti hanno firmato un manifesto contro di me.
Un manifesto di condanna contro le mie idee, mi sembra una cosa da inquisizione.
Detto in senso ironico: non è uno dei motivi che l’hanno indotta a tornarsene negli Stati Uniti, dopo la parentesi al San Raffaele di Milano? Metti caso che mi brucino come Giordano Bruno, avrà pensato.
No, ero già in America.
E neppure in America sono teneri su certe cose.
Sono tornato negli Stati Uniti per tornare a fare lo studioso e non soltanto l’organizzatore.
Si attende altre reazioni dall’uscita del libro nel nostro Paese? Penso di sì.
Appena il libro comincerà a circolare ed essere letto, vi saranno certamente altre reazioni.
Vi farà però piacere: in fondo riapre un dibattito su questioni un po’ ferme tra religione e laicismo.
Noi ovviamente non abbiamo nulla da dire sulla religione.
E’ bene che la scienza non dica nulla sulla religione, e viceversa.
Sono due settori distinti.
Anche se in Rete, alcuni pensatori religiosi, cominciano ad annoverarvi tra i loro “paladini”.
Lo so, ma cosa possiamo farci? L’importante è che non ci considerino parte di loro.
Né che facciano credere ai lettori che stiamo dalla loro parte.
E questo per ora non lo fanno.
Anzi, sottolineano: questi sono due atei e perfino (sottolineano il perfino) loro criticano il darwinismo.
Il che è vero.
Quindi, ne facciano l’uso che credono.
Qualcuno anzi ci aveva avvertito: non scrivete queste cose perché poi saranno strumentalizzate.
Ma noi abbiamo scritto ciò che ci sembra giusto e vero.
E poi sull’uso che ne verrà fatto, sarà quel che sarà.
* Su VideoScienza parte dell’audio della conversazione con Piattelli Palmarini.
* Leggi anche una delle più interessanti e pacate repliche a firma del genetista Mauro Mandrioli (Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Biologia animale) su Pikaia (il portale dell’evoluzione diretto dal filosofo della scienza Telmo Pievani).
Enzo Soresi http://bioneuroblog.wordpress.com/2010/04/10/gli-errori-di-darwin-secondo-massimo-piattelli-palmarini/ FODOR JERRY A., PIATTELLI PALMARINI MASSIMO, Gli errori di Darwin, Feltrinelli, Milano 2010, ISBN: 8807104571, pp.
263, E 22,50 In questo libro Massimo Piattelli Palmarini, biofisico e scienziato cognitivo, e Jerry Fodor, filosofo del linguaggio e cognitivista, sostengono che il principio darwiniano di selezione naturale e di progressivo adattamento all’ambiente non è verificabile.
Anzi, con grande probabilità, è sbagliato.
Lo dimostrano i dati più recenti della ricerca genetica, embriologica e biomolecolare.
E lo dimostra l’esame stringente della logica interna della teoria darwiniana.
Sulla scia di Stephen J.
Gould e Richard Lewontin, i primi evoluzionisti a mettere in seria discussione il principio di selezione naturale, Piattelli e Fodor processano Darwin e i suoi seguaci più ortodossi.
Oggi, sostengono, possiamo affermare con certezza che i viventi evolvono.
Quali siano però i meccanismi che innescano il cambiamento è questione controversa e non ancora del tutto chiara.
Atei, materialisti, non sospetti di derive creazioniste, i due autori credono che non esistano nella scienza discussioni “inopportune”.
Al contrario, proprio nel nome della scienza occorre discutere con chiarezza e onestà i presupposti, i riscontri e le aporie di tutte le teorie scientifiche.
Darwin e il darwinismo sono stati a lungo ritenuti fondamentali per comprendere la natura del vivente, ma non sono un feticcio che non possa essere messo sotto osservazione critica.

II Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Preghiere e racconti  Tre angeli assistono al battesimo di Cristo mentre alle loro spalle l’uomo nuovo, il battezzando, si staglia seminudo sul fondo dei coloratissimi vestiti degli uomini vecchi.
La composizione è monumentale.
Pura è l’aria, pura è l’acqua e pura è la terra.
Gli uomini e il mondo non sono intaccati dall’ombra/peccato, perché la stessa ombra è col ore intriso di luce, delicato come una carezza.
Il paesaggio è quello aretino.
Eppure sa di paradiso.
Il segreto pittorico di questo risultato è nella combinazione unica di realtà e astrazione, di vita e contemplazione, ottenuta mediante la prospettiva, la forma, il colore e soprattutto la luce che tutto investe compenetrandolo.
Non si muove niente, perché tutto sa di sospeso.
Sospeso è il braccio di Giovanni Battista, sospeso è il gesto del battezzando che li sta dietro.
Non è per incertezza o fatica, ma per lo stupore che rende impercettibile anche il respiro: l’uomo è investito da una tale dignità che basta il suo «essersi» per riempire di dignità regale il suo corpo, la usa posa e il suo sguardo.
Il paesaggio stesso si umanizza e partecipa dell’eterna giovinezza dell’uomo.
Di quale uomo? Di quello che sta al centro, dell’uomo-Dio.
Il grande Giotto aveva dato figura al Dio-uomo; ora il Quattrocento rovescia il rapporto: è così umano questo Gesù che solo Dio poteva essere in Lui.
  Questo uomo ha la dignità del re.
Occupa il centro del mondo.
Accanto a lui il terribile e selvatico Giovanni Battista si è trasformato in un dignitario di corte.
Aveva tuonato contro Gerusalemme, il tempio, le menzogne, i furbi; aveva invocato la scure e il fuoco per distruggere il male.
Invitava a preparare la strada al re che sarebbe arrivato.
Ora un volto, uno dei mille nella folla alle acque del Giordano, lo ha fulminato.
Che cosa ha visto in esso? Ci facciamo aiutare da Piero della Francesca.
Il pittore non è evangelista, ma è spontaneo che la Parola susciti negli occhi la voglia di vedere.
Con tutti i limiti, ogni uomo e ogni epoca hanno diritto a un volto-Vangelo.
E l’occasione più alta per cogliere il volto-Vangelo di Gesù è l’esperienza che il Nazareno ha fatto al Giordano.
Forse è anche la più difficile da «immaginare».
Ma Piero della Francesca è grande.
«Mentre pregava…», dice il Vangelo.
E Gesù, nel quadro, sta pregando.
«…
il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 21-22).
Nel quadro non si vedono i cieli aprirsi.
È evidente che si tratta di un’esperienza spirituale, che avviene sulla punta più profonda dell’essere.
La colomba è attentissima a non battere le ali: essa svolge il suo compito di tramite simbolico; il fremito vero sta salendo come linfa da dentro: tutto il Nazareno ne è invaso.
L’umile falegname alla ricerca della sua vocazione, mentre prega il Padre, fa l’esperienza di essere figlio.
Presto schizzerà via di lì a dire al mondo che il Regno è arrivato, che Dio abita questo mondo, questa carne, questa avventura.
Sì, perché lui è il Figlio, è Dio.
Non lo è diventato in quel momento, ma è in quel momento che la verità sta attraversando i suoi sensi, interiori ed esteriori.
La verità è sulla sua pelle.
Nel Cristo splende la luce della coscienza filiale.
L’infinita dolcezza, l’onnipotente tenerezza, la pazza voglia del Padre di far vivere, ora è anche nella sua psicologia, nel suo modo di guardare gli uomini, la donna che impasta, il papa che accende la lanterna alla sera…
Tutti quelli che incontrerà, se lo vorranno, vedranno nei suoi occhi il Regno di Dio.
«Non temete più niente – dirà a tutti – Dio si è fatto prossimo all’uomo.
È Vangelo, è lieta notizia.
Non c’è carne umana che non sia anche avventura divina.
L’ho visto nei cieli aperti».
Giovanni è il primo ad accorgersi.
Glielo ha letto in faccia.
E ora compie su di Lui un gesto particolare che sa di incoronazione.
La lieta notizia ora si fa luce del mondo.
Tutto nel quadro diventa terso, puro e sacro.
Tutto è evidente alla luce di un tempo senza tempo, in uno spazio che sa di trasfigurazione.
«Mentre pregava…»: forse è bello immaginarlo così Gesù, quando, stanco e in preda alla delusione («Vanno capiti, poveretti: è una notizia troppo grande quella del Regno.
Come arrabbiarmi se fanno fatica a credermi?»), si rifugiava nella preghiera.
È bello immaginarlo che pregava così, come Piero della Francesca l’ha figurato in questo quadro.
        Ancora e sempre sul monte di luce                                      Ancora e sempre sul monte di luce                                    Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
  Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
  In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
  Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
  Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(David Maria Turoldo).
  Uomo fra gli uomini   Gesù, piccolo come uno di noi, vulnerabile e nudo, a metà fra nascita e morte, fra silenzio e parola;   un uomo venuto dalla polvere, tessuto di fuoco, di vento e d’acqua, fra un ventre di donna e quello della terra; un figlio d’uomo, per pochi istanti in piedi, ritto fra i sassi e le stelle;   che uomo che va per la sua strada fra una locanda chiusa e quella di Emmaus;   un uomo fra ieri e domani, con la fatica addosso, con lacrime di gioia negli occhi, e talvolta un singhiozzo che gli traversa la gola – e per piangere se ne va in disparte;   soltanto un uomo, che ha paura di morire come tutti, e lo dice, ed è morto infatti, abbandonato da tutti, abbandonato dal suo Dio, lasciato a se stesso;   un uomo senz’armi né armatura, indifeso come il vento, parola offerta, seme nascosto, sale della terra, fiamma sul monte piegata dalla tempesta e mai spenta, fonte viva mille volte calpestata, ancora chiara e fresca, sempre pronta per la nostra sete, vino pronto a essere servito, pane spezzato pronto sulla tavola;   un uomo, carne e sangue in mano ai fratelli, sotto l’ala dello Spirito, in mano a Dio: uomo fra gli uomini, nella sua solitudine dove l’amore improvvisamente si accende come il fuoco in un fascio di ginestre, si attacca come la brina ai rami di biancospino;   un uomo immenso, che è nato da Dio, che è tutto l’uomo e che è Dio, che è noi stessi, tutti e ciascuno;   in lui noi siamo e senza di lui non saremmo nulla, o ben poco; in lui noi siamo, coronati di gloria, vestiti di forza, appena di sopra degli angeli e poco meno di Dio;   Gesù, l’uomo Nel quale anche noi possiamo dire: come un prodigio mi hai fatto e prodigiose sono le tue opere, o Dio!   (Didier Rimaud).
          * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
        II DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 49,3.5-6          Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria».
Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza –  e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».
        v «Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (Is 49,3).
     Siamo di fronte ad una affermazione paradossale: Dio manifesta la sua gloria nascondendola in un «servo», la cui opera ha tutte le apparenze del fallimento e comporterà molte sofferenze (cf.
Is 49,4; 50,6).
Dio ha scelto Israele non per la sua potenza, o per i suoi meriti, ma per amore gratuito: «il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8).
     Il «servo del Signore» è stato plasmato da lui fin «dal seno materno» (Is 49,1); Dio gli ha affidato una missione nei confronti di Israele e verso le genti.
Tale missione comporta fatica, sofferenza, morie, ma Dio non lo ha abbandonato come sembra ad uno sguardo superficiale, ma è con lui proprio nel momento della sofferenza, mentre il successo è sì promesso, ma differito ad altro tempo (cf.
Is 52,13-5).
  Seconda lettura: 1Corinzi 1,1-3               Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!        v Paolo si presenta ai cristiani di Corinto come apostolo, chiamato da Dio (1Cor 1,1).
Egli lo sottolinea con forza qui, come in altre lettere (cf.
Rom 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1).
Egli compie la sua missione secondo il volere di Dio e non secondo progetti personali.
«Tutto il merito e la capacità sono di colui che chiama, al chiamato non resta che obbedire»,  dice Giovanni Crisostomo nel suo commento ai primi versetti della lettera ai Corinti, e aggiunge: «siamo stati chiamati perché piacque a Dio, non perché eravamo degni» (cf.
PG 61,13-14).
     Non solo l’apostolo, ma tutti i cristiani sono dei «chiamati», essi, come l’apostolo, «santificati in Cristo Gesù», e chiamati santi devono manifestare nella loro vita la santità seguendo le orme di Gesù, via verso il Padre, pronti anche ad affrontare la croce.
     Paolo augura «grazia e pace».
È l’indirizzo di saluto che l’apostolo ripete, come formula abituale, all’inizio e alla fine delle sue lettere.
Augurare la pace, che nell’orizzonte biblico è un bene grande comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio, è un modo tipico di salutare ebraico che si e mantenuto dai tempi biblici fino ad oggi (cf.
Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 1,17; 20,42,25,6.35; 2Re 5,19; 1Cr 112,19).
Gesù risorto appare ai suoi augurando loro la pace (Lc 24,36; Gv 20,19.26).
     Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, favore strettamente legato alla sua misericordia (cf.
Es 33,19; Sap 3,9).
Dio stesso nell’apparizione a Mosè nell’Esodo si proclama: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6).
I Salmi abbondano di espressioni che inneggiano alla grazia del Signore.
     In Cristo, rivelatore del Padre, Signore Dio ricco di grazia e di misericordia, ci dice Paolo nella lettera ai Romani, abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo sui peccatori (cf.
Rm.
3,21-26).
     La chiamata di Dio in Cristo alla santità e al ministero dentro la comunità è dono di grazia; essa non è una qualità statica, ma accompagna il chiamato e la chiamata nello svolgimento dei loro compiti come Paolo riconosce più volte per se stesso (cf.
1Cor 3,10; 15,10; 12,3; Ef 3,7).
  Vangelo: Giovanni 1,29-34          In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.
Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».  Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui.
Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”.
E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
    Esegesi   «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).
     L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù come colui che toglie, o meglio, che «prende su di sé» il peccato del mondo.
La traduzione «toglie» non rende efficacemente il significato della parola greca arein, che significa letteralmente sollevare, prendere su di sé, mentre la traduzione italiana «togliere» suggerisce l’idea di eliminare.
Gesù è agli inizi della sua missione e non elimina il peccato con l’instaurazione gloriosa del regno di Dio, regno dove il peccato e le sue conseguenze non avranno più nessun potere, ma incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi.
     Egli, dice ancora l’evangelista, è «l’agnello di Dio».
Che cosa significa questa figura? Per cercare di capirla dobbiamo rifarci all’ambiente religioso ebraico contemporaneo a Gesù e alle Scritture ebraiche (Antico Testamento), che l’evangelista e i suoi interlocutori riconoscono come rivelazione di Dio.
     Un ambito di riferimento possibile è il culto sacrificale del tempio di Gerusalemme; in particolare l’evangelista avrebbe pensato all’agnello pasquale a cui allude direttamente nel racconto della morte in croce (cf.
Gv 19,36 in relazione a Es 12,46; Num 9,12; Sal 34,21).
In questa direzione si muovono altri due passi neotestamentari: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7) e «foste liberati…
con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19; cf.
Es 12,4).
     Sempre nell’ambito del culto sacrificale del tempio potrebbe esserci allusione al sacrificio dei due agnelli immolati ogni giorno nel tempio alla «presenza del Signore» uno al mattino e uno al tramonto (cf.
Es 29,38).
Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore fra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto di amore e di offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio «olocausto perenne per tutte le generazioni» (cf.
Es 29,42).
     Alcuni studiosi biblici ritengono che l’espressione «agnello di Dio» sia equivalente a quella di «servo di Dio».
Essi si basano sulla constatazione che il vocabolo greco amnòs, agnello usato da Gv 1,29,36 è lo stesso vocabolo della traduzione dei Settanta di Is 53,7 ripreso in Atti 8,32: «Come pecora fu condotto al macello, e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la bocca».
     Queste diverse interpretazioni non si escludono a vicenda, ma aiutano a penetrare nella ricchezza della figura di Gesù, che l’evangelista ci presenta attraverso le parole del Battista.
Come suggerisce anche la prima lettura, possiamo riferirci ai carmi del servo di Isaia per trovare le radici della figura di Gesù e cercare di capire qualcosa di più del mistero della sua missione e della stessa rivelazione di Dio.
     L’«agnello-servo di Dio» è colui a cui Giovanni rende testimonianza, di fronte al quale egli si tira indietro.
È lui quello a cui si deve guardare, è lui colui che deve essere rivelato ad Israele, perché proprio dentro Israele compirà la sua missione.
     La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù «Figlio di Dio».
Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito.
Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto «lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (1Gv 1,32; cf.
Is 11,2; 61,1).
  Meditazione

Una settimana di armonia tra le religioni

Il mondo è attraversato da conflitti legati alle religioni o interni a esse, che a volte si manifestano solo con parole dure o ingiuriose, ma spesso esplodono in atti di violenza e di sconvolgente estremismo.
Queste tensioni fanno emergere una questione essenziale: i credenti sono pronti a rispettare, e anche ad amare, i seguaci di un’altra fede o li considerano nemici solo perché appartengono a un credo o a una religione diversa dalla loro? Sono «aperti» o «chiusi» verso gli altri? Sono disposti a vivere in armonia con chi non è come loro? In tutte le principali religioni si vanno diffondendo conflitti e, data la enorme importanza della religione nel mondo moderno, ne discendono conseguenze immense per tutti noi, per chi appartiene a una delle grandi fedi come per chi non ne segue nessuna.
C’è naturalmente chi sostiene che la risposta vada cercata nell’ambito della politica, che di certo deve giocare un ruolo fondamentale.
Ma dato che l’estensione di questi scontri è inevitabilmente legata a questioni di natura religiosa, i credenti devono impegnarsi in modo diretto e responsabile.
Inoltre, poiché chi vive la fede con passione non vuole agire in contrasto con essa, le iniziative a favore di un atteggiamento aperto devono avere una dimensione più ampia e profonda, non possono limitarsi a chiedere di comportarsi bene verso gli altri.
Devono richiamarsi ai presupposti spirituali, teologici e scritturali del rispetto per chi segue un diverso cammino religioso o spirituale.
Il 20 ottobre del 2010, anche se la cosa ha ricevuto scarsa attenzione, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una risoluzione che proclama la prima settimana di febbraio di ogni anno World Interfaith Harmony Week.
La risoluzione era stata proposta un mese prima da re Abdullah II di Giordania e rappresenta un caso unico negli annali delle Nazioni Unite, perché nomina esplicitamente Dio (anche se in modo da non escludere i non religiosi) e perché promuove relazioni interreligiose armoniose mettendo in particolare evidenza le basi scritturali e teologiche su cui dovrebbero fondarsi: «L’Assemblea generale delle Nazioni Unite invita tutti gli Stati a diffondere su base volontaria, nel corso di quella settimana, un messaggio di armonia e di apertura tra le religioni nelle chiese, moschee, sinagoghe, templi e altri luoghi di culto del mondo; un messaggio basato sull’amore di Dio e del prossimo o sull’amore del bene e del prossimo, a seconda delle tradizioni o credi religiosi di ciascuno» .
Ovviamente le risoluzioni, per quanto mosse da buone intenzioni, non cambiano il mondo, ma questa incoraggia le persone che credono nell’armonia interreligiosa e nell’accettazione dell’altro a emergere, a sfidare chi fomenta la discordia e la divisione per istrettezza di vedute o ignoranza delle altre religioni.
Essa riconosce il fatto che il messaggio della religione sul comportamento sociale non può più essere affidato solo alle élite religiose o accademiche, dato che ha un ruolo centrale nel determinare il modo in cui si svilupperà il Ventunesimo secolo.
Parlare di «amore di Dio e del prossimo» è importante, perché altrimenti i cristiani, i musulmani e gli ebrei osservanti probabilmente non si sentirebbero coinvolti dalla risoluzione — e cristiani e musulmani da soli costituiscono circa il 55%della popolazione mondiale— perché «non di pane soltanto vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Luca 4, 4 e Matteo 4, 4, e anche Deuteronomio 8, 2-3).
«In verità il ricordo di Dio è quanto ci sia di più grande…» (dal Santo Corano, 29, 45).
È però altrettanto importante parlare di «amore del bene e del prossimo» perché, mentre per i credenti il bene è Dio, l’amore per il bene coinvolge tutti gli uomini di buona volontà.
In questo modo la risoluzione, anche se basata sui due principali comandamenti su cui «si fonda tutta la Legge e i Profeti» (Matteo 22, 40), coinvolge ogni uomo, di ogni religione, fede e credenza, compreso chi non segue alcuna religione.
La World Harmony Interfaith Week ha quindi la straordinaria possibilità di contrastare l’ondata di tensioni religiose nel mondo: (1) coordinando e unendo gli sforzi di tutti i gruppi interconfessionali perché si concentrino su un tema specifico in uno specifico periodo dell’anno, aumentando così lo slancio comune ed eliminando ispersioni; (2) indirizzando e utilizzando la forza collettiva della seconda più grande infrastruttura mondiale (quella dei luoghi di culto — la prima è quella dell’istruzione) allo scopo di promuovere la pace e l’armonia mondiale: inserendo, per così dire, il giusto software nell’hardware religioso del mondo; (3) incoraggiando in permanenza e con regolarità la maggioranza silenziosa dei predicatori a dichiararsi per la pace e l’armonia, fornendo un veicolo già pronto allo scopo e rendendo pubblici questi sforzi.
Cosa può fare ciascuno di noi? Se si è un esponente religioso, un predicatore o un insegnante, basta proporre il tema dell’armonia interreligiosa nel corso della prima settimana di febbraio di ogni anno in sermoni, prediche, scritti, lezioni.
Tutto qui.
Se si vuol rendere ufficialmente noto un evento perché altri possano conoscerlo, si può inserirlo nel sito www.
worldinterfaithharmonyweek.
com.
Sullo stesso sito si possono anche pubblicare sermoni o articoli che potrebbero rappresentare un’utile risorsa per altri.
Se si è «laici» di buona volontà, ci sono molte cose che si possono fare senza grande dispendio di tempo o di denaro; ad esempio organizzare un «pranzo per l’armonia» per i vicini di fedi diverse o semplicemente invitarli a prendere una tazza di tè o di caffè, a fare una chiacchierata, a guardare un film; si può organizzare un bazar multiculturale; fare insieme un lavoro per la comunità, organizzare una ripulita a un quartiere, dar da mangiare ai senzatetto, realizzare un orto collettivo, dipingere un murale interreligioso, leggere o pregare insieme, parlare alle proprie famiglie della necessità della tolleranza e dell’armonia o anche solo salutare una persona di fede diversa o sorridergli.
Eventi significativi sono già stati avviati.
L’amore per il prossimo inizia proprio dai vicini di casa e quindi dalle comunità locali.
Una buona azione per l’armonia interreligiosa, anche se il mondo va in direzione opposta, non è come il voto dato a un candidato che viene sconfitto: conserva il suo valore.
Anzitutto per l’anima che l’ha compiuta e non è poca cosa.
Poi perché creerà una diffusione a catena del bene la cui portata futura non è prevedibile, ma che darà luogo a una spirale positiva sempre più ampia.
Durante la prima settimana di febbraio ricordatevi quindi di Dio e del prossimo o del Bene e del prossimo.
E ricordate la World Harmony Interfaith Week.
di Tony Blair e Principe Gazhi di Giordania in “Corriere della Sera” del 13 gennaio 2011 (traduzione di Maria Sepa)

Hereafter”(L’Aldilà),

Hereafter: dopo che c’è??? Il crudo film di C.
Eastwood, dal fascinoso titolo “Hereafter”( = L’Aldilà),  ha rimesso in moto il cervello di molte persone che- dopo averlo visto- si sono chieste davvero: ma dopo la morte che c’é?, cosa ci aspetta,  è vero che c’è un “qualcosa”, oppure tutto finisce di noi sotto un metro di terra o in un forno crematorio??? Attraverso i secoli, l’uomo ha ricercato al di là di se stesso, al di là del benessere materiale – qualcosa che chiamiamo verità o Dio oppure realtà, uno stato eterno che non può essere turbato dagli avvenimenti, dal pensiero o dalla corruzione umana.
L’essere si e’ sempre posto la domanda: che cosa e’ tutto quanto? La vita ha davvero un significato? Egli ne vede l’enorme confusione, le brutalità, le rivolte, le guerre, le eterne fratture di religione, le  ideologie, le nazionalità, gli etnicismi, e con un senso di profonda e costante frustrazione chiede cosa bisogna fare, cos’é questa cosa che chiamiamo vita, e se c’e’ alcunché aldilà di essa che meriti che brighiamo per raggiungerla..
E poiché non e’ riuscito a trovare quello che ha sempre cercato, questa cosa senza nome a cui vengono dati migliaia di nomi, ha coltivato la fede – fede in un saggio o in un ideale – In questa perenne battaglia che chiamiamo vivere, tentiamo di fissare un codice di comportamento conforme alla società in cui siamo cresciuti, qualunque sia la sua connotazione politica e religiosa( buddhista, cristiana, indù, musulmana, atea…).
E così continuiamo a vivere, rifiutandoci- quando pensiamo- di vivere come i pesci in un acquario.
Io non voglio essere un pesce rosso.
Chi è il regista Il regista dagli occhi di ghiaccio, partito da semplice cow boy con i Film di Leone, oggi ad  ottant’anni, dopo aver girato  titoli straordinari come Million Dollar Baby, Gran Torino e Changeling, invece di riposare sugli allori continua ad accettare sfide.
E si cimenta per la prima volta con il thriller sovrannaturale.
Hereafter che racconta la storia incrociata di tre personaggi: un uomo che può comunicare con i morti ma che vuole sfuggire a questo suo “dono”, una giornalista scampata ad uno tsunami e un bambino che ha assistito alla morte del fratello gemello.
Il film ha la sceneggiatura di  Peter Morgan di The Queen ed è interpretato da Matt Damon, Bryce Dallas Howard e Cécile de France e musicato, come d’abitudine, dallo stesso regista.
La trama.
Marie  è una nota giornalista televisiva francese ed è una sopravvissuta dello tsunami.
Marcus è un ragazzino di Londra che vede morire il fratello gemello.
George è di San Francisco e ha la capacità di entrare in contatto con i morti.
Per la costruzione, “Hereafter” sembra essere un film di Iñárritu(terribilmente tragico), però  lo stile e la sensibilità sono indubbiamente quelli di Eastwood.
La prima parte del film, che inizia con la sconvolgente sequenza dello tsunami ricostruita al computer, è volutamente lenta e piuttosto introduttiva, ma il tema scelto impone una certa delicatezza ed una analisi approfondita.
Il comune denominatore delle tre storie apparentemente slegate è, infatti, la morte.
Quella toccata da Marie che, per pochi secondi, muore, quella sofferta da Marcus che perde una parte di sé insieme al fratello e quella con cui, da tutta la vita, ha a che fare George.
Il suo non è un dono, ma una maledizione.
Il film, rigorosamente sceneggiato da Peter Morgan (“Frost/Nixon- il duello”, “The Queen”, “L’ultimo re di Scozia”), ha tra i suoi pregi quello di presentare una tesi (c’è qualcosa dopo la morte), supportarla con prove (testimonianze di chi ha avuto un’esperienza di quasi morte, sensitivi che parlano con i morti) e affrontare le eventuali confutazioni (i ciarlatani), ognuno di noi, dopo, avrà modo di pensare a ciò che ha visto e  trarre le proprie conclusioni.
 “Hereafter” non afferma, infatti, che la vita dopo la morte c’è, vuole solo proporre un’eventualità e per chi già ci crede non è altro che una conferma, ma per gli scettici rappresenta indubbiamente qualcosa su cui riflettere.
Ancora una volta Eastwood si dimostra un regista delicato, poetico, misurato.
La direzione degli attori è perfetta e il film è ottimo e da vedere, assolutamente( Cfr.: www.savonaeponente.com ) Qualche pensiero “curioso” Durante la storia teologica dell’umanità, i capi religiosi ci hanno assicurato che se avessimo compiuto certi riti, ripetuto delle preghiere o mantra, se ci fossimo adattati a certi schemi, avessimo soffocato i desideri, controllato i pensieri, sublimato le passioni, frenato l’avidità e avessimo evitato di abbandonarci al sesso, avremmo, dopo una sufficiente tortura della mente e del corpo, trovato qualcosa che fosse al di là di questa vita banale.
Ed e’ quanto milioni di persone religiose hanno fatto nei secoli, sia da soli, andandosene in un deserto o sulle montagne o in una caverna o vagando di villaggio in villaggio con una ciotola da mendicante, oppure in gruppo, riunendosi in monasteri, costringendo le loro menti a conformarsi ad un modello stabilito.
Ma una mente torturata, una mente agitata, una mente che vuole sfuggire ad ogni inquietudine, che ha rifiutato il mondo esteriore ed e’ stata resa ottusa dalla disciplina e dal conformismo – una mente del genere, per quanto a lungo possa cercare, nelle sue scoperte sarà sempre condizionata dalla propria deformazione.
Alla domanda se esiste o meno un Dio, una verità o una realtà  o comunque vogliate chiamarla, non può mai essere data una risposta dai libri, dai preti, dai filosofi o dai saggi.
Nessuno e niente può dare una risposta alla domanda tranne voi stessi( tratto da J.
Krishnamurti, Liberta’ dal conosciuto, Ubaldini).
Ma debbo – per onestà professionale- raccontare del bellissimo incontro che ebbi anni fa con J.
Eccles, Nobel per la medicina 1963, K.
Popper, il grandissimo filosofo che tutti hanno amato e il Prof.
Piergiorgio Strata( attualmente dirige il Compartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino) che alla Giorgio Cini di Venezia tennero un convegno sulle “Molecole e la mente”( così allora, intitolai il mio pezzo per Dimensioni Nuove), che alle mie domande si “accapigliarono” tantissimo tra di loro, tanto che l’allora giovane Prof.
Strata rimproverò il famoso Popper che amava rispondere a me e non esporre all’assemblea dei dotti le sue idee! Ma i dotti non avevano la mia chioma rossa! Amo concludere questo mio piccolo contributo a continuare a porci domande sull’Aldilà, come ha fatto così bene C.
Eastwood, con le parole di J.
Eccles e che cioè  “che l’evoluzione biologica trascende se stessa fornendo il supporto materiale, il cervello umano, a individui autocoscienti la cui vera natura è di cercare le speranze e di indagare sul significato della ricerca dell’amore, della verità e della bellezza”.(Cfr.: John Eccles “Evoluzione del cervello e creazione dell’io”) Di: Maria de falco Marotta &Team

Dizionario di Ecclesiologia

G.
Calabrese, P.Goyret, O.F.Piazza,  DIZIONARIO DI ECCLESIOLOGIA, edd.
Città Nuova, Roma,pp.
1.568, € 140,00.
Se siete “laici”, non accantonate subito come non a voi pertinente questa segnalazione, convinti al massimo che il termine “Chiesa” valga solo per stare in guardia contro ogni tentazione teocratica, rimodulando e ribadendo la formula di Cavour della «Libera Chiesa in libero Stato» o, più aspramente temendo col Pasolini della Religione del mio tempo che «la Chiesa sia lo spietato cuore dello Stato».
No, la categoria sottesa a questo vocabolo di matrice greca, ekklesía, è quella della “convocazione”, certo di taglio sacrale e trascendente, ma che rimanda anche a un incontro sociale.
Risaliamo, così, alle radici stesse dell’antropologia che non si accontenta di aggregazioni genetiche (famiglia, clan), ma segnala l’anelito a congregazioni di altra impronta, più civile e culturale (popolo, nazione), o corporativa (associazioni, ordini) o infine spirituale e simbolica.
Ecco, allora, entrare in scena la Chiesa con le sue sotto-categorie (pensiamo alle comunità monastiche).
Ma non si creda che l’idea sia appannaggio del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo.
L’umma musulmana è la comunità “materna” (tale è l’etimologia della parola) che raccoglie in unità i fedeli di quella religione e che tende spesso a sovrapporsi alla stessa comunità civile in una sovrimpressione identitaria giuridico-politica.
Persino il buddhismo, a prima vista restio ad accogliere criteri di mutua appartenenza (al massimo c’è la sangha monastica rigidamente istituzionalizzata), ha prodotto forme di comunità nazionale religiosa: come non pensare al Tibet che ha – a partire dal Seicento – nel Dalai Lama l’unificazione dell’identità sacra, civica ed etnica? Il discorso è ancor più evidente per l’ebraismo che ha già nelle Scritture Sacre l’emergere della qahal, l’ekklesía appunto, una “convocazione” divina dai forti connotati istituzionali civili.
È, però, indubbio che la categoria “ecclesiale” sia capitale nel cristianesimo e sia uno dei nodi più intricati dell’odierno dialogo ecumenico, come lo fu in passato nello scontro, non di rado armato, tra le varie Chiese col relativo corteo di scismi, di scomuniche e persino di guerre di religione.
Tempo fa, proprio su queste pagine, abbiamo spiegato – sulla scorta di un saggio di Giacomo Canobbio (Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, Queriniana) – il senso autentico del celebre motto “inventato” da Origene e Cipriano, Extra Ecclesiam nulla salus, spesso ancor oggi imbracciato come un kalashnikov anti-ecumenico e integralistico.
Si capisce, allora, perché l’apparire di un dizionario di ecclesiologia debba essere segnalato anche ai lettori più diversi e non ai destinatari a prima vista specifici come gli “ecclesiastici” o le comunità “ecdesiali”.
Certo, quello che ora presentiamo è un manuale che lascia in sordina la prospettiva antropologica (ad esempio, la voce “Appartenenza” è esclusivamente teologica, così come le “società” qui evocate sono soltanto le “Società di vita apostolica”).
Tuttavia, nelle 160 voci che compongono questo vasto arazzo tematico ci si imbatte nella trattazione della “Democrazia”, della “Promozione umana”, dei “Rapporti Chiesa-Stato”, di “Arte e Chiesa”, ma si lascia pure vasto campo alle mille iridescenze che la categoria “Chiesa” ha assunto nella storia al punto tale da essere applicata a soggetti disparati con reciproco dispiacere degli uni e degli altri.
Significativo al riguardo sarebbe rincorrere la sequenza rubricata sotto “Ecclesiologia”: ci sono gli anglicani, i congregazionalisti, i luterani, i bizantini medievali, l’occidente medievale, gli ortodossi, i cattolici conciliari e post-conciliari, i riformati, tanto per seguire l’ordine alfabetico.
Ma all’interno s’incunea l’ecclesiologia degli Atti degli apostoli, quella giovannea, delle Lettere pastorali neotestamentarie, la paolina, quella della patristica occidentale e orientale, della comunità cristiana primitiva, l’ecclesiologia sinottica e veterotestamentaria, anche qui per stare alla sequenza alfabetica, fermo restando poi che una decina di voci sono riservate alle specifiche Chiese in cui si è frammentata la cristianità.
L’oscillazione ondeggia, quindi, tra voci che isolano e approfondiscono i fondamenti teologici, come «Concilio, Corpo di Cristo, Dodici, Episcopato, Eucaristia, Evangelizzazione, Infallibilità, Liturgia, Magistero, Ministeri, Missione, Papato, Parola, Popolo di Dio, Presbiterato, Sacramentalità, Scisma, Spirito Santo, Tradizione» e così via, e voci che toccano questioni storiche o pastorali come l’architettura ecclesiale, il Gallicanesimo, le sette e i nuovi movimenti religiosi, la teologia della liberazione, la Scuola di Tubinga e di Roma o lemmi enigmatici ai profani come Subsistit in, sempre per fare qualche esempio.
L’oscillazione si ripete – come è ovvio in simili prodotti affidati a una legione di collaboratori – tra impostazioni più sincroniche e approcci diacronici, tra prospettiva tematica ed evoluzione storico-tematica.
Il Concilio Vaticano II, con la sua costituzione Lumen gentium, ha fatto sì che l’ecclesiologia tornasse al centro dell’interrogazione teologica, ma anche dell’impegno pastorale nel confronto col mondo.
Lo ha fatto ribadendo che i suoi confini sono meno “ecclesiastici” di quanto si è soliti ipotizzare anche da parte dei non credenti.
Ha riproposto con forza la necessità dell’incontro ecumenico per impedire integralismi e autoreferenzialità.
Ha rettificato gli incroci con la società e la politica (Martin Luther King in quegli stessi anni nella sua Forza d’amare affermava che «la Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, è la coscienza dello Stato»).
Mi sembra, comunque, significativo concludere con un passo dell’allora cardinale Ratzinger nel suo saggio sulla Chiesa, una comunità sempre in cammino (San Paolo 1991) passo che è posto in apertura a questo dizionario e che noi riproponiamo ai lettori credenti e “laici”.
«La Chiesa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per dare avvio a una vita comunitaria.
La Chiesa non è nemmeno la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l’eucaristia.
La Chiesa è anche di più che papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale.
Di essa fanno parte tutti i santi, a partire da Abele, da Abramo e da tutti i testimoni della speranza…
Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi, il cui cuore si protende, sperando e amando, verso Cristo».
di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 9 gennaio 2011

Maria SS. Madre di Dio anno A

Preghiere e racconti   IL GREMBO DELLA MADRE  «II Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,25-26).
«Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano.
Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 18-19).
 L’anno nuovo ha fatto irruzione nella nostra vita.
  L’augurio  «Buon anno!» diciamo a tutti e stringiamo mille mani per esprimere ai nostri compagni di viaggio, imbarcati con noi sulla nave della vita, l’auspicio di tanta felicità.
Non c’è nulla di più bello e di più sacro di questo intreccio di mani, fatto a Capodanno: dovrebbe essere il simbolo di una volontà di amore, di apertura, di dialogo, di impegno a costruire un fitto reticolato di solidarietà tra tutti gli uomini, nella giustizia e nella fratellanza.
Se davvero ognuno di noi, per rendere il mondo più umano, mettesse nel corso di tutto l’anno lo stesso puntiglio con cui in queste ore dona e riceve gli auguri, la causa della pace nel mondo sarebbe già mezzo risolta.
Purtroppo, però, in questo scambio di felicitazioni prevale più lo scongiuro che il senso della speranza cristiana.
Sembra quasi che si voglia esorcizzare l’avvenire con formule scaramantiche, gravide di paure più che di promesse.
Diciamo «auguri», ma ci trema la voce.
Stringiamo la mano, ma il braccio è malfermo.
È che siamo sopraffatti dallo scoraggiamento, rassegnati di fronte agli insuccessi, appesantiti dalla barbarie presente nel mondo.
Nonostante tutto, però, di fronte a un anno che nasce, a noi credenti è severamente proibito essere pessimisti.
Qualche anno fa era in cartellone, presso i maggiori teatri d’Italia, uno spettacolo dal titolo «Chi vuol esser lieto sia, di doman c’è gran paura».
È un’espressione che non possiamo assolutamente condividere, perché se c’è qualcosa che il domani contiene, questa ha un nome: la speranza di oggi.
Non lasciamoci, perciò, sopraffare dalla ineluttabilità del male.
Poniamo gesti significativi di riconciliazione.
Svegliamo l’aurora.
Proclamiamo sempre più con le opere e sempre meno con le chiacchiere che Gesù Cristo è vivo e cammina con noi.
  La speranza  Nostra speranza è, oggi, la pace.
Da quando Paolo VI l’ha scelto per la celebrazione della Giornata mondiale della pace, l’augurio di riconciliazione e di solidarietà scavalca la sfera dei rapporti strettamente personali e raggiunge gli estremi confini della terra.
È molto significativo che l’anno nuovo cominci proprio con questo impegno, sottolineato ogni volta da un particolare tema di riflessione proposto dal Papa.
Sembra quasi che si voglia mettere sotto un unico grande manifesto programmatico le opere e i giorni di questo nuovo arco di storia.
Per noi credenti, comunque, la giornata della pace non può essere un rito celebrativo.
Se non ci scomoda, se non ci fa stare sulle spine, se non ci induce a salire sulle barricate, se non ci sollecita a scelte che costano, se non ci procura il sorriso o il fastidio di qualche benpensante, sarà solo l’occasione per una risciacquata di buone emozioni.
Gravi situazioni di non pace sono presenti nel mondo.
Le logiche di guerra imperversano ancora, anche se dai campi di battaglia hanno traslocato sui tavoli di un’economia che penalizza i poveri.
La corsa alle armi, nonostante i segnali positivi lanciati da tanta gente di buona volontà, non accenna a fermarsi.
La militarizzazione del territorio è ancora costume consolidato.
La connessione tra malavita internazionale, commercio di armi e commercio di droga si fa sempre più oscena.
La   violazione dei diritti umani, espressa a volte su popoli interi, continua a turbarci.
Il degrado ambientale, oltre a preoccupare per il futuro gravido di incubi, ci fa cogliere in positivo i nodi che legano pace, giustizia e salvaguardia del creato.
Così ogni operazione di guerra e ogni violazione della giustizia si tramutano in allucinanti serbatoi di paure cosmiche.
Di fronte a questo quadro, il lamento deve prevalere sulla danza? No, nel modo più assoluto.
Bisogna però prendere posizione.
La giornata della pace deve provocare all’esodo, alla vera transumanza (trans humus = passaggio da una terra all’altra), richiesta alla nostra coscienza cristiana.
Perciò lo studio sui temi della nonviolenza attiva e l’assunzione della difesa popolare nonviolenta come modulo che assicura la convivenza pacifica tra i popoli, devono diventare proposito concreto da esprimere tutto l’anno.
  La benedizione  Due segni fanno prevalere la speranza sulla tristezza dei presagi.
II primo è il volto del Padre.
Il Signore ci aiuterà.
Imploriamolo con la preghiera.
Se egli farà «brillare il suo volto su di noi» (Nm 6, 25), non avremo bisogno di scomodare gli oroscopi per pronosticare un futuro gonfio di promesse.
Tutto questo significa che dobbiamo camminare alla luce del suo volto e, riscoperta la tenerezza della sua paternità, impegnarci una buona volta nell’osservanza della sua legge.
E il secondo è il grembo della Madre.
Tutti i nostri buoni propositi prenderanno carne e sangue se saranno gestiti nel grembo di Maria.
È il luogo teologico fondamentale, dove i grandi progetti di salvezza si fanno evento.
II figlio della pace ha trovato dimora in quel grembo duemila anni fa.
Oggi è solo in quel grembo che avrà concepimento e gestazione la pace dei figli.
Per cui la festa di Maria madre di Dio, mentre ricorda le altezze di gloria a cui la creatura umana è stata chiamata, ci esorta anche a sentirci così teneramente figli di lei, da riscoprire in quell’unico grembo le ragioni ultime del nostro impegno di fratellanza e di pace.
 (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 85-90).
  Sei divenuta dimora dell’immensa Maestà Fratelli carissimi, ammirando in silenzio, nel nostro cuore, la grandezza di Maria, eleviamo un inno di lode e diciamo: «Vergine Maria, veramente beata, riconosci la tua gloria, quella gloria che l’angelo ti ha annunciata, che Giovanni ha profetizzato per bocca di Elisabetta non ancora madre, dal profondo del suo seno: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno” (Lc 1,42).
Tu hai meritato di accogliere quella venuta promessa al mondo interi da secoli.
Sei divenuta dimora dell’immensa Maestà.
Tu sola, per un dono particolare, hai posseduto per nove mesi la speranza del mondo, l’ornamento dei secoli, la comune gioia di tutti.
Colui che ha dato principio a ogni cosa ha preso inizio da te e ha ricevuto dal tuo corpo il sangue da versare per la vita del mondo.
La vita di tutti i secoli è nata dal tuo unico figlio, hai meritato di chiamare figlio tuo il padre degli angeli.
Ecco, sei stata esaltata sopra i cori degli angeli, accanto al Figlio e re, madre beata, regina che regnerai in eterno.
E colui al quale hai offerto ospitalità nel tuo seno, ti ha donato il regno dei cieli».
(RABANO MAURO, Omelia sull’Annunciazione di santa Maria, PL110,55C-D).      Proemio Maria ci appare dalle profondità dell’infinito in una mandorla stellata, circondata da quattro angeli che la onorano gioiosi.
Lei è là, nella gloria del cielo: ci aspetta a braccia aperte e intercede per noi presso Dio.
 Contempliamo Maria attraverso le Icone che rivelano i misteri della sua vita.
Contempliamo Maria aprendo a Lei il cuore.
Contempliamo Maria nella sua bellona.
Contempliamo Maria ascoltandola e imparando da Lei.
Contempliamo Maria esprimendo a Lei i nostri bisogni immensi.
Contempliamo la Donna, la Vergine, colei che non teme di perdere e di perdersi.
Contempliamo la Madre genitrice del Verbo, lasciando che generi in noi il Cristo vivente.
Contempliamo Maria orante e intercediamo per il mondo intero.
Contempliamo Maria mettendoci nelle sue mani con la nostra piccolezza.
Contempliamo Maria per se stessa, trascorrendo del tempo con Lei in silenzio gioioso in stupore estasiato, cullati dal suo amore di madre infinita tenerezza per ogni creatura.
Maria! Desiderata pace sconfinato bene…
  BUON ANNO A TE  Buon anno a te, che stai inchiodato su un letto e non riesci a smettere di maledire la vita che ti ha riservato tale trattamento, il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, che vedi il sole a scacchi, che pensi a tutte le cose che potrai fare quando sulle ali della libertà volerai verso mondi sereni e felici: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, che ti risvegli sulla panchina del parco, magari più infreddolito del solito, bestemmiando perché un altro anno comincia ma per te nulla è cambiato: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, anziano, lasciato triste e solitario in uno stanzone maleodorante, in mezzo a tanti tristi simili, a te che sconti il peso della tua vecchiaia solo, senza amici: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, mamma in difficoltà, famiglia separata, giovane che cerchi la felicità nella droga, bambino abbandonato, donna sfruttata da clienti senza amore, fratello immigrato, il Signore rivolga su di voi il suo volto e vi dia pace.
Buon anno anche a noi tutti, discepoli del Signore Gesù: il Signore rivolga su di noi il suo volto e non ci dia pace fino a che non capiremo che noi, oggi, siamo la sua mano misericordiosa che si prende cura delle membra ferite della nostra umanità.
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).   MARIA SS.
MADRE
DI DIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Numeri 6,22-27        Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
    v La prima lettura, ripresa come al solito dall’A.T., contiene la solenne benedizione che Aronne e i suoi figli dovevano dare al popolo al termine delle funzioni liturgiche o dei sacrifici.
Nel libro del Levitico 9.22 si parla della benedizione del solo Aronne al popolo, al termine dei sacrifici che caratterizzavano l’investitura del sommo sacerdote.
Secondo la tradizione rabbinica posteriore, la benedizione si impartiva ogni giorno, dopo il sacrificio della sera.         E il contenuto della benedizione è semplice e solenne nello stesso tempo.
In una triplice ondata, la benedizione si va allargando da 3 a 5, a 7 parole, nell’originale ebraico.
Anche il contenuto della benedizione si va allargando e approfondendo: dalla semplice benedizione perché il Signore “ti protegga”, si passa allo splendore luminoso e consolante del “volto” di Dio, fino alla invocazione del dono ultimo della “pace” (7,24-26).
             E noi sappiamo che la “pace” (in ebraico shalóm) è per la Bibbia non un dono soltanto, ma un po’ la “somma”, la “pienezza” di tutti i beni.
Proprio per questo, oggi soprattutto, vogliamo pregare la Santa Madre di Dio perché illumini la mente di tutti gli uomini nella ricerca della vera “pace”.
Ne abbiamo soprattutto bisogno in questo tormentato periodo della storia del mondo.
Che davvero «il Signore rivolga su di noi il suo volto e ci conceda pace» (6,27), come abbiamo appena ascoltato!   Seconda lettura: Galati 4,4-7             Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
    v La seconda lettura è ripresa da un breve passo della Lettera ai Galati in cui Paolo ricorda la “madre” di Gesù, direi quasi di passaggio: talmente egli e preso dalla figura di Gesù, che il resto gli appare come secondano!      Il testo è carico di teologia e meriterebbe di essere approfondito: noi qui diremo solo quello che in qualche maniera ci rimanda alla solennità di oggi.
Ecco il testo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mando il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge […] perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4-5).
     L’espressione “nato da donna” vuole sottolineare la realtà dell’umanizzazione di Cristo, ed è generica: non c’è, a nostro parere, un qualche velato accenno alla concezione verginale di Cristo, come qualcuno ha voluto pensare Paolo è tutto preso dall’evento “Cristo”, che è venuto in mezzo a noi per farci dono della “filiazione” adottiva: «perché ricevessimo l’adozione a figli» (4-5).
     E questa grande “rivelazione” della nostra adozione a “figli” di Dio, “in Cristo” è qualcosa che viene interiormente testimoniato dalla presenza in noi dello “Spirito Santo”, che ci apre il cuore alla fede e all’amore.
Senza il “tocco” dello Spirito non avvertiremmo che Dio ci è “padre” e, in Cristo, ci ha come introdotti nella sua famiglia! Sembra quasi che qui Paolo stesso si commuova davanti alle sue stesse affermazioni: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!» (4,6).
     L’appellativo “Abbà” è una formula confidenziale, in lingua aramaica antica, tipica del linguaggio familiare dei bambini, e che Gesù stesso ha adoperato per rivolgersi al Padre nella preghiera del Getsemani: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!» (Mc 14,36).
     Mediante lo Spirito che inabita in noi, e che il Risorto ci ha inviato, ci rivolgiamo anche noi al Padre perché ascolti la nostra preghiera e ci guardi come suoi “figli”: «Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (4,7).
L’ultima espressione ci trasferisce addirittura fuori del tempo, proiettandoci nell’eternità che ci attende: «Se figlio, sei anche erede per grazia di Dio».
C’è solo da stupirsi e da gioire!   Vangelo: Luca 2,16-21          In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.  Tutti que

Omelie

Quella che segue è la prefazione al volume – edito in Italia da Libri Scheiwiller e in vendita da poche settimane – che raccoglie le omelie di Benedetto XVI nell’anno liturgico appena trascorso, l’anno C del lezionario romano.
Terzo della serie, il volume accompagna ogni omelia di papa Joseph Ratzinger con le letture bibliche della messa del giorno, come pure con i salmi e le antifone dei vespri da lui celebrati.
Nell’esortazione apostolica postsinodale “Verbum Domini” sulla Parola di Dio nella vita della Chiesa, pubblicata lo scorso 30 settembre, un paragrafo, il 59, è dedicato proprio alla cura dell’omelia, che in effetti è il principale, se non l’unico, atto di comunicazione della buona novella cristiana ascoltato da centinaia di milioni di battezzati ogni domenica nel mondo.
Nell’arte dell’omelia, indubitabilmente, Benedetto XVI è uno straordinario modello.
__________ “COME PAPA LEONE MAGNO, ANCHE PAPA BENEDETTO PASSERÀ ALLA STORIA PER LE SUE OMELIE” di Sandro Magister Sono tre le annualità che scandiscono il messale romano domenicale e festivo, con al centro di ciascuna i Vangeli di Matteo, di Marco e di Luca.
Nel pubblicare anno dopo anno le omelie di Benedetto XVI, Libri Scheiwiller si è attenuto a questa sequenza.
Con questo terzo volume della serie si chiude il triennio.
Esso raccoglie le omelie papali dell’anno liturgico lucano, che è iniziato con la prima domenica di Avvento del 2009 e si è disteso sull’arco del 2010.
Le omelie della messa e dei vespri sono un asse portante di questo pontificato, ancora non da tutti capito.
Joseph Ratzinger le scrive in buona parte di suo pugno, alcune le pronuncia a braccio con l’immediatezza della lingua parlata.
Ma sempre le pensa e prepara con estrema cura, perché per lui hanno una valenza unica, distinta da tutte le altre sue parole scritte o pronunciate.
Le omelie, infatti, sono parte dell’azione liturgica, anzi, sono esse stesse liturgia, quella “liturgia cosmica” che egli ha definito “meta ultima” della  sua missione apostolica, “quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, adorazione, e allora sarà sano e salvo”.
C’è molto Agostino in questa visione di Ratzinger, c’è la città di Dio in cielo e sulla terra, ci sono il tempo e l’eterno.
Nella messa il papa vede “l’immagine e l’ombra delle realtà celesti” (Ebrei 8, 5).
Le sue omelie hanno il compito di sollevare il velo.
E in effetti, a rileggerle, esse schiudono una visione del mondo e della storia colma di nuovi significati, che sono poi il cuore della buona novella cristiana, perché “se Gesù è presente, non esiste più alcun tempo privo di senso e vuoto”.
L’Avvento è “presenza”, “arrivo”, “venuta”, ha detto il papa nell’omelia inaugurale di questo anno liturgico.
“Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli”, e quindi il tempo diventa “kairós”, occasione unica, favorevole, di salvezza eterna, e la creazione intera cambia volto “se dietro di essa c’è lui e non la nebbia di un’incerta origine e di un incerto futuro”.
Ma il tempo della “civitas Dei” non è informe.
Ha un ritmo che gli è dato dal mistero cristiano che lo riempie.
Ogni messa, ogni omelia cade in un tempo preciso, la cui scansione fondamentale procede di domenica in domenica.
Il “giorno del Signore” ha come protagonista colui che è risorto il primo giorno dopo il sabato, divenuto figura dell'”octava dies” della vita eterna.
La presenza del Risorto nel pane e nel vino consacrati è reale, realissima, predica incessantemente il papa.
Per vederlo e incontrarlo basta che gli occhi della fede si aprano, come ai discepoli di Emmaus, che riconobbero Gesù proprio nel sacramento dell’eucaristia, “allo spezzare del pane”.
“L’anno liturgico è un grande cammino di fede”, ha ricordato il papa prima di un Angelus, in una di quelle sue brevi meditazioni domenicali costruite come piccole omelie sul Vangelo del giorno.
È come camminare sulla strada di Emmaus, in compagnia del Risorto che accende i cuori spiegando le Scritture.
Da Mosè ai profeti a Gesù, le Scritture sono storia, e con esse il camminare si fa storia e l’anno liturgico la ripercorre tutta, attorno alla Pasqua che gli fa da asse.
Avvento, Natale, Epifania, Quaresima, Pasqua, Ascensione, Pentecoste.
Fino alla seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi.
Ciò che fa della liturgia cristiana un “unicum”, e il papa non smette di predicarlo, è che la sua narrazione non è solo memoria.
È realtà viva e presente.
In ogni messa accade quello che Gesù annunciò nella sinagoga di Nazaret dopo aver riavvolto il rotolo del profeta Isaia: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Luca 4, 21).
Nelle omelie, papa Benedetto svela anche cos’è la Chiesa.
Lo fa in obbedienza alla più antica professione di fede: “Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati”.
La “comunione dei santi” è primariamente quella dei santi doni, è quel santo dono salvifico dato da Dio nell’eucaristia, accogliendo il quale la Chiesa è generata e cresce, in unità su tutta la terra e con i santi e gli angeli del cielo.
La “remissione dei peccati” sono il battesimo e l’altro sacramento del perdono, la penitenza.
Se questo professa il “Credo”, allora davvero la Chiesa non è fatta dalla sua gerarchia, non dalla sua organizzazione, tanto meno è uno spontaneo associarsi di uomini solidali, ma è puro dono di Dio, creatura del suo Santo Spirito, che genera il suo popolo nella storia, con la liturgia e i sacramenti.  C’è un’immagine che torna di frequente nelle omelie del papa: “Uno dei soldati con la lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Giovanni 19, 34).
Ecco di nuovo il sangue e l’acqua, l’eucaristia e il battesimo, la Chiesa che nasce dal fianco trafitto del Crocifisso, nuova Eva dal nuovo Adamo.
Il ricorso alle immagini è un altro dei distintivi delle omelie di Benedetto XVI.
Nella cattedrale di Westminster, il 18 settembre 2010, fece alzare lo sguardo di tutti al grande Crocifisso che domina la navata, al Cristo “schiacciato dalla sofferenza, sopraffatto dal dolore, vittima innocente la cui morte ci ha riconciliati con il Padre e ci ha donato di partecipare alla vita stessa di Dio”.
Dal suo sangue prezioso, dall’eucaristia, la Chiesa attinge la vita.
Ma il papa aggiunse anche, citando Pascal: “Nella vita della Chiesa, nelle sue prove e tribolazioni, Cristo continua a essere in agonia fino alla fine del mondo”.
Nella predicazione liturgica di Benedetto XVI le immagini bibliche e quelle dell’arte hanno una costante funzione mistagogica, di guida al mistero.
Lo stupore dell’invisibile intravisto nel visibile artistico rimanda all’ancor più grande meraviglia del Risorto presente nel pane e nel vino, principio della trasformazione del mondo, affinché anche la città degli uomini “diventi un mondo di risurrezione”, una città di Dio.
La maggior parte delle omelie raccolte in questo volume sono state pronunciate dal papa durante la messa, dopo la proclamazione del Vangelo.
Ma ve ne sono anche alcune pronunciate nei vespri, prima del canto del “Magnificat”.
I luoghi sono i più vari, in Italia e all’estero, in villaggi e metropoli: Roma, naturalmente, ma anche Castel Gandolfo, Malta, Torino, Fatima, Porto, Nicosia, Sulmona, Carpineto, Glasgow, Londra, Birmingham, Palermo.
Particolare il caso dell’omelia della IV domenica di Quaresima, pronunciata dal papa durante un servizio liturgico ecumenico, nella chiesa luterana di Roma.
In appendice, come già nelle due precedenti raccolte, sono riportati anche alcuni di quei piccoli gioielli di omiletica minore, sulle letture della messa del giorno, che Benedetto XVI offre ai fedeli e al mondo la domenica mezzogiorno prima dell’Angelus oppure, nel tempo pasquale, prima del Regina Cæli.
Tra le maggiori e le minori, le omelie qui raccolte arrivano così all’ottantina, coprendo quasi l’intero arco dell’anno liturgico: una prova in più della cura che papa Benedetto dedica a questo suo ministero.
Il cardinale Angelo Bagnasco ne ha riconosciuto la grandezza e l’ha eletta a modello per tutti i pastori della Chiesa, quando ai vescovi del consiglio permanente della conferenza episcopale italiana, il 21 gennaio 2010, ha detto: “Non temiamo di dirci ammirati di questa sua arte, e non ci stanchiamo di indicarla a noi stessi e ai nostri sacerdoti come una scuola di predicazione alta e straordinaria”.
Come papa Leone Magno, anche papa Benedetto passerà alla storia per le sue omelie.
Benedetto XVI, “Omelie di Joseph Ratzinger, papa.
Anno liturgico 2010”, a cura di Sandro Magister, Libri Scheiwiller, Milano, 2010, pp.
420, euro 18,00.
Nella predicazione liturgica di Benedetto XVI le immagini bibliche e quelle dell’arte hanno una costante funzione mistagogica, di guida al mistero.
Lo stupore dell’invisibile intravisto nel visibile artistico rimanda all’ancor più grande meraviglia del Risorto presente nel pane e nel vino, principio della trasformazione del mondo, affinché anche la città degli uomini “diventi un mondo di risurrezione”, una città di Dio.
La maggior parte delle omelie raccolte in questo volume sono state pronunciate dal papa durante la messa, dopo la proclamazione del Vangelo.
Ma ve ne sono anche alcune pronunciate nei vespri, prima del canto del Magnificat.
I luoghi sono i più vari, in Italia e all’estero, in villaggi e metropoli: Roma, naturalmente, ma anche Castel Gandolfo, Malta, Torino, Fatima, Porto, Nicosia, Sulmona, Carpineto, Glasgow, Londra, Birmingham, Palermo.
In appendice, come già nelle due precedenti raccolte, sono riportati anche alcuni di quei piccoli gioielli di omiletica minore, sulle letture della messa del giorno, che Benedetto XVI offre ai fedeli e al mondo la domenica mezzogiorno prima dell’Angelus oppure, nel tempo pasquale, prima del Regina Caeli.