Evangeliario secondo il rito romano

CONFERENZA EPISCOPALE PIEMONTESE, Evangeliario secondo il rito romano, EMP, Padova 2010, ISBN: 8825025106, pp.340, Euro 140 Nel volume sono riportati tutti i brani dei vangeli letti nelle domeniche, nelle solennità e quelli per le messe rituali.
Le pericopi sono disposte secondo l’ordine canonico dei vangeli e per ognuna di esse è indicata la celebrazione in cui viene letta.
Quattro Vangeli da baciare e ascoltare di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 16 gennaio 2011 II diacono ha incensato prima e cantato poi il testo evangelico della solennità; richiude il volume, lo eleva e lo porta processionalmente verso il papa che presiede la celebrazione.
Il pontefice accoglie e bacia questo libro dalla legatura d’argento tempestata di gemme e con esso benedice l’assemblea che ha ascoltato in piedi.
Molti ricordano questa scena visibile nelle trasmissioni televisive dei riti papali: il gesto, che può essere ripetuto anche nelle altre liturgie locali solenni, esprime la venerazione per la Parola sacra, proclamata a voce e cristallizzata nella pagina scritta.
Già nell’ebraismo la Torah era ed è nel cuore stesso della sinagoga.
Infatti, una copia manoscritta della «Legge», i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco), usata per la pubblica lettura, è custodita nell”aron haqodesh, l’«arca santa» del luogo di culto.
Si tratta di un rotolo di pergamena sul quale un sofer, uno scriba, ha trascritto a mano l’intero testo ebraico di quei libri, con inchiostro nero brillante così da far sfolgorare ogni lettera e parola, e – secondo un’antica tradizione – con calamo vegetale o animale, perché ogni penna metallica avrebbe evocato la materia con cui si approntano le armi, negando così la missione di pace della Parola.
Anche il cristianesimo ebbe i suoi “lezionari”, ossia i testi liturgici che contenevano i brani biblici (le “pericopi”) proclamate nella celebrazione eucaristica.
Al loro interno si distinguevano gli “evangeliari” che contenevano solo i quattro Vangeli: uno studioso tedesco, Theodor Klauser, nel suo Das römische «Capitulare Evangeliorum» (Münster 1935), ne ha classificati un migliaio di latini, attestati tra il 645 e il 750.
All’interno, poi, degli evangeliari è da identificare una categoria più specifica sorta in epoca successiva, l’«evangelistario»: proprio perché nella liturgia si leggono, di volta in volta, a brani e non integralmente i quattro Vangeli, si pensò di preparare volumi nei quali fossero raccolti solo quelle “pericopi” distribuite nella sequenza delle varie domeniche e feste.
Questi «evangelistari», dall’evidente finalità pratica, acquistarono uno splendore particolare perché le loro pagine furono costellate di miniature, di capilettera in oro o argento, e furono raccolte in legature o teche impreziosite da smalti, avori e gemme.
Negli anni 80 si decise di elaborare – nello spirito del fervore liturgico post- conciliare – un «evangeliario» per le Chiese d’Italia che «avesse l’ambizione di competere per decoro e bellezza con gli splendidi esemplari trasmessi dall’antichità».
Apparve, così, nel 1987, per i tipi dei Fratelli Accetta, editori palermitani, Haec sunt Verba sancta.
Evangeliario delle Chiese d’Italia, un prodotto pregevole, ma certo non all’altezza di quegli «splendidi esemplari» del passato coi quali si voleva gareggiare.
Un nuovo Evangeliario secondo il rito romano, voluto dalla Conferenza Episcopale del Piemonte e della Valle d’Aosta, è ora disponibile per tutte le comunità ecclesiali italiane: in esso si nota il tentativo di fondere i due generi dell’«evangeliario» e dell’«evangelistario».
Infatti, da un lato, si hanno i testi integrali dei quattro Vangeli; d’altro lato, però, essi sono suddivisi secondo i vari brani che la liturgia propone nella sua articolazione annuale (anzi, triennale).
All’opera si può assegnare la definizione di «nobile semplicità» che il Concilio Vaticano II proponeva per lo stile liturgico sia per il candore della legatura, sia per il nitore tipografico, sia per la sobrietà delle immagini, riproduzioni di sculture in marmo di Trani, eseguite nel 2001da Novello Finotti per la facciata della Basilica di S.
Giustina a Padova.
Certo, si potrebbe pensare anche a un dialogo più intenso e serrato con l’arte contemporanea, auspicabile dopo gli anni del divorzio che si è consumato nel secolo scorso.
Qualcosa del genere fu tentato con coraggio dalla Conferenza Episcopale Italiana col suo recente Lezionario domenicale e festivo in tre volumi: l’idea era felice e suggestiva, anche se l’attuazione fu guidata con poco rigore e il risultato fu eterogeneo e diseguale.
Su questa scia si muove ora anche la Chiesa di Milano che sta allestendo un suo «evangeliario», illustrato da artisti contemporanei di alta qualità, considerato come il suggello della recente riforma del lezionario del rito ambrosiano (una riforma oggetto di discussioni e critiche varie da parte di alcuni esperti).
Significativo è, comunque, lo sforzo di riannodare il confronto con l’arte dei nostri tempi, propugnato da Paolo VI già nel 1964 in un memorabile discorso tenuto agli artisti nella Cappella Sistina, evento e appello reiterato il 21 novembre 2009 da Benedetto XVI nello stesso luogo mirabile, sulla scia anche della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II del 1999.
Si tratta di un incontro necessario e benefico sia per la liturgia sia per l’arte che nella storia sempre s’incrociarono, generando capolavori straordinari in una continua evoluzione: si pensi solo ai trapassi tra paleocristiano, romanico, gotico, rinascimentale, barocco, neoclassico o alla rivoluzione della polifonia rispetto alla “monodia” del gregoriano…
Ora, purtroppo, da un lato in ambito ecclesiale si ricorre spesso soltanto al ricalco di moduli, stili e generi di epoche precedenti o si adotta il puro e semplice artigianato o, peggio, ci si adatta alla bruttezza dei nuovi quartieri urbani e dell’edilizia aggressiva, innalzando edifici sacri simili, come diceva sarcasticamente padre David M.Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e quel “grande codice” che era la Bibbia.
Ha abbandonato, come pericolosa, ogni proposta di messaggio, si è consacrata a esercizi stilistici sofisticati o provocatori e fin blasfemi, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato spesso artificioso ed eccessivo.
Le parole di Benedetto XVI possono essere di stimolo ad ambedue gli ambiti: «Non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare coi credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita.
La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi, li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la meta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente».

Gli errori di Darwin

Intervista a Massimo Piattelli Palmarini sui contenuti del libro Gli errori di Darwin e le polemiche suscitate A un secolo e mezzo dalla pubblicazione delle sue prime opere sull’evoluzione biologica, Darwin fa ancora notizia.
Anzi, infiamma gli animi e scatena polemiche.
L’ultima, in ordine di tempo, è motivata dall’imminente pubblicazione di Gli errori di Darwin (Feltrinelli), annunciata per il 21 aprile, dopo altrettante polemiche suscitate negli States dall’edizione originale.
Il volume, che ha richiesto tre anni di lavoro, è scritto a quattro mani da due scienziati di livello internazionale.
Uno, vanto italiano, è Massimo Piattelli Palmarini, docente di Scienze cognitive all’Università dell’Arizona, dopo una permanenza al Mit di Boston e successivamente al San Raffaele di Milano dove ha creato il dipartimento della sua disciplina.
L’altro, Jerry Fodor, è anch’egli un’autorità nelle scienze cognitive, insegna filosofia del linguaggio alla Rutgers University del New Jersey.
Ancor prima di uscire nel nostro Paese, il volume di Piattelli Palmarini e Fodor sta riempiendo le pagine culturali e scientifiche dei nostri giornali, con pepati botta e risposta tra scienziati che si occupano di queste tematiche.
Ho raggiunto Massimo Piattelli Palmarini a Venezia, durante una sua parentesi italiana,  per un ciclo di seminari universitari. Gli ho chiesto di spiegarci le ragioni di così tanto scalpore per aver controbattuto alcune presunte idee “errate” del darwinismo.
Professor Piattelli Palmarini, ci spiega perché queste reazioni, anche emotive, al libro che ha scritto con Jerry Fodor? Ci sono varie spiegazioni.
Una è che la selezione naturale, il darwinismo, combina le due spiegazioni centrali della nostra vita e della nostra psiche.
Che sono la spiegazione di tipo meccanicistico e quella di tipo finalistico.
La spiegazione di tipo meccanicistico è quella che applichiamo nella vita di tutti i giorni, nelle cose inanimate, le cose inorganiche.
Le spiegazioni finalistiche le applichiamo nelle cose umane.
Si spiega quanto è successo nelle vicende storiche e nelle biografie di certi personaggi ricostruendo i loro scopi, le loro intenzioni, i loro progetti.
La selezione naturale mette assieme queste due forme fondamentali di spiegazione.
Fornisce una spiegazione meccanicistica a qualcosa che sembrerebbe di tipo finalistico.
Non c’è dubbio che l’idea di Darwin sia geniale e abbia conquistato gli scienziati.
In fondo, se si guarda all’evoluzione biologica si nota questo emergere di forme sempre più complesse nel tempo.
Il “match” che si verifica tra le forme e i tratti biologici degli ambienti in cui crescono.
Tutto ciò suggeriva, tradizionalmente, qualcosa di finalistico.
E con l’idea della sezione naturale si spiegherebbe questa parvenza di “disegno” in modo meccanicistico.
Questa è una idea molto forte che ha conquistato molti, e non intendono abbandonarla.
 Questo atteggiamento non assomiglia un po’ alla resistenza degli psicoanalisti quando, ad un certo punto, dovettero confrontarsi con le neuroscienze e con la psicofarmacologia? Certi saperi rischiano di costituirsi, da un certo punto di vista, come “chiese laiche”.
In un certo senso sì.
Ma è accaduto in diversi ambiti, non solo per la psicoanalisi.
E’ successo, ad esempio, pure per il marxismo.
Quando una dottrina è ritenuta “forte”, si coagulano attorno ad essa consensi altrettanto resistenti al cambiamento, e si costituisce una sorta di credenza indiscutibile.
C’è quindi anche una valenza filosofica della teoria dell’evoluzione che incide molto in questo dibattito.
Certo.
Perché si tratta di una spiegazione meccanicistica di fenomeni che avevano l’aria di essere finalistici.
Non c’è dubbio che questa sia un’idea forte.
Qual è invece l’idea forte del libro che ha scritto con Fodor? L’idea forte è che, ovviamente, l’evoluzione è un fatto.
L’appartenenza nel tempo dell’evoluzione di specie simili ad antenati comuni anche questo è un fatto.
Tutte le ricerche degli ultimi anni relative a ciò che tecnicamente viene definito “evo-devo” (cioè l’evoluzione biologica vista insieme allo sviluppo dell’embrione, dall’uovo fecondato fino all’adulto), ha mostrato che i geni sono sostanzialmente gli stessi.
Dal moscerino della frutta fino a noi.
I geni sono sempre i medesimi.
L’evoluzione è un fatto.
L’appartenenza delle specie l’una all’altra nella filogenesi, è anch’essa un fatto.
Quello che noi contestiamo è che la selezione naturale sia il meccanismo che spieghi la comparsa di specie nuove e di tutte le forme biologiche esistenti.
Questo è ciò che noi contestiamo.
Quindi contestate e lasciate un interrogativo aperto.
Voi mettete sul piatto dei dubbi, delle perplessità riguardo la possibilità di spiegazione onnicomprensiva delle teorie darwiniane.
Sì, proprio così. Non pensiamo che la teoria universale della selezione naturale debba essere sostituita da un’altra e diversa teoria onnicomprensiva.
I meccanismi sono molteplici, i livelli dei cambiamenti biologici nel tempo sono molteplici e quindi si tratta di un processo complesso, articolato, eterogeneo.
Siamo ben lungi dall’aver scoperto tutti i fattori in gioco.
Occorreranno molte altre ricerche, probabilmente per molti decenni.
In termini un po’ ironici, giocando sui vostri rispettivi doppi cognomi, Cavalli-Sforza ha esemplificato recentemente su “Repubblica” la questione dell’evoluzione culturale e l’adattamento alle necessità ed ai gusti della specie umana.
Lasciando intendere tra le righe che lei e Fodor non siete dei genetisti e quindi non avete gli strumenti concettuali  per affrontare tali tematiche.
Sì, però Cavalli-Sforza parla di linguaggio e non è un linguista.
I fenomeni linguistici che egli sottolinea sono assolutamente marginali.
E’ lo stesso problema: Cavalli-Sforza parla di piccole modifiche cumulative che si verificano nel tempo, all’esterno della lingua.
Da parte mia sottolineo invece che da cinquant’anni, da Chomsky in poi, viene riconosciuta l’importanza delle strutture interne della lingua.
Quindi, lingue tra loro remote geograficamente e storicamente che hanno fatto le stesse scelte sintattiche.
E nulla rende l’organizzazione sintattica del giapponese più funzionale nelle isole del Giappone, né quella dell’inglese più funzionale nelle isole britanniche.
Non c’è questo tipo di funzionalità che spieghi alcunché.
I vincoli e i fattori sono interni, non ambientali.
Voi siete per una teoria che comprenda anche questi aspetti.
Una teoria che enfatizza molto le strutture “interne”.
E i cambiamenti endogeni delle strutture interne, sia nel campo della linguistica che della biologia.
L’organizzazione interna dei geni: come possano riorganizzarsi.
Come la fisica e la chimica – con componenti di autorganizzazione – organizzano e strutturano in parte gli esseri viventi.
Noi enfatizziamo questa componente interna.
Il neo-darwinismo è una dottrina “esterna”: è l’ambiente che filtra e plasma le strutture e i fenomeni biologici.
C’è anche quello, però non è una componente così importante.
E’ molto più importante la componente interna.
A quale corrente “revisionista” del darwinismo vi rifate, perciò? Steve Gould e Richard Lewontin sono stati dei pionieri, importantissimi.
Ma oggi vi sono, oltre ai revisionisti, anche dei biologi che vanno oltre, che considerano la sintesi moderna (cioè il neo-darwinismo, la fusione di genetica e evoluzionismo darwiniano) decisamente superata.
Per esempio Eugene Koonin, Carl Woese, Lynn Margulis, Gabriel Dover, Stuart Newman, Leonard Kruglyak e altri.
Siamo dalla loro parte e li citiamo nel libro.
Lei ha lavorato anche all’interno di strutture, come il San Raffaele, in cui le sarà capitato di dibattere con colleghi dell’area medica.
Cosa pensa delle teorie darwiniane applicate alla medicina e alla psicologia? La medicina darwiniana è una sciocchezza.
Dello stesso genere dell’ “estetica darwiniana” e dell’ ”etica darwiniana”.
Applicazioni senza senso del darwinismo.
Una piccola corrente senza importanza.
Non vedo il clinico o il chirurgo che quando fanno le diagnosi o eseguono un intervento si rifanno alla teoria darwiniana.
Non è il caso.
Mi sembra un aspetto decisamente marginale destinato a scomparire.
Nelle scienze cognitive, c’è invece la psicologia evoluzionistica che ha centri di ricerca che sono appunto il bersaglio della nostra critica.
Infatti nel libro c’è una appendice con svariate citazioni tratte da questi psicologi evoluzionisti i quali sostengono che “tutto cambia, tutto diventa chiaro quando si applica la teoria dell’evoluzione” e così via.
Secondo noi è sbagliatissimo.
Le cosiddetta “sacra triade” di studiosi (Dennett, Dawkins e Pinker) oggetto delle vostre critice, secondo Cavalli-Sforza non sarebbe poi così “sacra”, ovvero non così autorevole nelle ricerche relative all’evoluzione biologica.
Quindi non meritevole di così tanta attenzione.
Sono comunque studiosi di queste problematiche con cattedre prestigiose, che fanno anche divulgazione.
Sono studiosi qualificati e influenti, considerati dei maestri.
Mi fa piacere che Cavalli-Sforza ed altri dicano: non state a preoccuparvi di loro dal punto di vista scientifico.
Benissimo.
Ma non è che non siano autori ininfluenti e di nessun interesse.
Sono personaggi con posizioni accademiche ben consolidate.
Sono anche autori di prestigio.
A chi è venuta l’idea di questo libro? A lei, a Fodor, ad entrambi parlando di questi temi? E’ venuta a tutti e due.
Io presentai quattro anni fa quella che ora costituisce la “parte prima” del libro alla  City University of New York.
E Fodor, con il quale siamo intimi amici da decenni, mi esortò a scriverne, perché le riteneva cose importanti.
Mi invitò a ripetere la mia conferenza il giorno dopo ai suoi studenti alla Rutgers University.
E insistè che dovevo pubblicarla.
Io ribattei che non c’era nulla da scrivere, perché si trattava di dati e scoperte già pubblicate sulle riviste scientifiche.
Fodor insistè, dicendo che però era importante riunirle tutte assieme, spiegarle in modo accessibile e discuterle criticamente.
Abbinando e integrando queste scoperte della biologia con un’analisi concettuale critica rigorosa delle idee centrali del neo-darwinismo.
Così è nata l’idea di scrivere questo libro.
Ci siamo divisi i compiti: la prima parte l’ho scritta io e la seconda Fodor.
Poi ovviamente ognuno ha letto la parte dell’altro, aggiungendo e integrando la rispettiva divisione del lavoro.
Abbiamo impiegato circa tre anni a completarlo, ovviamente alternando questo lavoro agli altri impegni.
Avete seguito anche l’ottima regola, soprattutto americana, di sottoporre i capitoli ad altri esperti, in corso d’opera? Sì, e un lettore molto importante è stato il grande biologo e genetista Richard Lewontin.
Ha suggerito vari cambiamenti che abbiamo adottato.
Il suo contributo è stato determinante.
Importante anche la critica benevola, ma serrata, di Gabriel Dover e quella amichevole, ma molto dissenziente, di Charles Randy Gallistel, eccellente amico personale sia di Fodor che mio, un critico spietato e micidiale del comportamentismo (che noi citiamo nel nostro libro), ma assai restio a criticare il neo-darwinismo.
Altri lettori sono stati filosofi, biologi e altri colleghi che ci hanno fornito suggerimenti e critiche.
Restando su Lewontin, com’è stato che qualcuno abbia avuto l’idea di fare una “petizione” contro di lei? Lewontin, come lei ha detto, l’ha informata di questa curiosa iniziativa.
Sì, è partita dal genetista Giorgio Bertorelle, il quale si vide rispondere da Lewontin “I urge you to desist” (La invito caldamente a desistere).
Ma lui ha insistito e, pur senza la firma di Lewontin, ha fatto circolare la petizione e  sostiene che i più prestigiosi evoluzionisti hanno firmato un manifesto contro di me.
Un manifesto di condanna contro le mie idee, mi sembra una cosa da inquisizione.
Detto in senso ironico: non è uno dei motivi che l’hanno indotta a tornarsene negli Stati Uniti, dopo la parentesi al San Raffaele di Milano? Metti caso che mi brucino come Giordano Bruno, avrà pensato.
No, ero già in America.
E neppure in America sono teneri su certe cose.
Sono tornato negli Stati Uniti per tornare a fare lo studioso e non soltanto l’organizzatore.
Si attende altre reazioni dall’uscita del libro nel nostro Paese? Penso di sì.
Appena il libro comincerà a circolare ed essere letto, vi saranno certamente altre reazioni.
Vi farà però piacere: in fondo riapre un dibattito su questioni un po’ ferme tra religione e laicismo.
Noi ovviamente non abbiamo nulla da dire sulla religione.
E’ bene che la scienza non dica nulla sulla religione, e viceversa.
Sono due settori distinti.
Anche se in Rete, alcuni pensatori religiosi, cominciano ad annoverarvi tra i loro “paladini”.
Lo so, ma cosa possiamo farci? L’importante è che non ci considerino parte di loro.
Né che facciano credere ai lettori che stiamo dalla loro parte.
E questo per ora non lo fanno.
Anzi, sottolineano: questi sono due atei e perfino (sottolineano il perfino) loro criticano il darwinismo.
Il che è vero.
Quindi, ne facciano l’uso che credono.
Qualcuno anzi ci aveva avvertito: non scrivete queste cose perché poi saranno strumentalizzate.
Ma noi abbiamo scritto ciò che ci sembra giusto e vero.
E poi sull’uso che ne verrà fatto, sarà quel che sarà.
* Su VideoScienza parte dell’audio della conversazione con Piattelli Palmarini.
* Leggi anche una delle più interessanti e pacate repliche a firma del genetista Mauro Mandrioli (Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Biologia animale) su Pikaia (il portale dell’evoluzione diretto dal filosofo della scienza Telmo Pievani).
Enzo Soresi http://bioneuroblog.wordpress.com/2010/04/10/gli-errori-di-darwin-secondo-massimo-piattelli-palmarini/ FODOR JERRY A., PIATTELLI PALMARINI MASSIMO, Gli errori di Darwin, Feltrinelli, Milano 2010, ISBN: 8807104571, pp.
263, E 22,50 In questo libro Massimo Piattelli Palmarini, biofisico e scienziato cognitivo, e Jerry Fodor, filosofo del linguaggio e cognitivista, sostengono che il principio darwiniano di selezione naturale e di progressivo adattamento all’ambiente non è verificabile.
Anzi, con grande probabilità, è sbagliato.
Lo dimostrano i dati più recenti della ricerca genetica, embriologica e biomolecolare.
E lo dimostra l’esame stringente della logica interna della teoria darwiniana.
Sulla scia di Stephen J.
Gould e Richard Lewontin, i primi evoluzionisti a mettere in seria discussione il principio di selezione naturale, Piattelli e Fodor processano Darwin e i suoi seguaci più ortodossi.
Oggi, sostengono, possiamo affermare con certezza che i viventi evolvono.
Quali siano però i meccanismi che innescano il cambiamento è questione controversa e non ancora del tutto chiara.
Atei, materialisti, non sospetti di derive creazioniste, i due autori credono che non esistano nella scienza discussioni “inopportune”.
Al contrario, proprio nel nome della scienza occorre discutere con chiarezza e onestà i presupposti, i riscontri e le aporie di tutte le teorie scientifiche.
Darwin e il darwinismo sono stati a lungo ritenuti fondamentali per comprendere la natura del vivente, ma non sono un feticcio che non possa essere messo sotto osservazione critica.

II Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Preghiere e racconti  Tre angeli assistono al battesimo di Cristo mentre alle loro spalle l’uomo nuovo, il battezzando, si staglia seminudo sul fondo dei coloratissimi vestiti degli uomini vecchi.
La composizione è monumentale.
Pura è l’aria, pura è l’acqua e pura è la terra.
Gli uomini e il mondo non sono intaccati dall’ombra/peccato, perché la stessa ombra è col ore intriso di luce, delicato come una carezza.
Il paesaggio è quello aretino.
Eppure sa di paradiso.
Il segreto pittorico di questo risultato è nella combinazione unica di realtà e astrazione, di vita e contemplazione, ottenuta mediante la prospettiva, la forma, il colore e soprattutto la luce che tutto investe compenetrandolo.
Non si muove niente, perché tutto sa di sospeso.
Sospeso è il braccio di Giovanni Battista, sospeso è il gesto del battezzando che li sta dietro.
Non è per incertezza o fatica, ma per lo stupore che rende impercettibile anche il respiro: l’uomo è investito da una tale dignità che basta il suo «essersi» per riempire di dignità regale il suo corpo, la usa posa e il suo sguardo.
Il paesaggio stesso si umanizza e partecipa dell’eterna giovinezza dell’uomo.
Di quale uomo? Di quello che sta al centro, dell’uomo-Dio.
Il grande Giotto aveva dato figura al Dio-uomo; ora il Quattrocento rovescia il rapporto: è così umano questo Gesù che solo Dio poteva essere in Lui.
  Questo uomo ha la dignità del re.
Occupa il centro del mondo.
Accanto a lui il terribile e selvatico Giovanni Battista si è trasformato in un dignitario di corte.
Aveva tuonato contro Gerusalemme, il tempio, le menzogne, i furbi; aveva invocato la scure e il fuoco per distruggere il male.
Invitava a preparare la strada al re che sarebbe arrivato.
Ora un volto, uno dei mille nella folla alle acque del Giordano, lo ha fulminato.
Che cosa ha visto in esso? Ci facciamo aiutare da Piero della Francesca.
Il pittore non è evangelista, ma è spontaneo che la Parola susciti negli occhi la voglia di vedere.
Con tutti i limiti, ogni uomo e ogni epoca hanno diritto a un volto-Vangelo.
E l’occasione più alta per cogliere il volto-Vangelo di Gesù è l’esperienza che il Nazareno ha fatto al Giordano.
Forse è anche la più difficile da «immaginare».
Ma Piero della Francesca è grande.
«Mentre pregava…», dice il Vangelo.
E Gesù, nel quadro, sta pregando.
«…
il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 21-22).
Nel quadro non si vedono i cieli aprirsi.
È evidente che si tratta di un’esperienza spirituale, che avviene sulla punta più profonda dell’essere.
La colomba è attentissima a non battere le ali: essa svolge il suo compito di tramite simbolico; il fremito vero sta salendo come linfa da dentro: tutto il Nazareno ne è invaso.
L’umile falegname alla ricerca della sua vocazione, mentre prega il Padre, fa l’esperienza di essere figlio.
Presto schizzerà via di lì a dire al mondo che il Regno è arrivato, che Dio abita questo mondo, questa carne, questa avventura.
Sì, perché lui è il Figlio, è Dio.
Non lo è diventato in quel momento, ma è in quel momento che la verità sta attraversando i suoi sensi, interiori ed esteriori.
La verità è sulla sua pelle.
Nel Cristo splende la luce della coscienza filiale.
L’infinita dolcezza, l’onnipotente tenerezza, la pazza voglia del Padre di far vivere, ora è anche nella sua psicologia, nel suo modo di guardare gli uomini, la donna che impasta, il papa che accende la lanterna alla sera…
Tutti quelli che incontrerà, se lo vorranno, vedranno nei suoi occhi il Regno di Dio.
«Non temete più niente – dirà a tutti – Dio si è fatto prossimo all’uomo.
È Vangelo, è lieta notizia.
Non c’è carne umana che non sia anche avventura divina.
L’ho visto nei cieli aperti».
Giovanni è il primo ad accorgersi.
Glielo ha letto in faccia.
E ora compie su di Lui un gesto particolare che sa di incoronazione.
La lieta notizia ora si fa luce del mondo.
Tutto nel quadro diventa terso, puro e sacro.
Tutto è evidente alla luce di un tempo senza tempo, in uno spazio che sa di trasfigurazione.
«Mentre pregava…»: forse è bello immaginarlo così Gesù, quando, stanco e in preda alla delusione («Vanno capiti, poveretti: è una notizia troppo grande quella del Regno.
Come arrabbiarmi se fanno fatica a credermi?»), si rifugiava nella preghiera.
È bello immaginarlo che pregava così, come Piero della Francesca l’ha figurato in questo quadro.
        Ancora e sempre sul monte di luce                                      Ancora e sempre sul monte di luce                                    Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
  Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
  In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
  Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
  Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(David Maria Turoldo).
  Uomo fra gli uomini   Gesù, piccolo come uno di noi, vulnerabile e nudo, a metà fra nascita e morte, fra silenzio e parola;   un uomo venuto dalla polvere, tessuto di fuoco, di vento e d’acqua, fra un ventre di donna e quello della terra; un figlio d’uomo, per pochi istanti in piedi, ritto fra i sassi e le stelle;   che uomo che va per la sua strada fra una locanda chiusa e quella di Emmaus;   un uomo fra ieri e domani, con la fatica addosso, con lacrime di gioia negli occhi, e talvolta un singhiozzo che gli traversa la gola – e per piangere se ne va in disparte;   soltanto un uomo, che ha paura di morire come tutti, e lo dice, ed è morto infatti, abbandonato da tutti, abbandonato dal suo Dio, lasciato a se stesso;   un uomo senz’armi né armatura, indifeso come il vento, parola offerta, seme nascosto, sale della terra, fiamma sul monte piegata dalla tempesta e mai spenta, fonte viva mille volte calpestata, ancora chiara e fresca, sempre pronta per la nostra sete, vino pronto a essere servito, pane spezzato pronto sulla tavola;   un uomo, carne e sangue in mano ai fratelli, sotto l’ala dello Spirito, in mano a Dio: uomo fra gli uomini, nella sua solitudine dove l’amore improvvisamente si accende come il fuoco in un fascio di ginestre, si attacca come la brina ai rami di biancospino;   un uomo immenso, che è nato da Dio, che è tutto l’uomo e che è Dio, che è noi stessi, tutti e ciascuno;   in lui noi siamo e senza di lui non saremmo nulla, o ben poco; in lui noi siamo, coronati di gloria, vestiti di forza, appena di sopra degli angeli e poco meno di Dio;   Gesù, l’uomo Nel quale anche noi possiamo dire: come un prodigio mi hai fatto e prodigiose sono le tue opere, o Dio!   (Didier Rimaud).
          * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
        II DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 49,3.5-6          Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria».
Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza –  e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».
        v «Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (Is 49,3).
     Siamo di fronte ad una affermazione paradossale: Dio manifesta la sua gloria nascondendola in un «servo», la cui opera ha tutte le apparenze del fallimento e comporterà molte sofferenze (cf.
Is 49,4; 50,6).
Dio ha scelto Israele non per la sua potenza, o per i suoi meriti, ma per amore gratuito: «il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8).
     Il «servo del Signore» è stato plasmato da lui fin «dal seno materno» (Is 49,1); Dio gli ha affidato una missione nei confronti di Israele e verso le genti.
Tale missione comporta fatica, sofferenza, morie, ma Dio non lo ha abbandonato come sembra ad uno sguardo superficiale, ma è con lui proprio nel momento della sofferenza, mentre il successo è sì promesso, ma differito ad altro tempo (cf.
Is 52,13-5).
  Seconda lettura: 1Corinzi 1,1-3               Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!        v Paolo si presenta ai cristiani di Corinto come apostolo, chiamato da Dio (1Cor 1,1).
Egli lo sottolinea con forza qui, come in altre lettere (cf.
Rom 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1).
Egli compie la sua missione secondo il volere di Dio e non secondo progetti personali.
«Tutto il merito e la capacità sono di colui che chiama, al chiamato non resta che obbedire»,  dice Giovanni Crisostomo nel suo commento ai primi versetti della lettera ai Corinti, e aggiunge: «siamo stati chiamati perché piacque a Dio, non perché eravamo degni» (cf.
PG 61,13-14).
     Non solo l’apostolo, ma tutti i cristiani sono dei «chiamati», essi, come l’apostolo, «santificati in Cristo Gesù», e chiamati santi devono manifestare nella loro vita la santità seguendo le orme di Gesù, via verso il Padre, pronti anche ad affrontare la croce.
     Paolo augura «grazia e pace».
È l’indirizzo di saluto che l’apostolo ripete, come formula abituale, all’inizio e alla fine delle sue lettere.
Augurare la pace, che nell’orizzonte biblico è un bene grande comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio, è un modo tipico di salutare ebraico che si e mantenuto dai tempi biblici fino ad oggi (cf.
Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 1,17; 20,42,25,6.35; 2Re 5,19; 1Cr 112,19).
Gesù risorto appare ai suoi augurando loro la pace (Lc 24,36; Gv 20,19.26).
     Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, favore strettamente legato alla sua misericordia (cf.
Es 33,19; Sap 3,9).
Dio stesso nell’apparizione a Mosè nell’Esodo si proclama: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6).
I Salmi abbondano di espressioni che inneggiano alla grazia del Signore.
     In Cristo, rivelatore del Padre, Signore Dio ricco di grazia e di misericordia, ci dice Paolo nella lettera ai Romani, abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo sui peccatori (cf.
Rm.
3,21-26).
     La chiamata di Dio in Cristo alla santità e al ministero dentro la comunità è dono di grazia; essa non è una qualità statica, ma accompagna il chiamato e la chiamata nello svolgimento dei loro compiti come Paolo riconosce più volte per se stesso (cf.
1Cor 3,10; 15,10; 12,3; Ef 3,7).
  Vangelo: Giovanni 1,29-34          In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.
Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».  Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui.
Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”.
E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
    Esegesi   «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).
     L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù come colui che toglie, o meglio, che «prende su di sé» il peccato del mondo.
La traduzione «toglie» non rende efficacemente il significato della parola greca arein, che significa letteralmente sollevare, prendere su di sé, mentre la traduzione italiana «togliere» suggerisce l’idea di eliminare.
Gesù è agli inizi della sua missione e non elimina il peccato con l’instaurazione gloriosa del regno di Dio, regno dove il peccato e le sue conseguenze non avranno più nessun potere, ma incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi.
     Egli, dice ancora l’evangelista, è «l’agnello di Dio».
Che cosa significa questa figura? Per cercare di capirla dobbiamo rifarci all’ambiente religioso ebraico contemporaneo a Gesù e alle Scritture ebraiche (Antico Testamento), che l’evangelista e i suoi interlocutori riconoscono come rivelazione di Dio.
     Un ambito di riferimento possibile è il culto sacrificale del tempio di Gerusalemme; in particolare l’evangelista avrebbe pensato all’agnello pasquale a cui allude direttamente nel racconto della morte in croce (cf.
Gv 19,36 in relazione a Es 12,46; Num 9,12; Sal 34,21).
In questa direzione si muovono altri due passi neotestamentari: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7) e «foste liberati…
con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19; cf.
Es 12,4).
     Sempre nell’ambito del culto sacrificale del tempio potrebbe esserci allusione al sacrificio dei due agnelli immolati ogni giorno nel tempio alla «presenza del Signore» uno al mattino e uno al tramonto (cf.
Es 29,38).
Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore fra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto di amore e di offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio «olocausto perenne per tutte le generazioni» (cf.
Es 29,42).
     Alcuni studiosi biblici ritengono che l’espressione «agnello di Dio» sia equivalente a quella di «servo di Dio».
Essi si basano sulla constatazione che il vocabolo greco amnòs, agnello usato da Gv 1,29,36 è lo stesso vocabolo della traduzione dei Settanta di Is 53,7 ripreso in Atti 8,32: «Come pecora fu condotto al macello, e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la bocca».
     Queste diverse interpretazioni non si escludono a vicenda, ma aiutano a penetrare nella ricchezza della figura di Gesù, che l’evangelista ci presenta attraverso le parole del Battista.
Come suggerisce anche la prima lettura, possiamo riferirci ai carmi del servo di Isaia per trovare le radici della figura di Gesù e cercare di capire qualcosa di più del mistero della sua missione e della stessa rivelazione di Dio.
     L’«agnello-servo di Dio» è colui a cui Giovanni rende testimonianza, di fronte al quale egli si tira indietro.
È lui quello a cui si deve guardare, è lui colui che deve essere rivelato ad Israele, perché proprio dentro Israele compirà la sua missione.
     La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù «Figlio di Dio».
Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito.
Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto «lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (1Gv 1,32; cf.
Is 11,2; 61,1).
  Meditazione

Una settimana di armonia tra le religioni

Il mondo è attraversato da conflitti legati alle religioni o interni a esse, che a volte si manifestano solo con parole dure o ingiuriose, ma spesso esplodono in atti di violenza e di sconvolgente estremismo.
Queste tensioni fanno emergere una questione essenziale: i credenti sono pronti a rispettare, e anche ad amare, i seguaci di un’altra fede o li considerano nemici solo perché appartengono a un credo o a una religione diversa dalla loro? Sono «aperti» o «chiusi» verso gli altri? Sono disposti a vivere in armonia con chi non è come loro? In tutte le principali religioni si vanno diffondendo conflitti e, data la enorme importanza della religione nel mondo moderno, ne discendono conseguenze immense per tutti noi, per chi appartiene a una delle grandi fedi come per chi non ne segue nessuna.
C’è naturalmente chi sostiene che la risposta vada cercata nell’ambito della politica, che di certo deve giocare un ruolo fondamentale.
Ma dato che l’estensione di questi scontri è inevitabilmente legata a questioni di natura religiosa, i credenti devono impegnarsi in modo diretto e responsabile.
Inoltre, poiché chi vive la fede con passione non vuole agire in contrasto con essa, le iniziative a favore di un atteggiamento aperto devono avere una dimensione più ampia e profonda, non possono limitarsi a chiedere di comportarsi bene verso gli altri.
Devono richiamarsi ai presupposti spirituali, teologici e scritturali del rispetto per chi segue un diverso cammino religioso o spirituale.
Il 20 ottobre del 2010, anche se la cosa ha ricevuto scarsa attenzione, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una risoluzione che proclama la prima settimana di febbraio di ogni anno World Interfaith Harmony Week.
La risoluzione era stata proposta un mese prima da re Abdullah II di Giordania e rappresenta un caso unico negli annali delle Nazioni Unite, perché nomina esplicitamente Dio (anche se in modo da non escludere i non religiosi) e perché promuove relazioni interreligiose armoniose mettendo in particolare evidenza le basi scritturali e teologiche su cui dovrebbero fondarsi: «L’Assemblea generale delle Nazioni Unite invita tutti gli Stati a diffondere su base volontaria, nel corso di quella settimana, un messaggio di armonia e di apertura tra le religioni nelle chiese, moschee, sinagoghe, templi e altri luoghi di culto del mondo; un messaggio basato sull’amore di Dio e del prossimo o sull’amore del bene e del prossimo, a seconda delle tradizioni o credi religiosi di ciascuno» .
Ovviamente le risoluzioni, per quanto mosse da buone intenzioni, non cambiano il mondo, ma questa incoraggia le persone che credono nell’armonia interreligiosa e nell’accettazione dell’altro a emergere, a sfidare chi fomenta la discordia e la divisione per istrettezza di vedute o ignoranza delle altre religioni.
Essa riconosce il fatto che il messaggio della religione sul comportamento sociale non può più essere affidato solo alle élite religiose o accademiche, dato che ha un ruolo centrale nel determinare il modo in cui si svilupperà il Ventunesimo secolo.
Parlare di «amore di Dio e del prossimo» è importante, perché altrimenti i cristiani, i musulmani e gli ebrei osservanti probabilmente non si sentirebbero coinvolti dalla risoluzione — e cristiani e musulmani da soli costituiscono circa il 55%della popolazione mondiale— perché «non di pane soltanto vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Luca 4, 4 e Matteo 4, 4, e anche Deuteronomio 8, 2-3).
«In verità il ricordo di Dio è quanto ci sia di più grande…» (dal Santo Corano, 29, 45).
È però altrettanto importante parlare di «amore del bene e del prossimo» perché, mentre per i credenti il bene è Dio, l’amore per il bene coinvolge tutti gli uomini di buona volontà.
In questo modo la risoluzione, anche se basata sui due principali comandamenti su cui «si fonda tutta la Legge e i Profeti» (Matteo 22, 40), coinvolge ogni uomo, di ogni religione, fede e credenza, compreso chi non segue alcuna religione.
La World Harmony Interfaith Week ha quindi la straordinaria possibilità di contrastare l’ondata di tensioni religiose nel mondo: (1) coordinando e unendo gli sforzi di tutti i gruppi interconfessionali perché si concentrino su un tema specifico in uno specifico periodo dell’anno, aumentando così lo slancio comune ed eliminando ispersioni; (2) indirizzando e utilizzando la forza collettiva della seconda più grande infrastruttura mondiale (quella dei luoghi di culto — la prima è quella dell’istruzione) allo scopo di promuovere la pace e l’armonia mondiale: inserendo, per così dire, il giusto software nell’hardware religioso del mondo; (3) incoraggiando in permanenza e con regolarità la maggioranza silenziosa dei predicatori a dichiararsi per la pace e l’armonia, fornendo un veicolo già pronto allo scopo e rendendo pubblici questi sforzi.
Cosa può fare ciascuno di noi? Se si è un esponente religioso, un predicatore o un insegnante, basta proporre il tema dell’armonia interreligiosa nel corso della prima settimana di febbraio di ogni anno in sermoni, prediche, scritti, lezioni.
Tutto qui.
Se si vuol rendere ufficialmente noto un evento perché altri possano conoscerlo, si può inserirlo nel sito www.
worldinterfaithharmonyweek.
com.
Sullo stesso sito si possono anche pubblicare sermoni o articoli che potrebbero rappresentare un’utile risorsa per altri.
Se si è «laici» di buona volontà, ci sono molte cose che si possono fare senza grande dispendio di tempo o di denaro; ad esempio organizzare un «pranzo per l’armonia» per i vicini di fedi diverse o semplicemente invitarli a prendere una tazza di tè o di caffè, a fare una chiacchierata, a guardare un film; si può organizzare un bazar multiculturale; fare insieme un lavoro per la comunità, organizzare una ripulita a un quartiere, dar da mangiare ai senzatetto, realizzare un orto collettivo, dipingere un murale interreligioso, leggere o pregare insieme, parlare alle proprie famiglie della necessità della tolleranza e dell’armonia o anche solo salutare una persona di fede diversa o sorridergli.
Eventi significativi sono già stati avviati.
L’amore per il prossimo inizia proprio dai vicini di casa e quindi dalle comunità locali.
Una buona azione per l’armonia interreligiosa, anche se il mondo va in direzione opposta, non è come il voto dato a un candidato che viene sconfitto: conserva il suo valore.
Anzitutto per l’anima che l’ha compiuta e non è poca cosa.
Poi perché creerà una diffusione a catena del bene la cui portata futura non è prevedibile, ma che darà luogo a una spirale positiva sempre più ampia.
Durante la prima settimana di febbraio ricordatevi quindi di Dio e del prossimo o del Bene e del prossimo.
E ricordate la World Harmony Interfaith Week.
di Tony Blair e Principe Gazhi di Giordania in “Corriere della Sera” del 13 gennaio 2011 (traduzione di Maria Sepa)

Hereafter”(L’Aldilà),

Hereafter: dopo che c’è??? Il crudo film di C.
Eastwood, dal fascinoso titolo “Hereafter”( = L’Aldilà),  ha rimesso in moto il cervello di molte persone che- dopo averlo visto- si sono chieste davvero: ma dopo la morte che c’é?, cosa ci aspetta,  è vero che c’è un “qualcosa”, oppure tutto finisce di noi sotto un metro di terra o in un forno crematorio??? Attraverso i secoli, l’uomo ha ricercato al di là di se stesso, al di là del benessere materiale – qualcosa che chiamiamo verità o Dio oppure realtà, uno stato eterno che non può essere turbato dagli avvenimenti, dal pensiero o dalla corruzione umana.
L’essere si e’ sempre posto la domanda: che cosa e’ tutto quanto? La vita ha davvero un significato? Egli ne vede l’enorme confusione, le brutalità, le rivolte, le guerre, le eterne fratture di religione, le  ideologie, le nazionalità, gli etnicismi, e con un senso di profonda e costante frustrazione chiede cosa bisogna fare, cos’é questa cosa che chiamiamo vita, e se c’e’ alcunché aldilà di essa che meriti che brighiamo per raggiungerla..
E poiché non e’ riuscito a trovare quello che ha sempre cercato, questa cosa senza nome a cui vengono dati migliaia di nomi, ha coltivato la fede – fede in un saggio o in un ideale – In questa perenne battaglia che chiamiamo vivere, tentiamo di fissare un codice di comportamento conforme alla società in cui siamo cresciuti, qualunque sia la sua connotazione politica e religiosa( buddhista, cristiana, indù, musulmana, atea…).
E così continuiamo a vivere, rifiutandoci- quando pensiamo- di vivere come i pesci in un acquario.
Io non voglio essere un pesce rosso.
Chi è il regista Il regista dagli occhi di ghiaccio, partito da semplice cow boy con i Film di Leone, oggi ad  ottant’anni, dopo aver girato  titoli straordinari come Million Dollar Baby, Gran Torino e Changeling, invece di riposare sugli allori continua ad accettare sfide.
E si cimenta per la prima volta con il thriller sovrannaturale.
Hereafter che racconta la storia incrociata di tre personaggi: un uomo che può comunicare con i morti ma che vuole sfuggire a questo suo “dono”, una giornalista scampata ad uno tsunami e un bambino che ha assistito alla morte del fratello gemello.
Il film ha la sceneggiatura di  Peter Morgan di The Queen ed è interpretato da Matt Damon, Bryce Dallas Howard e Cécile de France e musicato, come d’abitudine, dallo stesso regista.
La trama.
Marie  è una nota giornalista televisiva francese ed è una sopravvissuta dello tsunami.
Marcus è un ragazzino di Londra che vede morire il fratello gemello.
George è di San Francisco e ha la capacità di entrare in contatto con i morti.
Per la costruzione, “Hereafter” sembra essere un film di Iñárritu(terribilmente tragico), però  lo stile e la sensibilità sono indubbiamente quelli di Eastwood.
La prima parte del film, che inizia con la sconvolgente sequenza dello tsunami ricostruita al computer, è volutamente lenta e piuttosto introduttiva, ma il tema scelto impone una certa delicatezza ed una analisi approfondita.
Il comune denominatore delle tre storie apparentemente slegate è, infatti, la morte.
Quella toccata da Marie che, per pochi secondi, muore, quella sofferta da Marcus che perde una parte di sé insieme al fratello e quella con cui, da tutta la vita, ha a che fare George.
Il suo non è un dono, ma una maledizione.
Il film, rigorosamente sceneggiato da Peter Morgan (“Frost/Nixon- il duello”, “The Queen”, “L’ultimo re di Scozia”), ha tra i suoi pregi quello di presentare una tesi (c’è qualcosa dopo la morte), supportarla con prove (testimonianze di chi ha avuto un’esperienza di quasi morte, sensitivi che parlano con i morti) e affrontare le eventuali confutazioni (i ciarlatani), ognuno di noi, dopo, avrà modo di pensare a ciò che ha visto e  trarre le proprie conclusioni.
 “Hereafter” non afferma, infatti, che la vita dopo la morte c’è, vuole solo proporre un’eventualità e per chi già ci crede non è altro che una conferma, ma per gli scettici rappresenta indubbiamente qualcosa su cui riflettere.
Ancora una volta Eastwood si dimostra un regista delicato, poetico, misurato.
La direzione degli attori è perfetta e il film è ottimo e da vedere, assolutamente( Cfr.: www.savonaeponente.com ) Qualche pensiero “curioso” Durante la storia teologica dell’umanità, i capi religiosi ci hanno assicurato che se avessimo compiuto certi riti, ripetuto delle preghiere o mantra, se ci fossimo adattati a certi schemi, avessimo soffocato i desideri, controllato i pensieri, sublimato le passioni, frenato l’avidità e avessimo evitato di abbandonarci al sesso, avremmo, dopo una sufficiente tortura della mente e del corpo, trovato qualcosa che fosse al di là di questa vita banale.
Ed e’ quanto milioni di persone religiose hanno fatto nei secoli, sia da soli, andandosene in un deserto o sulle montagne o in una caverna o vagando di villaggio in villaggio con una ciotola da mendicante, oppure in gruppo, riunendosi in monasteri, costringendo le loro menti a conformarsi ad un modello stabilito.
Ma una mente torturata, una mente agitata, una mente che vuole sfuggire ad ogni inquietudine, che ha rifiutato il mondo esteriore ed e’ stata resa ottusa dalla disciplina e dal conformismo – una mente del genere, per quanto a lungo possa cercare, nelle sue scoperte sarà sempre condizionata dalla propria deformazione.
Alla domanda se esiste o meno un Dio, una verità o una realtà  o comunque vogliate chiamarla, non può mai essere data una risposta dai libri, dai preti, dai filosofi o dai saggi.
Nessuno e niente può dare una risposta alla domanda tranne voi stessi( tratto da J.
Krishnamurti, Liberta’ dal conosciuto, Ubaldini).
Ma debbo – per onestà professionale- raccontare del bellissimo incontro che ebbi anni fa con J.
Eccles, Nobel per la medicina 1963, K.
Popper, il grandissimo filosofo che tutti hanno amato e il Prof.
Piergiorgio Strata( attualmente dirige il Compartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino) che alla Giorgio Cini di Venezia tennero un convegno sulle “Molecole e la mente”( così allora, intitolai il mio pezzo per Dimensioni Nuove), che alle mie domande si “accapigliarono” tantissimo tra di loro, tanto che l’allora giovane Prof.
Strata rimproverò il famoso Popper che amava rispondere a me e non esporre all’assemblea dei dotti le sue idee! Ma i dotti non avevano la mia chioma rossa! Amo concludere questo mio piccolo contributo a continuare a porci domande sull’Aldilà, come ha fatto così bene C.
Eastwood, con le parole di J.
Eccles e che cioè  “che l’evoluzione biologica trascende se stessa fornendo il supporto materiale, il cervello umano, a individui autocoscienti la cui vera natura è di cercare le speranze e di indagare sul significato della ricerca dell’amore, della verità e della bellezza”.(Cfr.: John Eccles “Evoluzione del cervello e creazione dell’io”) Di: Maria de falco Marotta &Team

Dizionario di Ecclesiologia

G.
Calabrese, P.Goyret, O.F.Piazza,  DIZIONARIO DI ECCLESIOLOGIA, edd.
Città Nuova, Roma,pp.
1.568, € 140,00.
Se siete “laici”, non accantonate subito come non a voi pertinente questa segnalazione, convinti al massimo che il termine “Chiesa” valga solo per stare in guardia contro ogni tentazione teocratica, rimodulando e ribadendo la formula di Cavour della «Libera Chiesa in libero Stato» o, più aspramente temendo col Pasolini della Religione del mio tempo che «la Chiesa sia lo spietato cuore dello Stato».
No, la categoria sottesa a questo vocabolo di matrice greca, ekklesía, è quella della “convocazione”, certo di taglio sacrale e trascendente, ma che rimanda anche a un incontro sociale.
Risaliamo, così, alle radici stesse dell’antropologia che non si accontenta di aggregazioni genetiche (famiglia, clan), ma segnala l’anelito a congregazioni di altra impronta, più civile e culturale (popolo, nazione), o corporativa (associazioni, ordini) o infine spirituale e simbolica.
Ecco, allora, entrare in scena la Chiesa con le sue sotto-categorie (pensiamo alle comunità monastiche).
Ma non si creda che l’idea sia appannaggio del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo.
L’umma musulmana è la comunità “materna” (tale è l’etimologia della parola) che raccoglie in unità i fedeli di quella religione e che tende spesso a sovrapporsi alla stessa comunità civile in una sovrimpressione identitaria giuridico-politica.
Persino il buddhismo, a prima vista restio ad accogliere criteri di mutua appartenenza (al massimo c’è la sangha monastica rigidamente istituzionalizzata), ha prodotto forme di comunità nazionale religiosa: come non pensare al Tibet che ha – a partire dal Seicento – nel Dalai Lama l’unificazione dell’identità sacra, civica ed etnica? Il discorso è ancor più evidente per l’ebraismo che ha già nelle Scritture Sacre l’emergere della qahal, l’ekklesía appunto, una “convocazione” divina dai forti connotati istituzionali civili.
È, però, indubbio che la categoria “ecclesiale” sia capitale nel cristianesimo e sia uno dei nodi più intricati dell’odierno dialogo ecumenico, come lo fu in passato nello scontro, non di rado armato, tra le varie Chiese col relativo corteo di scismi, di scomuniche e persino di guerre di religione.
Tempo fa, proprio su queste pagine, abbiamo spiegato – sulla scorta di un saggio di Giacomo Canobbio (Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, Queriniana) – il senso autentico del celebre motto “inventato” da Origene e Cipriano, Extra Ecclesiam nulla salus, spesso ancor oggi imbracciato come un kalashnikov anti-ecumenico e integralistico.
Si capisce, allora, perché l’apparire di un dizionario di ecclesiologia debba essere segnalato anche ai lettori più diversi e non ai destinatari a prima vista specifici come gli “ecclesiastici” o le comunità “ecdesiali”.
Certo, quello che ora presentiamo è un manuale che lascia in sordina la prospettiva antropologica (ad esempio, la voce “Appartenenza” è esclusivamente teologica, così come le “società” qui evocate sono soltanto le “Società di vita apostolica”).
Tuttavia, nelle 160 voci che compongono questo vasto arazzo tematico ci si imbatte nella trattazione della “Democrazia”, della “Promozione umana”, dei “Rapporti Chiesa-Stato”, di “Arte e Chiesa”, ma si lascia pure vasto campo alle mille iridescenze che la categoria “Chiesa” ha assunto nella storia al punto tale da essere applicata a soggetti disparati con reciproco dispiacere degli uni e degli altri.
Significativo al riguardo sarebbe rincorrere la sequenza rubricata sotto “Ecclesiologia”: ci sono gli anglicani, i congregazionalisti, i luterani, i bizantini medievali, l’occidente medievale, gli ortodossi, i cattolici conciliari e post-conciliari, i riformati, tanto per seguire l’ordine alfabetico.
Ma all’interno s’incunea l’ecclesiologia degli Atti degli apostoli, quella giovannea, delle Lettere pastorali neotestamentarie, la paolina, quella della patristica occidentale e orientale, della comunità cristiana primitiva, l’ecclesiologia sinottica e veterotestamentaria, anche qui per stare alla sequenza alfabetica, fermo restando poi che una decina di voci sono riservate alle specifiche Chiese in cui si è frammentata la cristianità.
L’oscillazione ondeggia, quindi, tra voci che isolano e approfondiscono i fondamenti teologici, come «Concilio, Corpo di Cristo, Dodici, Episcopato, Eucaristia, Evangelizzazione, Infallibilità, Liturgia, Magistero, Ministeri, Missione, Papato, Parola, Popolo di Dio, Presbiterato, Sacramentalità, Scisma, Spirito Santo, Tradizione» e così via, e voci che toccano questioni storiche o pastorali come l’architettura ecclesiale, il Gallicanesimo, le sette e i nuovi movimenti religiosi, la teologia della liberazione, la Scuola di Tubinga e di Roma o lemmi enigmatici ai profani come Subsistit in, sempre per fare qualche esempio.
L’oscillazione si ripete – come è ovvio in simili prodotti affidati a una legione di collaboratori – tra impostazioni più sincroniche e approcci diacronici, tra prospettiva tematica ed evoluzione storico-tematica.
Il Concilio Vaticano II, con la sua costituzione Lumen gentium, ha fatto sì che l’ecclesiologia tornasse al centro dell’interrogazione teologica, ma anche dell’impegno pastorale nel confronto col mondo.
Lo ha fatto ribadendo che i suoi confini sono meno “ecclesiastici” di quanto si è soliti ipotizzare anche da parte dei non credenti.
Ha riproposto con forza la necessità dell’incontro ecumenico per impedire integralismi e autoreferenzialità.
Ha rettificato gli incroci con la società e la politica (Martin Luther King in quegli stessi anni nella sua Forza d’amare affermava che «la Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, è la coscienza dello Stato»).
Mi sembra, comunque, significativo concludere con un passo dell’allora cardinale Ratzinger nel suo saggio sulla Chiesa, una comunità sempre in cammino (San Paolo 1991) passo che è posto in apertura a questo dizionario e che noi riproponiamo ai lettori credenti e “laici”.
«La Chiesa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per dare avvio a una vita comunitaria.
La Chiesa non è nemmeno la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l’eucaristia.
La Chiesa è anche di più che papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale.
Di essa fanno parte tutti i santi, a partire da Abele, da Abramo e da tutti i testimoni della speranza…
Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi, il cui cuore si protende, sperando e amando, verso Cristo».
di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 9 gennaio 2011

Maria SS. Madre di Dio anno A

Preghiere e racconti   IL GREMBO DELLA MADRE  «II Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,25-26).
«Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano.
Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 18-19).
 L’anno nuovo ha fatto irruzione nella nostra vita.
  L’augurio  «Buon anno!» diciamo a tutti e stringiamo mille mani per esprimere ai nostri compagni di viaggio, imbarcati con noi sulla nave della vita, l’auspicio di tanta felicità.
Non c’è nulla di più bello e di più sacro di questo intreccio di mani, fatto a Capodanno: dovrebbe essere il simbolo di una volontà di amore, di apertura, di dialogo, di impegno a costruire un fitto reticolato di solidarietà tra tutti gli uomini, nella giustizia e nella fratellanza.
Se davvero ognuno di noi, per rendere il mondo più umano, mettesse nel corso di tutto l’anno lo stesso puntiglio con cui in queste ore dona e riceve gli auguri, la causa della pace nel mondo sarebbe già mezzo risolta.
Purtroppo, però, in questo scambio di felicitazioni prevale più lo scongiuro che il senso della speranza cristiana.
Sembra quasi che si voglia esorcizzare l’avvenire con formule scaramantiche, gravide di paure più che di promesse.
Diciamo «auguri», ma ci trema la voce.
Stringiamo la mano, ma il braccio è malfermo.
È che siamo sopraffatti dallo scoraggiamento, rassegnati di fronte agli insuccessi, appesantiti dalla barbarie presente nel mondo.
Nonostante tutto, però, di fronte a un anno che nasce, a noi credenti è severamente proibito essere pessimisti.
Qualche anno fa era in cartellone, presso i maggiori teatri d’Italia, uno spettacolo dal titolo «Chi vuol esser lieto sia, di doman c’è gran paura».
È un’espressione che non possiamo assolutamente condividere, perché se c’è qualcosa che il domani contiene, questa ha un nome: la speranza di oggi.
Non lasciamoci, perciò, sopraffare dalla ineluttabilità del male.
Poniamo gesti significativi di riconciliazione.
Svegliamo l’aurora.
Proclamiamo sempre più con le opere e sempre meno con le chiacchiere che Gesù Cristo è vivo e cammina con noi.
  La speranza  Nostra speranza è, oggi, la pace.
Da quando Paolo VI l’ha scelto per la celebrazione della Giornata mondiale della pace, l’augurio di riconciliazione e di solidarietà scavalca la sfera dei rapporti strettamente personali e raggiunge gli estremi confini della terra.
È molto significativo che l’anno nuovo cominci proprio con questo impegno, sottolineato ogni volta da un particolare tema di riflessione proposto dal Papa.
Sembra quasi che si voglia mettere sotto un unico grande manifesto programmatico le opere e i giorni di questo nuovo arco di storia.
Per noi credenti, comunque, la giornata della pace non può essere un rito celebrativo.
Se non ci scomoda, se non ci fa stare sulle spine, se non ci induce a salire sulle barricate, se non ci sollecita a scelte che costano, se non ci procura il sorriso o il fastidio di qualche benpensante, sarà solo l’occasione per una risciacquata di buone emozioni.
Gravi situazioni di non pace sono presenti nel mondo.
Le logiche di guerra imperversano ancora, anche se dai campi di battaglia hanno traslocato sui tavoli di un’economia che penalizza i poveri.
La corsa alle armi, nonostante i segnali positivi lanciati da tanta gente di buona volontà, non accenna a fermarsi.
La militarizzazione del territorio è ancora costume consolidato.
La connessione tra malavita internazionale, commercio di armi e commercio di droga si fa sempre più oscena.
La   violazione dei diritti umani, espressa a volte su popoli interi, continua a turbarci.
Il degrado ambientale, oltre a preoccupare per il futuro gravido di incubi, ci fa cogliere in positivo i nodi che legano pace, giustizia e salvaguardia del creato.
Così ogni operazione di guerra e ogni violazione della giustizia si tramutano in allucinanti serbatoi di paure cosmiche.
Di fronte a questo quadro, il lamento deve prevalere sulla danza? No, nel modo più assoluto.
Bisogna però prendere posizione.
La giornata della pace deve provocare all’esodo, alla vera transumanza (trans humus = passaggio da una terra all’altra), richiesta alla nostra coscienza cristiana.
Perciò lo studio sui temi della nonviolenza attiva e l’assunzione della difesa popolare nonviolenta come modulo che assicura la convivenza pacifica tra i popoli, devono diventare proposito concreto da esprimere tutto l’anno.
  La benedizione  Due segni fanno prevalere la speranza sulla tristezza dei presagi.
II primo è il volto del Padre.
Il Signore ci aiuterà.
Imploriamolo con la preghiera.
Se egli farà «brillare il suo volto su di noi» (Nm 6, 25), non avremo bisogno di scomodare gli oroscopi per pronosticare un futuro gonfio di promesse.
Tutto questo significa che dobbiamo camminare alla luce del suo volto e, riscoperta la tenerezza della sua paternità, impegnarci una buona volta nell’osservanza della sua legge.
E il secondo è il grembo della Madre.
Tutti i nostri buoni propositi prenderanno carne e sangue se saranno gestiti nel grembo di Maria.
È il luogo teologico fondamentale, dove i grandi progetti di salvezza si fanno evento.
II figlio della pace ha trovato dimora in quel grembo duemila anni fa.
Oggi è solo in quel grembo che avrà concepimento e gestazione la pace dei figli.
Per cui la festa di Maria madre di Dio, mentre ricorda le altezze di gloria a cui la creatura umana è stata chiamata, ci esorta anche a sentirci così teneramente figli di lei, da riscoprire in quell’unico grembo le ragioni ultime del nostro impegno di fratellanza e di pace.
 (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 85-90).
  Sei divenuta dimora dell’immensa Maestà Fratelli carissimi, ammirando in silenzio, nel nostro cuore, la grandezza di Maria, eleviamo un inno di lode e diciamo: «Vergine Maria, veramente beata, riconosci la tua gloria, quella gloria che l’angelo ti ha annunciata, che Giovanni ha profetizzato per bocca di Elisabetta non ancora madre, dal profondo del suo seno: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno” (Lc 1,42).
Tu hai meritato di accogliere quella venuta promessa al mondo interi da secoli.
Sei divenuta dimora dell’immensa Maestà.
Tu sola, per un dono particolare, hai posseduto per nove mesi la speranza del mondo, l’ornamento dei secoli, la comune gioia di tutti.
Colui che ha dato principio a ogni cosa ha preso inizio da te e ha ricevuto dal tuo corpo il sangue da versare per la vita del mondo.
La vita di tutti i secoli è nata dal tuo unico figlio, hai meritato di chiamare figlio tuo il padre degli angeli.
Ecco, sei stata esaltata sopra i cori degli angeli, accanto al Figlio e re, madre beata, regina che regnerai in eterno.
E colui al quale hai offerto ospitalità nel tuo seno, ti ha donato il regno dei cieli».
(RABANO MAURO, Omelia sull’Annunciazione di santa Maria, PL110,55C-D).      Proemio Maria ci appare dalle profondità dell’infinito in una mandorla stellata, circondata da quattro angeli che la onorano gioiosi.
Lei è là, nella gloria del cielo: ci aspetta a braccia aperte e intercede per noi presso Dio.
 Contempliamo Maria attraverso le Icone che rivelano i misteri della sua vita.
Contempliamo Maria aprendo a Lei il cuore.
Contempliamo Maria nella sua bellona.
Contempliamo Maria ascoltandola e imparando da Lei.
Contempliamo Maria esprimendo a Lei i nostri bisogni immensi.
Contempliamo la Donna, la Vergine, colei che non teme di perdere e di perdersi.
Contempliamo la Madre genitrice del Verbo, lasciando che generi in noi il Cristo vivente.
Contempliamo Maria orante e intercediamo per il mondo intero.
Contempliamo Maria mettendoci nelle sue mani con la nostra piccolezza.
Contempliamo Maria per se stessa, trascorrendo del tempo con Lei in silenzio gioioso in stupore estasiato, cullati dal suo amore di madre infinita tenerezza per ogni creatura.
Maria! Desiderata pace sconfinato bene…
  BUON ANNO A TE  Buon anno a te, che stai inchiodato su un letto e non riesci a smettere di maledire la vita che ti ha riservato tale trattamento, il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, che vedi il sole a scacchi, che pensi a tutte le cose che potrai fare quando sulle ali della libertà volerai verso mondi sereni e felici: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, che ti risvegli sulla panchina del parco, magari più infreddolito del solito, bestemmiando perché un altro anno comincia ma per te nulla è cambiato: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, anziano, lasciato triste e solitario in uno stanzone maleodorante, in mezzo a tanti tristi simili, a te che sconti il peso della tua vecchiaia solo, senza amici: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, mamma in difficoltà, famiglia separata, giovane che cerchi la felicità nella droga, bambino abbandonato, donna sfruttata da clienti senza amore, fratello immigrato, il Signore rivolga su di voi il suo volto e vi dia pace.
Buon anno anche a noi tutti, discepoli del Signore Gesù: il Signore rivolga su di noi il suo volto e non ci dia pace fino a che non capiremo che noi, oggi, siamo la sua mano misericordiosa che si prende cura delle membra ferite della nostra umanità.
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).   MARIA SS.
MADRE
DI DIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Numeri 6,22-27        Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
    v La prima lettura, ripresa come al solito dall’A.T., contiene la solenne benedizione che Aronne e i suoi figli dovevano dare al popolo al termine delle funzioni liturgiche o dei sacrifici.
Nel libro del Levitico 9.22 si parla della benedizione del solo Aronne al popolo, al termine dei sacrifici che caratterizzavano l’investitura del sommo sacerdote.
Secondo la tradizione rabbinica posteriore, la benedizione si impartiva ogni giorno, dopo il sacrificio della sera.         E il contenuto della benedizione è semplice e solenne nello stesso tempo.
In una triplice ondata, la benedizione si va allargando da 3 a 5, a 7 parole, nell’originale ebraico.
Anche il contenuto della benedizione si va allargando e approfondendo: dalla semplice benedizione perché il Signore “ti protegga”, si passa allo splendore luminoso e consolante del “volto” di Dio, fino alla invocazione del dono ultimo della “pace” (7,24-26).
             E noi sappiamo che la “pace” (in ebraico shalóm) è per la Bibbia non un dono soltanto, ma un po’ la “somma”, la “pienezza” di tutti i beni.
Proprio per questo, oggi soprattutto, vogliamo pregare la Santa Madre di Dio perché illumini la mente di tutti gli uomini nella ricerca della vera “pace”.
Ne abbiamo soprattutto bisogno in questo tormentato periodo della storia del mondo.
Che davvero «il Signore rivolga su di noi il suo volto e ci conceda pace» (6,27), come abbiamo appena ascoltato!   Seconda lettura: Galati 4,4-7             Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
    v La seconda lettura è ripresa da un breve passo della Lettera ai Galati in cui Paolo ricorda la “madre” di Gesù, direi quasi di passaggio: talmente egli e preso dalla figura di Gesù, che il resto gli appare come secondano!      Il testo è carico di teologia e meriterebbe di essere approfondito: noi qui diremo solo quello che in qualche maniera ci rimanda alla solennità di oggi.
Ecco il testo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mando il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge […] perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4-5).
     L’espressione “nato da donna” vuole sottolineare la realtà dell’umanizzazione di Cristo, ed è generica: non c’è, a nostro parere, un qualche velato accenno alla concezione verginale di Cristo, come qualcuno ha voluto pensare Paolo è tutto preso dall’evento “Cristo”, che è venuto in mezzo a noi per farci dono della “filiazione” adottiva: «perché ricevessimo l’adozione a figli» (4-5).
     E questa grande “rivelazione” della nostra adozione a “figli” di Dio, “in Cristo” è qualcosa che viene interiormente testimoniato dalla presenza in noi dello “Spirito Santo”, che ci apre il cuore alla fede e all’amore.
Senza il “tocco” dello Spirito non avvertiremmo che Dio ci è “padre” e, in Cristo, ci ha come introdotti nella sua famiglia! Sembra quasi che qui Paolo stesso si commuova davanti alle sue stesse affermazioni: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!» (4,6).
     L’appellativo “Abbà” è una formula confidenziale, in lingua aramaica antica, tipica del linguaggio familiare dei bambini, e che Gesù stesso ha adoperato per rivolgersi al Padre nella preghiera del Getsemani: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!» (Mc 14,36).
     Mediante lo Spirito che inabita in noi, e che il Risorto ci ha inviato, ci rivolgiamo anche noi al Padre perché ascolti la nostra preghiera e ci guardi come suoi “figli”: «Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (4,7).
L’ultima espressione ci trasferisce addirittura fuori del tempo, proiettandoci nell’eternità che ci attende: «Se figlio, sei anche erede per grazia di Dio».
C’è solo da stupirsi e da gioire!   Vangelo: Luca 2,16-21          In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.  Tutti que

Omelie

Quella che segue è la prefazione al volume – edito in Italia da Libri Scheiwiller e in vendita da poche settimane – che raccoglie le omelie di Benedetto XVI nell’anno liturgico appena trascorso, l’anno C del lezionario romano.
Terzo della serie, il volume accompagna ogni omelia di papa Joseph Ratzinger con le letture bibliche della messa del giorno, come pure con i salmi e le antifone dei vespri da lui celebrati.
Nell’esortazione apostolica postsinodale “Verbum Domini” sulla Parola di Dio nella vita della Chiesa, pubblicata lo scorso 30 settembre, un paragrafo, il 59, è dedicato proprio alla cura dell’omelia, che in effetti è il principale, se non l’unico, atto di comunicazione della buona novella cristiana ascoltato da centinaia di milioni di battezzati ogni domenica nel mondo.
Nell’arte dell’omelia, indubitabilmente, Benedetto XVI è uno straordinario modello.
__________ “COME PAPA LEONE MAGNO, ANCHE PAPA BENEDETTO PASSERÀ ALLA STORIA PER LE SUE OMELIE” di Sandro Magister Sono tre le annualità che scandiscono il messale romano domenicale e festivo, con al centro di ciascuna i Vangeli di Matteo, di Marco e di Luca.
Nel pubblicare anno dopo anno le omelie di Benedetto XVI, Libri Scheiwiller si è attenuto a questa sequenza.
Con questo terzo volume della serie si chiude il triennio.
Esso raccoglie le omelie papali dell’anno liturgico lucano, che è iniziato con la prima domenica di Avvento del 2009 e si è disteso sull’arco del 2010.
Le omelie della messa e dei vespri sono un asse portante di questo pontificato, ancora non da tutti capito.
Joseph Ratzinger le scrive in buona parte di suo pugno, alcune le pronuncia a braccio con l’immediatezza della lingua parlata.
Ma sempre le pensa e prepara con estrema cura, perché per lui hanno una valenza unica, distinta da tutte le altre sue parole scritte o pronunciate.
Le omelie, infatti, sono parte dell’azione liturgica, anzi, sono esse stesse liturgia, quella “liturgia cosmica” che egli ha definito “meta ultima” della  sua missione apostolica, “quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, adorazione, e allora sarà sano e salvo”.
C’è molto Agostino in questa visione di Ratzinger, c’è la città di Dio in cielo e sulla terra, ci sono il tempo e l’eterno.
Nella messa il papa vede “l’immagine e l’ombra delle realtà celesti” (Ebrei 8, 5).
Le sue omelie hanno il compito di sollevare il velo.
E in effetti, a rileggerle, esse schiudono una visione del mondo e della storia colma di nuovi significati, che sono poi il cuore della buona novella cristiana, perché “se Gesù è presente, non esiste più alcun tempo privo di senso e vuoto”.
L’Avvento è “presenza”, “arrivo”, “venuta”, ha detto il papa nell’omelia inaugurale di questo anno liturgico.
“Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli”, e quindi il tempo diventa “kairós”, occasione unica, favorevole, di salvezza eterna, e la creazione intera cambia volto “se dietro di essa c’è lui e non la nebbia di un’incerta origine e di un incerto futuro”.
Ma il tempo della “civitas Dei” non è informe.
Ha un ritmo che gli è dato dal mistero cristiano che lo riempie.
Ogni messa, ogni omelia cade in un tempo preciso, la cui scansione fondamentale procede di domenica in domenica.
Il “giorno del Signore” ha come protagonista colui che è risorto il primo giorno dopo il sabato, divenuto figura dell'”octava dies” della vita eterna.
La presenza del Risorto nel pane e nel vino consacrati è reale, realissima, predica incessantemente il papa.
Per vederlo e incontrarlo basta che gli occhi della fede si aprano, come ai discepoli di Emmaus, che riconobbero Gesù proprio nel sacramento dell’eucaristia, “allo spezzare del pane”.
“L’anno liturgico è un grande cammino di fede”, ha ricordato il papa prima di un Angelus, in una di quelle sue brevi meditazioni domenicali costruite come piccole omelie sul Vangelo del giorno.
È come camminare sulla strada di Emmaus, in compagnia del Risorto che accende i cuori spiegando le Scritture.
Da Mosè ai profeti a Gesù, le Scritture sono storia, e con esse il camminare si fa storia e l’anno liturgico la ripercorre tutta, attorno alla Pasqua che gli fa da asse.
Avvento, Natale, Epifania, Quaresima, Pasqua, Ascensione, Pentecoste.
Fino alla seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi.
Ciò che fa della liturgia cristiana un “unicum”, e il papa non smette di predicarlo, è che la sua narrazione non è solo memoria.
È realtà viva e presente.
In ogni messa accade quello che Gesù annunciò nella sinagoga di Nazaret dopo aver riavvolto il rotolo del profeta Isaia: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Luca 4, 21).
Nelle omelie, papa Benedetto svela anche cos’è la Chiesa.
Lo fa in obbedienza alla più antica professione di fede: “Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati”.
La “comunione dei santi” è primariamente quella dei santi doni, è quel santo dono salvifico dato da Dio nell’eucaristia, accogliendo il quale la Chiesa è generata e cresce, in unità su tutta la terra e con i santi e gli angeli del cielo.
La “remissione dei peccati” sono il battesimo e l’altro sacramento del perdono, la penitenza.
Se questo professa il “Credo”, allora davvero la Chiesa non è fatta dalla sua gerarchia, non dalla sua organizzazione, tanto meno è uno spontaneo associarsi di uomini solidali, ma è puro dono di Dio, creatura del suo Santo Spirito, che genera il suo popolo nella storia, con la liturgia e i sacramenti.  C’è un’immagine che torna di frequente nelle omelie del papa: “Uno dei soldati con la lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Giovanni 19, 34).
Ecco di nuovo il sangue e l’acqua, l’eucaristia e il battesimo, la Chiesa che nasce dal fianco trafitto del Crocifisso, nuova Eva dal nuovo Adamo.
Il ricorso alle immagini è un altro dei distintivi delle omelie di Benedetto XVI.
Nella cattedrale di Westminster, il 18 settembre 2010, fece alzare lo sguardo di tutti al grande Crocifisso che domina la navata, al Cristo “schiacciato dalla sofferenza, sopraffatto dal dolore, vittima innocente la cui morte ci ha riconciliati con il Padre e ci ha donato di partecipare alla vita stessa di Dio”.
Dal suo sangue prezioso, dall’eucaristia, la Chiesa attinge la vita.
Ma il papa aggiunse anche, citando Pascal: “Nella vita della Chiesa, nelle sue prove e tribolazioni, Cristo continua a essere in agonia fino alla fine del mondo”.
Nella predicazione liturgica di Benedetto XVI le immagini bibliche e quelle dell’arte hanno una costante funzione mistagogica, di guida al mistero.
Lo stupore dell’invisibile intravisto nel visibile artistico rimanda all’ancor più grande meraviglia del Risorto presente nel pane e nel vino, principio della trasformazione del mondo, affinché anche la città degli uomini “diventi un mondo di risurrezione”, una città di Dio.
La maggior parte delle omelie raccolte in questo volume sono state pronunciate dal papa durante la messa, dopo la proclamazione del Vangelo.
Ma ve ne sono anche alcune pronunciate nei vespri, prima del canto del “Magnificat”.
I luoghi sono i più vari, in Italia e all’estero, in villaggi e metropoli: Roma, naturalmente, ma anche Castel Gandolfo, Malta, Torino, Fatima, Porto, Nicosia, Sulmona, Carpineto, Glasgow, Londra, Birmingham, Palermo.
Particolare il caso dell’omelia della IV domenica di Quaresima, pronunciata dal papa durante un servizio liturgico ecumenico, nella chiesa luterana di Roma.
In appendice, come già nelle due precedenti raccolte, sono riportati anche alcuni di quei piccoli gioielli di omiletica minore, sulle letture della messa del giorno, che Benedetto XVI offre ai fedeli e al mondo la domenica mezzogiorno prima dell’Angelus oppure, nel tempo pasquale, prima del Regina Cæli.
Tra le maggiori e le minori, le omelie qui raccolte arrivano così all’ottantina, coprendo quasi l’intero arco dell’anno liturgico: una prova in più della cura che papa Benedetto dedica a questo suo ministero.
Il cardinale Angelo Bagnasco ne ha riconosciuto la grandezza e l’ha eletta a modello per tutti i pastori della Chiesa, quando ai vescovi del consiglio permanente della conferenza episcopale italiana, il 21 gennaio 2010, ha detto: “Non temiamo di dirci ammirati di questa sua arte, e non ci stanchiamo di indicarla a noi stessi e ai nostri sacerdoti come una scuola di predicazione alta e straordinaria”.
Come papa Leone Magno, anche papa Benedetto passerà alla storia per le sue omelie.
Benedetto XVI, “Omelie di Joseph Ratzinger, papa.
Anno liturgico 2010”, a cura di Sandro Magister, Libri Scheiwiller, Milano, 2010, pp.
420, euro 18,00.
Nella predicazione liturgica di Benedetto XVI le immagini bibliche e quelle dell’arte hanno una costante funzione mistagogica, di guida al mistero.
Lo stupore dell’invisibile intravisto nel visibile artistico rimanda all’ancor più grande meraviglia del Risorto presente nel pane e nel vino, principio della trasformazione del mondo, affinché anche la città degli uomini “diventi un mondo di risurrezione”, una città di Dio.
La maggior parte delle omelie raccolte in questo volume sono state pronunciate dal papa durante la messa, dopo la proclamazione del Vangelo.
Ma ve ne sono anche alcune pronunciate nei vespri, prima del canto del Magnificat.
I luoghi sono i più vari, in Italia e all’estero, in villaggi e metropoli: Roma, naturalmente, ma anche Castel Gandolfo, Malta, Torino, Fatima, Porto, Nicosia, Sulmona, Carpineto, Glasgow, Londra, Birmingham, Palermo.
In appendice, come già nelle due precedenti raccolte, sono riportati anche alcuni di quei piccoli gioielli di omiletica minore, sulle letture della messa del giorno, che Benedetto XVI offre ai fedeli e al mondo la domenica mezzogiorno prima dell’Angelus oppure, nel tempo pasquale, prima del Regina Caeli.

NATALE DEL SIGNORE Anno A

Preghiere e racconti   La notte del Mite Questa è notte di riconciliazione, non vi sia chi è adirato o rabbuiato.
In questa notte, che tutto acquieta, non vi sia chi minaccia o strepita.
Questa è la notte del Mite, nessuno sia amaro o duro.
In questa notte dell’Umile non vi sia altezzoso o borioso.
In questo giorno di perdono non vendichiamo le offese.
In questo giorno di gioie non distribuiamo dolori.
In questo giorno mite non siamo violenti.
In questo giorno quieto non siamo irritabili.
In questo giorno della venuta di Dio presso i peccatori, non si esalti, nella propria mente, il giusto sul peccatore.
In questo giorno della venuta del Signore dell’universo presso i servi, anche i signori si chinino amorevolmente verso i propri servi.
In questo giorno, nel quale si è fatto povero per noi il Ricco anche il ricco renda partecipe il povero della sua tavola.
Oggi si è impressa la divinità nell’umanità, affinché anche l’umanità fosse intagliata nel sigillo della divinità.
(EFREM IL SIRO, Inni sulla Natività 1,88-95.99, in ID., Inni sulla Natività e sull’Epifania, Milano 2003, pp.
134-136).
  «Sia questo per voi il segno; troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12)   Fissiamo l’attenzione su alcuni punti.
  I pastori Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori.
Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.
Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione.
Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.
Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?   L’angelo del Natale Un secondo spunto viene offerto dal messaggio.
Contiene una promessa, indicata da un verbo di movimento: «Troverete» (Lc 2,12).
Il trovare presuppone una ricerca, un cammino, un esodo.
Per i pastori si trattò solo di abbandonare i fuochi del bivacco e le capanne di fronde erette a difesa dalle intemperie.
Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo solerti conservatori.
È un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio.
Si tratta infatti di ripercorrere, a ritroso, secoli e secoli di storia; di rileggere, con occhi diversi, le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlemme.
E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso.
Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia: i segni della debolezza, del nascimento e della povertà di Dio.
Un bambino inerme.
Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione.
Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza.
A questo punto il discorso sulla debolezza di i Dio, più che assumere le cadenze del moralismo (tale, cioè, da spingerci ad amare i deboli, gli indifesi, i non garantiti), dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti manifestando la sua gloria nei segni del non-potere, della non-violenza.
  La veste del bambino Le fasce sono simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché la sua luce non ciechi i nostri occhi.
Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Signore, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci.
Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle.
Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce.
Qui, se per poco ci mettiamo a «sbendare», le coperte s’infittiscono paurosamente: migliaia di volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato.
E si potrebbe continuare all’infinito, in un interminabile rosario di sofferenze.
È qui che Dio continua a vivere da clandestino.
A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli; di lasciarci ferire dall’oppressione dei poveri, prima di cantare le nenie natalizie davanti al presepio.
Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, trovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità?   La culla del neonato La mangiatoia è il simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù.
È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell’umanità: non è lì.
È vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria, di tutti coloro che la nostra durezza di cuore classifica come intrusi, estranei, abusivi.
La mangiatoia è però anche il simbolo del nostro rifiuto «È venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11).
È l’epigrafe della nostra non accoglienza.
La greppia di Betlemme interpella, in ultima analisi, la nostra libertà.
Gesù non compie mai violazioni di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi.
Possiamo chiudergli la porta in faccia.
Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia: che è un atteggiamento gravissimo nei confronti di Dio.
Sì, è molto meno grave condannare alla croce, che condannare alla mangiatoia.
Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua inquietante presenza ha da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno.
Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di nuova speranza.
  (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 79-84).
  Esulta dunque! Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr.
Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr.
1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr.
Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6).
[…] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione.
[…] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre.
Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr.
Es 3,14).
Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura.
[…] Ma ora sappi che Cristo è concepito.
Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr.
Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr.
2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.
(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi  38,4.7.17, SC 358, pp.
108-110; 114-116).
  Il Verbo si è fatto carne A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr.
Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio.
Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi.
Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine.
Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo.
Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr.
Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui»  (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr.
Col 1,18).
Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire.
Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).
(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp.
302-304).
    Il Natale del Signore   Il Natale è tra le feste più importanti della tradizione cristiana.
In questa icona della Natività, la Vergine è rappresentata nella grotta mentre prende in braccio il Figlio con un gesto di indicibile affetto.
Le genti, i re Magi, i pastori, convocati dagli angeli, manifestano la partecipazione di tutto il mondo alla salvezza.
I re Magi, salendo, evocano lo sforzo umano di penetrare i misteri di Dio.
Gli angeli, invece, annunciano ai pastori, popolo eletto, che il Mistero è presente: abbiamo solo bisogno della purezza del cuore per riconoscerlo.
San Giuseppe è seduto in atteggiamento pensoso; è tentato dal dubbio che questa nascita sia veramente opera divina.
Sopra la grotta, con un raggio azzurro, è raffigurata la stella che ha guidato i Magi fino a Betlemme.
La gioia del momento è turbata da presentimenti inquietanti: la grotta richiama una tomba, la culla un sarcofago e il Bimbo è avvolto in fasce come quelle che avvolgono un morto.
La nascita di Cristo rimanda alla sua Pasqua di morte e di risurrezione: questo Bambino è il Salvatore del mondo! Nell’icona, però, il dolore non prevale, in tutto risplende la ritrovata pace paradisiaca che è il fine dell’Incarnazione.
  Oggi viene svelato il mistero rimasto nascosto per secoli.
Oggi il Figlio di Dio diventa figlio dell’uomo…
Maria, confusa e dolce, tu guardi il Figlio, colui che ha le fattezze del tuo volto, volto umano di Dio, che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.
Adori il mistero e ti abbandoni alla sua grandezza.
Ricolmaci, o Madre, della tua pace, ridonaci la bellezza della grazia, e aiutaci a farci grembo a Dio, perché cresca in noi…
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
       NATALE DEL SIGNORE   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 52,7-10          Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme,  perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
    v Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca.
È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno.
Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza.
È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli.
Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui.
Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.
     Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida.
L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9).
Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore.
Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.
  Seconda lettura: Ebrei 1,1-6              Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente.
Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
    v Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei.
Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».
     Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui».
C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.
     Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli».
L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.
     All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata.
In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa.
Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.
  Vangelo: Giovanni 1,1-18            In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
   

Card. Bagnasco: “La Chiesa non fa politica ma sui valori dei cattolici non si tratta”

Intervista ad Angelo Bagnasco Eminenza, con la reazione fredda del quotidiano della Conferenza episcopale Avvenire alla nascita del Terzo polo non c’è il rischio di uno spostamento a destra dei vescovi italiani? “Non c’è alcuno spostamento, perché la Chiesa non è un’agenzia politica chiamata a prendere parte alla battaglia dei partiti.
Il suo compito è quello di annunciare la salvezza di Cristo e quindi di elevare la coscienza morale e spirituale della società, rendendo Dio presente nello spazio pubblico.
Solo da coscienze maggiormente avvertite della nobiltà e della gratuità che esige l’arte della politica, sarà possibile sperare trasformazioni profonde e non semplici cambiamenti”.
Il cardinale Angelo Bagnasco, 67 anni, capo dei vescovi italiani, è come sempre in viaggio fra Roma, dove presiede la Conferenza episcopale italiana, e Genova, sua arcidiocesi, città in cui ha lavorato fin dai primi Anni sessanta e che segue con particolare attenzione.
La stessa attenzione che Bagnasco riserva alle vicende che competono non solo al suo ufficio religioso, ma anche al rapporto fra i vescovi e il mondo della politica.
Nessuno degli eventi chiave della settimana è sfuggito al suo occhio attento di pastore d’anime (molti a Genova ricordano ancora gli anni in cui “don Angelo” guidava i giovani scout), e di uomo al vertice del potere ecclesiastico.
Lo si capisce dalla completezza con cui risponde, nell’intervista concessa a Repubblica, a tutte le domande.
Senza sottrarsi a quelle più scomode.
Lei ha detto, dopo il voto sulla mozione di sfiducia, che è importante garantire la governabilità.
Ma la Chiesa italiana si sente obbligata a difendere Berlusconi? “La governabilità è quello che tutti chiedono per affrontare i nodi irrisolti.
La mia preoccupazione e quella dei vescovi è che il nostro Paese da troppo tempo è inceppato nei suoi meccanismi decisionali.
A noi certo non competono suggerimenti tecnico-politici, ma un invito pressante a cambiare registro, a fare tutti un passo in avanti verso soluzioni utili e il più possibile condivise.
Il rischio è che, diversamente, il Paese inceppato finisca per disarticolarsi con una parte che resta agganciata all’Europa e l’altra che se ne distacca definitivamente.
Non può lasciarci indifferente questo epilogo: significherebbe spaccare l’Italia”.
C’è però anche chi, nella base cattolica, tra i fedeli, manifesta dubbi, e accusa la Chiesa di essere schiacciata sul governo…
“La Chiesa è ben cosciente che i cattolici sono presenti in tutti gli schieramenti politici, dunque nella maggioranza e nell’opposizione.
A tutti indistintamente fa presente una serie di valori non  divisivi, ma unitivi perché costituiscono – al di là delle legittime differenze – il terreno dell’unità politica dei cattolici.
Su molte cose in politica ci sono buoni compromessi, ma ci sono valori che non sono soggetti a mediazioni perché non sono parcellizzabili.
L’elenco è noto e cioè la vita, la famiglia, la libertà di educazione e ancor prima quella religiosa.
La Chiesa non cerca l’interesse di una parte della società ma è attenta al bene comune.
Il suo sguardo, me lo lasci dire, va ben oltre le contingenze di un momento”.
Ma lei non ha l’impressione che oggi per lo Stato ci sia il rischio di rinchiudersi nel Palazzo, finendo per estraniarsi dalle esigenze dei cittadini? “Questa crisi non è semplicemente politica, ma culturale, anzi spirituale.
Occorre ricostruire l’ethos profondo del popolo che è la “spina dorsale” senza la quale lo Stato non sta in piedi.
L’anima della nostra gente, che nasce dal Vangelo, è stata “terremotata” dal relativismo e dal consumismo”.
Eminenza, il Natale si avvicina mentre l’Italia affronta un difficile momento anche economico e sociale.
Che cosa ha da dire la Chiesa? “Già da qualche anno, prima che scoppiasse la crisi economica, l’aumento della distribuzione dei pacchi-viveri nelle parrocchie mi aveva impressionato.
La situazione da allora non è migliorata”.
Di “cultura del dono” parla espressamente l’enciclica “Caritas in veritate”.
A Natale si fanno bellissimi regali impacchettati, ma il dono non ha forse anche un altro tipo di significato? “Dimenticare che la gratuità, e dunque la fiducia reciproca e la collaborazione senza interessi personali, sono coefficienti decisivi del buon andamento economico, è stato purtroppo una sventura, pagata come sempre dai più deboli.
Il dono è un mettersi in gioco che caratterizza tutti: dall’imprenditore all’operaio perché sempre di più, ad esempio, il lavoro sia un’impresa sociale”.
Siamo anche alla fine dell’anno, e il 2010 non è stato facile per la Chiesa, soprattutto per le accuse sullo scandalo della pedofilia.
Il Papa ha usato spesso parole molto chiare e dure.
Ma come uscire definitivamente da questo caso? “La strada è tracciata ed è quella della riforma.
Non la riforma delle strutture, ma delle persone, cioè dei cuori.
La Chiesa è chiamata anzitutto ad avvicinarsi alle ferite psicologiche, morali e spirituali delle vittime coinvolte.
Non sarà mai abbastanza per chi ha sofferto così nel profondo.
I preti che si sono macchiati di questo peccato che è pure un reato, oltre a rendere conto del proprio comportamento nei riguardi della giustizia umana e di quella ecclesiastica, vanno anche aiutati a ritrovare l’equilibrio di sé stessi.
E’ stato obiettivamente uno scandalo fino a qualche mese fa non immaginabile, ma è possibile uscirne”.
Un bilancio dell’anno per la Chiesa? “E’ difficile tracciarlo.
Ciò che muove la Chiesa è annunciare il Vangelo e testimoniarlo con la vita.
Nonostante polemiche ricorrenti, non cerca posizioni di rendita o privilegi di sorta.
Il fatto che ogni anno domandi a tutti, credenti e non credenti, di destinare l’8 per mille delle tasse per le sue necessità, attesta che non ha alcuna garanzia.
D’altra parte, il servizio delle parrocchie, la passione educativa di tanti religiosi nelle scuole, la cura dentro centri sanitari, la presenza in situazioni a rischio (droga, alcool, gioco d’azzardo, usura…) dice che la Chiesa riceve, ma offre ancor di più agli italiani.
Mi accorgo, quando si trasferisce un parroco o si accorpa una parrocchia, che a mobilitarsi spesso non sono solo i praticanti, ma anche quelli che stanno a distanza.
Segno che la presenza della Chiesa sul territorio è apprezzata, attesa, difesa”.
in “la Repubblica” del 19 dicembre 2010