Nuovi orizzonti per ebrei e cristiani

NATHAN BEN HORIN, Nuovi orizzonti per ebrei e cristiani, Edizioni Messaggero, Padova 2011, EAN 9788825026887, pp.
160, Euro 12,00 A quasi 25 anni dalla Nostra aetate e dopo i documenti applicativi che l’hanno seguita (1974 e 1985), a che punto è il dialogo tra ebrei e cristiani? Fra le molte voci, di entrambe le parti, che periodicamente intervengono su questo tema, quella di Ben Horin, che riportiamo, ci pare particolarmente significativa per equilibrio e pacatezza, oltre che per autorevolezza: Nathan Ben Horin ha vissuto a Roma dal 1980 al 1986 in qualità di ministro plenipotenziario dei rapporti di Israele con il Vaticano.
Il testo offre una sintesi storica degli anni trascorsi e ne deduce alcuni punti fermi validi per entrambi gli interlocutori.
Autore/i NATHAN BEN HORIN, nato in Germania da famiglia polacca, ha vissuto in Francia dove ha partecipato alla resistenza contro i nazisti.
Ha svolto attività diplomatica per Israele.
In Italia dal 1980 al 1986 si è occupato dei rapporti diplomatici con la Santa Sede, quando le relazioni diplomatiche con Israele non erano ancora state regolate.
Dal 1994 è membro della Commissione per la designazione dei «Giusti tra le Nazioni» dell’Istituto Yad Vashem, incaricato in particolare delle pratiche che riguardano l’Italia.
PIERO STEFANI (Ferrara 1949), laureato in filosofia a Bologna, noto studioso di ebraismo e insigne biblista, è uno dei principali animatori del dialogo cristiano-ebraico.
Insegna filosofia della religione presso l’Università di Ferrara.
Dal 1985 è redattore e articolista della rivista «Il Regno» e collabora con le riviste «Credere oggi», «Humanitas», «Esodo», «Studi Ecumenici», «Studi Fatti Ricerche» (Sefer), «Horeb», «Jesus».
È membro del Comitato scientifico e direttore del «Notiziario di Biblia», Associazione laica di cultura biblica.
Collabora regolarmente con la trasmissione di Radio 3 «Uomini e Profeti».
Ha al suo attivo una settantina di pubblicazioni in qualità di autore, curatore e scrittore di introduzioni o contributi vari.

Ungaretti e la ricerca di Dio

Pubblichiamo alcuni stralci dal primo capitolo del libro Interrogare la fede.
Le domande di chi crede oggi (Torino, Lindau, 2011 pagine 99, euro 12).
Il poeta Ungaretti è un uomo ferito (cfr.
Pietà in: Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo.
Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1972, p.
168) che chiede a Dio di chinarsi sulla sua e nostra debolezza e di mostrarci una traccia: “Dio, guarda la nostra debolezza.
/ / Vorremmo una certezza”.
Ma può registrare solo il vuoto, “il gran vuoto della sua anima, la sua consapevolezza d’essere stato abbandonato a sé, la tremenda sua solitudine” (Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo.
Saggi e interventi, Mondadori, Milano, 1974, p.
200), e riconoscere in questa vertigine del sentimento dell’assenza il terrore del vuoto e “l’orrore di un mondo privo di Dio”.
Egli sente, ed è un sentire che è anche testimonianza, che Dio è divenuta una parola impronunciabile oggi: “Dio, coloro che t’implorano / Non ti conoscono più che di nome” (Pietà, p.
168).
La sua immagine si è frammentata sotto la furia iconoclasta del secolo e si è ritirata in una zona grigia e oscura che confina con il sogno: “E tu non saresti che un sogno, Dio?” (Pietà, p.
170).
È profondo il solco lasciato da queste domande irrisolte: “Ma Dio cos’è? / / E la creatura / atterrita / sbarra gli occhi” (Risvegli, in: Vita di un uomo.
Tutte le poesie, p.
36), che consegnano l’uomo a una percezione abissale e confusa di sé: “In questo oscuro / (…) // Mi vedo abbandonato nell’infinito” (Un’altra notte, in: Vita di un uomo.
Tutte le poesie, p.
72), e affidano il mondo a una dimensione enigmatica e obliqua.
 Sotto la lente di un osservatore “sbigottito di non sapere” si consuma il dramma non solo conoscitivo ma anche teologico ed esistenziale dell’uomo moderno perché “dove la distruzione di Dio è compiuta, dove non è più dibattuto il problema divino, con che cosa [la mente] colmerà il vuoto lasciato in essa e che la potenza dei secoli e degli istinti mantiene spalancato?” (Vita di un uomo.
Saggi e interventi, p.
230).
Ma forse è anche necessario che sia così, perché possiamo imparare a conoscere e a chiamare Dio con altri nomi, che pure sono i suoi nomi, e a trovarlo con altri modi e in altre circostanze, per certi versi inusuali, come l’interrogazione, il dubbio, la domanda che non trova risposta: “La speranza d’un mucchio d’ombra / E null’altro la nostra sorte?” (Pietà, p.
170).
Il Dio di questo secolo è qui, su questo discrimine di senso e non-senso, che vuole essere cercato e trovato.
Diversamente si correrebbe il rischio di coltivare una vana spiritualità che non può soddisfare le menti problematiche oppure incerte della modernità.
Trovare Dio dove la scena è ormai distrutta e muta: questo è il compito che Dio dà al poeta e a noi.
Come una cifra segreta risalta nel paesaggio sconsacrato la nudità dell’anima del poeta: “Ma ben sola e nuda / senza miraggio / porto la mia anima” (Peso, in: Vita di un uomo.
Tutte le poesie, p.
34) e il suo essere solo (cfr.
Pietà, p.
168).
Dio ora vuole essere interrogato dalla solitudine dell’uomo, dal suo lamento che non trova senso.
Troppe cose ricordano all’uomo la sua precarietà, il suo destino che non riuscirà mai a ricomporre la sua vita in un disegno chiaro.
Egli vuole che si arrivi a Lui attraverso questo passaggio dell’anima stretta che dubita e medita.
Dio resta “l’eterno tormento degli uomini, sia che s’ingegnino a crearlo sia a distruggerlo” (Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, p.
230) perciò la sua dimostrazione deve essere cercata pur nell’impossibilità che ha l’uomo di dimostrarne l’esistenza.
È vero.
C’è troppo dolore intorno, troppo caos, troppo sangue innocente perché si possa dire “Credo”: “Nel cuore dell’uomo non c’è, come sempre, che notte, non ci sono, come sempre, che crolli” (Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, p.
782).
E anche Cristo si unisce a questo silenzio.
Anch’egli partecipa di questo distacco, di questa separazione, della diastasi della divinità dal mondo.
Lo scenario devastato della seconda guerra lo rivela in maniera evidente e mette ancor di più in luce la solitudine dell’uomo.
Come la domanda su Dio anche la domanda su Cristo sembra non trovare risposta.
E se al colmo della crisi solo nel negativo della bestemmia, che viene letta come una preghiera rovesciata, è possibile farsi un’idea di Dio: “E per pensarti, Eterno, / Non ha che le bestemmie”.
(Pietà, p.
171), analogamente al poeta giunge a risultare “blasfemo” – “Ora che osano dire / le mie blasfeme labbra” – anche il quesito che chiede al Figlio di Dio il perché di tanto scempio al mondo: “Cristo pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata?” (Mio fiume anche tu, p.
228).
Ma per quanto fragile possa essere l’uomo, “per quanto impotente nel fondo della sua notte elementare” (Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, p.
525), il semplice dubbio che “la sua vita non è pura sordità, che qualche cosa c’è da fare su questa terra” assume quasi il significato di una prova di Dio.
L’uomo si è trasformato in una domanda; l’uomo della modernità non può più dare risposte.
Eppure tutto ancora deve compiersi nell’orizzonte di un qualcosa (“un punto, una formula”) che “esiste e dà alla vita il suo senso, il suo oriente” (Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, p.
525).
La difficoltà ad affermare Dio e la facilità a negarlo sono ancora sua regione e suo territorio, provincia di Dio nella quale abitano gli uomini di oggi.
Il suo volto odierno è così, un volto incerto, che non dà certezze.
Eppure anche la sua non risposta alla domanda che è l’uomo, ne connota l’essenza e introduce l’uomo nella dimensione della fede, quella più ineffabile e sfumata, quella dove il sì e il no quasi non si distinguono.
È così infatti la fede dell’uomo: una domanda continua, ininterrotta che confina sempre con il silenzio, che strappa al silenzio qualcosa, ma poi si richiude in se stessa.
L’esperienza religiosa di Ungaretti è strettamente legata a questa intuizione: “Chiuso fra cose mortali / / (Anche il cielo stellato finirà) / / perché bramo Dio?” (Dannazione, in: Vita d’un uomo.
Tutte le poesie, p.
35).
La domanda dell’uomo può bastare perché possa recuperare il senso della trascendenza e farsi un’immagine .dell’Assoluto, se mai ne sia possibile una in questo secolo e se non sia stato sempre così e sempre la stessa è la distanza tra l’uomo e l’Infinito.
“L’essere umano, lo voglia o no, è nella sua responsabilità legato al segreto universale dell’essere, a Dio”.
(©L’Osservatore Romano – 21-22 febbraio 2011)

Noi credevamo

NOI CREDEVAMO Regia: Mario Martone Nazione: ITALIA, FRANCIA Anno: 2009 Presentato: 67.a Mostra Internazionale D·Arte Cinematografica di Venezia  È la storia di tre ragazzi del sud Italia, Domenico, Angelo e Salvatore, i quali, nel periodo risorgimentale, a seguito delle feroci repressioni borboniche, decidono di unirsi ai moti clandestini miranti all’unificazione dell’Italia.
Entrano così a far parte della “Giovine Italia” di Giuseppe Mazzini, viaggiando per l’Europa in cerca di finanziatori per le loro azioni rivoluzionarie e trovando, in un primo momento, l’appoggio di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, principessa animata da forti sentimenti antiaustriaci e liberali.
Dopo il fallimento del tentativo di spedizione in Savoia, organizzato da Mazzini, la principessa però ritirerà il suo appoggio, anche se il suo salotto resterà un circolo di ritrovo per gli intellettuali e gli esuli italiani.
Salvatore, figlio di contadini, viene (per le sue umili origini) scelto per incontrare Mazzini a Ginevra, e incaricato di procurarsi un’arma con la quale un cospiratore, Antonio Gallenga, medita di assassinare Carlo Alberto di Savoia (ma il Gallenga, intimorito non porterà a termine il suo piano, nascondendosi).
Dopo il fallimento della spedizione egli viene accusato da Angelo di essere una spia al servizio dei piemontesi e viene ucciso da questi in un impeto di fanatismo ideologico.
Dopo l’assassinio Angelo scappa, viaggiando a lungo per l’Europa dove finirà per entrare nel circolo di Felice Orsini, rivoluzionario che si è distaccato dalle idee di Mazzini, ritenendo i di lui metodi inadeguati per la lotta politica e che medita un attentato a Napoleone III.
L’attentato, in cui viene coinvolto anche Angelo, fallisce però miseramente e l’Orsini insieme con Angelo e altri due compagni viene arrestato e processato.
Angelo e Orsini finiranno con l’essere quindi condannati a morte ed entrambi ghigliottinati in Francia.
Domenico, nel frattempo, dopo aver passato in carcere gran parte della sua giovinezza, stringendo durante la prigionia amicizie con alcuni importanti esuli italiani attivi nella lotta politica, torna nel sud Italia dove incontra il giovane Saverio, figlio del vecchio amico Salvatore, legandosi insieme a lui ai garibaldini e vivendo con loro la presa del potere di Vittorio Emanuele II e la conseguente disillusione per un’Italia unità nel nome di ideali repubblicani e democratici.
Caduti in mano piemontese, anche il giovane Saverio finirà vittima della repressione dei bersaglieri inviati dai Savoia.
Ormai vecchio, Domenico assisterà inoltre agli ultimi sviluppi del post-unità, vivendo una nuova, forte disillusione dopo aver visto il  repentino distacco di Francesco Crispi dai vecchi ideali mazziniani e l’avvicinamento a politiche monarchiche repressive.
Stanco e disilluso a Domenico non resterà che meditare tristemente sulle passate speranze e sulle presenti delusioni (e tradimenti ideologici) che segnano tragicamente l’inizio della storia d’Italia.
La vicenda, lunga e complessa è, a livello del racconto, schematizzata in quattro parti, divise in altrettanto sezioni con rispettivo titolo.
Nella prima parte (intitolata: «Salvatore») viene mostrata, a grossi tratti, la vicenda di Salvatore, il più umile dei tre amici cospiratori dalla sua “investitura” mazziniana (con il relativo “onore” di essere da Mazzini incaricato di armare la mano del Gallenga) fino alla morte, avvenuta per mano di Angelo, ormai diventato fanaticamente ossessionato dalla rivoluzione.
Nella seconda sezione («Domenico» viene invece presentata la figura di Domenico, nei suoi fervidi tentativi cospiratori contro il nemico borbonico e austriaco.
In questa parte del film la figura di Domenico è ancora mostrata come piena di giovanili speranze e di fiducia nell’ideale mazziniano e rivoluzionario.
La sezione dedicata a Domenico si interrompe lasciando il posto alla terza (quella di «Angelo».
Nella  terza parte, abbiamo il delinearsi della figura di Angelo, ormai invecchiato, ma non per questo rassegnato nel suo ideale del gesto “risolutore” e violento che dovrebbe dare una svolta alla lotta politica.
Macchiato dalla colpa dell’omicidio di Salvatore, che porta come un peso, la storia di Angelo si conclude, anche in questo caso, con la morte del personaggio, invischiato nel fallito attentato di Napoleone III e giustiziato.
La quarta e ultima sezione, infine, ripresenta la figura di Domenico, dai lunghi giorni di prigionia fino alla sua adesione ai garibaldini.
Le quattro sezioni qui presentate sono (tranne la vicenda di Salvatore che è quasi “autoconclusiva”) a tratti intrecciate tra loro, restituendoci la visione d’insieme di un grande “affresco” della storia risorgimentale attraverso le emblematiche vicende dei tre personaggi.
In questa grande visione, spicca con evidenza la grande disillusione di Domenico, personaggio che non a caso sopravvive ai due amici, entrambi uccisi ed entrambi “perdenti” nel triste gioco della lotta politica.
La disillusione di Domenico è del resto ben motivata dalla similarità dei comportamenti dei nemici borbonici e austriaci e degli “amici” piemontesi, che vengono mostrati dall’autore nel compimento di analoghi comportamenti repressivi nei confronti dell’inerme popolazione locale, come a dire che, cambiando pur l’ordine delle dominazioni (straniere o italiche che siano), il risultato finale di sopraffazione non cambia.
La sequenza della morte di Saverio, personaggio legato a quello di Salvatore (suo padre nella vicenda) ed egualmente “sconfitto”, è a questo riguardo molto indicativa: egli infatti viene ucciso, non dal nemico borbonico, ma dalla repressione dei piemontesi (e, anzi, l’episodio della sua morte, con la fucilazione a “tradimento” dei bersaglieri Savoia, nonostante l’armistizio e il mancato processo di un legittimo tribunale acuisce la sensazione di arbitraria malvagità delle azioni repressive dei “nuovi dominatori”).
La finale disillusione di Domenico, poi, è ben motivata dalla consapevolezza del prezzo che la neonata nazione ha dovuto pagare, nonostante le numerose morti.
La nuova Italia, è sì unita, ma tradita nelle fondamenta ideologiche profonde che avevano ispirato le insurrezioni.
Non a caso l’ultima sequenza del film mostra, in un parlamento vuoto, l’ombra di Francesco Crispi durante il famoso e storico discorso con il quale l’ex rivoluzionario democratico mostrerà di aver cambiato del tutto (con l’opportunismo che coinvolge la maggior parte degli esponenti della nuova classe politica) il suo credo ideologico: «noi unitari siamo monarchici e sosterremo la monarchia meglio dei monarchici antichi».
E l’amara riflessione finale di Domenico chiude il film, dando quindi un significato profondo al titolo «Noi credevamo», che mostra come l’Unità italiana sia stata raggiunta tradendo però tutto quel complesso di ideali, speranze e convinzioni che avevano animato, nel profondo, i protagonisti dei moti risorgimentali.
Il film di Martone si caratterizza, come un ottimo film di vicenda dalla buona struttura e dall’eccellente realizzazione artistica, che non fa pesare le oltre tre ore di visione, supportato anche da un cast di attori –  quasi tutti ben diretti –  che aggiungono valore a un’opera che, per l’impegno complessivo, meriterebbe di sicuro un riconoscimento (di qualsiasi tipo) in questa mostra del cinema.
                                                                                 

Il comune sentire

MARTINI CARLO M., Il comune sentire, Rizzoli, Milano 2011, EAN 9788817047463, pp.
200, Euro 17,50 “Il mio motto episcopale suona così: per il servizio della verità essere pronto ad amare le avversità.” Inizia con queste parole il dialogo con i lettori del “Corriere della Sera”, uno spazio in cui il cardinale Carlo Maria Martini tocca con grande semplicità le domande cruciali alla base del nostro vivere quotidiano.
Perché crediamo? Perché perdiamo la fede? Che senso ha il dolore degli innocenti? Quel è lo scopo ultimo delle nostre buone azioni? Pagina dopo pagina emerge la profonda fede del cardinale.
Ma anche la sua straordinaria conoscenza biblica che, attraverso il conforto delle Scritture, ci incoraggia a metterci di fronte con autenticità al cammino di ricerca che ciascuno di noi deve compiere nel mondo e interiormente.
Martini, il cardinale con Milano nel cuore di Marco Garzonio Oggi il cardinale Martini compie 84 anni.
Festeggia la ricorrenza nel suo ritiro di Gallarate, attorniato dalle cure amorevoli e generose di chi lo sta accompagnando nella faticosa, diuturna battaglia per reggere gli effetti del male, il Parkinson.
Eppure sempre attentissimo, curioso di quanto accade in Italia, nel mondo, nella Chiesa, nella cultura e nella vita comune.
Lo sanno i lettori del Corriere.
Quelli che ogni giorno gli scrivono, confidandogli preoccupazioni, dubbi, anche angosce.
E quelli che non osano prendere carta e penna ma sono comunque attenti ad ogni sua parola, tanto da attendere l’ultima domenica del mese per andarsi subito a leggere il paginone con lettere e risposte.
Il dialogo a distanza (ora riprodotto in volume, Il comune sentire, edito da Rizzoli) è la continuazione ideale dello stile episcopale inaugurato da Martini a Milano e proseguito per gli oltre 22 anni in cui è stato arcivescovo.
Poco dopo gli inizi del suo ministero aveva riscoperto e reintrodotto nell’uso liturgico un’antica preghiera: “Dona sempre al tuo popolo pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze”.
E a quelle parole si è sempre rivelato fedele, praticando, lui professore e studioso di fama internazionale, virtù quali l’ascolto, il servizio, la preghiera, la ricerca mai paga di una senso da dare all’esistenza: nelle scelte forti, importanti, circa la vita (inizio e fine, bioetica) e in quelle quotidiane, alle prese con le gioie e le difficoltà, gli affetti e il lavoro, nella città.
Un misto di realismo e di fede, di scommessa sull’uomo e sui destini comuni che, alla fine del mandato per raggiunti limiti di età, nel 2002, gli diede l’opportunità di affidare due consegne: ai giovani e agli amministratori pubblici.
Incoraggiò i primi ad «attraversare la città» senza paura, come faceva Gesù, a vivere sino in fondo i disagi, le difficoltà, ma anche le speranze e gli ideali, la voglia di cambiare e di essere protagonisti.
Ai secondi, nel discorso di ringraziamento a Palazzo Marino per la medaglia d’oro del Comune, riservò un accorato e stringente appello sulla scia del predecessore e ispiratore, Sant’Ambrogio.
Incitò la politica a «dare forza e amabilità a un’esistenza vissuta nel rispetto delle regole»; ammonì che «finché la nostra società stimerà di più i “furbi”, che hanno successo, un’acqua limacciosa continuerà ad alimentare il mulino dell’illegalità» , «togliendo stima sociale all’onestà», indebolendo «il senso civico».
Lui stava per partire per Gerusalemme, ma a governanti, città tutta, Paese lasciò  l’impegno: «Compito culturale urgente è innescare un movimento di restituzione di stima sociale e di prestigio al comportamento onesto e altruistico, anche se austero e povero».
A monito citò Ambrogio: «Quanto è fortunata quella cittadinanza che ha moltissimi giusti»! A Gallarate, pur tra fatiche e impedimenti, Martini continua ad essere quel punto di riferimento che non solo i milanesi, ma la Chiesa tutta e l’Italia hanno imparato ad amare e, inutile nasconderselo, a contestare: perché nel suo stile e nella sua azione ha continuato e continua a raccogliere consensi, ma anche dissensi.
Ricorda il ruolo dei Profeti dell’antico Israele, che sono stati fra i punti di forza del Martini scienziato della Parola biblica, vescovo, predicatore di appassionati esercizi spirituali negli angoli più lontani della cattolicità.
Una Chiesa profetica è quella che ha sognato per anni e per la quale, come confidò a padre Georg Sporschill in Conversazioni notturne a Gerusalemme (edito da Mondadori), nella vecchiaia ha deciso di pregare.
Perché: oggi la profezia latita nella Chiesa? La risposta di Martini sta nella sua scelta orante.
Nel chiedere a Dio e nel ricordare ai confratelli e a tutti che la profezia non è qualcosa di astratto o per pochi, ma, sulla scia appunto dell’Israele della Scrittura, è cercare il punto d’incontro fra il progetto di Dio e le urgenze della storia.
Una testimonianza radicale, senza badare alle sollecitazioni dei potenti né alle tentazioni di lasciar perdere mortificati dalle difficoltà, accettando di essere piccolo gregge ((cioè minoranza) e granello di senape e lievito, disposti a pagare un prezzo anche salato nel seguire la via Gesù.
Come motto episcopale Martini scelse Pro veritate adversa diligere, per la verità amare le avversità.
In realtà il motto completo, preso da San Gregorio Magno, ha un altro paio di paroline «ed essere guardinghi verso il successo» Insomma, una prospettiva per lui e un’indicazione di marcia per tutti.
E quindi l’occasione per unirsi alle schiere di fedeli e di estimatori nel dire: grazie e tanti auguri, Eminenza! in “Corriere della Sera” – Milano – del 15 febbraio 2011

Ogni cosa alla sua stagione

ENZO BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi, Torino 2011, 978-88-06-20465-5, pp.127, Euro 17 Confesso che nella mia vita stare accanto al camino acceso verso sera, all’ora del tramonto, è una delle gioie più grandi che mi è stato dato di vivere.
[…] Assieme agli altri, mi offre in dono poche parole, dense di rara capacità comunicativa. È impossibile sostare davanti a un camino acceso e parlare troppo: quel fuoco che scoppietta e manda faville con ritmi e tonalità tutte sue invita al silenzio e fa dell’ascolto reciproco un sussurro eloquente.
Non “ogni cosa ha la sua stagione”, ma “ogni cosa alla sua stagione”.
Un sottile spostamento di senso per dire come siamo noi, assieme alle cose di cui riempiamo i nostri giorni, ad appartenere al tempo.
Non il contrario.
Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, conosce gli uomini e il mondo: dalla sua cella, al rapporto con la quale dedica uno dei capitoli più intensi, non si limita ad osservare ciò che accade al di fuori.
Piuttosto, cerca nella solitudine che quello spazio comporta, un contatto autentico e profondo con sé stesso, così da poter poi tornare nel mondo forte di una nuova consapevolezza di quello che è altro da sé.
Attinge agli insegnamenti di un cistercense del dodicesimo secolo per riscoprire la radice comune a “cella” e a “coelum”, cielo, e costruisce un ponte fra due concetti apparentemente opposti, e invece accomunati da un’idea di orizzonte interiore che supera ciò che gli occhi possono vedere.
Il libro pubblicato da Einaudi inanella riflessioni maturate nel corso di una vita che Bianchi sente essere stata – ed essere ancora – piena, matura, ricca; e accanto a questi pensieri trovano spazio  ricordi di gioventù, rievocazioni di momenti significativi e alcuni ritratti delle persone care.
Fra questi, spiccano le pagine dedicate alla Teresina del Muchèt, donna “selvatica” vissuta accanto al paese dove lui è cresciuto, che nell’umile regola di una vita condotta fra le malghe e una casina modesta, a fare formaggi, rimarrà un esempio luminoso per le scelte future di Bianchi.
Fuge, tace, quiesce.
Fuggi, taci, rappacificati.
Tre precetti che Bianchi ci illustra con passione, mostrandoci un ciclo virtuoso di cui l’uomo dispone per riappropriarsi della propria vita in tre passi.
Fuggire: “lasciare il luogo abituale di vita – anche se solo per il breve tempo di una vacanza – può diventare affermazione “che il luogo in cui si vive non basta, e che desideriamo altri luoghi”.
Tacere: regola d’oro nel mondo “assordante in cui viviamo oggi, dove il silenzio costituisce una creatura in via d’estinzione”.
Rappacificarsi, infine: per rinfrancarsi dalle fatiche, e “esercitarsi a pensare in grande, all’amare contemplando l’amore di cui siamo oggetto e l’amore che può sbocciare dal nostro cuore”.
Ma attenzione: non si tratta di un itinerario low cost, perché questo viaggio verso sé stessi richiede la rinuncia alle proprie abitudini, e la disponibilità ad allontanarsi dagli schemi cui ci appoggiamo per sentirci più forti.
La ricompensa, però, è grande, e può significare un rinnovato patto fra noi stessi e la società degli uomini nella quale viviamo ogni giorno.
Belle pagine, in un libro che sa regalarci anche osservazioni non banali, sull’importanza del convivio; sulle verità che il vino può dispensare se goduto con intelligenza; sull’amicizia, esercizio perpetuo di coltivazione della bellezza oggi più che mai indispensabile.

VI Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Preghiere e racconti “Scegli la vita” «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, / la benedizione e la maledizione; / scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza…» (Dt 30,19).
«Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, / non indugia nella via dei peccatori…» (Sal 1,1).
La strada della morte che il primo Salmo ci chiede di non imboccare la stiamo percorrendo, tutti quanti.
La morte è diventata il pastore che seguiamo docilmente fino al suicidio universale che essa ci ha convinto a preparare con le nostre mani.
E perché la sua opera sia perfetta, ci rende ciechi a quanto con esse costruiamo.
La strada della morte si riassume in poche cifre: due miliardi di uomini affamati sul pianeta, centinaia di milioni di uomini asserviti a regimi politici assassini, negatori di tutti i valori ai quali fingiamo di credere, alcune centinaia di milioni di vittime assassinate dalle guerre e dai conflitti dell’ultimo secolo.
La strada della vita si apre di fronte a noi, ma noi voltiamo la testa, rifiutandoci non solo di imboccarla, ma anche di prendere coscienza della sua esistenza.
Di fronte ai pericoli del nostro tempo, la strada della vita apre all’uomo possibilità sino a ieri inimmaginabili di progresso della conoscenza, di approfondimento, libertà, liberazione e salvezza.
Quest’ordine ha cessato di essere un pio desiderio, per diventare la condizione certa della sopravvivenza dei mondi.
Ciò determina la necessità di un risveglio spirituale che ci renda attenti alle realtà create dalla nostra scelta e dalla nostra speranza (…).
Nella lotta contro la bestia che cova in ogni uomo, la Bibbia, i Vangeli e il Corano, come i Veda dell’India o i testi che celebrano le Quattro Nobili Verità del buddhismo, levano per i credenti le loro armi spirituali di fronte agli strumenti di violenza e di morte della bestia.
Fin dalla nascita, ci troviamo di fronte a un mondo che non ammette l’indifferenza.
Recitate il Decalogo in ebraico, in greco, in arabo o nelle 2170 lingue in cui le dieci Parole sono attualmente tradotte: incontrerete un mondo che richiede di fare una scelta fra la luce e le tenebre, fra la vita e la morte.
Esistono infatti due vie e noi ne siamo avvisati: il mondo è diviso in due.
Si impone quindi una scelta, che costituisce la necessità e il rischio di tale scissione.
Quest’ultima esprime una realtà evidente: le tenebre e la luce si spartiscono l’universalità fisica e spirituale del reale.
Rileggiamo il Decalogo.
Ognuna delle Dieci parole descrive il mondo della luce e dell’unità, dell’amore e della vita, opposto a quello della divisione, dell’idolatria, dell’assassinio, dell’adulterio, del furto, della menzogna e della bramosia, governati dalle tenebre e dalla morte.
Mosè, insieme con Gesù e Muhammad, ci ordina: «Scegli dunque la vita, perché tu viva».
(A.
Chouraqui, I Dieci Comandamenti).
Arik e la Torah Arik mi ha indicato un alberello aggrappato a un palo di sostegno.
«Vedi, in noi – come negli alberi – c’è un naturale desiderio di salire, di innalzarci.
Magari è sepolto sotto chili di scorie, ma esiste.
È una sorta di nostalgia che dimora nella parte più profonda di ogni uomo.
La vita però è complessa e piena di contrasti e noi, abbandonandoci unicamente al giudizio della nostra mente, rischiamo di sbagliare direzione, di venir abbagliati da qualche finto sole.
Per questo esiste la Torah, è come il tutore di quel giovane albero, ci aiuta a salire dritti, ad andare incontro al cielo senza farci spezzare dalle tempeste di vento.» (Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 192-193).
  Invito alla preghiera G Come può un giovane conservare pura la vita? Mettendo in pratica le tue parole.
  T Ti cerco con tutto il cuore: fa’ che non mi allontani dai tuoi comandamenti.
G Conservo nel mio cuore le tue istruzioni e non sarò colpevole verso di te.
  T  Ti rendo grazie, Signore, perché mi insegni le tue leggi.
  G  Le mie labbra vanno ripetendo tutte le decisioni che hai preso.
  T  Seguire i tuoi precetti mi dà gioia come avere un’immensa ricchezza.
  G  Voglio meditare i tuoi decreti, non perdo mai di vista le tue vie.
  T  Le tue leggi mi rendono felice, non dimenticherò le tue parole.
  G  Dona a me, tuo servo, la vita: metterò in pratica le tue parole.
  T  Aprimi gli occhi e contemplerò i frutti stupendi della  tua legge.
(dal Salmo 119)         * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
      VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Siracide 15,16-21        Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai.
Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano.
Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà.
Grande infatti è la sapienza del Signore; forte e potente, egli vede ogni cosa.
I suoi occhi sono su coloro che lo temono, egli conosce ogni opera degli uomini.
A nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare.
             v «Se vedi una persona saggia, va’ presto da lei; il tuo piede consumi i gradini della sua porta» (Sir 6,36).
Questa frase avrebbe potuto essere scritta all’entrata della scuola che, fra la fine del III e l’inizio del II secolo a.
C., Ben Sira (il Siracide) aveva aperto a Gerusalemme.
Ai giovani discepoli che seguivano le sue lezioni e che, d’altra parte, si sentivano anche attratti dalle proposte seducenti del mondo ellenistico ed erano affascinati dalle lusinghe della vita pagana, egli indicava il cammino della vita, insegnava la Toràh, la sapienza di Dio.
     Era anche un poeta, Ben Sira.
La Toràh era per lui «come un cedro del libano, come un cipresso sui monti dell’Ermon, come una palma in Engaddi, deliziosa come le rose di Geri- co»; ne assaporava il profumo, «come di cinnamomo e balsamo, come mirra scelta»; vedeva la sapienza uscire dai suoi rotoli e traboccare «come il Giordano nei giorni della mietitura» (Sir 24,13-24).
     Incantato dalla bellezza della legge di Dio, trasmetteva la sua passione agli alunni.
Insegnava loro: «Davanti a ogni uomo stanno la vita e la morte, il fuoco e l’acqua»; ognuno deve scegliere, è libero e responsabile delle proprie azioni, può costruire o rovinare la propria esistenza.
Se prende decisioni insensate la colpa non è di Dio che ha fatto bene ogni cosa, ma soltanto sua.
     Non v’è alcuna costrizione interiore a peccare.
L’uomo può dominare i propri istinti (Sir 21,11), può controllare i propri desideri e le proprie passioni (Sir 20,30).
Se compie il male, se devia dai sentieri tracciati dalla Toràh attira su di sé sventure e disgrazie (Sir 40,10), se invece segue i cammini indicati dal Signore avrà vita e benedizione.
     Così si esprimeva Ben Sira, il vecchio saggio, desideroso di orientare i suoi figli e i suoi discepoli sulla via tracciata dalla Legge di Dio.
  Seconda lettura: 1Corinzi 2,6-10        Fratelli, tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla.
Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria.
Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
Ma, come sta scritto: «Quelle cose che occ

Adulti adolescenti

1.
Premessa Lo scopo di questo contributo è di mostrare che, se il mondo degli adulti, anziché offrire ai giovani adeguati contenimenti e possibilità di elaborazione delle loro problematiche, resta impigliato esso stesso in modi di essere e pensare di tipo adolescenziale, finisce per produrre esiti patologici, a livello individuale, scolastico e sociale.
La tesi che sostengo è che il malessere degli adolescenti, se in una certa misura è fisiologico, ovvero pertiene alle dinamiche psichiche di questo periodo e alla loro difficile e complessa elaborazione, tuttavia può essere limitato o addirittura trasformato in occasione di benessere psichico, laddove trovi un mondo di adulti che sia in grado di essere in contatto con le problematiche adolescenziali e aiuti i ragazzi a elaborarle, anziché essere incapace di gestirle colludendo con esse.
Per tali motivi, la sofferenza e il benessere degli adolescenti dipendono in larga misura dalla possibilità di trovare uno o più interlocutori — nel mondo adulto e a partire, oltre che dai genitori, proprio dagli educatori e dagli insegnanti — che li aiutino ad attraversare questo periodo e a elaborare la confusione che lo caratterizza.
L’ipotesi da cui parto è che l’adolescenza, prima di essere un periodo reale, è uno stato mentale.
Questo concetto si riferisce a una condizione psichica che può anche cambiare, perciò parlare di «stato mentale» significa parlare di qualcosa che non è fisso, ma fluttuante.(1) Assumere come ipotesi di lavoro che l’adolescenza sia uno stato della mente implica affermare che le problematiche psicologiche ed emotive proprie di questo periodo possono appartenere a qualsiasi persona, in qualunque periodo della vita, così come uno stato mentale infantile può caratterizzare un adulto in una determinata situazione o in uno specifico periodo della sua vita e delle sue relazioni e uno stato mentale adulto può appartenere a un giovane in crescita.
Vale a dire che si può anche dare il caso di giovani adolescenti che, malgrado il travaglio tipico e normale della loro età, mostrano segni di presenza, in loro, di stati mentali adulti, superiori a quelli dei loro interlocutori «adulti», cioè possiamo osservare adolescenti adulti a fronte di adulti adolescenti.
Tuttavia, se stati mentali adolescenziali appartengono agli adulti o, peggio, a coloro che hanno responsabilità educative, ne possono derivare seri danni per lo sviluppo emotivo dei giovani adolescenti.
Accade così che il moderno mondo occidentale dei «grandi», ovvero di quelle che dovrebbero essere le figure di riferimento degli adolescenti, (2) tenda non solo a non svolgere adeguatamente la propria funzione educativa e ad abdicarvi, ma addirittura si ponga spesso come fonte di incremento della confusione addirittura idealizzata come cosa buona e perseguibile.
Così, se i giovani adolescenti trovano un mondo di adulti o di educatori che permangono in questo stato mentale, difficilmente avranno la possibilità di sviluppare maturità e benessere emotivo, ma più spesso  svilupperanno disagi sfocianti in varie manifestazioni patologiche, individuali e sociali.
Per condurre l’analisi e sostenere questa tesi, la struttura del mio contributo si articola in tre parti: in primo luogo, descriverò le  principali dinamiche psicologiche dell’adolescenza alla luce dei punti di vista della psicoanalisi.
Tra queste approfondirò il cruciale problema della confusione (anche identitaria) che caratterizza la mente adolescenziale.
Tali dinamiche costituiscono lo stato  mentale proprio dell’adolescenza.
(3) In secondo luogo, cercherò di mostrare come, e dove, gran parte del mondo adulto moderno presenti ampi spazi di adolescenzialità, venendo perciò a costituirsi come fonte di ulteriori disagi e malessere nei giovani, mentre,laddove questi ultimi trovino strutture, figure e ruoli (una società, in senso lato) capaci di assumersi le loro responsabilità educative e di porre limiti alle pulsioni distruttive o promiscue, hanno la possibilità di raggiungere un migliore sviluppo emotivo.
Ed esemplificherò dove e come, nel mondo degli adulti, si può osservare il venir meno di questa funzione maturativa di chiarimento e i danni che la sua mancanza può provocare nel mondo adolescenziale.
In terzo luogo, indicherò quale potrebbe/dovrebbe essere il compito primario di chi svolge funzioni educative, ovvero la capacità di assumersi la responsabilità emotiva della propria mente, non senza precisare, in conclusione, che tale capacità si può acquisire e sviluppare prevalentemente — per non dire solamente — attraverso un adeguato, approfondito, organico e prolungato processo di formazione, perché l’educatore possa porsi come interlocutore autorevole, che faccia crescere mentalmente l’interlocutore adolescente, piuttosto che come dispensatore di nor- me astratte o, peggio, come figura assente o portatrice di valori e   comportamenti ambigui, confusi e confusivi.
Vale a dire come una figura che aiuti a differenziare, chiarire, ovvero che aiuti a pensare e far pensare.
4.
Esemplificazioni 4.1.
A livello sociale e culturale A questo livello, la confusione e la sua idealizzazione significano sostanzialmente: non differenziare, indurre regressione e, unendo le due operazioni, regredire financo intenzionalmente verso l’indifferenziato; perseguire fantasie totalizzanti e fusionali (peraltro il problema è contenuto etimologicamente nel termine stesso di con-fusione); non accettare le diversità.
Significa mancanza di identità collettiva e di coesione sociale, la promozione di agiti, anziché di pensiero (la cosiddetta «politica del fare»); l’assenza di criteri morali, un egocentrismo diffuso.
In senso generale, possiamo dire che la confusione (e l’ambiguità) fa sì che, come osserva Argentieri, «oggi più nessuno si fa carico di porre limiti all’aggressività e alla sessualità» (2008, p.
81).
Ad esempio, frequentemente si sentono proclamare elogi e progetti di trasgressione quando, a dire il vero, sembra che nel mondo d’oggi, almeno in Italia, più che di trasgressione avremmo bisogno di rispetto delle regole e, dunque, la vera trasgressione consisterebbe oggi nel fare, onestamente e con costanza, il proprio dovere.
A tal proposito, un ulteriore e ancor più drammatico aspetto riguarda l’atteggiamento che la nostra società tiene (per bocca dei suoi rappresentanti più significativi e di maggior peso politico e culturale) verso la delinquenzialità, ovvero quello che davvero la nostra società fa o non fa per contenere e ridurre la violenza.
E qui va detto subito che non sembra che le nostre istituzioni siano sempre all’altezza della situazione nel contenere o nel reprimere adeguatamente — quando è il caso — i fenomeni di violenza che anzi spesso, colpevolmente e manipolatoriamente, vengono strumentalizzati a fini di parte o politici.
Ma è proprio in rapporto al problema della violenza che la nostra società (e in particolare quella italiana) corre il rischio di incrementare, quando non promuovere, la confusione, ovvero il modo più sicuro per favorire l’antisocialità giovanile o la sua deriva delinquenziale.
Winnicott scrisse che l’adulto, sia esso genitore o insegnante, deve vigilare affinché gli adolescenti, così come i bambini, «non si trovino di fronte a un’autorità tanto debole da permettere loro di imperversare e fare il diavolo a quattro oppure da costringerli, per paura, ad assumere essi stessi il ruolo di autorità» (1962, p.
193 trad.
it.).
E aggiungeva che «quando un individuo assume un ruolo autoritario per reagire alla propria ansia diventa un dittatore» (ibidem).
La confusione si osserva anche quando, anziché scoraggiare i giovani dall’idea che l’aggressività possa essere, in qualche modo, remunerativa o giustificabile (poiché questo indebolisce le inibizioni o rende addirittura moralmente giustificabile l’aggressività stessa), la si presenta come il modo più diretto ed efficace di risolvere i problemi, senza che né le famiglie, né le comunità, né le autorità preposte facciano nulla per sconfiggere questa tragica idea.
In Italia, purtroppo, siamo particolarmente esposti a questo problema perché abbiamo un terzo del territorio nazionale in mano alla delinquenza che fa della violenza e della distruttività l’unico argomento di persuasione.
Non dobbiamo poi scandalizzarci se vediamo sui giornali giovani di vent’anni, o anche meno, che ammazzano e rapinano: l’esempio viene dall’alto e il modello di relazione è che le controversie o le difficoltà si risolvono con la violenza.
La confusione tra diritto e sopruso, tra distruttività e civiltà, è totale e apparentemente irreversibile! 4.2.
Nella sfera politica In politica la confusione e l’ambiguità (e il loro perseguimento in genere manipolatorio e in malafede) godono, nella lingua italiana, di un termine e di un verbo particolarmente felici per definirli: «sollevare un polverone».
La confusione (il polverone) la si osserva in molteplici situazioni e in tante occasioni: quando si fa confusione tra democrazia e autoritarismo; quando non si fanno più differenze tra vittime e persecutori, oppressi e oppressori, tiranni e liberatori, democratici e autoritari.
Clamoroso, poi, è il caso  dell’equiparazione che, in Italia, negli ultimi anni, è stata fatta tra la lotta partigiana di liberazione — che aveva visto, tra l’altro, un’unione di tutte le forze democratiche dell’arco costituzionale — con il fascismo (o, addirittura, con i repubblichini di Salò) di cui si dimentica il carattere persecutorio e la follia di aver portato una nazione in guerra con centinaia di migliaia di morti, per non parlare dell’orrore delle leggi razziali.
Confusivo (oltre che un falso storico) è poi il tentativo di riabilitare politici ladri facendoli passare per statisti o di far passare per leader democratici quelli che sono stati leader manipolatori e autoritari.
La confusione in politica ha a che fare con la propaganda, che è la bugia trasposta sul piano collettivo, quel veleno sociale che fa ammalare, moralmente e relazionalmente, uno Stato.
Infatti, la menzogna, fondata sull’intorbidamento delle acque o sull’insabbiamento dei misfatti, distrugge le società e in ultima istanza fa perdere la cosa più importante: il senso di responsabilità.
4.3.
A livello dei leader In rapporto a questo ruolo, si può rilevare la confusione quando si idealizzano perversamente leader narcisistici e tirannici spacciando, come diceva Bobbio (1974), come forza ciò che, invece, è mera violenza e scambiando per capacità decisionale l’arroganza senza ascolto e senza attenzione alle persone.
L’adolescenzialità di tali comportamenti — che peraltro fanno intravedere alla base anche altri e ben più patologici problemi — consiste nel delegare proiettivamente le proprie pretese infantili onnipotenti su figure ritenute capaci (onnipotentemente appunto) di soddisfarle.
4.4.
A livello ideologico Possiamo parlare di un’ambiguità particolarmente ripugnante quando si osservano difensori della famiglia con due moglie e molteplici amanti; rappresentanti della legalità che vivono di truffe; presunti protettori della comunità che rubano allegramente; personaggi pubblici con responsabilità amministrative primarie che evadono le tasse; persone con ruoli di responsabilità pubblica che erogano favoritismi.
Persone insomma che, sulla carta, dichiarano esattamente l’opposto di quello che fanno, in pratica, senza nessuna preoccupazione di coerenza e con una sfacciataggine considerate apprezzabili in quanto segni di saper stare al mondo.
4.5.
A livello religioso Anche a questo livello non sono poche le situazioni confusive.
Si possono vedere in quei difensori della fede che professano l’intolleranza trasformando la religiosità, da fatto attinente al proprio foro interiore, a fatto secolare tutto esteriore.
A questo livello la confusione sta nell’interpretare e vivere la religione come un fatto di appartenenza di gruppo piuttosto che come vicenda individuale.
Qui lo stato mentale adolescenziale lo si vede in quei gruppi di «credenti» che mettono in atto manifestazioni esteriori più simili a quelle dei tifosi che a quelle dei religiosi.
In questo senso si può essere «baciapile» e non avere un’autentica religiosità, così come si può essere laici o agnostici, financo atei e avere un atteggiamento profondamente religioso verso la vita e gli oggetti animati e inanimati, poiché l’atteggiamento religioso è indipendente dalla fede (con la quale può, o non può, essere collegato), essendo invece la conseguenza di uno stato mentale etico di cui l’appartenenza religiosa è la versione esterna.
Non sono dunque le ideologie, i moralismi o le fedi che fanno acquisire un comportamento etico, ma avviene esattamente il contrario, poiché è la presenza di uno stato mentale etico che porta ad assumere un atteggiamento religioso autentico.
Ciò significa che io mi comporto «bene» non perché devo seguire regole religiose (qualsiasi esse siano) dettate da Mosè, ma assumo un atteggiamento religioso (indipendentemente dal fatto che lo faccia seguire dalla fede in qualche dio a mia scelta) perché prima ho una struttura etica nel mio mondo interiore.
Non siamo molto lontani  all’imperativo categorico kantiano che indica di perseguire il bene per il bene non in senso strumentale.
Questa posizione, di ispirazione psicoanalitica kleiniana, secondo la quale non è l’etica che discende dalla religione ma la religione che discende dall’etica, concorda con quella del filosofo franco-lituano Lévinas, che di questi argomenti si è occupato.
Anzi, ne fornisce una fondazione psicologica.
4.6.
Nei mass media Nei media è perfin troppo facile osservare come la confusione imperi.
Quando gli ignoranti, i volgari vengono trattati come star; quando osserviamo personaggi dal passato discutibile e dal presente censurabile che manipolano le persone e si configurano, in virtù della loro presenza continua e asfissiante, come maître à penser, mentre non fanno altro che contribuire all’addormentamento delle coscienze, questo sì — come sostenevano le vecchie teorie critiche dei media, oggi abbandonate ma da recuperare — è al servizio del potere.
O quando personaggi maleducati e prepotenti occupano spazi mediatici importanti, presentando un modello di relazione e di «dialogo» in cui conta chi urla più forte, chi interrompe l’altro, chi insulta e accreditando tutto questo come esempio di preparazione culturale o «visione» politica, mentre non si tratta che di mera maleducazione.
Una confusione, questa mediatica, davvero drammatica perché trasmette un modello di relazione e di comunicazione di gruppo del tutto distruttivo, privo di qualunque rispetto e attenzione per l’altro.
Assenza totaledi ascolto, insomma.
Per quanto riguarda la televisione, nello specifico, la rinuncia a qualunque intento pedagogico non significa che non svolga egualmente una funzione pedagogica: la svolge ed è quella di mostrare che tutto è uguale a tutto, dai programmi più beceri di intrattenimento in prima serata, a quelle — poche — trasmissioni serie in cui si cerca di promuovere informazione critica e capacità di pensiero.
Purtroppo molti di questi pessimi personaggi mediatici, promotori di confusione e ambiguità, sono delle figure di riferimento per i giovani adolescenti; anzi, oggi, si assiste a un fenomeno inverso, ovvero al fatto che molti adolescenti assurgono, o vengono fatti assurgere, essi stessi a figure di riferimento, portando nel loro essere tutta l’incompletezza culturale ed esperienziale della loro età ed esibendola come una qualità auspicabile.
Nella nostra società, dunque, i media hanno spesso una funzione patologizzante mentre potrebbero averne una terapeutica.
Creano malessere quando seminano ansie o assuefazioni anestetizzanti, cioè incapacità di sentire e pensare mentre potrebbero (dovrebbero) contribuire a creare benessere dando informazioni adeguate e critiche, aiutando a pensare, a distinguere, a differenziare e diventando spazioluogo per elaborare i fenomeni sociali della vita quotidiana.
Come dire che anche i giornali, la TV e la radio (oltre alla scuola) potrebbero essere degli psicoterapeuti se aiutassero a uscire dalla confusione invece di incrementarla.
4.7.
Nelle organizzazioni sociali Nelle organizzazioni produttive e sociali, private e pubbliche, si nota la confusione quando, mentre si dichiara di voler premiare l’autonomia, la creatività e la collaborazione, di fatto si premia esattamente l’opposto, ovvero la dipendenza, il conformismo e il pensiero convergente; quando si premiano gli esecutori piuttosto che gli innovatori, i doppio-giochisti piuttosto che le persone corrette.
Nelle organizzazioni, insomma, l’ambiguità e la confusione si osservano quando si presta più attenzione ai rapporti di potere all’interno delle organizzazioni stesse che al servizio rivolto all’utente.
L’adolescenzialità di tali comportamenti consiste nel preoccuparsi di sé piuttosto che dell’altro, come se non si riuscisse a transitare da una posizione egocentrica a una decentrata.
4.8.
A livello familiare La confusività è particolarmente grave a livello familiare perché impedisce la differenziazione e la separazione istituendo schemi relazionali invischianti fino al limite della psicotizzazione, come bene hanno messo in luce le ricerche della Scuola Sistemica.
Ancora una volta, non si può non concordare con Simona Argentieri quando scrive che oggi «separarsi, differenziarsi non solo è faticoso, ma non è più un valore» (2008, p.
46).
La confusività si rileva anche in quei genitori che, anziché svolgere il loro ruolo genitoriale, vogliono fare gli «amici» dei figli assumendo imbarazzanti atteggiamenti giovanilisti, segnale dell’incapacità di accettare il passare del tempo o di un’invidia non elaborata verso i giovani.
Vecchi che non accettano di essere tali e adulti che adottano comportamenti fuori tempo: adulti bambini.
E ancora la confusività si manifesta quando non c’è più differenziazione tra madri e padri, ruolo paterno e materno, laddove ci sono madri tutte centrate sulla carriera, e quindi molto «maschili», e padri che fanno i «mammi», rinunciando all’esercizio della funzione normativa paterna, psicologicamente necessaria al processo di crescita del figlio.
4.9.
A livello di identità di genere La confusione appare quando non si fanno più differenze di identità tra uomini e donne, maschile e femminile.
Ad esempio, io penso che l’irruzione sulla scena pubblica dei transessuali, a questo proposito, sia emblematica: queste figure che sono uomo e donna contemporaneamente ben incarnano la fantasia onnipotente di un essere umano senza limiti, che sia tutto.
Non mi riferisco — sia ben chiaro! — ai singoli individui, con i loro spesso drammatici problemi e con le loro sofferenze; faccio invece riferimento a un certo uso sociale di queste figure per trasmettere un modello di non accettazione dei limiti poiché, laddove si ha un’identità da maschio, non si potrà mai averne una da donna e viceversa.
L’accettazione di questo limite costitutivo degli esseri umani, ossia il riconoscimento della propria non onnipotenza, è l’essenza più vera del cosiddetto complesso d’Edipo e infatti la sua acquisizione va sotto il nome di competenza edipica.
Nell’idealizzazione della confusione che spesso il mondo adulto presenta all’adolescente c’è, invece, esattamente il contrario e questo è davvero molto patologizzante a livello individuale e sociale, nel senso che non si trasmettono implicitamente più delle regole e delle limitazioni ma tutto appare onnipotentemente possibile.
Anche la giusta condanna dell’omofobia e la sacrosanta attenzione ai diritti degli omosessuali rischiano di capovolgersi in un’esaltazione acritica, sbrigativamente solidale, dei comportamenti sessuali non tradizionali (per così dire) di cui l’esempio più eclatante sono i Gay Pride, quasi che la scelta o l’orientamento o l’identità omosessuale (come la definiscono le più recenti ricerche statunitensi) non fosse un fatto privato, ma una fonte di orgoglio.
Mi sono sempre chiesto — e neppure tanto scherzosamente — se allora, su questa logica confusionale e capobozza volta, non si dovrebbe fare anche un «etero-pride» o un «impotence pride» o un «non-mi-interessa-per-nulla-il-problema pride».
4.10.
A livello di psicopatologia individuale A questo livello la confusione si manifesta quando non si fa nessuna differenza tra sani o matti.
Questo problema fu già proprio della deriva antipsichiatrica quando, condannando giustamente l’obbrobrioso stigma che colpiva i malati mentali con la concomitante istituzionalizzazione, si finiva, come dicono gli inglesi, con il buttare il bambino con l’acqua del bagno, ovvero con il negare la malattia mentale stessa: nessuna differenza tra persone (relativamente) sane e persone palesemente matte le quali, alla fin fine, sono persone che soffrono e, se si nega la loro malattia, di fatto si nega la loro sofferenza, finendo in tal modo per riproporre proprio quell’esclusione che si voleva combattere.
4.11.
A livello psicologico Anche a livello psicologico la confusione dilaga: nei mass media, come nell’opinione pubblica corrente, la psicologia viene trattata e considerata per lo più in modo confuso, generico e illegittimamente semplificatorio (cfr.
Blandino, 2000) e non viene adeguatamente differenziata e diversificata, non solo nei suoi vari orientamenti, talvolta del tutto opposti, ma nemmeno nei suoi molteplici campi applicativi: cosi questa disciplina si trasforma, da scienza, in un qualcosa di magmatico e indefinito, confuso appunto, dove le affermazioni generiche e superficiali, le confusioni tra psicologia e scienze contigue, le sovrapposizioni di ruoli o le imprecise attribuzioni di competenze si manifestano a vari livelli e in vari modi.
4.12.
Nella sfera scolastica Infine, la confusione è presente nel mondo della scuola che è il settore che, in questa sede, più ci interessa.
La confusione si può osservare quando vediamo docenti che abdicano al proprio ruolo annullando le differenze (ad esempio dandosi un reciproco «tu» automatico con gli allievi, senza alcuna previa elaborazione) in nome di una maggiore vicinanza emotiva allo studente, che è tale solo all’interno del rispetto della diversità dei ruoli e delle regole.
O quando non ci sono più differenze tra i compiti/doveri dei genitori e delle famiglie e i compiti/doveri e diritti degli insegnanti.
Dunque, per i suddetti motivi, qui rapidamente elencati, l’adolescente, per lo stato mentale che gli è proprio, si trova a essere, tra i vari soggetti sociali, quello che è maggiormente danneggiato dalle componenti confusive della nostra cultura contemporanea.
Infatti gli adolescenti che, come dice Di Chiara, «sono spinti da una movimentazione di affetti di base, amore, curiosità, entusiasmo, sdegno, e lottano per trovare l’espressione migliore al loro senso di individuazione», a fronte di un siffatto mondo adulto vengono coinvolti in quelle che lui chiama sindromi psicosociali, situazioni psicopatologiche che hanno funzioni difensive e di cui la confusività e l’ambiguità sono un esempio assai problematico (1999, p.
16).
Per dirla altrimenti, gli adolescenti si aspettano di trovare adulti che abbiano risolto i problemi della confusione e che li aiutino a risolverli, non adulti che incrementino ulteriormente questa confusione.
Si aspettano di trovare una società che cerchi di riconoscere e soddisfare i bisogni autentici degli individui, mentre, attraverso la confusione e l’ambiguità, non si fa che offrire una sorta di appoggio sociale alle difese nevrotiche individuali.
Così accade che troppo spesso agli adolescenti non vengano offerti esempi di funzionamento mentale adeguato, ma vengano presentati esempi di funzionamento superficiale o difensivo, evacuatorio di tutto ciò che può creare pensiero.
Non escludo che molti comportamenti adolescenziali aggressivi o antisociali dipendano proprio da questa diffusa confusività e assenza di regole, perseguita dal mondo degli adulti o inconsapevolmente e quindi irresponsabilmente, o intenzionalmente e quindi psicopatologicamente.
Le condotte aggressive adolescenziali, in questo caso, possono anche essere lette come un modo per manifestare all’esterno un’angoscia che non si riesce a contenere e a elaborare, un comportamento impulsivo che serve a espellere dalla propria mente contenuti troppo dolorosi per poter essere tollerati e pensati.
Ma il risultato è concretamente tragico.
3.
Adolescenza come processo di elaborazione della confusione In una situazione psicologica di questo genere, l’adolescente, allorché cadono le certezze infantili, sperimenta uno stato di grande confusione e insicurezza (in cui tutto può essere normale e tutto può essere patologico), alla cui elaborazione possono essere ricondotti i comportamenti, le attività di scuola e tempo libero, i tipi di relazione, i sentimenti e i pensieri degli adolescenti intesi come un modo per cercare di risolvere questo stato.
La confusione, dunque, è una delle caratteristiche (normali) dello stato mentale adolescenziale e dei giovani.
È per questo motivo che Meltzer parla, in maniera suggestiva, dell’adolescenza come di un processo di elaborazione della confusione (1978).
Pertanto, se il processo di crescita è adeguato, il soggetto evolve da uno stato di confusione emotiva interna verso uno stato di chiarezza e consapevolezza del ruolo adulto e dell’abbandono degli stati mentali infantili.
Ma quando questa operazione, del tutto fisiologica anche se non priva di autentica sofferenza (la cosiddetta «crisi adolescenziale»), non va a buon fine, o trova intralci emotivi troppo forti, il rischio è che vi sia un capovolgimento della situazione e ciò che è problematico diventi auspicabile: in altri termini il rischio è che vi sia un’idealizzazione della confusione considerata, anziché come qualcosa di problematico e patologico, come qualcosa di apprezzabile e di valore.
Accade così che sovente gli adolescenti scivolino in questo tipo di idealizzazione che è pericolosissima per tutte le complicazioni a cui dà origine.
Ad esempio, in questo periodo (dico in «questo» periodo perché questi gruppi cambiano di frequente) si è formato un gruppo di giovani adolescenti che vanno sotto il nome di Emo (diminutivo di «emozionale» e termini correlati).
(5 )  Nelle dichiarazioni e nei comportamenti di questo gruppo si può notare chiaramente l’idealizzazione della confusione, perseguita come un valore: parlano di confusione sessuale, emotiva, ideologica, perfino verbale, accompagnata da abbigliamenti, capigliature, piercing, stili di comunicazione, ecc., tutti tesi a sottolineare quest’ambiguità di base.
Ora, a parte i risvolti psico-patologici (di tipo borderline) di alcuni comportamenti messi in atto dai membri di questi gruppi; a parte taluni aspetti francamente comici e grotteschi che li caratterizzano; a parte, infine, la concomitante assenza di una cultura di base — vale a dire questi membri sono degli emeriti ignoranti! (perché va pur detto che conoscere e studiare è un dovere per un adolescente, al di là di tutta la possibile comprensione che si può nutrire nei loro confronti per le loro difficoltà) —, l’osservazione di questi gruppi esemplifica, come meglio non si potrebbe, a quali livelli di patologia individuale e collettiva fa approdare la confusione quando viene idealizzata come un valore.
 L’idealizzazione della confusione si ha quando non si fanno più differenze, quando cioè, per dirla hegelianamente, siamo in una  notte nera in cui tutte le vacche sono nere.
Ciò è ben testimoniato da una docente di psichiatria in una scuola per infermieri professionali che, a fronte delle difficoltà degli studenti a orientarsi nel campo e a comprendere le varie teorie e tecniche, sosteneva che il suo scopo non era di farli uscire dalla confusione ma di creargliene ancora di più: «Devono essere confusi», diceva compiaciuta, credendo in tal modo di addestrarli al pensiero critico senza accorgersi che finiva per fare esattamente il contrario.
Ma va detto che la docente stessa era la prima a essere confusa e, sapendo che esercitava la professione psichiatrica, lascio immaginare al lettore quanto bene potesse svolgere il suo lavoro con i suoi pazienti, partendo da questi presupposti.
L’idealizzazione della confusione è testimoniata anche da quell’educatore (con una mentalità davvero adolescenziale, nel senso peggiore del termine) che con i suoi utenti non distingueva tra i vari modelli, metodi e strumenti di intervento e di lavoro (psicologici, sociologici, pedagogici) usandoli ecletticamente, ma di fatto in modo «pasticciato», senza averne chiare le diversità di base, con nefasti risultati.
I danni di una confusione non elaborata sono ben raccontati anche da quello studente di un mio corso di psicologia dinamica che alcuni anni fa mi chiese: «Ma noi poveri studenti, passando da una teoria all’altra, da un opposto all’altro, come possiamo farci un’idea della psicologia senza diventare pazzi?».
Affermazione che, nella sua ingenuità esemplare, ci dice del bisogno dei giovani di fare un’integrazione delle esperienze conoscitive, esigenza che non trova né risposta, né aiuto da parte della struttura accademica.(6) Quando tale idealizzazione della confusione è ratificata esplicitamente o implicitamente dagli adulti: genitori, insegnanti, opinion makers, leader vari o figure di riferimento o, infine, mass-media, ne conseguono effetti a dir poco disastrosi dove, nella migliore delle ipotesi, c’è una collusione, da parte degli adulti, con l’adolescente, a dimostrazione di come gran parte del mondo adulto sia in effetti ancora adolescenziale.
Molti problemi sociali odierni nascono proprio da questa confusività che, in questa luce, appare espressione di una società adolescenziale o di modalità adolescenziali di gestire il potere o di vivere nel sociale.
E qui veniamo al punto che ci interessa.
La confusione propugnata come fattopositivo, o non combattuta, costituisce, a mio modo di vedere e per i motivi che ho cercato di illustrare, una delle principali cause del malessere sociale e giovanile in particolare.
Malessere, si badi, spesso esperito e vissuto dagli adolescenti senza consapevolezza e coscienza, ma solo come una forma di disagio esistenziale, estrinsecato magari attraverso disagi fisico-somatici (anoressia, bulimia), comportamenti tossicomanici, antisociali o autodistruttivi.
Un illuminante approfondimento psicoanalitico dei danni della confusività e della non differenziazione lo si trova nel saggio di Simona Argentieri L’ambiguità (2008), nel quale si mostra quanto la confusione si manifesti nella forma dell’ambiguità (spesso supportata dalla malafede) e quanto la nostra società sia confusiva.
Nel saggio si illustrano gli ambigui e molteplici comportamenti pubblici delle figure che dovrebbero avere un ruolo, se non di guida, almeno di esempio e si spiega come tutto questo sia rovinoso per la salute mentale dei singoli individui, per i rapporti lavorativi nelle organizzazioni, per i rapporti sociali nella comunità e, in ultima istanza, per la convivenza civile.
Come a dire che confusione e ambiguità sono causa ed effetto, al contempo, di comportamenti delinquenziali e omertosimafiosi, (7) poiché è nella confusione, nell’ambiguità, nella mancanza di chiarezza, nella vischiosità delle relazioni che prosperano l’intrigo, il delitto, la manipolazione, ovvero tutto ciò che è, per definizione, antidemocratico e naturalmente, per restare al nostro ambito, antieducativo.
In termini psicoanalitici possiamo dire che la confusione e l’ambiguità sono funzioni psichiche proiettive, ovvero quelle per cui si espelle dalla propria mente e dal proprio sentire tutto ciò che è problematico, attribuendolo o scaricandolo sugli altri, colpevolizzandoli, senza mai prendersi la responsabilità di ciò che si fa, si pensa, si sente.
La confusione e l’ambiguità, dunque, sono il frutto del rifiuto di assumersi le proprie responsabilità e quindi di fare l’esperienza della conflittualità.
E in definitiva l’indifferenziato e il confusivo hanno una funzione di rifugio regressivo contro le angosce della vita e il doversi confrontare con i suoi limiti e le sue limitazioni.
Ma va anche precisato che una certa confusione e un certo disorientamento sono, per così dire, normali nella misura in cui l’incontro con il nuovo, se è davvero incisivo e non relega l’esperienza conoscitiva a mero fatto intellettualistico, e quindi difensivo, è sempre fonte di incertezza.
Infatti, quello che si sperimenta nell’esistenza umana, ad esempio quando si incontra un’altra persona o ci si confronta con una nuova esperienza, comporta sempre una certa dose di angoscia confusionale, come qualcosa che è intrinseco nel processo di conoscenza, la paura di perdere le proprie possibilità di pensare.
Una conoscenza significativa dunque è — per definizione — sempre disorientante poiché scardina il modo di vedere precedente e obbliga a confrontarsi con difficoltà, irritazioni, rifiuti.
Di una certa confusività quindi bisogna fare tesoro e non spaventarsi, ma piuttosto riflettere sul perché si provano delle confusioni e in che misura ci sono delle difficoltà a mettere insieme dei punti di vista che talvolta sono realmente diversi.
A questo punto del mio discorso devo tuttavia fare una precisazione: ciò che intendo stigmatizzare non è la confusione in sé che, come si è detto, fa parte del normale sviluppo psichico dell’adolescente, ma la sua idealizzazione da parte degli adulti — questa sì patologica — che va a colludere con l’idealizzazione degli adolescenti e sconfina, consciamente o inconsciamente, nell’ambiguità.
Un po’ come se, per riprendere l’esempio precedente degli Emo, un genitore che si accorgesse che il proprio figlio partecipa a gruppi di tal fatta, anziché aiutarlo a uscirne e a elaborarne le problematiche sottostanti, lo incoraggiasse e lo approvasse.
O come se — e purtroppo sovente capita — non se ne accorgesse nemmeno e se ne disinteressasse.
O, addirittura, se ciò lo divertisse.
Dunque, della confusione e dell’ambiguità ciò che va stigmatizzato è il suo «andare al servizio della contraddizione e della malafede» (Argentieri, 2008, p.
103).
Perciò, se in qualche misura è inevitabile e perfino fonte di creatività («è dal caos che è nato il mondo» come si dice!), va tuttavia risolta, altrimenti, anziché essere fonte di soluzioni innovative, creative appunto, diventa fonte di stagnazione, regressione, sofferenza.
Nello specifico, se in adolescenza la confusione è — relativamente — fisiologica e si configura come uno stato della mente in evoluzione, nel mondo adulto il prezzo che si paga è altissimo poiché si configura come una vera e propria patologia sociale, indicatrice di permanenza di stati mentali adolescenziali non elaborati e dunque forieri di varie problematiche che causano quel malessere, non solo più adolescenziale, di cui i giovani, per la loro fragilità emotiva intrinseca, sono drammaticamente tra i più colpiti e vittime.
Il mantenimento (o addirittura la promozione) di stati confusionali, se è consapevole e intenzionale, si configura come una vera e propria manipolazione delle coscienze, non solo eticamente condannabile, ma strutturalmente dittatoriale.
Se invece è inconsapevole, si configura come sintomo di grave patologia psichica (e sociale).
Evitare la confusione dovrebbe dunque essere, se non un imperativo categorico, almeno un costante e sorvegliato impegno morale (a maggior ragione per chi svolge funzioni educative o politiche) perché, come scriveva il filosofo Gianni Vattimo,8 «la confusione mentale non è un gioco innocente, un puro problema privato di letture mal digerite e di entusiasmi mal riposti», bensì «una minaccia che ci tocca tutti, magari senza mettere a repentaglio la nostra fisicità, ma con il rischio di ridurre alcune libertà, borghesi e banali, di cui godiamo» (1998, p.
24).
Tutto ciò comporta che coloro i quali ricoprono ruoli di responsabilità educativa o politica e che, in quanto tali, dovrebbero svolgere una funzione protettrice ed evolutiva, non dovrebbero mai essere o farsi complici degli aspetti più regressivi e distruttivi.
Nel sociale si osserva a vari livelli la presenza di confusioni o la loro idealizzazione — propria di stati mentali adolescenziali non risolti —, che sconfina immediatamente nell’ambiguità e nel suo elogio.
Ne indicherò alcuni per esemplificare concretamente quanto sto affermando.
i Barbera 5.
Quale aiuto da parte degli adulti? In questa prospettiva è evidente che chi svolge funzioni educativo-formative con una popolazione adolescente dovrebbe non solo essere consapevole di queste problematiche, complesse e delicate, ma anche evitare, per conto suo, di intralciare il processo di crescita di soggetti che sono impegnati in una battaglia psicologica così vitale, opponendo competenza a confusione, chiarezza di relazioni a vischiosità, ascolto a imposizioni, presenza a disinteresse, tolleranza ad autoritarismo, riflessioni in comune a direttive calate dall’alto da supposti esperti.
Compito degli adulti — genitori e educatori vari — dovrebbe perciò essere quello di aiutare gli adolescenti a elaborare questa confusione o almeno di creare delle condizioni in cui i giovani e gli adolescenti possano pensare e crescere.
Infatti, senza questo aiuto gli adolescenti si sentono privi di punti di riferimento, con i quali magari anche contrapporsi, ma tali da poter offrire loro un contenimento.
Allo stesso tempo e allo stesso modo, compito di una società «sana» dovrebbe essere quello di creare, nelle sue varie componenti, le condizioni in cui i giovani possano essere aiutati a evolvere emotivamente, oltre che a discernere intellettualmente, sviluppando un pensiero critico e non un’omologazione addormentata su modelli consumistici o superficiali veicolati da ipnosi collettive o mass-mediatiche.
Invece, muoversi nella direzione opposta, con messaggi contraddittori o ambigui o con vere e proprie mistificazioni della realtà attuale e storica, è il modo più sicuro non solo per non fermare il disagio e la violenza giovanile, ma anche per incrementarli cinicamente.
Il modo «giusto» di porsi verso l’adolescente consiste dunque nel cooperare con lui, nell’ascoltarlo più che nel dargli veri e propri consigli, anche se è vero che l’adolescente va un po’ guidato.
L’apparente contraddizione si risolve laddove si pensi che si può essere guida per l’adolescente non necessariamente impartendo ordini e distribuendo direttive, ma piuttosto accettando che i consigli dati vengano discussi dal giovane, magari criticati e contestati.
Anche la disciplina, seppure mal tollerata, è necessaria perché è un mezzo per proteggere l’adolescente dalle sue forze distruttive interne.
Ma le proibizioni e le norme disciplinari all’interno della scuola, come nella vita quotidiana, hanno senso solo se vengono spiegate, se l’adulto fa sentire al giovane che sono dettate da una reale preoccupazione per lui e per il suo sviluppo, non da una mera attenzione per un astratto rispetto delle norme o, peggio, come intrusiva forma di controllo.
Infatti, se percepisce tutto questo come delle mansioni riduttive, infantilizzanti, che gli tolgono autonomia e identità, anziché come qualcosa proposto in funzione della sua crescita, per fargli acquisire nuove potenzialità, l’adolescente è riluttante ad accettare norme e direttive disciplinari.
Inoltre, poiché l’adolescente non esaurisce le sue informazioni e le sue possibilità di incontro nell’ambito scolastico, può capitare che viva i carichi di studio e di proibizioni come un ostacolo che lo intralcia nella possibilità di fare nuove esperienze di vita.
Perciò va «maneggiato» con cura e, nel suo processo evolutivo, va assistito da un adulto che sappia condurlo fuori dalla confusione facendosi gradualmente da parte.
In concreto l’adulto potrà, ad esempio, parlare all’adolescente delle sue paure, talvolta perfino delle sue disperazioni.
Non certo formulando spiegazioni razionalizzanti o tirando in ballo l’inconscio; tanto meno incasellandolo in quadri diagnostici che emotivamente denotano solo il bisogno di distanziarsi dall’adolescente; non tanto dandogli esortazioni o peggio norme moralistiche («non fare così, fai questo, reagisci, ecc.»), ma parlandogli invece della sua angoscia, dei suoi timori e delle sue speranze.
E accettando anche che il giovane possa non voler parlare o interagire con l’adulto (genitori, insegnanti o educatori vari) ma voglia tenersi i suoi problemi per sé, come a difesa della propria privacy, ossia dei propri spazi mentali interni.
In ogni caso, il primo atto che dovremmo compiere dovrebbe essere quello di resistere alla tendenza di etichettare il comportamento e avere pazienza per capire meglio che cosa sta succedendo non solo all’altro ma in primo luogo a noi stessi, nel momento in cui siamo in relazione con quel particolare soggetto (che, ad esempio, ci irrita o ci offende).
Le indicazioni che ci giungono dalla prospettiva psicodinamica per quanto riguarda le operazioni mentali e relazionali che promuovono il benessere dei giovani sono dunque molto precise: aiutare a contenere l’angoscia e a modularla, piuttosto che a difendersene o addirittura a evacuarla dalla propria mente.
In parole povere, aiutarli a entrare in contatto con i propri sentimenti e le proprie emozioni o, per dirla con uno slogan, aiutarli a dare conoscenza ai sentimenti e sentimenti alla conoscenza.
Se è vero, per citare la ben nota affermazione di Pascal, per cui il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce, altrettanto potremmo dire della crescita ovvero che la crescita, intesa come fatto mentale, vuol dire imparare a conoscere le ragioni del cuore, ma anche dare cuore alla ragione.
Dunque, i fattori che favoriscono il benessere psichico e la salute mentale dei giovani (ma non solo) possono essere considerati come equivalenti alla capacità di riconoscere, tollerare ed elaborare la sofferenza psichica, cioè come equivalenti alla capacità di contenerla o alla possibilità di essere aiutati a contenerla.
Viceversa, i fattori che la ostacolano o inibiscono sono identificabili nelle forze distruttive della mente la cui mancata elaborazione e integrazione dà luogo, come ricordano Meltzer e Harris (1983, p.
3), alla perdita di attitudini e capacità intellettuali, di abilità linguistiche e, in generale, a un impoverimento della vita sessuale e delle relazioni amorose che favorisce l’instaurarsi di una sessualità perversa, lo sviluppo di tendenze antisociali o di forme di tossicomania e, in ultima istanza, di malattie mentali.
E, aggiungerei, allo sviluppo di anticonoscenza.
6.
Nuove competenze per gli educatori In primo luogo tutto ciò comporta una scuola che non si riduca a uno strumento di sola preparazione tecnica, perché in tal caso sarebbe (è) una scuola inadeguata.
Ma in secondo luogo comporta anche un insegnante/educatore che sia in grado di svolgere, oltre alle funzioni strettamente cognitive, anche le ineludibili funzioni affettive, poiché, così com’è necessaria una madre che abbia capacità di contenere per poter aiutare la strutturazione del Sé del bambino (Winnicott chiama questa funzione holding), altrettanto potremmo dire: nei processi educativi, è necessario che l’educatore sappia svolgere questa funzione per permettere all’adolescente lo sviluppo di un adeguato senso del Sé.
Di quest’ultima funzione gli insegnanti e la scuola sono ampiamente carenti, limitandosi per lo più a fornire informazioni senza che vi sia la possibilità di discutere, approfondire, confrontarsi ed essere supervisionati sui vari casi che si presentano nella quotidianità.
Occorre dunque un insegnante che sappia riconoscere e gestire le dimensioni emozionali, relazionali, soggettive — in una parola psicologiche — che attraversano il processo di apprendimento e insegnamento e la mente del giovane.
Un contributo in questa direzione viene dall’insegnante o dall’educatore che possiede quelle che possiamo chiamare capacità o competenze relazionali, capacità di contatto o di contenimento, capacità di identificazione o empatiche.
Espressioni diverse per indicare la stessa cosa ovvero quella che ho chiamato, sulla scorta di Bion, la funzione psicologica della mente (Blandino, 2009).
Questa funzione (queste competenze, queste capacità) non è data «per natura», ma va attivata, acquisita e sviluppata tramite opportuni, coerenti e costanti processi formativi.
E dunque, al termine della mia disamina, devo dire che la condicio sine qua non per la promozione di condizioni di benessere mentale giovanile passa, in primo luogo, attraverso la presenza di operatori adeguatamente formati, emotivamente maturi e in grado di assumersi quella che mi piace chiamare la responbozza sabilità emotiva, ovvero la consapevolezza di come l’educatore si pone e di cosa accade nella sua mente quando interagisce con i suoi giovani interlocutori.
Perciò mi piace concludere citando il pensiero di Vittorio Foa — uomo della Resistenza, intellettuale e politico ebreo, perseguitato dal fascismo, uno dei padri dell’Italia liberata, esponente di spicco del movimento di liberazione Giustizia e Libertà — che, poco prima di morire, rispondendo a un’intervista giornalistica sui problemi della scuola, dell’ educazione e della formazione dei giovani e sulle necessità che comportano, osservò che abbiamo dimenticato qual è il ruolo dell’esempio: «un insegnante» disse «prima di tutto deve dare l’esempio!».
NOTE 1 Questa proposta di definire l’adolescenza non solo come un periodo della vita e dello sviluppo umano ma, prima ancora, come uno stato della mente si collega ai concetti di stato mentale adulto e stato mentale infantile di Meltzer e Harris (1983).
Con tali espressioni non si designano momenti temporali, né si implicano giudizi di valore morale.
Lo stato adulto della mente è conseguente all’acquisizione della posizione depressiva (di kleiniana memoria, 1937; 1959) e quindi è sempre caratterizzato da intenzionalità.
Secondo Meltzer e Harris, l’individuo mentalmente adulto tende a porsi delle finalità ed è privo di qualsiasi idea di obbedienza a precetti morali che prescrivano o vietino determinati comportamenti, poiché questo comporterebbe un indebolimento del senso di responsabilità individuale che si fonda su scelte raggiunte attraverso conflitti di natura esclusivamente interiore (1983, p.
75).
Gli stati mentali infantili rappresentano, invece, l’opposto della posizione adulta e quindi in qualche modo l’opposto della salute mentale e delle capacità relazionali.
La persona che opera da una posizione mentale di questo genere al massimo potrà possedere delle abilità tecniche, ma certamente non delle capacità autentiche di operare, ascoltando e comprendendo.
Sono persone anche di successo pubblico e sociale ma emotivamente così immature da creare danni agli altri e ai gruppi nei quali operano, cui fanno pagare i loro successi esterni, a fronte della povertà emotiva interiore.
La struttura adulta della mente si forma molto presto e se ne possono individuare tracce anche in bambini molto piccoli, così come stati infantili sono ben presenti nella vita adulta.
2 È la cosiddetta «élite senza potere», di cui parlava Alberoni nel 1973, costituita da sportivi, attori, personaggi dello spettacolo, personaggi massmediatici, ecc.
3 L’etimologia della parola «adolescente» ci dice molto delle vicissitudini emotive e psichiche di questo periodo della vita.
Infatti il termine deriva dall’omonimo latino adolescens e significa «in via di crescita», essendo composto dalla preposizione «ad» e dal verbo «alere» (da cui anche «alunno »), cioè alimentare e nutrire.
L’adolescente dunque, come ci mostra la storia della parola, è un essere in via di crescita che ha bisogno di essere nutrito e alimentato.
Non solo fisiologicamente, ma anche mentalmente.
4 Questo paragrafo riprende parti della trattazione sulle problematiche adolescenziali che ho svolto nel cap.
5 del testo La disponibilità ad apprendere (2002a) e nel cap.
12 del testo Le risorse emotive nella scuola (2002b).
Entrambe le opere sono state scritte in collaborazione con B.
Granieri.
5 Chi volesse averne una riprova pratica e visiva, e non volesse andare a cercarli in qualche piazza delle nostre città — Roma in primis —, ne può trovare ampie esemplificazioni dal vivo digitando su you tube il termine «emo».
Oppure può vederne una simpatica caricatura nel recente film di Verdone Io, loro e Lara.
6 Anche se il lettore mi permetterà di rivendicare, senza ombra di presunzione, la mia personale e costante attenzione a muovermi, didatticamente, con i miei studenti, nella direzione di aiutarli a chiarire ciò che imparano durante il loro percorso universitario.
Atteggiamento che tengo propro in conseguenza di ciò che sto enunciando e stigmatizzando.
7 Anche la mafia, prima di essere una tragica realtà criminale reale, è uno stato della mente, fondato sulla menzogna, l’occultamento, la falsità.
Lo stato mafioso della mente è quello in cui le istanze psicopatologiche personali la fanno da padrona, impedendo la conoscenza e l’autoconoscenza, evitando omertosamente di far parlare tra loro parti di sé, in un quadro persecutorio, onnipotente e delinquenziale che appartiene a una logica di funzionamento primitivo di tipo schizoparanoide.
Infatti, sappiamo che, se ragioniamo dal punto di vista psicoanalitico, il mentire è il segno più grande della perversione, mentre la salute mentale si fonda sulla ricerca della verità, come già sosteneva Freud e ribadì Ferenczi.
Per parte sua Bion ricordò che la verità è il nutrimento della mente mentre la bugia ne è il veleno (cfr.
anche Blandino, 2009, cap.
21).
A conforto di quanto vado dicendo, voglio citare un’intervista di qualche anno fa, dell’allora procuratore antimafia Vigna, il quale disse: «il mafioso, per definizione, mente.
Mente sempre».
Possiamo perciò ritenere che ogni gruppo sociale, ampio o piccolo che sia, se si fonda sulla menzogna è strutturalmente mafioso, indipendentemente dal fatto che poi abbia anche delle vere e proprie declinazioni criminali.
8 A proposito di un film censurato e di un articolo confuso che difendeva la censura in nome di presunti valori cristiani.
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In questa prospettiva l’autore sostiene che l’adolescenza, prima di essere un periodo reale, è uno stato mentale che può caratterizzare qualunque persona, in qualunque periodo della vita; e che, se i giovani adolescenti trovano un mondo adulto che permane in questo stato mentale, difficilmente avranno la possibilità di sviluppare benessere emotivo, ma più spesso svilupperanno disagi sfocianti in varie manifestazioni patologiche individuali e sociali.
Il compito primario di un educatore è dunque quello di assumersi la responsabilità emotiva della propria mente, attraverso un adeguato, approfondito, organico e prolungato processo di formazione.
2.
Dinamiche psicologiche dell’adolescenza (4) Mentre il mondo infantile è un mondo relativamente stabile, da un punto di vista emotivo, l’adolescenza, come ricorda Anna Freud (1969), si configura come un periodo di grandi mutamenti corporei, intellettuali, affettivi e sociali, che hanno un rilevante contraccolpo sul mondo interno del giovane e sul suo modo di vivere ed elaborare le esperienze con cui viene in contatto.
Anche da un punto di vista prettamente cognitivo, si osservano cambiamenti nella sfera intellettiva che spingono l’adolescente a porsi molte domande su di sé, a ragionare e a riflettere sui grandi temi della vita (Piaget, 1969).
A causa di tutti questi mutamenti, nell’adolescenza si inizia ad abbandonare gli schemi di adattamento che erano tipici dell’infanzia (cfr.
Josselyn, 1971) e a sperimentare nuovi modi di comportamento per risolvere i propri problemi.
I quali, però, per quanto siano molteplici, complessi e diversificati, hanno una finalità comune: la conquista della propria identità (Erikson, 1968).
L’adolescenza, dunque, è un processo di sviluppo nel quale l’individuo è orientato alla conquista di uno stabile senso del Sé (Spiegel, 1964), per raggiungere il quale compie un drammatico e spesso tormentato lavoro interiore passando attraverso conflitti e confusioni, prove ed errori, confronti e scontri, paure ed emozioni, in una situazione di incertezza e di dolore che costituisce il risvolto emotivamente più impegnativo.
Il soggetto di età adolescenziale si trova dunque a vivere un’alternanza tra essere grande, adulto e fare quindi cose da grande — talvolta anche realmente pericolose — e al contempo essere piccolo, bambino e avere bisogni da bambino.
Perciò, mentre conserva ancora bisogni di protezione, di tipo materno, manifesta contemporaneamente una necessità di indipendenza e quindi una scarsa sopportazione della protezione.
Così, nella battaglia per crescere, gli adolescenti attraversano un conflitto, tipico di questa età, tra uno stato di dipendenza e la lotta per affrancarsene.
È per tale motivo che Meltzer afferma che gli adolescenti sono «costituzionalmente» ribelli (1978).
Un adolescente che non fosse in una certa misura ribelle sarebbe problematico.
Per questi motivi, un certo atteggiamento contestativo fa parte del processo di crescita dell’adolescente: dunque vediamo che l’adolescente, da una parte, ha bisogno di figure significative dal punto di vista educativo ma, dall’altra, ne ha bisogno per contrapporsi in modo da avere un termine di paragone, di confronto, a  partire dal quale esplorare la sua capacità di autonomia mentale e a partire dal quale potersi successivamente separare.
Perciò apprezza quell’adulto che è così forte e autorevole da accettare le sue critiche e da tenergli testa.
Questo atteggiamento è un modo per esplorare il mondo e se stessi, in vista della propria crescita, ed è da intendersi non soltanto come una provocatoria ribellione contro gli adulti o come espressione di distruttività, ma anche come espressione di un momento di riorientamento in funzione dell’acquisizione di una propria autonoma identità.
Pertanto, anche una certa impudenza nel linguaggio e nel comportamento, la resistenza ad accettare le norme sociali proprie del comune vivere tra adulti, o comportamenti quali l’irrequietezza, l’incostanza, la scherzosità pesante sono da considerarsi come fenomeni propri dell’adolescenza e vanno quindi concepiti come rientranti nella normalità (cfr.
Redl, 1969).
In questa alternanza di stati mentali e stati d’animo, l’adolescente spesso non sa davvero che cosa sia realmente.
In rapporto a questo conflitto tra bisogno di autonomia e bisogno di dipendenza, Meltzer (1978) osserva che la comunità degli adolescenti si pone a metà strada tra la comunità del bambino, nell’ambito familiare, e la comunità del mondo adulto; ogni singolo adolescente «si sposta avanti e indietro in queste tre comunità»: cerca di entrare nel mondo adulto, mentre tenta di lasciare il mondo dei bambini.
Va verso il mondo adulto agendo nel mondo esterno per mezzo di rapporti sessuali, successi scolastici, affermazioni sociali.
Viceversa, si muove verso il mondo infantile con i sogni, gli ideali, le speranze, gli interessi autentici per gli altri, ma vive questi stati d’animo come una minaccia, come un rischio di restare o ritornare bambino.
Paradossalmente ciò che lo fa crescere e lo rende adulto (emotivamente adulto) è la capacità di provare sentimenti, di interessarsi agli altri, di operare nel sociale, ma tutte queste qualità vengono da lui vissute come un qualcosa che lo infantilizza, mentre ciò che ritiene lo faccia avanzare nel mondo dei grandi — l’invidia, l’avidità, la crudeltà, l’ipocrisia — lo fa in realtà regredire.
La sua sensazione, come evidenzia Meltzer, è che per crescere debba essere spietato e avere successo, ritenendo questi i valori positivi, mentre il provare sentimenti e il sentirsi fragile sono ritenuti fattori negativi che lo riportano indietro facendolo rimanere bambino.
Invece, nella realtà psichica, è esattamente l’opposto: il cinismo e la spietatezza sono ciò che gli impediscono di diventare adulto e responsabile, mentre sono proprio i sentimenti e la consapevolezza dei propri limiti che lo fanno crescere emotivamente (cfr.
Meltzer, 1978, p.
22).
L’adolescente cerca dunque di superare la confusione separando, dentro di lui, il Sé adulto dal Sé bambino.
Per questi motivi l’adolescente può apparire cinico e, in una certa misura, lo è realmente, come reazione a tutta una serie di disillusioni e di confusioni per ciò che accade dentro di sé, nel proprio mondo interno, nella propria mente.
E qui va detto che, contrariamente a quanto si pensa, l’adolescente non è preoccupato tanto di raggiungere soddisfazioni o successi sessuali, quanto di conoscere e capire.
Il suo problema è la conoscenza e il suo dramma sta nella difficoltà a comprendere e a comprendersi.
Le disillusioni riguardano soprattutto i genitori o gli adulti rappresentanti le figure genitoriali, in quanto sono stati idealizzati come onniscienti dall’adolescente, quand’era bambino, ma ora subentra la sensazione, insieme alla delusione, che il mondo adulto sia fatto di ipocriti.
L’adolescente vive allora gli adulti (e tra questi, in particolare, i genitori e gli insegnanti) come coloro che hanno il potere e il controllo delle cose e lo difendono da ogni intrusione.
È quindi portato a ritenere che la comunità degli adulti sia un mondo falso e ipocrita, mentre, parallelamente, disprezza i bambini considerandoli degli schiavi e degli illusi.
E qui entra in gioco il ruolo fondamentale, dal punto di vista psicologico, che ha il gruppo per gli adolescenti.
Infatti, «preso in mezzo» tra questi due gruppi — interni e mentali prima ancora che sociali — in cui non si riconosce più (il gruppo infantile) o in cui non si riconosce ancora (il gruppo adulto), l’adolescente sente che nessuno può aiutarlo nella sua — reale — sofferenza interiore e che gli unici con cui condividere i propri problemi sono i compagni, con i quali l’adolescente realizza una coesione e una collusione in contrasto con gli altri due gruppi.
Così, pur avendo ancora bisogno degli adulti, è prevalentemente con i propri coetanei che l’adolescente condivide e cerca di elaborare ansie, dubbi, paure, desideri e confusioni, cioè tutta quella serie di problemi che attraversano l’età adolescenziale e che abbiamo detto essere connessi all’elaborazione della propria identità.
Insieme, tra loro, gli adolescenti si sentono isolati e in una posizione di incomunicabilità sia con i bambini che con gli adulti.
Quindi, solo il gruppo dei coetanei è sentito come quello che può compartecipare e comprendere i conflitti, l’unico con il quale condividere questa sensazione di solitudine nell’affrontare i propri conflitti interni, dei quali non sempre il giovane è consapevole.
La possibilità di trovare aiuto e dialogo viene pensata possibile solo con i pari che, peraltro, soffrono di queste stesse difficoltà.
Il gruppo di coetanei per l’adolescente è dunque di fondamentale importanza: un mezzo per elaborare e aiutare a sopportare i propri conflitti interni e per mettersi in contatto con il sociale (Palmonari, 1985); un luogo di elaborazione ideologico-culturale; il criterio di riferimento nella soluzione dei problemi.
A questo proposito Josselyn diceva: «un adolescente, che non si conformasse ad alcuno del suo gruppo, dovrebbe esser tenuto attentamente sotto osservazione, poiché un contegno così atipico sarebbe certo foriero di gravi turbe emotive o mentali» (1971, pp.
51-52).
Così osserviamo che i giovani adolescenti sono tanto anticonformisti nei confronti del mondo degli adulti, quanto conformisti nei confronti dei coetanei e rigidamente osservanti delle norme e regole, abitudini del gruppo, formali e informali, esplicite e implicite.
Il che produce tutta quella serie di fenomeni che si configurano come conformismo, fino alle forme più gravi e decisamente antisociali o delinquenziali quali l’appartenenza a bande.
E osserviamo anche quei classici comportamenti adolescenziali quali il muoversi in branco, il seguire certi «modi» o l’usare determinati e comuni atteggiamenti, linguaggi o gerghi, l’occupare il tempo non scolastico con rituali apparentemente stereotipati, il vestirsi tutti nella stessa maniera come modo per affermare tanto un atteggiamento, quanto un’appartenenza di gruppo, vale a dire una «divisa».
Anzi spesso è proprio grazie all’abito (talvolta, purtroppo, «solo» grazie all’abito), a ciò che significa e allo status che è in grado di comunicare, che gli adolescenti trovano una qualche identità, esteriore certo, ma tale proprio perché manca quella interiore.
Tutti questi comportamenti pertanto si possono comprendere meglio se li interpretiamo

Nel Cortile dei Gentili si coltiva il fiore del dialogo

Sabato 12 febbraio a Bologna si tiene la presentazione del Cortile dei Gentili – dal nome dello spazio specifico dell’antico Tempio di Gerusalemme al quale tutti, e non solo gli israeliti, potevano liberamente accedere – la nuova struttura creata dal Pontificio Consiglio della Cultura per favorire l’incontro e il dialogo tra credenti e con credenti.
Pubblichiamo sull’argomento un articolo del cardinale presidente del dicastero.
“Mi manca la fede e, quindi, non potrò mai essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa (…) Non ho ereditato il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto caro al razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo.
Non oso, allora, gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui dubito”.
Aveva soltanto 31 anni ed era già al culmine del successo; eppure il 4 novembre 1954 si era tolto la vita, e forse la chiave di questa resa fallimentare era da cercare proprio nelle righe che abbiamo citato dalla sua opera Il nostro bisogno di consolazione.
Stiamo parlando di uno scrittore svedese di “culto”, Stig Dagerman, che illumina in modo esplicito il senso di un dialogo tra atei e credenti.
Interrogarsi sul significato ultimo dell’esistere non coinvolge, certo, lo scettico sardonico e sarcastico che ambisce solo a ridicolizzare asserti religiosi.
Tra l’altro, uno che di ateismo s’intendeva come il filosofo Nietzsche non esitava a scrivere nel Crepuscolo degli dei (1888) che “solo se un uomo ha una fede robusta, può indulgere al lusso dello scetticismo”.
Neppure il razionalista, avvolto nel manto glorioso della sua autosufficienza conoscitiva, vuole correre il rischio di inoltrarsi sui sentieri d’altura della sapienza mistica, secondo una grammatica nuova che partecipa del linguaggio dell’amore, che è ben diverso dalla spada di ghiaccio della pur importante ragione pura.
Né è interessato a questo dialogo l’ateo confessante che, sulla scia dello zelo ardente del marchese de Sade della Nouvelle Justine (1797), presenta il suo petto solo al duello: “Quando l’ateismo vorrà dei martiri, lo dica: il mio sangue è pronto!”.
 L’incontro tra credenti e non credenti avviene quando si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’anelito profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragioni profonde della speranza del credente e dell’attesa dell’agnostico.
Ecco perché si è voluto pensare a un “Cortile dei Gentili” che si inaugurerà a Bologna, nella sua antica università e a Parigi alla Sorbona, all’Unesco e all’Académie Française.
Lasciamo da parte la denominazione storica che ha solo una funzione simbolica, evocando l’atrio che nel tempio di Gerusalemme era riservato ai “gentili”, i non ebrei in visita alla città santa e al suo santuario.
Fermiamoci, invece, sul suo aspetto tematico, così come lo fa balenare Dagerman.
Uno degli intellettuali ebrei più aperti del primo secolo, Filone di Alessandria d’Egitto, artefice di un dialogo tra ebraismo ed ellenismo – quindi secondo i canoni di allora, tra fedeli jahvisti e pagani idolatrici – definiva il sapiente con l’aggettivo methòrios, ossia colui che sta sulla frontiera.
Egli ha i piedi piantati nella sua regione, ma il suo sguardo si protende oltre il confine e il suo orecchio ascolta le ragioni dell’altro.
Per attuare questo incontro ci si deve armare non di spade dialettiche, come nel duello tra il gesuita e il giansenista del film La via Lattea (1968) di Buñuel, ma di coerenza e rispetto: coerenza con la propria visione dell’essere e dell’esistere, senza slabbramenti sincretistici o sconfinamenti fondamentalistici o approssimazioni propagandistiche; rispetto per la visione altrui alla quale si riservano attenzione e verifica.
Si è, invece, incapaci di ritrovarsi su quel confine tra i due cortili simbolici del tempio di Sion, l’atrio dei gentili e quello degli israeliti, quando ci si arrocca solo in difesa dei propri idoli.
Nell’Adolescente (1875) Dostoevskij, sia pure con la passione del credente, li identificava con chiarezza.
Da un lato, infatti, affermava che “l’uomo non può esistere senza inchinarsi (…) Si inchinerà, allora, a un idolo di legno o d’oro, o del pensiero…
o di dèi senza Dio”.
D’altro lato, però, riconosceva che vi sono “alcuni che sono davvero senza Dio, solamente fanno più paura degli altri, perché vengono col nome di Dio sulle labbra”.
Ecco la tipologia comune a coloro che non si fermeranno a dialogare su quella frontiera: chi è convinto di aver già in sé tutte le risposte e di doverle solo imporre.
Questo, però, non significa che ci si presenta soltanto come mendicanti, privi di qualsiasi verità o concezione della vita.
Ponendomi per congruenza sul territorio del credere a cui appartengo, vorrei solo evocare la ricchezza che questa regione rivela nei suoi vari panorami ideali.
Pensiamo al raffinato statuto epistemologico della teologia come disciplina dotata di una sua coerenza, alla visione antropologica cristiana elaborata nei secoli, all’investigazione sui temi ultimi della vita, della morte e dell’oltrevita, della trascendenza e della storia, della morale e della verità, del male e del dolore, della persona, dell’amore e della libertà; pensiamo anche al contributo decisivo offerto dalla fede alle arti, alla cultura e allo stesso ethos dell’Occidente.
Questo enorme bagaglio di sapere e di storia, di fede e di vita, di speranza e di esperienza, di bellezza e di cultura è posto sul tavolo di fronte al “gentile” che potrà, a sua volta, imbandire la mensa della sua ricerca e dei suoi risultati per un confronto.
Da un simile incontro non si esce mai indenni, ma reciprocamente arricchiti e stimolati.
Sarà un po’ paradossale, ma potrebbe essere vero quello che Gesualdo Bufalino scriveva nel suo Malpensante (1987): “Solo negli atei sopravvive oggigiorno la passione per il divino”.
Una lezione, quindi, e un monito per lo stesso fedele abitudinario, affidato a formule dogmatiche, senza lo scavo del comprendere intelligente e vitale.
Sull’altro versante si potrebbe immaginare l’epigrafe di una delle tombe dell’Antologia di Spoon River (1915): “Io che qui giaccio ero l’ateo del villaggio, loquace, litigioso, versato negli argomenti dei miscredenti.
Ma in una lunga malattia lessi le Upanishad e il Vangelo di Gesù.
Ed essi accesero una fiaccola di speranza e di intuizione e di desiderio che l’Ombra, guidandomi tra le caverne del buio, non poté estinguere.
Ascoltatemi, voi che vivete nei sensi e pensate solo attraverso i sensi: l’immortalità non è un dono ma un compimento.
E solo coloro che si sforzano molto potranno ottenerla”.
Si deve, allora, affermare – sempre in questa linea e sulla scia della metafora della frontiera – che il confine, quando si dialoga, non è una cortina di ferro invalicabile.
Non solo perché esiste una realtà che è quella della “conversione” e qui assumiamo il termine nel suo significato etimologico generale e non nell’accezione religiosa tradizionale.
Ma anche per un altro motivo.
Credenti e non credenti si trovano spesso sull’altro terreno rispetto a quello proprio di partenza: ci sono, infatti, come si suol dire, credenti che credono di credere, ma in realtà sono increduli e, viceversa, non credenti che credono di non credere, ma il loro è un percorso che si svolge in quel momento sotto il cielo di Dio.
A questo proposito vorremmo solo suggerire un paio di esempi paralleli, anche se distribuiti sui due campi.
Partiamo dal credente e dalla componente di oscurità che la fede comporta, soprattutto quando si allarga il sudario del silenzio di Dio.
Facile è pensare ad Abramo e ai tre giorni di marcia sull’erta del monte Moria, stringendo la mano del figlio Isacco e custodendo nel cuore lo sconcertante imperativo divino del sacrificio (Genesi, 22); oppure possiamo ricorrere alla lacerante e fluviale interrogazione di Giobbe; o ancora al grido dello stesso Cristo in croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
O tanto per scegliere un emblema moderno, tra i tanti possibili, alla “notte oscura” di un mistico altissimo come san Giovanni della Croce e, per venire a noi, al dramma del pastore Ericsson in crisi di fede, nel film Luci d’inverno (1962) di Ingmar Bergman.
Scriveva giustamente un teologo francese, Claude Geffré: “Su un piano oggettivo è evidentemente impossibile parlare di una non credenza nella fede.
Ma sul piano esistenziale si può arrivare a discernere una simultaneità di fede e di non credenza.
Ciò non fa che sottolineare la natura stessa della fede come dono gratuito di Dio e come esperienza comunitaria: il vero soggetto della fede è una comunità e non un individuo isolato”.
Spostiamoci ora sull’altro versante, quello dell’ateo e delle sue oscillazioni.
Il suo stesso anelito, testimoniato per esempio dal citato Dagerman, è già un percorso che s’inoltra nel mistero, a tal punto da configurarsi in preghiera, come è testimoniato da questa invocazione di Aleksandr Zinov’ev, l’autore di Cime abissali (1976): “Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco, apri i tuoi occhi, ti supplico! Non avrai da fare altro che questo, seguire ciò che succede: è ben poco! Ma, o Signore, sforzati di vedere, te ne prego! Vivere senza testimoni, quale inferno! Per questo, forzando la mia voce io grido, io urlo: Padre mio, ti supplico e piango: Esisti!”.
È la stessa supplica di uno dei nostri poeti contemporanei più originali, Giorgio Caproni (1912-1990): “Dio di volontà, Dio onnipotente, cerca, / (Sforzati!), a furia di insistere, / – almeno – di esistere”.
È significativo che il concilio Vaticano II abbia riconosciuto che, obbedendo alle ingiunzioni della sua coscienza, anche il non credente può partecipare della risurrezione in Cristo che “vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore invisibilmente lavora la grazia.
Cristo, infatti, è morto per tutti (…) Perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (Gaudium et spes, 22).
In ultima analisi l’ostacolo che si leva per questo dialogo-incontro è forse uno solo, quello della superficialità che stinge la fede in una vaga spiritualità e riduce l’ateismo a una negazione banale o sarcastica.
Per molti, ai nostri giorni, il “Padre nostro” si trasforma nella caricatura che ne ha fatto Jacques Prévert: “Padre nostro che sei nei cieli, restaci!”.
O ancora nella ripresa beffarda che il poeta francese ha escogitato della Genesi: “Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, / disse: Continuate, ve ne prego, / non disturbatevi di me, / fate come se io non esistessi!”.
Far come se Dio non esistesse, etsi Deus non daretur, è un po’ il motto della società del nostro tempo: chiuso come egli è nel cielo dorato della sua trascendenza, Dio – o la sua idea – non deve disturbare le nostre coscienze, non deve interferire nei nostri affari, non deve rovinare piaceri e successi.
È questo il grande rischio che mette in difficoltà una ricerca reciproca, lasciando il credente avvolto in una lieve aura di religiosità, di devozione, di ritualismo tradizionale, e il non credente immerso nel realismo pesante delle cose, dell’immediato, dell’interesse.
Come annunciava già il profeta Isaia, ci si ritrova in uno stato di atonia: “Guardai, ma non c’era nessuno; tra costoro nessuno era capace di consigliare, nessuno c’era da interrogare per avere una risposta” (41, 28).
Il dialogo è proprio per far crescere lo stelo delle domande, ma anche per far sbocciare la corolla delle risposte.
Almeno di alcune risposte autentiche e profonde.
(©L’Osservatore Romano – 12 febbraio 2011)

V Domenica del Tempo Ordinario Anno A

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 58,7-10        Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio»         v La pratica del digiuno è conosciuta presso tutti i popoli.
Fin dai tempi più remoti si digiunava quando ci si trovava in situazioni di pericolo o si era colpiti da sventure, quando la grandine o le cavallette distruggevano i raccolti, quando le piogge tardavano.
Questo sacrificio volontario aveva lo scopo di commuovere Dio, placarlo, convincerlo a porre fine ai suoi castighi.
Durante i giorni di digiuno si indossavano abiti sdruciti, ci si cospargeva il capo di polvere e cenere, si rinunciava ai rapporti sessuali, non si faceva il bagno, si andava scalzi, si dormiva per terra.
     La lettura di oggi va collocata nel contesto di uno di questi momenti di digiuno.
Siamo nel V secolo a.
C., il tempo del post-esilio.
Il popolo è tornato da Babilonia, ma le promesse fatte dai profeti tardano a realizzarsi.
Invece della sospirata comunità pacifica si è instaurata una società dominata da arrivisti e profittatori.
Ovunque ci sono violenze, angherie, di-scordie.
Per convincere Dio a intervenire e porre rimedio alla situazione, si indice un digiuno nazionale, rigoroso, severo.
     Nulla cambia, tutto continua come prima e in molti si insinua il sospetto che la pratica del digiuno sia inefficace.
     Ci si chiede: perché digiunare se il Signore non ascolta ed è come se non ci fossimo sottoposti a mortificazioni e rinunce? (Is 58.3).
     La lettura di oggi dà una risposta a questo interrogativo.
La colpa del mancato cambiamento – spiega il profeta – non è del Signore, ma del modo errato di praticare il digiuno, ridotto a una sterile autopunizione, a una dolorosa penitenza.
Questo digiuno non ottiene alcun risultato perché sottopone, sì, il corpo a privazioni, ma non cambia il cuore.
     Il vero digiuno, quello che produce effetti prodigiosi, consiste nel condividere il proprio pane con chi ha fame, nell’ospitare in casa i miseri senza tetto, nel dare un vestito a chi è nudo, nel non distogliere gli occhi da chi, uomo come noi – nostra stessa carne, anche se diverso è il colore della sua pelle e sono differenti la cultura e la religione – vive al nostro fianco in condizioni disumane (v.
7).
     Questo comportamento nuovo ottiene miracoli: in breve tempo cura le ferite della società, risolve le situazioni di disagio, crea rapporti fraterni e fa nascere una comunità in cui splendono la giustizia e la gloria di Dio (v.
8).
     Nella seconda parte della lettura (vv.
9-10) viene indicata un’altra caratteristica del vero digiuno: l’impegno a togliere di mezzo ogni forma di oppressione, il puntare il dito e il parlare arrogante.
Non basta fare la carità e l’elemosina, è necessario porre fine a tutti gli atteggiamenti di ambiziosa superiorità che causano umiliazioni, ingiustizie, discrimina-zioni.
     Dopo questo nuovo chiarimento, il profeta riprende, con insistenza quasi eccessiva, il tema della condivisione del pane.
Vuole che il popolo assimili l’interesse, la premura, la sollecitudine di Dio nei confronti di chi ha fame.
     La conclusione della lettura introduce il tema della luce che verrà ripreso nel vangelo: se praticherai questa nuova giustizia «brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».
     Gli israeliti si ritenevano luce del mondo per la loro devozione a Dio, per la pratica religiosa impeccabile: solenni liturgie, canti e preghiere, sacrifici e olocausti.
Non era questo il culto gradito al Signore; non erano queste le opere che avrebbero fatto diventare Israele luce del mondo, ma la pratica della giustizia e dell’amore all’uomo.
  Seconda lettura: 1Corinzi 2,1-5        Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza.
Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.
Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione.
La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
       v I cristiani di Corinto – lo abbiamo sottolineato domenica scorsa – non appartenevano alle classi sociali elevate, erano tutti di umili origini, gente che non contava nella società (1Cor 1,26).
Questo fatto è interpretato da Paolo come un segno della preferenza di Dio per le persone disprezzate e senza meriti.
     La sua scelta non va però intesa come un rovesciamento classista (sarebbe una nuova discriminazione), ma come logica conseguenza dell’amore di Dio: egli non ama chi può vantare dei meriti, ma chi ha bisogno del suo amore.
     Nel brano di oggi l’Apostolo riprende e sviluppa questo tema ponendo a confronto la sapienza umana e la potenza di Dio e porta l’esempio concreto della sua persona.
     Comincia con un richiamo alla sua predicazione (vv.
1-2).
Non si è presentato a Corinto per insegnare una nuova dottrina.
Se lo avesse fatto, avrebbe avuto bisogno di possedere la «eccellenza della parola o della sapienza».
In Grecia era apprezzata la sapienza, la capacità – come diceva Platone – di «indagare il vero in quanto vero; sollecitudine dell’anima sostenuta dalla retta ragione».
Ogni discorso privo del supporto della dimostrazione razionale e delle risorse prestigiose del pensiero dei filosofi era deriso e ritenuto frutto di ignoranza, di creduloneria, di religiosità ingenua.
     In questo contesto culturale Paolo ha annunciato un messaggio umanamente assurdo: ha chiesto di credere alla proposta di vita fatta da un uomo giustiziato.
Non fu solo il contenuto della sua predicazione a essere scandaloso.
Era la sua stessa persona — debole, timorosa, incapace di parlare – a essere la meno indicata a portare avanti con successo una così grande missione (vv.
3-5).
Al riguardo circolava fra i corinzi una battuta che aveva provocato la reazione risentita dell’Apostolo: «Le sue lettere – si diceva – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua capacità di fare discorsi è modesta» (2Cor 10,10).
Della sua scarsa abilità oratoria, Paolo era cosciente; ne aveva avuto una dimostrazione ad Atene quando aveva tentato, senza successo, di convincere gli ascoltatori ricorrendo al linguaggio sublime dei filosofi (At 17,16-34) e un anno dopo, a Troade, ne ebbe la riconferma: durante la sua predica un giovane si era addormentato ed era caduto dalla finestra (At 20,9).
     Malgrado questa mancanza di supporti umani, il vangelo aveva avuto una notevole diffusione a Corinto.
Come mai?, viene da chiedersi.
Perché – spiega Paolo – la parola di Dio è forte per se stessa e la sua penetrazione nel cuore degli uomini non dipende dai mezzi umani, ma dalla «manifestazione dello spirito e della sua potenza».
L’Apostolo non si riferisce ai prodigi, ai miracoli che avrebbero convinto i corinzi ad accogliere il vangelo, ma al frutto dello spirito: la forma di vita nuova che, pur in mezzo a miserie e debolezze umane, era stata adottata da molti membri della comunità.
  Vangelo: Matteo 5,13-16        In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa.
Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».
    Esegesi        Per definire i discepoli e la loro missione, nel vangelo di oggi Gesù impiega una serie di immagini.
Li indica anzitutto come il sale della terra (v.
13).
     I rabbini d’Israele erano soliti ripetere: «La Toràh – la Legge santa data da Dio al suo popolo – è come il sale e il mondo non può stare senza sale».
Facendo propria questa immagine e applicandola ai discepoli, Gesù sa di usare un’espressione che può suonare provocatoria.
Non smentisce la convinzione del suo popolo che ritiene le sacre Scritture «sale della terra», ma afferma che anche i suoi discepoli lo sono, se assimilano la sua parola e si lasciano guidare dalla sapienza delle sue beatitudini.
                                      Sono molte le funzioni del sale e probabilmente Gesù intende riferirsi a tutte.
La prima e più immediata è quella di dare sapore ai cibi.
Fin dai tempi antichi il sale è diventato per questo il simbolo della «sapienza».
Anche oggi si dice che una persona ha «sale in testa» quando parla in modo saggio oppure che una conversazione è «senza sale», quando e noiosa, priva di contenuto.
Paolo conosce questo simbolismo, infatti, ai colossesi raccomanda: «La vostra conversazione sia sempre gradevole, condita con sale» (Col 4,6).
     Intesa così, l’immagine indica che i discepoli devono diffondere nel mondo una saggezza capace di dare sapore e significato alla vita Senza la sapienza del vangelo che senso avrebbero la vita, e gioie e i dolori, i sorrisi e le lacrime, le teste e i lutti? Quali sogni e quali speranze potrebbe alimentare l’uomo su questa terra? Difficilmente andrebbe oltre quelli suggeriti dal Qoelet: «È meglio mangiare, bere e godere dei beni nei pochi giorni di vita che Dio dà: è questa la sorte dell’uomo» (Qo 5,17).                           Chi è imbevuto del pensiero di Cristo assapora invece altre gioie, introduce nel mondo esperienze di felicità nuove e ineffabile, offre agli uomini la possibilit