Giovanni Paolo II. La biografia

Andrea Riccardi, Giovanni Paolo II : La biografia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2011, ISBN-13: 978-8821568893, € 24,00


La biografia più documentata su Giovanni Paolo II. Un viaggio attraverso le vicende che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, per comprendere appieno la carismatica figura del Pontefice.

Giovanni Paolo II, protagonista per più di un quarto di secolo sulla scena mondiale, è stato definito il papa slavo, colui che ha dato il colpo di grazia all’Unione Sovietica e al suo impero, l’uomo del secolo.

Più semplicemente, egli riteneva di aver ricevuto il compito di introdurre la Chiesa nel nuovo millennio. Questo era il senso del suo viaggio condotto, secondo la sua convinzione, dal filo invisibile della Provvidenza. Questa guida nascosta l’aveva sottratto alla guerra e alle deportazioni di cui erano caduti vittima tanti suoi compagni; l’aveva chiamato alla vita sacerdotale; l’aveva scelto come vescovo e come papa. Ancora nel 1981 questo scudo di grazia l’aveva protetto in occasione dell’attentato in piazza San Pietro. Una volta ristabilito, Giovanni Paolo II ampliò ulteriormente il suo raggio d’azione. Al servizio della Chiesa cattolica, egli si impegnò a favorire l’unione tra i cristiani, l’amicizia con l’ebraismo, il dialogo tra le religioni, la pace nel mondo. Al termine della sua vita, consumato dalla dedizione, commosse il mondo con la sua sofferenza.

L’opera di Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio che conobbe e collaborò a lungo con il papa polacco, è la prima vera biografia scritta su base scientifica e testimoniale di un papa che ancora vive nel ricordo di credenti e non credenti.

 

Andrea Riccardi

è ordinario di Storia contemporanea presso la Terza Università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Presso le Edizioni San Paolo ha pubblicato: Le politiche della Chiesa (1997); Vescovi d’Italia. Storie e profili del Novecento (2000), Dio non ha paura. La forza del Vangelo in un mondo che cambia (2003), La pace preventiva. Speranze e ragioni in un mondo di conflitti (2004) e ha curato Il sogno di un tempo nuovo. Lettere di Giorgio La Pira a Giovanni XXIII (2009).

 

 

UN COMMENTO

 

Giovanni Paolo II. Il fascino di quel papa che dava del tu alla storia
di Agostino Giovagnoli
in “la Repubblica” del 21 marzo 2011

Allo “shock” Wojtyla – la grande sorpresa per la sua elezione – sono seguiti ventisette anni in cui egli è stato al centro della scena mondiale, portando la Chiesa nel cuore della storia. Eppure, Wojtyla resta ancora “un personaggio da scoprire”, come scrive Andrea Riccardi in un importante volume appena pubblicato e da cui difficilmente potranno prescindere, in futuro, altre ricostruzioni di questo pontificato (Giovanni Paolo II. La biografia, San Paolo, 561 pp., 24 euro). «Non si scrive per fare un monumento» – egli spiega aprendo un libro ricco di documenti inediti e di tante voci di protagonisti – «bensì per comprendere». Anche se il 1° maggio Karol Wojtyla sarà solennemente beatificato, infatti, resta ancora qualcosa del disorientamento degli inizi. Allora egli era sconosciuto ai più – molti pensarono che fosse un africano – e nulla faceva presagire che ai suoi funerali avrebbero partecipato i potenti della terra. Ma si è poi conquistato, passo dopo passo, rispetto e fama.
Giovanni Paolo II ha affascinato e sconcertato. Non è stato un personaggio oscuro e misterioso, sono note la sua carica umana e la cordialità del suo tratto. Ma, spiega Riccardi, aveva una visione originale della storia ed ha tracciato una nuova geografia spirituale del mondo, dalla Polonia all’Italia, dall’America latina all’Africa. Sorprese molti affermando che la dittatura di Pinochet in Cile sarebbe finita senza bisogno di ricorrere alla violenza. E, fino al 1989, anche la sua convinzione che il blocco sovietico non fosse eterno è stata condivisa da pochi. Ma sarebbe
sbagliato leggere queste posizioni con le chiavi del pensiero politico occidentale, come dimostra efficacemente questo libro. La biografia dell’americano George Weigel pubblicata nel 1999 ha insistito sull’alleanza politica tra Reagan e Wojtyla contro l'”impero del male” identificato con i regimi comunisti. Ma a Gorbaciov – la ricostruzione dell’incontro tra i due nel 1989 è una delle tante novità di questo volume – il papa disse che non si dovevano  applicare al mondo orientale modelli occidentali. Karol Wojtyla ha sempre portato con sé la storia e la cultura di una terra di confine tra Oriente ed Occidente, oltre ad una straordinaria esperienza personale del Ventesimo secolo, compresi la guerra, il nazismo e il comunismo. Non è stato solo il primo papa non italiano dopo quattrocento anni, è stato anche il primo pontefice, da dodici secoli, che non sia venuto da un paese dell’Europa occidentale. Riccardi sottolinea che egli non credeva al mito della rivoluzione, intorno a cui ha ruotato il pensiero politico occidentale per due secoli, e nota che non sostenne con l’intensità di Paolo VI l’esperienza dei partiti democratico-cristiani, tanto rilevante in Italia, in Germania e altrove. Per Giovanni Paolo II, la caduta del muro di Berlino non ha rappresentato il trionfo dell’Occidente e la fine della storia. E dopo il 1989 egli si è proiettato con ancora maggiore fiducia nel mare aperto delle vicende mondiali, inserendo sempre di più la Chiesa nella globalizzazione. Ha sviluppato, tra l’altro, l’intuizione dell’incontro di Assisi nel 1986, quando convocò leader religiosi di tutto il mondo invitandoli a pregare per la pace, e, pur non avendo avuto in precedenza esperienze dirette con l’Islam, ha saputo aprire la via del dialogo con i musulmani.
Nel contesto post-conciliare in cui Giovanni Paolo II è stato eletto, era usuale classificare gli uomini di Chiesa in conservatori e progressisti. Ma i giornalisti notarono che il nuovo papa sfuggiva a queste categorie. Il volume documenta numerose divergenze di vedute tra il papa e il suo principale collaboratore, il card. Casaroli, considerato un progressista perché protagonista della Ostpolitik vaticana. Ma Wojtyla lo volle ugualmente come suo Segretario di Stato per oltre dieci anni: lo scelse perché ne conosceva la fedeltà e la lealtà. Questo papa, nota Riccardi, non si è circondato di persone con visioni affini alle sue (come fece Paolo VI con i “montiniani”). È convinzione di molti
che Wojtyla “non abbia governato” la Chiesa, ma è vero piuttosto che ha accettato di vivere senza protezioni, per così dire, la «dialettica di sempre tra l’uomo e l’istituzione, tra il sentire personale e il lavoro di un’amministrazione», come spiega qui Benedetto XVI in una testimonianza ad hoc. Per quanto riguarda l’Italia, si pensa che egli abbia delegato molte scelte al card. Ruini, ma anche in questo caso ha seguito la sua visione personale: Ruini, ha detto lo stesso Giovanni Paolo II all’autore, è stato l’interprete della linea del papa per l’Italia.
Pagina dopo pagina, vicenda dopo vicenda, il ritratto di Wojtyla diventa sempre più nitido. Riccardi ha trovato la cifra interiore di questo papa nella sua poesia, un aspetto spesso trascurato. Attraverso la poesia, infatti, egli meditava sulla fede e sulla storia, nella sua poesia si fondono il “mistico” e il “politico”, l’uomo di preghiera e colui che crede «nella forza delle energie religiose e spirituali della sua Chiesa e dell’umanità». Il Giovanni Paolo II raccontato da Andrea Riccardi dà del tu alla storia perché dà del tu a Dio. Gli eventi mondiali degli anni Ottanta e Novanta hanno dato ragione alla sua speranza in una «forza disarmata delle convinzioni, più forte dei poteri costituiti e oppressivi».
Vedremo se accadrà di nuovo con la primavera araba emersa nelle ultime settimane .

Parlare con gli atei

 

“Ritroviamo il coraggio di parlare con gli atei”
intervista a Gianfranco Ravasi

 

Cattolici e atei, credenti e agnostici: faccia a faccia nella Parigi dei Lumi per un vertice inedito promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura vaticano. Partner del dialogo, che si svolgerà tra il 24 e il 25 marzo, sono l’Unesco, la Sorbona, l’Institut de France, il “parlamento dei sapienti” che riunisce le cinque grandi accademie francesi. È una pagina nuova nella storia della Chiesa, il tentativo di affrontare il Terzo millennio smettendola di considerare atei ed agnostici come nemici o handicappati spirituali.“Anticlericalismo e Clericalismo” vanno superati, è l’opinione del porporato. Perché “chiudersi nel proprio recinto è una malattia sia per le religioni che per il mondo laico e per una scienza che pretenda di dare le risposte a tutte le domande”.  L’iniziativa è sorta per impulso di Benedetto XVI, che nel 2009 affermò a Praga che andava stimolato il confronto con i non-credenti e indicò nel Cortile dei Gentili dell’antico Tempio di Gerusalemme lo spazio, dove gli aderenti ad altre religioni potevano accostarsi al Dio Sconosciuto.
Sul sagrato di Notre Dame, dove si terrà uno spettacolo per i giovani, arriverà un videomessaggio del Papa.

 

 

Cardinale Ravasi, partite dalla Francia, l’Anticristo dell’Illuminismo.
Sì, ho voluto scegliere Parigi proprio perché è un vessillo di laicità, ma devo dire subito che ho trovato un mondo laico interessato a un confronto vero sui grandi temi.

 

Voglia di convertire?
Non è questo lo scopo. Non parliamo di evangelizzazione. L’obiettivo è il dia-logo. Il confronto fra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza. Quando mi trovo di fronte a un ateo come Nietzsche o al discorso marxista o scientista, io ascolto, rispetto, valuto. Le religioni e i sistemi ideologici sono letture del reale e del cosmo ed è bene che si confrontino.


Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anitra zoppa?

Il credente e l’ateo sono ciascuno portatori di un messaggio, che è ‘performativo’ poiché coinvolge l’esistenza. Sono contento di avere come interlocutori a Parigi personalità come Julia Kristeva, semiologa e psicanalista agnostica o il genetista Axel Kahn.

Su cosa ragionare?
All’Unesco si discuterà tra credenti e laici sul ruolo della cultura ma anche delle donne nella società moderna, sull’impegno per la pace e la ricerca di senso in un mondo che è contemporaneamente secolarizzato e religioso. Alla Sorbona il tema è emblematico: Lumi, religioni, ragione comune.
All’Institut de France il dibattito sarà su economia, diritto, arte.

Sperando di trovare punti di incontro?
Non interessano incontri o scontri generici né di accordarsi su una vaga spiritualità. E non si tratta  nemmeno di un asettico convegno di matematica. Ciò che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative, ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali.
Lei ha detto recentemente che la Chiesa deve imparare ad abbattere i propri muri.
Spesso abbiamo un linguaggio eccessivamente connotato ed escludente. Dobbiamo riconoscere che esistono visioni diverse della realtà e che dal mondo laico ci vengono rivolte domande profonde rispetto alle quali non possiamo essere evasivi.

Quali questioni considera capitali?
Le domande sul senso dell’esistenza, sull’oltre-vita, sulla morte. E ancora, la domanda sulla categoria di verità.

C’è già nel processo a Gesù: cos’è la verità?
È qualcosa che ci precede, che è ‘in sé’? Oppure, come affermano i moderni, è l’elaborazione del soggetto secondo i differenti contesti?

Immagina Parigi come tappa di una ricerca sull’etica universale, quel Weltethos che il teologo Hans Kueng espose a Benedetto XVI a Castegandolfo dopo la sua elezione?
Penso piuttosto che si possa aprire il discorso, senza sincretismi, su ciò che significa Natura e legge naturale.
Vale la pena di indagare sulle radici ultime, che precedono le ragioni delle religioni e delle ideologie. Porre a confronto le differenti concezioni di essere ed esistere significa mettersi autenticamente a ricercare, senza pretendere di sapere a priori.
Troppe volte si è diffusa la sensazione che con l’arrivo del pensiero scientifico moderno sia stato segnato un anno zero, che annulli le elaborazioni della cultura precedente, specie quella greca e cristiana.

Invece?
Trovo tanti scienziati aperti a riflettere sulle categorie filosofiche dell’esistenza.

C’è un tema su cui si dovrebbe riflettere di più nella civiltà contemporanea?
La potenza del male. Bisogna esserne consapevoli. Gli atteggiamenti susseguenti possono essere diversi. Per Albert Camus, nell’assenza di Dio, la risposta finale è il suicidio. Per George Bernanos, al di là di tutte le difficoltà e fragilità, la presenza divina non abbandona mai l’umano.

La Chiesa è pronta a fare i conti con la decristianizzazione in atto nel continente europeo?
Le categorie statistiche sono insufficienti per misurare il reale. Serve un metodo qualitativo per misurare dall’interno i comportamenti sociali e personali. Harvey Cox, che aveva scritto la ‘Città secolare’, ora sostiene di  essersi sbagliato. Assistiamo ad un ritorno del Sacro e a una nostalgia del Religioso, che però non trova una risposta nel istituzioni religiose. Così si manifesta in varie espressioni: movimenti, New Age, devozionalismo, spiritualismo.

Qual via d’uscita propone?
Il cristianesimo deve tornare alle sue grandi risposte. Riuscendo a guarire il palato della società, deformato da una secolarizzazione che cerca spiritualità a basso profilo.

Non pensa che vi sia nella Chiesa ancora troppa paura della modernità?
Io nutro rispetto per la modernità, ma rivendico la legittimità di criticare una modernità superficiale, inodore, incolore, nemmeno immorale bensì a-morale. Come dice Goethe nel Faust: abbiamo dimenticato il Grande Maligno, sono rimasti i Piccoli Mascalzoni.

in “il Fatto Quotidiano” del 20 marzo 2011

 

 

Parlare con gli atei


 

di Paolo Flores d’Arcais

 

Stimato cardinal Ravasi, ho letto con crescente interesse l’intervista – impegnata e soprattutto impegnativa – che ha concesso a Marco Politi per questo giornale. Le sue parole mi hanno colpito, tra l’altro, per un tono appassionato di autenticità che non sempre si avverte in altri uomini di Chiesa del suo altissimo livello gerarchico. Lei enuncia come obiettivo delle sue iniziative “il dialogo” con gli atei, dunque un parlarsi-fra che non aggiri la controversia, anzi, visto che lo intende come “il confronto tra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte
dell’esistenza”. E perché non ci siano dubbi che tali “Logoi” debbano essere anche quelli più radicalmente conflittuali con la fede cattolica, esemplifica con gli ateismi di stampo nicciano, marxista, scientista: insomma tutto il “vade retro” del moderno relativismo (condannato dagli ultimi due Pontefici come incubatore di nichilismo). Ateismi radicali che, aggiunge, “io ascolto, rispetto, valuto”.

 

DI PIÙ

Marco Politi molto opportunamente insiste: “Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anatra zoppa?”. Bella metafora, in effetti, per stigmatizzare l’atteggiamento paternalistico che spinge ancora troppo spesso la Chiesa a scegliere come interlocutori solo quei “gentili” (“Cortile dei gentili” si intitola la sua iniziativa) che sembrano soffrire la condizione della mancanza di fede come un’amputazione ontologica o esistenziale. “Atei” sì, ma “alla ricerca di Dio”. Sembra proprio che invece lei questa volta voglia promuovere il confronto con l’intera costellazione dell’ateismo hard: “non interessano incontri o scontri generici, né di accordarsi su una vaga spiritualità” perché “quel che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative” smettendola di “essere evasivi” rispetto alle “profonde domande che ci vengono rivolte dal mondo laico”. Apprezzo “toto corde”. Del resto dirigo da un quarto di secolo una rivista di adamantina laicità (tanto che viene spesso tacciata di “laicismo” proprio perché non è laicità “rispettosa”, da anatre zoppe) che del confronto senza diplomatismi con uomini di fede, anche della Chiesa gerarchica, si è fatta un punto d’onore. Praticandolo.
Spero perciò sinceramente che alle sue parole seguano i fatti. Non solo a Parigi, anche in Italia.
Negli ultimi anni l’atteggiamento è stato però di segno opposto. Il dia-logo con l’ateismo è stato sistematicamente rifiutato dalla Chiesa gerarchica e anche da lei personalmente. Si tratta di una verità inoppugnabile, di cui purtroppo posso dare testimonianza diretta. Quando nell’anno del giubileo MicroMega pubblicò un almanacco di filosofia dedicato a Dio, con saggi in maggioranza di ispirazione atea, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina  della fede, cardinal Ratzinger, non solo accettò di collaborare con un suo testo, ma anche di presentare il numero in una controversia pubblica con me al teatro Quirino di Roma, gremito all’inverosimile e con duemila persone che seguirono il dibattito sulla strada attraverso altoparlanti di fortuna. Se guardo ai due o tre anni successivi, posso constatare che accettarono pubbliche controversie i cardinali Schönborn, Tettamanzi, Piovanelli, Caffarra, Herranz e infine nel 2007, presso la Scuola normale superiore di Pisa, il patriarca di Venezia Angelo Scola.
Da allora l’atteggiamento della Chiesa gerarchica si è rovesciato. MicroMega ha proseguito nella volontà di un confronto franco, “ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali”, secondo quanto lei dice di auspicare. Ma ci siamo trovati di fronte al muro di un sistematico rifiuto. Sia chiaro, un Principe della Chiesa ha tutto il diritto di rifiutare il confronto se non ritiene l’interlocutore all’altezza, senza con ciò smentire la sua volontà di dia-logo. Pretende solo atei più autorevoli. Ma visti i precedenti fin troppo lusinghieri in fatto di porporati che hanno accettato la discussione con Micro-Mega e con me, non è certo questo il motivo del rifiuto.


SUL QUALE

non provo neppure ad avanzare ipotesi. Mi interessa il futuro. Vorrei prenderla in parola, nella sua volontà di “dia-logo”, e organizzare con lei occasioni di confronto proprio con il metodo e sui temi che lei illustra nell’intervista. Discutere tra atei-atei e Chiesa gerarchica per “ricercare senza pretendere di sapere a priori”, su questioni che spaziano dal “senso dell’esistenza” alla “oltrevita, la morte, la categoria della verità” o “su ciò che significa Natura e legge naturale”, visto che da qui nascono le questioni eticamente sensibili che sempre più affollano l’agenda politica non solo italiana.
Si tratta, del resto, di temi previsti nel confronto con il cardinal Ratzinger, che non fu possibile affrontare per mancanza di tempo (vi era anche quello del Gesù storico, che certamente a lei, biblista di fama, interesserà). La invito dunque alle “Giornate della laicità” che si svolgeranno a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile, a cui hanno rifiutato di partecipare i quindici cardinali che abbiamo invitato, e nelle quali potrà discutere con atei non “anatre zoppe” come Savater, Hack, Odifreddi, Giorello, Pievani, Luzzatto, e buon ultimo il sottoscritto. Se poi la sua agenda non le
consentisse di accogliere questo invito, le propongo di organizzare insieme, lei ed io, una serie di confronti nei tempi e luoghi che riterrà opportuni. Devo però dirle, in tutta franchezza, che non riesco a liberarmi dalla sensazione – negli ultimi anni empiricamente suffragata – che il “dia-logo” che lei teorizza voglia invece eludere il confronto proprio con l’ateismo italiano più conseguente.

Con la speranza che i fatti mi smentiscano e che lei possa accettare la mia proposta, le invio intanto i miei più sinceri auguri di buon lavoro.

in “il Fatto Quotidiano” del 22 marzo 2011

 

 

La Chiesa in dialogo

 

di Jacques Noyer

 

La Chiesa cattolica vuole entrare in dialogo tanto nel cammino ecumenico quanto negli incontri interreligiosi. Vuole perfino aprire il dialogo con gli atei. Non si può che essere contenti di queste iniziative, totalmente in armonia con quel Dio di dialogo di cui Gesù ci ha rivelato il volto. La Trinità è dialogo. La Rivelazione è dialogo. L’evangelizzazione è dialogo.
Ma il dialogo presuppone che gli interlocutori accettino tra loro una certa uguaglianza e riconoscano in sé una certa fragilità. Ci si ritrova sotto lo sguardo di una ragione, di uno spirito di cui si accetta l’arbitraggio e si rinuncia così a conoscere in anticipo l’ultima parola verso cui ci si mette in cammino. Ma non si capisce bene come le istituzioni possano dialogare. Nazioni, partiti, organizzazioni diverse possono avere negoziati di pace, trattative d’alleanza, complicità d’azione.
Ma non possono dialogare. Se un rappresentante fosse colpito dalle argomentazioni dell’altro, non potrebbe più rappresentare la sua organizzazione. Si è condannati ad avere solo dei dialoghi tra sordi. Questo non significa che questi dibattiti non possano condurre, in seguito, nelle istituzioni, ad un’evoluzione del loro punto di vista, ma per niente al mondo accetteranno di dire che il cambiamento è avvenuto ascoltando l’altro: sarebbe ammissione di debolezza!
Le Chiese e le religioni possono dialogare ancor meno di altre istituzioni poiché le loro convinzioni sono presentate come sacre e quindi intangibili. Bloccate nelle loro certezze, possono al massimo cercare insieme delle formule sottili che nascondano le differenze. La stagnazione dell’ecumenismo, il blocco del dialogo teologico interreligioso ne sono la prova. Ugualmente, è proprio l’impossibilità del dialogo tra l’islam e l’ebraismo a rendere impossibile la pace in Israele. Le religioni sono più atte a fare la guerra, o almeno ad incoraggiarla, che a vivere il dialogo della comunità fraterna.
Se le religioni non possono dialogare, invece lo possono fare gli uomini, credenti o non credenti.
Ed è proprio quello che accade in tutti i quartieri in cui vivono credenti di diverse religioni o semplicemente in tutti  gli incontri amichevoli che accompagnano la vita sociale quotidiana. Sono molteplici le testimonianze sull’esistenza  e sulla fecondità di questi luoghi informali di parola.
Quando vediamo le folle dei paesi arabi sollevarsi in nome dei diritti umani per esigere un po’ più di democrazia, come non ammirare la forza del dialogo condiviso nell’ambito della mondializzazione o della laicità? Dio mi guardi dal vedervi il risultato di una certa evangelizzazione! Sarebbe un recupero odioso. Ma nessuno può negare di potervi  vedere il lavoro dello Spirito, e il Dio in cui credo certo ne è felice!
Sì, la Chiesa, questo popolo in cui vive lo Spirito, perché è fatta di uomini e di donne immersi nel mondo, può  dialogare col mondo. E lo fa da venti secoli. Lo fa oggi come ieri. Ma se la Chiesa è quell’istituzione gerarchica dalla  dottrina intangibile e dalla Verità Posseduta, allora non può farlo.
Se l’istituzione organizzasse il dialogo invece di averne paura, se essa stessa fosse dialogo tra i suoi membri, se la Chiesa si assumesse il rischio di desacralizzare il suo discorso di ieri e i suoi orpelli storici per cercare, oggi, adesso, la Verità con tutte le nazioni, essa potrebbe essere, come la sua Vocazione le chiede, il dialogo in cui lo Spirito fa nuove tutte le cose.

in “Témoignage chrétien” n° 3436 del 17 marzo 2011 (traduzione: finesettimana.org)

 

 

RASSEGNA  STAMPA

 

25 marzo 2011

“Per i cristiani, la Verità ci precede, nella persona di Cristo. Mentre agli occhi della cultura contemporanea, ciascuno di noi la costruisce. Da questa differenza derivano concezioni diverse del bene e del male, della libertà, della giustizia”
“L’esigenza di razionalità – che è essenziale – non fa scomparire quelle dimensioni del vissuto che sono il sacro, l’immaginario, l’istintivo o anche l’affettivo e evidentemente la credenza… (che non ha un significato univoco, perché mescola rappresentazioni più o meno razionali, credenze affettive, fede, fiducia, nel senso della fides latina)”
“«’L’incontro è differente e più profondo del dialogo. Questo è uno scambio che si situa al livello delle idee e della visione del mondo. L’incontro riguarda la nostra umanità nel suo cuore più profondo, la realtà della nostra persona con tutto quello che essa ha di debole e bello»”
“il dialogo costringe ciascuno ad essere méthorios, … cioè «colui che sta sulla frontiera», ben radicato nel suo territorio, ma con lo sguardo che si protende oltre il confine e l’orecchio che ascolta le ragioni dell’altro

 

“La circostanza non va giù a un gruppo di fedeli… «Le parole e gli atti di Gentilini sono incompatibili con il messaggio evangelico»… E lo sceriffo padano [discusso esponente leghista, noto per le sue pesanti esternazioni contro immigrati e omosessuali]? Non si scompone: «Dicano quello che vogliono… sono un cattolico praticante io, mica un comunista»”
“Il Cortile dei Gentili è cominciato ieri alle 15 nella sala XI dell’Unesco, a Parigi… si succedono autorità… ambasciatori… Getachew Engida… Gianfranco Ravasi… Giuliano Amato, protagonista di un intervento che fa pensare [che] evidenzia lo spostamento dei confini del bene e del male che è in atto… Fabrice Hadjadjj, filosofo e scrittore, che [invita] a cercare l’uomo non nell’efficienza ma «nell’epifania del suo volto»”
“«Mi interessa l’umanesimo, la differenza tra l’umanesimo cristiano e quello dei Lumi, e come quest’ultimo può rispondere alle questioni della nostra epoca… Non si tratta di distruggere la religione, come hanno tentato di fare i totalitarismi, ma neanche di accettarla: serve un lavoro di rivalutazione della memoria»”

 

“Il Gesù di cui parla Joseph Ratzinger nel suo libro appena uscito (Gesù di Nazaret – Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, che segue il primo volume pubblicato nel 2007) non è invece Gesù, bensì il Cristo dogmatizzato dai Concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), dominati e decisi dagli imperatori di Roma, che con il Gesù della storia nulla ha a che fare e anzi contraddice e nega sotto ogni aspetto essenziale.” (ndr.: diversità non vuol dire per forza di cose opposizione. Certamente permane il problema di come far interagire l’ermeneutica storica con l’ermeneutica della fede)

 

24 marzo 2011

  • Ragione comune di Dominique Greiner in La Croix del 24 marzo 2011 (nostra traduzione)
“coloro che non credono, coloro che si dicono senza Dio non sono necessariamente indifferenti. Capaci di mobilitarsi per la promozione di valori universali, possono anche essere interessati a sentir parlare di Dio. Allo stesso tempo, il loro impegno può anche essere stimolante per quello dei cristiani”
“Fino agli anni ’70 del secolo scorso coloro che rifiutavano Dio lo facevano in maniera argomentata, proponendo un sistema costruito in parallelo – o in opposizione – al cristianesimo. Quindi c’era una base comune a partire dalla quale era possibile il dialogo. “Oggi le giovani generazione non conoscono veramente il termine Dio. Non esiste nella loro cultura””

 

“Dopo l’annuncio avvenuto a Roma nel dicembre del 2009 da parte di Benedetto XVI, il Cortile dei gentili… prende il via ufficialmente a Parigi, giovedì 24 e venerdì 25 marzo… Una scommessa in società fortemente secolarizzate… Per il cardinale Gianfranco Ravasi… questo dialogo è tuttavia possibile… malgrado la persistenza di forti sospetti tra i due mondi

 

 

“L’idea del Cortile dei Gentili corrisponde sicuramente ad un bisogno autentico sentito dai credenti illuminati e dalle persone di buon senso in ricerca. Benedetto XVI lo situa accanto al dialogo con le religioni.”

 

Italia, l’apporto dei cattolici

 

Il Papa per i 150 dell’Unità:

messaggio al Presidente della Repubblica italiana

 

 

 

 

Mercoledì 17 marzo Benedetto XVI ha inviato un messaggio al Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, in occasione dei 150 anni dell’Unità politica d’Italia.
Il messaggio è stato consegnato al presidente Napolitano dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, nel corso di una visita al Quirinale.

Messaggio del Papa.doc

 

 

 

Gesù di Nazareth

 

LA RECENSIONE

Nonostante sia assai denso, questo libro si legge per intero senza interruzioni. Percorrendone i nove capitoli e le prospettive finali, il lettore è trasportato per sentieri scoscesi verso l’avvincente incontro con Gesù, una figura familiare che si rivela ancor più vicina nella sua umanità come nella sua divinità. Completata la lettura, si vorrebbe proseguire il dialogo, non soltanto con l’autore ma con Colui del quale egli parla. Gesù di Nazaret è più di un libro, è una testimonianza commovente, affascinante, liberatrice. Quanto interesse susciterà tra gli esperti e tra i fedeli!
Oltre l’interesse d’un libro su Gesù, è il libro del Papa che si presenta in umiltà al foro degli esegeti, per confrontarsi con loro sui metodi e sui risultati delle loro ricerche. Lo scopo del Santo Padre è quello di andare con loro più lontano, in stretto rigore scientifico, certo, ma anche nella fede nello Spirito Santo che scandaglia le profondità di Dio nella Sacra Scrittura. In questo foro, gli scambi fecondi predominano di molto sugli accenti critici, e ciò contribuisce a far meglio conoscere e riconoscere l’essenziale contributo degli esegeti.


Non c’è forse da trarre grande speranza da questo riavvicinamento tra l’esegesi rigorosa dei testi biblici e l’interpretazione teologica della Sacra Scrittura? Io non posso fare a meno di scorgere in questo libro l’aurora d’una nuova era dell’esegesi, una promettente era di esegesi teologica.
Il Papa dialoga in primo luogo con l’esegesi tedesca ma non ignora importanti autori che appartengono alle aree linguistiche francofona, anglofona e latina. Eccelle nell’individuare le questioni essenziali e i nodi decisivi, costringendosi a evitare le discussioni sui dettagli e le dispute di scuola che pregiudicherebbero il suo proposito, che è quello di “trovare il Gesù reale”, non il “Gesù storico” proprio del filone dominante dell’esegesi critica, ma il “Gesù dei Vangeli” ascoltato in comunione con i discepoli di Gesù d’ogni tempo, e così “giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù”.
Questa formulazione del suo obiettivo manifesta l’interesse metodologico del libro. Il Papa affronta in modo pratico ed esemplare il complemento teologico auspicato dall’Esortazione Apostolica Verbum Domini per lo sviluppo dell’esegesi. Nulla stimola di più dell’esempio dato e dei risultati ottenuti. Gesù di Nazaret offre una magnifica base per un fruttuoso dialogo non solo tra esegeti, ma anche tra pastori, teologi ed esegeti! Prima di illustrare con alcuni esempi i risultati di questa esegesi di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, aggiungo ancora un’osservazione sul metodo. L’autore si sforza di applicare in maggior profondità i tre criteri d’interpretazione formulati al concilio Vaticano II dalla Costituzione sulla Divina Rivelazione Dei Verbum: tener conto dell’unità della Sacra Scrittura, del complesso della Tradizione della Chiesa e rispettare l’analogia della fede. Come buon pedagogo che ci ha abituati alle sue omelie mistagogiche, degne di san Leone Magno, Benedetto XVI, a partire dalla figura – quanto centrale ed unica – di Gesù, mostra la pienezza di senso che promana dalla Sacra Scrittura “interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta” (Dei Verbum, 12).
Anche se l’autore si preclude d’offrire un insegnamento ufficiale della Chiesa, è facile immaginare che la sua autorità scientifica e la ripresa in profondità di certe questioni disputate saranno di grande aiuto per confermare la fede di molti. Serviranno inoltre a far progredire dei dibattiti rimasti insabbiati a motivo dei pregiudizi razionalisti e positivisti che hanno intaccato il prestigio dell’esegesi moderna e contemporanea. Tra la comparsa del primo volume nell’aprile 2007 e quella del secondo in questa Quaresima 2011, un gran numero di eventi felici ma anche di penose esperienze ha segnato la vita della Chiesa e del mondo. Ci si chiede come il Papa sia riuscito a scrivere quest’opera molto personale e molto impegnativa, di cui l’attualità del tema e l’audacia del progetto balzano agli occhi di chiunque s’interessi al cristianesimo. Come teologo e come pastore, ho la sensazione di vivere un momento storico di grande portata teologica e pastorale. È come se in mezzo alle onde che agitano la barca della Chiesa, Pietro avesse ancora una volta afferrato la mano del Signore che ci viene incontro sulle acque, per salvarci (cfr. Matteo, 14, 22-33).
Detto ciò che riguarda il carattere storico, teologico e pastorale dell’evento, veniamo al contenuto del libro che vorrei riassumere assai a grandi linee attorno ad alcune questioni cruciali. Innanzitutto la questione del fondamento storico del cristianesimo che attraversa i due volumi dell’opera; poi la questione del messianismo di Gesù, seguita da quella dell’espiazione dei peccati da parte del Redentore, che costituisce un problema per molti teologi; allo stesso modo la questione del sacerdozio di Cristo in rapporto alla sua Regalità e al suo Sacrificio che tanta importanza rivestono per la concezione cattolica del sacerdozio e della Santa Eucaristia; da ultimo la questione della risurrezione di Gesù, il suo rapporto alla corporeità ed il suo legame con la fondazione della Chiesa.
Non occorre dire che l’elenco non è esaustivo e molti troveranno altre questioni più interessanti, a esempio il suo commento del discorso escatologico di Gesù o ancora della preghiera sacerdotale in Giovanni, 17. Io identifico le questioni qui esposte come nodi da sciogliere in esegesi come in teologia, allo scopo di ricondurre la fede dei fedeli alla Parola stessa di Dio, compresa in tutta la sua forza e la sua coerenza, nonostante i condizionamenti teologici e culturali che a volte impediscono l’accesso al senso profondo della Scrittura.
La questione del fondamento storico del cristianesimo impegna Joseph Ratzinger fin dagli anni della sua formazione e del suo primo insegnamento, come appare dal suo volume Introduzione al cristianesimo (Einführung in das Christentum), pubblicato oltre quarant’anni or sono, e che ebbe all’epoca un notevole impatto sugli uditori e i lettori. Dal momento che il cristianesimo è la religione del Verbo incarnato nella storia, per la Chiesa è indispensabile stare ai fatti e agli avvenimenti reali, proprio in quanto essi contengono dei “misteri” che la teologia deve approfondire utilizzando chiavi d’interpretazione che appartengono al dominio della fede.
In questo secondo volume che tratta degli avvenimenti centrali della passione, della morte e della risurrezione di Cristo, l’autore confessa che il compito è particolarmente delicato. La sua esegesi interpreta i fatti reali in maniera analoga al trattato su “i misteri della vita di Gesù” di san Tommaso d’Aquino, “guidato dall’ermeneutica della fede, ma tenendo conto nello stesso tempo e responsabilmente della ragione storica, necessariamente contenuta in questa stessa fede” (9).
Sotto questa luce, si comprende l’interesse del Papa per l’esegesi storico-critica ch’egli ben conosce e da cui trae il meglio per approfondire gli avvenimenti dell’Ultima Cena, il significato della preghiera del Getsemani, la cronologia della passione e in particolare le tracce storiche della risurrezione.
Non manca di porre in evidenza di passaggio il difetto d’apertura di un’esegesi esercitata in modo troppo esclusivo secondo la “ragione”, ma il suo principale intendimento rimane quello di far luce teologicamente sui fatti del Nuovo Testamento con l’aiuto dell’Antico Testamento e viceversa, in modo analogo ma più rigoroso rispetto all’interpretazione tipologica dei Padri della Chiesa. Il legame del cristianesimo con l’ebraismo appare rafforzato da questa esegesi che si radica nella storia di Israele ripresa nel suo orientamento verso il Cristo. Ecco allora, per esempio, che la preghiera sacerdotale di Gesù, che sembra per eccellenza una meditazione teologica, acquisisce in lui una dimensione del tutto nuova grazie alla sua interpretazione illuminata dalla tradizione ebraica dello Yom Kippur.
Un secondo nodo riguarda il messianismo di Gesù. Certi esegeti moderni hanno fatto di Gesù un rivoluzionario, un maestro di morale, un profeta escatologico, un rabbi idealista, un folle di Dio, un messia in qualche modo a immagine del suo interprete influenzato dalle ideologie dominanti.
L’esposizione di Benedetto XVI su questo punto è diffusa e ben radicata nella tradizione ebraica. Egli s’inserisce nella continuità di questa tradizione che unisce il religioso e il politico, ma sottolineando a qual punto Gesù operi la rottura tra i due domini. Gesù dichiara davanti al Sinedrio d’essere il Messia, ma non senza chiarire la natura esclusivamente religiosa del proprio messianismo. È d’altra parte per questo motivo che è condannato come blasfemo, poiché si è identificato con “il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo”. Il Papa espone con forza e chiarezza le dimensioni regale e sacerdotale di questo messianismo, il cui senso è quello d’instaurare il culto nuovo, l’adorazione in Spirito e in Verità, che coinvolge l’intera esistenza, personale e comunitaria, come un’offerta d’amore per la glorificazione di Dio nella carne. Un terzo nodo da sciogliere riguarda il senso della redenzione e il posto che vi deve o meno occupare l’espiazione dei peccati. Il Papa affronta le obiezioni moderne a questa dottrina tradizionale. Un Dio che esige una espiazione infinita non è forse un Dio crudele la cui immagine è incompatibile con la nostra concezione d’un Dio misericordioso? Come conciliare le nostre moderne mentalità sensibili all’autonomia delle persone con l’idea di un’espiazione vicaria da parte di Cristo? Questi nodi sono particolarmente difficili da sciogliere.
L’autore riprende queste domande più volte, a diversi livelli, e mostra come la misericordia e la giustizia vadano di pari passo nel quadro dell’Alleanza voluta da Dio. Un Dio che perdonasse tutto senza preoccuparsi della risposta che deve dare la sua creatura avrebbe preso sul serio l’Alleanza e soprattutto l’orribile male che avvelena la storia del mondo? Quando si guardano da vicino i testi del Nuovo Testamento, domanda l’autore, non è Dio a prendere su se stesso, nel suo Figlio crocifisso, l’esigenza d’una riparazione e d’una risposta d’amore autentico? “Dio stesso “beve il calice” di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore che, attraverso la sofferenza, trasforma il buio” (258-259).
Tali questioni sono poste e risolte in un senso che invita alla riflessione e in primo luogo alla conversione. Non si può infatti veder chiaro in tali questioni ultime rimanendo neutrali o a distanza. Occorre investirvi la propria libertà per scoprire il senso profondo dell’Alleanza che giustamente impegna la libertà d’ogni persona. La conclusione del Santo Padre è perentoria: “Il mistero dell’espiazione non dev’essere sacrificato a nessun razionalismo saccente” (267).
Un quarto nodo concerne il Sacerdozio di Cristo. Secondo le categorie ecclesiali del giorno d’oggi, Gesù era un laico investito d’una vocazione profetica. Non apparteneva all’aristocrazia sacerdotale del Tempio e viveva al margine di questa fondamentale istituzione del popolo d’Israele. Questo fatto ha indotto molti interpreti a considerare la figura di Gesù come del tutto estranea e senza alcun rapporto con il sacerdozio. Benedetto XVI corregge quest’interpretazione appoggiandosi saldamente sull’Epistola agli Ebrei che parla diffusamente del Sacerdozio di Cristo, e la cui dottrina ben si armonizza con la teologia di san Giovanni e di san Paolo. Il Papa risponde ampiamente alle obiezioni storiche e critiche mostrando la coerenza del sacerdozio nuovo di Gesù con il culto nuovo ch’egli è venuto a stabilire sulla terra in obbedienza alla volontà del Padre. Il commento della preghiera sacerdotale di Gesù è d’una grande profondità e conduce il lettore a pascoli che non aveva immaginato.
L’istituzione dell’Eucaristia appare in questo contesto d’una bellezza luminosa che si ripercuote sulla vita della Chiesa come suo fondamento e sua sorgente perenne di pace e di gioia. L’autore si attiene strettamente alle più approfondite analisi storiche ma dipana egli stesso delle aporie come solo un’esegesi teologica può farlo. Si giunge al termine del capitolo sull’Ultima Cena non senza emozione e restandone ammirati. Un ultimo nodo da me considerato riguarda infine la risurrezione, la sua dimensione storica ed escatologica, il suo rapporto alla corporeità e alla Chiesa. Il Santo Padre comincia senza giri di parole: “La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti” (269).
Il Papa insorge contro le elucubrazioni esegetiche che dichiarano compatibili l’annuncio della risurrezione di Cristo e la permanenza del suo cadavere nel sepolcro. Egli esclude queste assurde teorie osservando che il sepolcro vuoto, anche se non è una prova della risurrezione, di cui nessuno è stato diretto testimone, resta un segno, un presupposto, una traccia lasciata nella storia da un evento trascendente. “Solo un avvenimento reale d’una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l’annuncio apostolico, che non è spiegabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche” (305).
Secondo lui, la risurrezione di Gesù introduce una sorta di “mutazione decisiva”, un “salto di qualità” che inaugura “una nuova possibilità d’essere uomo”. La paradossale esperienza delle apparizioni rivela che in questa nuova dimensione dell’essere “egli non è legato alle leggi della corporeità, alle leggi dello spazio e del tempo”. Gesù vive in pienezza, in un nuovo rapporto con la corporeità reale, ma è libero nei confronti dei vincoli corporei quali noi li conosciamo.
L’importanza storica della risurrezione si manifesta nella testimonianza delle prime comunità che hanno dato vita alla tradizione della domenica come segno identificativo d’appartenenza al Signore. “Per me – dice il Santo Padre – la celebrazione del Giorno del Signore, che fin dall’inizio distingue la comunità cristiana, è una delle prove più forti del fatto che in quel giorno è successa una cosa straordinaria, la scoperta del sepolcro vuoto e l’incontro con il Signore risorto” (288).
Nel capitolo sull’Ultima Cena, il Papa affermava: “Con l’Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita”. Qui aggiunge un’osservazione di grande portata teologica e pastorale: “Il racconto della risurrezione diviene per se stesso ecclesiologia: l’incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente la sua forma” (289). Ogni volta che noi partecipiamo all’Eucaristia domenicale andiamo all’incontro con il Risorto che torna verso di noi, nella speranza che noi rendiamo così testimonianza ch’Egli è vivente e ch’Egli ci fa vivere. Non c’è in tutto questo di che rifondare il senso della messa domenicale e della missione? Dopo aver citato questi nodi senza che mi sia possibile estendermi in modo adeguato sulla loro soluzione, mi preme concludere questa sommaria presentazione facendo un poco più spazio al significato di questa grande opera su Gesù di Nazaret.
È evidente come mediante quest’opera il successore di Pietro si dedichi al suo ministero specifico che è di confermare i suoi fratelli nella fede. Ciò che qui colpisce in sommo grado, è il modo con cui lo fa, in dialogo con gli esperti in campo esegetico, e in vista di alimentare e fortificare la relazione personale dei discepoli con il loro Maestro e Amico, oggi.
Una tal esegesi, teologica quanto al metodo, ma che include la dimensione storica, si riallaccia effettivamente al modo di interpretare dei Padri della Chiesa, senza tuttavia che l’interpretazione s’allontani dal senso letterale e dalla storia concreta per evadere in artificiose allegorie.
Grazie all’esempio che dà e ai risultati che ottiene, questo libro eserciterà una mediazione tra l’esegesi contemporanea e l’esegesi patristica, da un lato, come anche nel necessario dialogo tra esegeti, teologi e pastori, da un altro. In quest’opera vedo un grande invito al dialogo su ciò che è essenziale del cristianesimo, in un mondo in cerca di punti di riferimento, in cui le differenti tradizioni religiose faticano a trasmettere alle nuove generazioni l’eredità della saggezza religiosa dell’umanità.
Dialogo dunque all’interno della Chiesa, dialogo con le altre confessioni cristiane, dialogo con gli Ebrei il cui coinvolgimento storico in quanto popolo nella condanna a morte di Gesù viene una volta di più escluso. Dialogo infine con altre tradizioni religiose sul senso di Dio e dell’uomo che emana dalla figura di Gesù, così propizia alla pace e all’unità del genere umano.
Al termine d’una prima lettura, avendo maggiormente gustato la Verità di cui con umiltà e passione è testimone l’autore, sento il bisogno di dar seguito a questo incontro di Gesù di Nazaret sia con l’invitare altri a leggerlo che riprendendone la lettura una seconda volta come meditazione del tempo liturgico di Quaresima e di Pasqua. Credo che la Chiesa debba rendere grazie a Dio per questo libro storico, per quest’opera cerniera tra due epoche, che inaugura una nuova era dell’esegesi teologica. Questo libro avrà un effetto liberatorio per stimolare l’amore della Sacra Scrittura, per incoraggiare la lectio divina e per aiutare i preti a predicare la Parola di Dio.
Alla fine di questo rapido volo su un’opera che avvicina il lettore al vero volto di Dio in Gesù Cristo, non mi rimane che dire: Grazie, Santo Padre! Consentitemi tuttavia di aggiungere ancora un’ultima parola, una domanda, poiché un simile servizio reso alla Chiesa e al mondo nelle circostanze che si conoscono e con i condizionamenti che si possono intuire, merita più d’una parola o d’un gesto di gratitudine. Il Santo Padre tiene la mano di Gesù sulle onde burrascose e ci tende l’altra mano perché insieme noi non facciano che uno con Lui. Chi afferrerà questa mano tesa che ci trasmette le parole della Vita eterna?

di M Aarc Ouellet

L’osservatore Romano 11  03 2011

 


  • RASSEGNA STAMPA
“il pontefice analizza, dal punto di vista storico, teologico ed esegetico, gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo culminati con la Resurrezione… Tema centrale, la lettura della Passione nella quale Ratzinger rilancia lo storico documento conciliare Nostra Aetate con cui 46 anni fa la Chiesa cattolica cancellò l’infamante accusa di deicidi contro «tutto il popolo ebraico»”
“Al caso giudiziario del processo di Gerusalemme, al rapporto tra la verità e il potere (politico e religioso) è dedicato uno dei capitoli più penetranti del nuovo libro del Papa dedicato a Gesù di Nazaret… Un libro che contiene importanti novità in particolare perché sottolinea «il legame del cristianesimo con l’ebraismo»… Ma che apre al dialogo con le altre confessioni cristiane in particolare protestanti e con le altre religioni”
“particolare rilevanza la parte dedicata alla risurrezione, dove il papa dice senza mezzi termini che se la si elimina dalla storia di Gesù il cristianesimo può restare un insieme di buone idee sull’uomo e sul suo essere, ma la fede cristiana «è morta». (ndr.: davvero la resurrezione è un fatto storico, accertabile con gli strumenti della ricerca storica? Davvero la tomba vuota è un presupposto necessario per la resurrezione? diversi studiosi, biblisti e teologi hanno opinioni differenti)
“Si tratta infatti di mettere in luce la contraddizione tra lo spirito evangelico e una politica gretta ed egoista.”
“La preoccupazione del Papa concerne… il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede… narrazione evangelica = storia reale… però in questo nuovo volume egli stesso… prende atto che “nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze”… Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà… ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato”
“«la Chiesa ha diritto a far sentire la sua voce e a orientare l’opinione dei cittadini, ma non a imporre i propri valori a chi non li condivide mediante accordi politici non sempre disinteressati»… Che senso ha la resurrezione per un laico? «La resurrezione di Gesù ha avuto ed ha un significato più universale. Significa far passare il messaggio che ciascuno può risollevarsi dopo ogni caduta, riformulare e ricominciare da capo la propria vita… anche l’antica figura del destino appare sconfitta»”
“il Gesù uomo… lottando si innalza alla superiore realizzazione di se stesso, che è sacrificarsi per la salvezza degli altri… non è proprio questo che avviene pure in ogni uomo… quando riesce a vincere l’ansia per la sua sorte particolare, e a realizzare un valore che trascende la sua individualità accidentale, psicologica? Un valore che è sempre per tutti, perché ogni gesto d’amore e di vero coraggio… è sempre per tutti… L’eterno non è il tempo che continua senza fine… è la vita nelle sue epifanie essenziali – dolore, felicità, amore, conoscenza della verità – sempre presenti; è il kairós dei greci… è l’attimo di Michelstaedter, sempre vissuto come se fosse l’ultimo”
“Racconta molto su Ratzinger questo secondo volume sulla passione e resurrezione di Gesù. Mentre esalta la fiducia nel Cristo, che tiene le sue mani stese sui fedeli e l’umanità, il testo rivela il profondo e permanente pessimismo di Benedetto XVI sui rapporti tra Chiesa e società.”
Antisemitismo di origine cristiana. “Benedetto XVI segue l’opinione condivisa a livello scientifico che gli Ebrei di cui parla il vangelo di Giovanni, così come la richiesta dell’esecuzione di Gesù, non possano venir riferiti all’intero popolo d’Israele”

I Domenica di Quaresima (anno A)

Esegesi  Meditazione  Preghiere  Racconti


Prima lettura: Genesi 2,7-9; 3,1-7

 

Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.

Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

 

La pericope di Genesi, che la liturgia ci presenta come prima lettura in questa prima domenica di Quaresima, accosta due brani distinti quello della creazione dell’uomo con la sua collocazione nel giardino dell’Eden e quello della prima tentazione che riuscì ad ingannare l’uomo e la donna, che fungono insieme da «figura» al brano del Vangelo di Matteo. Gesù è tentato, come fin dall’origine furono tentati l’uomo e la donna: il Messia resiste alla tentazione e vince, mentre la coppia umana cede e soccombe.

Il tentatore è sempre lo stesso: astuto, intelligente e furbo, capace di creare suggestioni e immaginazioni, abile artista e regista che pretende di dirigere il corso degli eventi.

Due scene per due significati che si legano insieme. Nella prima la sottolineatura della condizione dell’uomo, in tutto dipendente da Dio (v.7a: «Il Signore Dio plasmò… »), fragile e debole (v. 7b: «… con polvere del suolo…»), ma in qualche modo partecipe della condizione divina (v. 7c: «…soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente… »); nella seconda il tragico racconto della tentazione e della caduta  con i tre protagonisti (serpente, donna, uomo) sui quali incombe, in modo possente, il giudizio tremendo di Dio.

Spettacolare la presentazione del tentatore: una forza seduttrice che giunge all’uomo dall’esterno, una forza corruttrice e parlante, personale e bugiarda.

Serpente antico, il tentatore manipola la parola di Dio: con un’esegesi distorta (3,1 c: «…Non dovete mangiare di alcun albero…») che riesce a sbilanciare la donna e a farla uscire fuori dal suo silenzio e ad accettare il dialogo che la porterà a cadere: con un’insinuazione sottile che getta ombra su Dio (3,5: «Anzi, Dio sa…»), quasi che il Creatore avesse timore e paura, e mette in crisi definitiva la donna.

La donna cede convinta dal serpente; l’uomo cede avviato dalla donna: tutti e due peccano nel tentativo di realizzare la propria vita indipendentemente da Dio, nell’illusione di volersi ergere arbitri sul bene e sul male e nella vaga speranza di sentirsi padroni della propria e dell’altrui vita.


Seconda lettura: Romani 5,12-19

Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti  gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

 

Cristo, contrapposto ad Adamo, ci ha procurato la giustizia di Dio liberandoci dal peccato e dalla morte. L’Apostolo Paolo presenta il doppio «destino» che spetta all’umanità: la «morte» o la «vita».

Paolo dimostra che la salvezza è legata alla solidarietà a Cristo, alla sua obbedienza e al suo amore oblativo, presentando la sua argomentazione con il fenomeno letterario del parallelismo antitetico tra l’intervento di Adamo e quello di Cristo nella storia dell’umanità.

Il richiamo di Adamo è però secondario per mettere in evidenza l’opera di salvezza portata da Cristo. È Cristo, infatti, il vero protagonista, è lui che costituisce il centro d’interesse. L’attenzione infatti è posta sull’azione liberatrice di Cristo, sulla sua obbedienza e sul suo «dono di grazia».

L’efficacia positiva di Cristo supera di gran lunga quella negativa di Adamo. Non si tratta dunque di un vero e proprio parallelismo «reale», ma soltanto «formale» per fare risaltare il secondo termine di paragone che è Cristo!

Paolo, inoltre, pone il parallelismo con lo schema «uno-tutto» dove, per il principio di solidarietà, l’azione di uno determina le scelte dell’umanità. Paolo, tuttavia, lascia intendere che l’uomo è libero di accettare o di rifiutare tale influsso e presenta il «destino» dell’uomo come azione della volontà e come scelta personale.


Vangelo: Matteo 4,1-11

(vedi presentazione power point)

 

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».

Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

Esegesi


Il capitolo 4 del Vangelo di Matteo si apre con la scena delle tentazioni che Gesù subisce nel deserto ad opera del diavolo. Lo spirito del male è una creatura spirituale che combatte il disegno di Dio. La scena è costituita dalla successione di tre sequenze: il deserto, il tempio di Gerusalemme, un monte altissimo.

Il testo è scandito da un triplice «allora» (vv. 5,10,11) in modo analogo al brano che precedeva il battesimo (3,5-15); il terzo introduce una conclusione che ricorda la fine del dialogo tra Giovanni e Gesù (3,15): «Allora il diavolo lo lasciò…» (v. 11), mentre il duplice «ed ecco» della scena del battesimo (3,16.17) viene qui ripreso come un’eco: «…ed ecco gli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (v. 11).

La pericope si articola in diversi momenti: introduzione con presentazione dei personaggi fondamentali (vv. 1-2); racconto vero e proprio con le tre scene di tentazione (vv. 3-10); conclusione con il ritiro del tentatore e la presenza degli angeli (v. 11).

Il deserto è convenzionalmente il luogo del ritiro, in cui l’uomo si pone di fronte alle scelte essenziali della vita. Come il popolo d’Israele matura la sua vocazione di popolo di Dio nel deserto, così Gesù, prima di iniziare la sua missione, va nel deserto. Il Signore, però, al contrario d’Israele vince la triplice tentazione dei beni materiali, del successo e del potere, tentazione nella quale era caduto l’uomo nel giardino dell’Eden (Gen 3 1-7): dove l’antico Israele soccombeva, colui che simboleggia il nuovo Israele resiste e vince.

Le tre tentazioni conducono Gesù a rifiutare il potere temporale, il facile ricorso al miracolo e soprattutto la seduzione dell’idolatria.

Gesù si distanzia energicamente da queste tre tentazioni rinunciando ad ogni costo a utilizzare la strada del potere, del prestigio e del facile miracolo. Lo testimoniano chiaramente anche gli altri Sinottici, lo ricorda lo stesso Giovanni (6.6).

Altro dato fondamentale della pericope è lo stretto legame che intercorre tra la tentazione di Gesù e il Battesimo. È lo Spirito, disceso in occasione del Battesimo, che conduce Gesù nel deserto, per esservi tentato dal diavolo (4,1). La missione di Gesù viene caratterizzata fin dall’inizio dalla presenza ostile del demonio che sosterrà una lotta continua contro il Figlio di Dio in tutta l’area del suo ministero di prova: adempiere ogni giustizia (5,10) significa proprio vincere al male.

La presentazione delle tentazioni è caratterizzata, intessuta e cadenzata dalle citazioni dell’Antico Testamento. Sembra chiaro che Matteo voglia presentare, in un contesto catechetico o meglio ancora liturgico, Gesù come colui al quale è ordinata l’intera storia d’Israele.

Poiché Gesù colma l’attesa del suo popolo, egli assume tutte le dimensioni della sua storia e dal momento che egli adempie ogni giustizia realizzando il beneplacito del Padre, egli trionfa delle tentazioni alle quali in altri tempi il popolo ebreo aveva invece ceduto e, così, si rivela veramente come il figlio di Dio.

Il tentatore eccelle nell’arte di abbellire le immagini e con pochi elementi egli abbozza un quadro grandioso: il pinnacolo del tempio che domina la città santa, le mura alte che cadono a picco, la presenza degli angeli invocati come possibili «aiutanti» celesti di Gesù… Come un regista esperto vuole far giocare a Gesù il ruolo del Messia trionfatore, che viene tra i suoi con potenza e che si manifesta al mondo intero con gesti altamente e chiaramente potenti. Ma ciò non si realizza!

Nella prima tentazione Gesù rifiuta il ruolo messianico in un contesto spettacolare e prodigioso, ma lo vive nella fedeltà a Dio come ogni uomo giusto e credente. Nella seconda Gesù supera tutte le deformazioni religiose che hanno nella magia e nel miracolismo il loro modello. Nella terza tentazione Gesù mostra chiaramente come sia perversa e diabolica l’idea di una conquista e di un potere imperialistico in nome di Dio.

È la triplice tentazione di Gesù: una tentazione che, al di là del tempo e del luogo circoscritto dall’evangelista, abbraccia e tocca tutta la vita del Messia, che diventa giorno per giorno tentazione e prova continua. Non si tratta della descrizione di un giorno di vita di Gesù, ma della riflessione completa sulla vita stessa di Gesù, rispecchiata, o meglio ancora anticipata, nel riassunto molto sintetico e schematico delle tre tentazioni.


Meditazione


Le letture del ciclo quaresimale «A» sono legate al catecumenato e all’iniziazione cristiana che culmina nel battesimo impartito nella notte pasquale. Nella prima domenica, ad Adamo che soccombe alla tentazione (I lettura) fa riscontro Gesù che vince la tentazione (vangelo) e offre a ogni cristiano la possibilità di fare delle proprie cadute l’occasione di conoscere la grazia di Dio (II lettura).

Il binomio peccato-morte con cui Paolo interpreta la caduta primordiale si presta a una rilettura a partire dalla pagina genesiaca. La tentazione agisce interiormente all’uomo a partire dalla parola con cui Dio gli comanda di mangiare di tutto eccetto una sola cosa (Gen 2,16-17). In caso contrario, l’uomo incontrerà certamente la morte. La tentazione agisce nel cuore umano anzitutto come frustrazione («se sono privato di una cosa, sono privato di tutto»: Gen 3,1). La proibizione dell’unico frutto, più che il permesso-comando di mangiare tutto il resto, colpisce e ferisce la creatura che si vede attratta da ciò che è interdetto. E dalla potenza del desiderio essa si difende con interdetti ulteriori che inaspriscono il divieto divino: «Non lo dovete toccare» (Gen 3,3). E specifica: «altrimenti morirete» (Gen 3,3). La morte è già presente nel mondo, sta agendo nella mente e nel cuore della creatura umana e sta producendo paura. E proprio le parole che assicurano: «Non morirete affatto», vincono le resistenze della donna e la spingono alla trasgressione. Dunque: dalla morte viene il peccato, più ancora che il contrario. O meglio, dalla paura della morte. Il peccato fa leva sulla paura della morte. Noi pecchiamo e la diamo vinta alle tentazioni per illuderci di darci vita nella via del possesso, dell’abuso, dell’accumulo, del potere, del consumo… Ma l’esito di questo è mortifero e l’uomo si ritrova schiavo di ciò che l’ha vinto. Il Nuovo Testamento afferma che Cristo ha ridotto all’impotenza colui che della morte ha il potere, il diavolo, liberando così gli uomini che, per paura della morte, erano soggetti a schiavitù tutta la vita (Eb 2,14-15).

Gesù attraversa la tentazione, non la rimuove. Cioè, egli accetta di misurarsi con essa in se stesso: non proietta l’immagine del nemico su realtà esterne, ma accetta che la potenza della tentazione si dispieghi nell’intimo, nel cuore. Solo chi vince la potenza del divisore in se stesso può cacciare i demoni dagli altri umani.

La vittoria di Gesù è interiore e spirituale: egli vince ricordando la parola di Dio. E la parola ricordata gli fa ripercorrere il cammino del popolo dopo l’uscita dall’Egitto. Le tentazioni matteane riproducono il cammino di Israele nei quarant’anni nel deserto rinviando (attraverso le tre citazioni del Deuteronomio in bocca a Gesù) a tre episodi fondamentali dell’esodo: la manna e le quaglie (Es 16); Massa e Meriba (Es 17,1-7); il vitello d’oro (Es 32). Il ricordo della parola di Dio, la memoria Dei, è ciò che guida Gesù alla vittoria. E la memoria Dei non è semplice ricordo di frasi bibliche, ma evento spirituale che interiorizza la presenza di Dio nel cuore dell’uomo.

Le tentazioni di Gesù non sono solo le tentazioni del miracolistico, del sacrale e del potere (o, rispettivamente, le tentazioni economica, religiosa, politica), ma qualcosa di ulteriore. Nella prima scena vi è anche la tentazione che nasce quando la nostra esperienza della realtà è l’esperienza di un deserto, di durezze pietrose, quando la realtà appare sterile, feconda solo di disillusioni e incapace di nutrire. Nella seconda scena si apre la via alla tentazione che nasce quando si è andati oltre le immagini idealizzate del sacro e del religioso, quando cioè le immagini gratificanti e consolatorie del divino sono crollate e lo spazio per Dio si restringe sempre più. E nella terza scena si dischiude la tentazione successiva alle illusioni del potere, della ricchezza, della gloria: quando cioè queste realtà svelano la loro inanità e nell’uomo può farsi strada il cinismo, la disillusione, magari il risentimento. Gesù passa attraverso tutto questo e ciò che rimane è un corpo spoglio che, nella nuda fede, ricorda e ripete la parola di Dio. È così nel deserto, sarà così sulla croce (Mt 27,46).


Preghiere e racconti


La tentazione

Il deserto richiama alla mente un altro luogo dello Spirito: la tentazione. Non le nostre piccole tentazioni quotidiane, ma l’unica tentazione, la grande tentazione escatologica, quella degli ultimi giorni in cui già stiamo vivendo. Dobbiamo riconoscere questa tentazione in ogni cosa che ci accade, come nelle contraddizioni e nelle sofferenze che ci circondano. «Considerate perfetta letizia», dice san Giacomo all’inizio della sua Lettera, «quando subite ogni sorta di prove»; è per questo che siamo nel mondo… È nell’ora della tentazione che la testimonianza dello Spirito si fa chiara ed eloquente in noi, ed è nel pieno mezzo della tentazione che i cristiani si riconoscono fratelli. La tentazione ci pone davanti a Dio in modo completamente nuovo. Una breccia si apre in noi: ogni tentazione mette in discussione un certo numero di strutture  non solo ecclesiali, ma anche strutture della nostra intima personalità. Sconcertandoci e togliendoci il terreno da sotto i piedi, aprendo una breccia e smantellando qualcosa a cui siamo intimamente legati, la tentazione porta con se la possibilità di una ricca effusione della grazia, e può farci crescere nello Spirito santo. Se riusciamo ad accettare questo scombussolamento e a mostrarci in tutta la nostra debolezza e povertà, queste ultime verranno d’un tratto rimpiazzate e rilevate dalla potenza di Dio che dispiega tutta la sua forza nella nostra debolezza. È questa accettazione a costituire ciò che le Scritture chiamano hypomone: pazienza, perseveranza.

(A. Louf, La vita spirituale, Magnano (Biella), Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose, 2001, pp. 9-20).


Antonio e i suoi compagni

Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società. Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo. Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita. E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…

La solitudine è la fornace della trasformazione. Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra società e continuiamo a restare impigliati nelle illusioni del falso io. Anche Gesù è entrato in questa fornace. Fu tentato con le tre seduzioni del mondo: essere importante («trasforma le pietre in pane»), essere spettacolare («gettati dalla torre»), essere potente («ti darò tutti questi regni»). Gesù ha affermato Dio come unica sorgente della sua identità («Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto»). La solitudine è il luogo della grande lotta e del grande incontro – lotta contro le imposizioni del falso io e incontro con il Dio dell’amore che offre se stesso come sostanza del nuovo io.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 94).


La mia cella nel mondo

La cella, luogo di ritiro, è una semplice camera che abbisogna soprattutto di silenzio in modo che possa assicurare, con l’arredamento essenziale, tutto quello che serve per riposare (il letto), per leggere e scrivere (la sedia e il tavolo), anche o soprattutto di notte (la lampada). Per secoli la cella è stata ed è ancora questo per ogni monaco d’Oriente e d’Occidente: il luogo in cui il monaco impara ad habitare secum, ad abitare con se stesso, in cui cerca Dio nella solitudine e nel silenzio, in cui si impegna e si esercita a lottare contro le pulsioni malvagie che lo abitano e in cui si addestra alla comunione con gli uomini tutti.

Così è stato per me, fin da quando, giovane studente universitario, ho intrapreso, al di fuori delle strutture allora esistenti, l’itinerario monastico che rimane fondamentalmente identico al di là dei contesti storici, culturali ed ecclesiali in cui si inserisce. E come tutti quelli che mi avevano preceduto in questo cammino, mi sono presto accorto che non era facile rimanere, sostare, abitare una cella, quel luogo troppo piccolo, privo di sbocchi e di mutamenti, un luogo capace addirittura di incutere paura. Sapevo bene che la battaglia della cella era una delle prime che avrei dovuto combattere e, infatti non appena vi entravo, avvertivo una voglia di uscirne, mi si affollava nella mente le urgenze che mi chiamavano “fuori”: il richiamo a vivere fuori da me stesso si insediava nella mia mente […].

Come accade a ogni monaco, anch’io ho conosciuto la cella come luogo di reclusione e di prigione ma poi, perseverando, l’ho scoperta come luogo in cui poco alla volta si impara ad abitare con se stessi in verità, intenti alla propria unificazione interiore. Con un sapiente gioco di parole, Guglielmo di Saint-Thierry accostava “cella” e coelum, interpretandoli entrambi come derivati dal verbo “celare”, nascondere: qui e là si ritrova Dio, il Dio segreto, nascosto. Del resto Gesù stesso, rivolgendosi a ogni discepolo – e quindi non solo ai monaci… – aveva rivolto un invito ben preciso: “Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo che è nel segreto” (Matteo 6,6,). Pregare nel segreto della cella, dove nessuno vede, nessuno controlla: questo è esempio di autenticità e luogo di verifica dell’eloquenza della fede. Antidoto contro ogni ostentazione ed esibizione religiosa, la cella diventa effettivamente il luogo in cui si può “dare del tu a Dio”, parlare a Dio e vincere la tentazione di parlare di lui. Se questo “faccia a faccia” è franco, può assumere i tratti di un intimità amorosa: allora la cella diviene “cella vinaria”, la stanza del Cantico dei Cantici, autentica cantina dove si consuma l’incontro amoroso inebriati dal profumo e dal gusto del vino. Come dice il profeta: Exultabit solitudo, “La solitudine esulterà”.

(Enzo BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Enaudi, Torino, 2010, Prologo)


Intuizioni patristiche dedicate al brano evangelico delle tentazioni

«Dopo il battesimo nell’acqua lo Spirito conduce Gesù al battesimo nella tentazione, ma non come una persona ne costringe un’altra, ma come qualcuno consente a chi ha deciso. E’ provato nella solitudine, così come Eva fu tentata quando si trovò sola. Il potere di Dio non si fa conoscere con tali prove, perché Dio non fa mai nulla d’inutile. Chi conosce la propria forza, infatti, non cerca di sfoggiarla. Se dunque il digiuno non vi gioverà per non essere tentati, vi consentirà non di meno di essere fortificati tanto da vincere la tentazione».

(S. Giovanni Crisostomo)

«Come tentò per la gola il primo Adamo, così tenta il secondo per la fame. Il maligno, vincitore del primo, sarà vinto dal secondo e come tentò i primogeniti con la vanagloria, dicendo che sarebbero stati come Dio, ora tenta Cristo con la superbia».

(S.Gregorio Magno)

«Gesù vuol vincere con l’umiltà e con l’autorità delle divine scritture e non con i segni del suo potere divino. In questo modo confonde di più il nemico e dà maggior onore alla natura umana indicando con quali armi anch’essa può vincere il maligno. Il maligno aveva tale potere perché usandone giungesse la sua sconfitta. Così verrà permesso ai malvagi di crocifiggerlo perché ne giungesse la salvezza».

(S. Girolamo)

«Anche Satana cita la bibbia, ma certe citazioni non illuminano: fanno buio».

(S. Ambrogio)


40 giorni nel deserto

Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.

Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire. Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo. Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua. Tu devi tornare nella solitudine”.

L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un convento?”

“No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.


Non di solo pane

«Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».

È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).


Non temere la lotta!

«Se dopo il battesimo ti assalirà colui che ha perseguitato e inseguito la luce – e di certo ti assalirà dal momento che ha assalito anche il Verbo e mio Dio a causa del rivestimento della carne aggredendo la luce nascosta attraverso ciò che era visibile – tu hai modo di vincerlo, non temere la lotta! Opponigli l’acqua, opponigli lo Spirito, nel quale si spegneranno tutte le frecce infuocate del Maligno. È Spirito, ma che dissolve le montagne [cfr. Sal 96 (97),5]; è acqua, ma che spegne il fuoco. Se [il Divisore] ti assale ponendoti sotto gli occhi la tua povertà – ha osato farlo con Cristo – e cercherà di ottenere che le pietre divengano pane (cfr. Mt 4,3-4) facendoti vedere che hai fame, non ignorare i suoi propositi. Insegnagli quello che non ha imparato, opponigli la parola di vita che è il pane disceso dal cielo e che dona vita al mondo (cfr. Gv 6,33). Se ti tende un laccio attraverso la vanagloria – lo fece anche con Cristo conducendolo sul pinnacolo del tempio e dicendogli: «Gettati di sotto» (Mt 4,6) perché mostrasse la sua divinità – non farti trascinare in basso dal desiderio di innalzarti. Se ottiene questo, non si fermerà qui. E insaziabile, ricorre a tutti gli espedienti. Lusinga con il bene, ma conclude con il male. Questo è il suo modo di combattere. Ma il ladrone è esperto anche nella Scrittura. Da essa trae lo «sta scritto» a proposito del pane (cfr, Mt 4,3-4) ; da lì lo «sta scritto» a proposito degli angeli: «Sta scritto, infatti, che darà ordine ai suoi angeli riguardo a te, e che essi ti solleveranno con le loro mani [Sal 90 (91),11-12; Mt4,6]. Oh! Tu, sapiente nel fare il male, come hai potuto tacere quanto è scritto subito dopo? Io lo conosco bene anche se tu hai taciuto. «Io ti farò camminare sopra l’aspide e il basilisco e ti farò calpestare i serpenti e gli scorpioni « [Sal 90 (91),13], perché sei protetto dalla Trinità. Se poi egli ti assalirà ricorrendo all’insaziabilità, mostrandoti in un istante e in un batter d’occhio tutti i regni del mondo come se gli appartenessero (cfr. Mt 4,8-9) e ti chiederà di adorarlo, disprezzalo: è povero. Digli, confidando nel sigillo [impresso su di te con il battesimo] : «Anche io sono immagine di Dio. Non sono ancora stato rigettato dalla gloria dell’alto come te a causa della superbia. Ho rivestito Cristo (cfr. Gal 3,27), mi sono trasformato in Cristo per mezzo del battesimo. Sei tu che devi adorarmi». Si allontanerà da te, ne sono certo, vinto e coperto di vergogna a causa di queste parole. Come dovette abbandonare Cristo, la prima luce, così lascerà anche quelli che sono stati da lui illuminati».

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 40,10, SC 358, pp. 216-218).


Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto (Mt 4,10).

Il principale interesse di Gesù era quello di obbedire al Padre suo, di vivere costantemente alla sua presenza. Solo dopo divenne chiaro per lui quale fosse il suo compito nelle sue relazioni con la gente. Questa è la via che egli propone anche ai suoi apostoli: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,8). Forse dobbiamo continuamente richiamare alla nostra memoria, che il primo comandamento, quello che esige da noi di amare Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra mente, è veramente il primo.

Mi chiedo se questo lo crediamo davvero. In realtà, sembra che viviamo come se dovessimo dare il cuore, l’anima e la mente il più possibile ai nostri simili, gli esseri umani, cercando di fare di tutto per non dimenticarci di Dio. O per lo meno sentiamo che la nostra attenzione va divisa equamente tra Dio e il nostro prossimo. Ma Gesù chiede qualcosa di molto più radicale.

Domanda un impegno esclusivo per Dio e per Dio solo. Dio vuole tutto il nostro cuore, tutta la nostra mente, tutta la nostra anima.

È questo amore di Dio incondizionato e senza riserve, che ci spinge a prenderci cura del nostro prossimo, non come un’attività che ci distrae da Dio o si mette in concorrenza con la nostra attenzione a Dio, bensì come un’espressione del nostro amore per Dio che si rivela a noi come il Dio di tutti.

È in Dio che troviamo nostro prossimo e scopriamo la nostra responsabilità nei suoi confronti. Potremmo addirittura dire che solo in Dio il nostro prossimo diventa nostro prossimo e non una violazione della nostra autonomia, e che solo in Dio e attraverso Dio diventa possibile il servizio.

(J.M. Nouwen, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 20-22).


La solitudine

La solitudine è un elemento antropologico costitutivo: l’uomo nasce solo e muore solo. Egli è certamente un «essere sociale», fatto «per la relazione», ma l’esperienza mostra che soltanto chi sa vivere solo sa anche vivere pienamente le relazioni. Di più: la relazione, per essere tale e non cadere nella fusione o nell’assorbimento, implica la solitudine. Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con 1’alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie «moderne», che riguardano la soggettività, arrivino anche a inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. Certo, non ogni solitudine è positiva: vi sono forme di fuga dagli altri che sono patologiche, vi è soprattutto quella «cattiva solitudine» che è l’isolamento, il quale implica la chiusura agli altri, il rigetto del desiderio degli altri, la paura dell’alterità. Ma tra isolamento, chiusura, mutismo, da un lato, e bisogno della presenza fisica degli altri, dissipazione nel continuo parlare, attivismo smodato, dall’altro, la solitudine è equilibrio e armonia, forza e saldezza.

Chi assume la solitudine è colui che mostra il coraggio di guardare in faccia se stesso, di riconoscere e accettare come proprio compito quello di «divenire se stesso»; è l’uomo umile che vede nella propria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare. E non si sottrae a tale compito rifugiandosi nel «branco», nell’anonimato della folla, e neppure nella deriva solipsistica della chiusura in sé. Sì, la solitudine guida l’uomo alla conoscenza di sé, e gli richiede molto coraggio.

La solitudine allora è essenziale alla relazione, consente la verità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse, la solitudine è uno dei grandi segni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: «Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine interiore e l’amicizia; anzi, proprio da questo segno infallibile la riconoscerai».La solitudine è il crogiuolo dell’amore: le grandi realizzazioni umane e spirituali non possono non attraversare la solitudine. Anzi, proprio la solitudine diviene la beatitudine di chi la sa abitare. Facendo eco al medievale «beata solitudo, sola beatitudo», scrive MarieMadeleine Davy: «La solitudine è faticosa solo per coloro che non han sete della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa costituisce la felicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore».

In verità, la solitudine, certamente temibile perché ci ricorda la solitudine radicale della morte, è sempre solitudo pluralis, è spazio di unificazione del proprio cuore e di comunione con gli altri, è assunzione dell’altro nella sua assenza, è purificazione delle relazioni che nel continuo commercio con la gente rischiano di divenire insignificanti. E per il cristiano è luogo di comunione con il Signore che gli ha chiesto di seguirlo là dove lui si è trovato: quanta parte della vita di Gesù si è svolta nella solitudine! Gesù che si ritira nel deserto dove conosce il combattimento con il Tentatore, Gesù che se ne va in luoghi in disparte a pregare, che cerca la solitudine per vivere l’intimità con 1’abba e per discernere la sua volontà. Certo, come Gesù, il cristiano deve riempire la sua solitudine con la preghiera, con la lotta spirituale, con il discernimento della volontà di Dio, con la ricerca del suo volto.

Commentando Giovanni 5,13 che dice: «L’uomo che era stato guarito non sapeva chi fosse [colui che l’aveva guarito]; Gesù infatti era scomparso tra la folla», Agostino scrive: «È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla; ci è necessaria la solitudine. Nella solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio». II Cristo in cui diciamo di credere e che diciamo di amare si fa presente a noi nello Spirito santo per inabitare in noi e per fare di noi la sua dimora. La solitudine è lo spazio che apprestiamo al discernimento di questa presenza in noi e alla celebrazione della liturgia del cuore.

Il Cristo poi, che ha vissuto la solitudine del tradimento dei discepoli, dell’allontanamento degli amici, del rigetto della sua gente, e perfino dell’abbandono di Dio, ci indica la via dell’assunzione anche delle solitudini subite, delle solitudini imposte, delle solitudini «negative». Colui che sulla croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo l’abbandono di Dio, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. Essa, infatti, è mistero di amore!

(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 181-184).


Lettera di Nichi Vendola a don Tonino Bello

«…Vedi, don Tonino, io sento nostalgia struggente della tua voce e della tua cosmogonia, perché ho l’impressione che le cose si siano fatte molto più complicate… Oggi vincono e convincono quelli che non hanno tempo per occuparsi di vittime, di poveri, di esuberi, di quelle “pietre di scarto” che nel Vangelo saranno “pietre angolari” dell’edificio della salvezza: quelli che girano lo sguardo da un’altra parte, quelli che fingono di non vedere l’orrore, quelli che sono gli eroi di cartapesta del nostro immaginario e della nostra etica pubblica. Oggi gli afflitti vengono ulteriormente afflitti e i consolati ulteriormente consolati…. La crisi del mondo scopre le proprie carte persino con uno sconosciuto vulcano islandese che risvegliandosi ed eruttando, con la sua nube premonitrice avvolge l’intera Europa. Non c’è varco che indichi l’intangibilità della vita: l’economia appiccica prezzi e toglie valore alle persone, la mercificazione non ha senso del limite, anche i bambini sono merce-lavoro esposti a qualsivoglia violazione, i vecchi sono de localizzati dalla finanza domestica a rottami o esiliati, le donne pagano a prezzo salatissimo la rivendicazione della propria libertà (cioè della propria dignità), torna la stagione degli acchiappafantasmi. Ognuno ha la propria ossessione, il proprio fantasma da esorcizzare.

La pace di Isaia, il disarmo dei pacifisti, il digiuno che purifica, l’astinenza dall’odio: dov’è tutto questo, carissimo don Tonino? Dov’è la Pasqua della responsabilità sociale e della convivialità culturale?

Anche la Chiesa spesso pare più vocata all’autodifesa che non all’annuncio. L’Annuncio, sì carissimo pastore, quello che tu hai saputo incarnare nella ferialità di un amore senza misura (charitas sine modo): amore capace di giudizio storico, capace di passione civile, capace di condivisione radicale… Tu sapevi essere la sentinella che annuncia l’alba.

Ti ho scritto questa lettera in tono apocalittico, perché tu mi hai insegnato che bisogna denunciare il male non per stimolare cinismo e rassegnazione, ma per allenare la coscienza alla ricerca del bene, del giusto, del bello».

(Lettera scritta da Nichi Vendola nella «Gazzetta del Mezzogiorno» (19 aprile 2010).

La sapienza dei Padri

Nella vita dei Padri del deserto, si narra di Bessarione, grande monaco vissuto nel secolo IV. Capitato in una chiesa durante la predica, gli toccò sentire il presbitero scacciare un peccatore, giudicato indegno di stare tra la gente per bene. Bessarione non mosse ciglio, si alzò con lui dicendo: “anch’io sono un peccatore”.


Preghiera

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.

È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza. Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me. La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita. Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni. Non vi sono tempi o luoghi senza scelte. E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo. Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me. Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

– Giuseppe TURANI, Quaresima-Pasqua 2011. Cristo mia speranza è risorto!, in «Vita pastorale. Supplemento» (2011) 1, 113 pp.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, a cura di Enzo Bianchi et alt., Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

I nuovi padri: intervista a Massimo Recalcati

Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?,  Cortina Editore, pag. 190, euro 14.


“Papi”: è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a “papi”, invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell’epoca ipermoderna, sull’evaporazione del padre, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l’interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).

Cosa resta dell’uomo che assicurava l’ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l’ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all’autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica… Si tratta allora di pensare al padre come “resto”, non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all’insegnamento esemplare, all’intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l’incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».

 

Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice “sì!” a ciò che esiste, senza sprofondare nell’abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell’avvenire».

 

In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l’insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo… Quando Freud gli attribuiva il saper “tenere gli occhi chiusi”, intendeva sottolineare il carattere “umanizzato” della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita… È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un “no!” che sia davvero un “no!”, e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».

 

Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all’adozione… C’era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre “interdice” il godimento incestuoso e “separa” la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero “nuovo” e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare.
Intesa come legame “naturale”, la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l’importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un’appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza… Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».

 

Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto “l’ordine del sangue”. Prendiamo Million Dollar Baby…
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un’adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia… “Io voglio lei!”. “Sarò il tuo allenatore!”: Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo  eccezione alla propria etica (“Io non alleno ragazze!”) e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l’atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l’ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l’ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l’abbandona come “una causa persa”, alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».

Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».

 

in “la Repubblica” del 9 marzo 2011

L’Ultimo Michelangelo

Accade ai grandi vecchi dell’arte, una volta che hanno dimostrato nel corso della loro esistenza virtuosismi tecnici di pennello o scalpello capaci di rendere ai più alti livelli la bellezza delle forme, di lasciarsi andare alla ricerca sulla materia pura e di regalare alcuni dei massimi capolavori del genio umano. Il vecchio Michelangelo, abbandonando le polite levigatezze del David o della giovanile Pietà vaticana del 1499, cerca, attraverso la tecnica del non finito, di liberare lo spirito umano dal carcere della materia in piena sintonia con le teorie del Neoplatonismo cinquecentesco. E
una delle opere in cui più evidente è lo sforzo di liberare dal marmo il sussulto del divino è la Pietà Rondanini, alla quale Michelangelo lavorò dagli anni ’50 del Cinquecento fino alla morte avvenuta nel 1564. Proprio attorno a questo capolavoro mai finito, così importante per Milano, che sembra testimoniare un modernissimo conflitto spirituale, ruota la mostra «L’Ultimo Michelangelo» , curata da Alessandro Rovetta e visitabile nelle sale 13-15 del Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco dal 18 marzo. Fino all’otto maggio, con lo stesso biglietto è possibile conoscere un altro volto dell’eclettica produzione del genio di Caprese visitando l’attigua mostra «Michelangelo architetto nei disegni della Casa Buonarroti» a cura di Pietro Ruschi. Anche qui, paradossalmente, la poetica del non finito ha un suo spazio, perché non sempre l’attività architettonica di Michelangelo si è incarnata in quella materia da lui tanto amata, il marmo delle Apuane, dove già scorgeva nei blocchi informi colonne, mensole e capitelli. Più spesso, a causa delle tempestose vicende politiche e dei rovesci dei governi che coinvolgevano gli Stati della Penisola in quegli anni, di quest’arte monumentale sono rimasti solo segni a matita. su fogli di carta scoloriti a indicare la genialità e l’infinitezza di vedute dell’artista di Caprese. Il rapporto carta-marmo è, perciò, essenziale nelle due mostre. Perché ogni realizzazione ha alle spalle bozzetti, disegni, prove a matita. Come afferma Alessandro Rovetta: «Questa è un’occasione unica e irripetibile di ammirare i disegni dell’ultimo Michelangelo posti di fianco alla Pietà Rondanini. Si tratta di  disegni di soggetto religioso che hanno un trattamento stilistico non dissimile da quello utilizzato per la sua ultima scultura». Ma le carte esposte non recheranno su di sé solo disegni, bensì anche le ultime Rime dell’artista di Caprese provenienti dalla Biblioteca Vaticana. Afferma ancora Rovetta: «Obiettivo della mostra è illustrare gli ultimi quindici anni di vita di Michelangelo. Oltre all’unico disegno preparatorio per la Pietà Rondanini, anticipato da una serie di studi che fin dagli anni Trenta evidenziano le preferenze compositive e tematiche culminate nella scultura oggi al Castello Sforzesco, sono presenti altri fogli sui quali Michelangelo affronta diversi soggetti sempre legati alla Passione e al legame tra Maria e Cristo. Spiccano in particolare sei drammatiche e commoventi Crocifissioni, considerate le sue ultime opere grafiche realizzate in una forma  uasi trasfigurata, modernissima, molto simile al modo di lavorare il marmo della Rondanini».

Michelangelo Cercando l’assoluto
di Giorgio Rozza
in “Corriere della Sera” del 9 marzo 2011

Le ragioni della fede

La purezza cristallina del suo pensare lo rivela come un teologo rigoroso (non per nulla è uno dei pochi a fregiarsi della laurea honoris causa di un’università così prestigiosa com’è quella di Heidelberg).
L’ardore della sua comunicazione scritta e orale ne manifesta la missione di pastore ecclesiale.
L’essenzialità trasparente e poco ornata del suo dettato ne denota la qualità di autore letto e ascoltato (per questo ha una specifica collana di libri che reca il suo nome).
L’intensità delle sue pagine e la testimonianza della sua vita gli assegnano il titolo che forse gli è più caro, quello di cristiano evangelico.
Stiamo parlando di Paolo Ricca, teologo, pastore, docente e credente appassionato, appartenente alla comunità valdese, ma anche fervido protagonista dell’ecumenismo.
Anche se egli, per primo, vorrà schermirsi dal profilo che abbiamo tracciato e ai miei occhi può far velo l’antico legame d’amicizia che a lui mi unisce, appoggio con calore la lettura delle sue pagine o l’ascolto dei suoi frequenti interventi radiofonici a Uomini e profeti di Rai 3, nonostante la diversità delle nostre situazioni (lui protestante, io cardinale della Chiesa cattolica).
Il suo messaggio, infatti, punta sempre al cuore dell’annuncio biblico, ove tutti i cristiani dovrebbero trovare la loro patria comune, ma la sua sensibilità è tale da coinvolgere anche chi non aderisce a questo o ad altro credo.
È il caso di un libretto che apparentemente è eterogeneo, perché raccoglie 17 contributi pubblicati o pronunciati in momenti e ambiti diversi, ma che si ricompone a mosaico proprio attorno al tema enucleato dal titolo, Le ragioni della fede.
In questo si svelano le nostre coincidenze di fondo: io stesso ho appena edito un libro intitolato Questioni di fede, muovendomi sul suo stesso territorio e partendo proprio con una sorta di “grammatica della domanda”, così come Ricca in apertura al suo testo delinea «l’uomo come domanda».
Fede e ragione sono state variamente coniugate e separate tra loro, anche secondo le diverse prospettive teologiche cattoliche o protestanti.
È per questo che Ricca opta per la formula «le ragioni della fede» e, per capire il suo approccio, è indispensabile citare un suo paragrafo: «Questa espressione ha un doppio significato.
Può significare in primo luogo le ragioni che la fede elabora su quello che crede, la fede cioè che pensa se stessa e riflette sul suo statuto e sui suoi contenuti, li illustra, li spiega, li motiva.
In secondo luogo può significare le ragioni che si possono addurre per credere.
Queste ragioni non sono prove né dimostrazioni, sono però argomenti che possono essere offerti alla riflessione di chiunque.
La fede, lo sappiamo, non viene dalla ragione e parlare delle ragioni della fede non significa affermare, implicitamente, che la fede abbia ragione.
Significa però darle la parola e invitarla a spiegarsi, sostenendo le sue ragioni.
La fede insomma non è muta e sa organizzarsi come discorso».
Proprio perché la fede non è cieca, segue un suo coerente statuto epistemologico che partecipa ma non si identifica con quello della razionalità (non è ciò che accade anche per l’arte e per il linguaggio d’amore?) e offre un suo progetto interpretativo profondo dell’essere e dell’esistere, dovrebbe essere normale che anche il non credente ascoltasse «le ragioni della fede».
Esse sono tutt’altro che assurde o infantili, come vorrebbe suggerire un certo ateismo nazionalpopolare molto sommario e superficiale.
Ricca in queste pagine opta per una serie di scorci: ad esempio, apre squarci sulla salvezza, sul pensiero, sulla misericordia, sulla giustizia, sulla libertà, sul «timore e tremore», sull’escatologia, su Paolo e Cristo.
Ma non teme di inoltrarsi sui sentieri d’altura, come nel caso del bellissimo capitoletto sull’«Ineffabile dai molti nomi», ossia su quel Dio che è, sì, trascendente e ineffabile ma invocabile, affidabile, reperibile.
Non esita neppure a costeggiare la frontiera.
Citando in questo caso Pico della Mirandola, si domanda se «il dubbio può essere l’anticamera della fede».
Lo stesso Manzoni, nella sua Storia della Colonna infame, consigliava che «è men male l’agitarsi nel dubbio che il riposar nell’errore».
Il nostro autore sottolinea il paradosso della fede nella quale il dubbio è legittimo e illegittimo al tempo stesso: «Sì, perché l’invisibile non si mostra, e qui il dubbio ci può stare; no, perché la fede, a modo suo, dimostra l’invisibile».
In questa luce si può condividere con Ricca la nota definizione del teologo Paul Tillich secondo la quale la fede è Mut zum Sein, o Courage to be.
Ci vuole coraggio per imboccare questa via perché il suo obiettivo è quello di condurti a essere e a comprendere l’ultima radice dell’essere.
Folgorante, come spesso gli accadeva, è Kierkegaard in Timore e tremore: «La fede è la più alta passione d’ogni uomo.
Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre».

in “Il Sole 24 Ore” del 6 marzo 2011

Il cardinale Robert Sarah: la situazione nei Paesi del Maghreb

Gli africani non ce la fanno più a sopportare di essere sottomessi.
Sottomessi da dittatori senza scrupoli, sottomessi dai Paesi ricchi, sottomessi dall’egoismo del mondo, sottomessi dai fondamentalismi religiosi.
Sono capaci di amare ma hanno bisogno di amore, di essere amati e non sfruttati, messi alla fame, colonizzati.
Per questo si ribellano.
Parla a voce bassa ma ferma il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, analizzando la situazione esplosiva che in questi giorni sconvolge alcuni Paesi della “sua” Africa.
In questa intervista al nostro giornale il porporato – di ritorno da Haiti, dove ha portato la solidarietà di Benedetto XVI alle popolazioni colpite dal terremoto – rilancia l’appello del Papa a porre fine alla spirale di violenze causate dall’egoismo e dalle ingiustizie.
“La violenza – afferma il cardinale – non è mai accettabile, in nessuna condizione.
Tanto meno quando per salvare un solo uomo se ne uccidono così tanti, come sta accadendo in questi giorni in Libia”.
E ricorda ai capi delle nazioni che l’autorità e l’esercizio del potere devono essere un servizio al bene comune.
Cosa sta accadendo nel Maghreb?  Per me è un fatto sorprendente.
Non mi sarei mai aspettato che in Paesi in cui la religione maggioritaria è l’islam e la gente è abituata alla sottomissione, si verificassero rivolte di una tale gravità.
Evidentemente la pressione è stata forte, forse troppo.
L’uomo sopporta, ma ci sono limiti anche alla sopportazione.
Soprattutto quando ci si trova davanti a situazioni di ingiustizia come quelle che si sono rivelate nei Paesi del Maghreb.
Non so naturalmente quale sia l’origine vera dei fatti che stanno accadendo oggi.
Voglio sperare che finiscano presto le violenze.
La violenza non è mai accettabile, in nessuna condizione.
Tanto meno quando per salvare un solo uomo se ne uccidono così tanti, come sta accadendo in questi giorni in Libia.
Vorrei rilanciare l’appello del Papa affinchè finisca in ogni parte del mondo la logica dell’egoismo che genera tanto male.
Questo è anche il mio appello.
L’effetto domino di questa crisi può essere favorito dalle rivelazioni degli ingenti tesori che alcuni capi di Stato africani hanno accumulato all’estero mentre i loro popoli soffrono la fame? È chiaro che il popolo africano si ribella proprio nel vedere che i suoi capi si arricchiscono mentre loro sentono i morsi della fame e sono costretti a sopportare sempre maggiori sacrifici.
Di chi è la responsabilità? Certamente i Paesi ricchi sfruttano la loro capacità economico-finanziaria per comprare favori.
Dunque sbarcano nei Paesi africani, riempiono d’oro i capi di Stato che accettano di farsi corrompere e poi sfruttano le enormi ricchezze della terra.
Perché l’Africa è un continente ricco.
Non ha i mezzi per sfruttare la sua ricchezza e dunque non può farlo.
Chi detiene le leve del potere cede alle lusinghe dei nuovi colonizzatori e svende il suo popolo.
Le banche estere, i cosiddetti paradisi fiscali, sono ricolmi di ricchezze di africani senza scrupoli.
Dunque, forse tutta questa ribellione che sta esplodendo è dovuta a questo contrasto tra la ricchezza portata fuori dell’Africa e la povertà e la fame distribuite in Africa.
Sarebbe proprio impossibile che l’Africa sfruttasse per sé le proprie ricchezze? Assolutamente no.
Anzi, se l’Africa imparasse a scoprirsi continente, a capire l’importanza dello stare insieme, dell’essere uniti, farebbe la sua fortuna.
L’Europa questo lo ha capito e si è unita: cerca di collaborare per raggiungere scopi comuni.
Senza organizzazione non c’è futuro.
Ma esiste l’Unione africana.
Solo sulla carta.
In realtà ogni Paese segue le indicazione che gli vengono dall’estero, dai Paesi che occultamente o meno li controllano.
Sta dicendo che l’Africa è ancora oggi colonizzata? Di fatto credo di sì.
Purtroppo è un continente con un’economia molto debole e dipendente dall’estero, manca di tecnologie adeguate e di strutture di supporto.
Non voglio assolvere gli africani dalle loro responsabilità; ma resta il fatto che tante nazioni potenti poggiano la loro mano pesante sull’Africa e la schiacciano.
Si pensi per esempio a quanto è capitato in Angola.
Anni e anni di guerre fratricide, tanta miseria.
Poi è affiorato il petrolio, si sono scoperte miniere di diamanti.
Ma la ricchezza che ne è derivata non è stata per il popolo angolano, che ha continuato e continua a soffrire la fame.
Altri hanno sfruttato e sfruttano la loro ricchezza.
Lo stesso nella Repubblica Democratica del Congo.
Questo è il dramma.
E tutto a causa dell’egoismo di pochi.
Come fare per fermare questo circolo di egoismo per cui chi non ha nulla avrà sempre meno e chi possiede potere e ricchezze avrà sempre di più? Forse può sembrare scontato che un cardinale risponda dicendo: bisogna dare maggiore diffusione al messaggio evangelico.
Oltre alla Parola del Signore porto con me una grande esperienza maturata in quella terra meravigliosa che è appunto l’Africa.
La gente africana ha bisogno di conoscere il Vangelo dell’amore.
Il Vangelo è amore.
Amore di Dio verso l’uomo.
Il Vangelo è la vicinanza di Dio nei confronti dell’uomo; è la misericordia di Dio verso l’uomo.
È la fonte della fratellanza umana.
Senza la presenza di Dio nel mondo ci sarà sempre uno spazio crescente per l’egoismo.
La Chiesa ha un ruolo molto importante da svolgere.
Anche se il suo messaggio è rifiutato, essa deve continuare con coraggio e con pazienza a evangelizzare.
Solo il Vangelo potrà cambiare il cuore dell’uomo e dunque la società.
Per questo nel presentare alla stampa il messaggio del Papa per la Quaresima ha rivolto un appello ai media affinchè facciano conoscere la missione della Chiesa nel mondo? Non credo di essere molto lontano dal vero se affermo che accendendo radio e televisori o sfogliando giornali si sentono o si leggono solo brutte notizie: catastrofi, uccisioni, violenze.
Perché le cose buone non fanno mai notizia? Forse perché potrebbero contribuire realmente a far crescere umanamente e spiritualmente l’uomo e la società.
Dobbiamo far conoscere che esistono nel mondo suore che sacrificano la loro vita per aiutare i più poveri, i derelitti, i moribondi; missionari che vanno nei luoghi più sperduti della terra, ovunque ci sia un uomo da aiutare, da soccorrere, da difendere con le armi del Vangelo.
Vivono con i poveri per dare loro più dignità.
Questo volevo dire ai giornalisti.
C’è del bene nel mondo.
C’è tanto bene all’interno della Chiesa.
Ci sono tanti uomini di Chiesa che fanno veramente tanto del bene.
Però si parla solo degli sbagli di alcuni di loro, di ciò che fa scandalo.
È giusto che si sappia, anche per poter riparare.
Ma non è giusto che passi solo questa immagine falsa della Chiesa.
 Ha rivolto anche una sorta di appello alla responsabilità della comunità internazionale nella lotta alla corruzione e all’ingiustizia nei singoli Paesi e nel mondo.
A cosa si riferiva? Mi sembra che sia importante sottolineare con insistenza che l’autorità, il potere, sono un servizio per promuovere il bene comune.
E su questa strada principalmente si deve muovere ogni buona azione di governo.
Le istituzioni internazionali dovrebbero appoggiare la promulgazione di leggi economiche e commerciali che non favoriscano solo la politica dei più ricchi, dei più potenti.
Così facendo si creano più povertà, più instabilità sociale, più violenza, più guerre.
L’interdipendenza di oggi richiede la collaborazione di tutti per porre fine a queste strutture di ingiustizia Quello che sta accadendo oggi in tante parti del mondo è proprio il frutto dell’ingiustizia che regna.
La povera gente comincia a ribellarsi a questi sistemi economici, finanziari e commerciali che alimentano i ricchi e affamano i poveri.
Rimedi possibili? Certo, c’ è un lavoro molto lungo da fare; ma se mai si comincia, mai se ne viene a capo.
Quale può essere in questo senso il ruolo dell’Onu? Credo che i potenti siano veramente potenti e tanto più potenti dell’Onu stesso.
Cosa può fare l’Onu davanti ai poteri forti, che lo condizionano e lo guidano? Io credo che ci sarebbe bisogno di una rivoluzione – pacifica s’intende – all’interno dell’Onu stesso.
I piccoli Paesi, quelli che contano di meno perché più poveri, ma che sono comunque la maggioranza, dovrebbero cercare di farsi rispettare di più, di imporre la propria presenza, di imporre la propria dignità.
Dovrebbero far capire che è il momento di mettere la parola fine a tutte le forme di ingiustizia internazionale, che purtroppo, si manifesta anche all’interno dell’Onu.
Come si possono contrastare le strutture d’ingiustizia? È una cosa molto difficile da realizzare.
Io credo che la strada principale da percorrere, se non l’unica, sia quella della formazione dell’uomo, o meglio, della formazione del cuore dell’uomo.
Solo con un cuore rinnovato, aperto allo Spirito, si può superare l’ingiustizia del mondo.
Se manca la presenza di Dio nel cuore dell’uomo, tutto il male è possibile.
Dunque è possibile anche che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Noi puntiamo molto sulla formazione perché quando l’uomo avrà nel suo cuore l’occhio di Dio, riuscirà anche a vedere il bisogno del suo fratello.
A Cz?stochowa, con i responsabili diocesani della carità di tutta l’Europa, abbiamo proprio cercato di far capire l’importanza della formazione del cuore, del far riscoprire a tutti la presenza dell’occhio di Dio nel nostro cuore.
Quando portate la solidarietà della Chiesa nei Paesi disastrati, la gente percepisce questa presenza? Direi proprio di sì.
Del resto è questa la nostra missione.
Non si può pensare di portare solo cose materiali.
Bisogna dare a questa gente la forza di andare avanti.
Recentemente ad Haiti ho potuto maturare un’esperienza meravigliosa.
Lì c’è gente che non solo ha sofferto per il terremoto, ma continua a soffrire ancora oggi per tante situazioni sociali: non c’è un governo stabile, c’è tanta corruzione, manca assolutamente il concetto della dignità umana perché dove c’è tanta povertà spesso non c’è neppure dignità.
Ho visto un popolo che ha confidenza con la sofferenza ma che è aperto alla speranza, perché è un popolo credente e prega molto.
Ma ho anche visto tanta, tantissima gente che si è rimboccata le maniche e affianca il popolo haitiano nella difficile opera di ricostruzione, materiale e morale.
Sono i volontari delle organizzazioni cattoliche che si sono precipitati lì appena apprese le prime drammatiche notizie.
E sono ancora lì.
Non li abbandonano.
Questa è una bella testimonianza della prossimità di Dio ai poveri.
Questo stanno dando i nostri tra le macerie di Haiti.
Ha verificato lo stesso impegno durante la sua recente partecipazione in Africa alla riunione della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel? Sì, anche se la situazione lì è diversa e non si tratta di interventi momentanei.
Ci sarebbe bisogno di spingere gli altri Paesi africani alla solidarietà con le nazioni del Sahel.
Sono rimasto molto impressionato dal fatto che tanti Paesi africani, come il Senegal, il Benin e altri, hanno aiutato Haiti.
È bello vedere i poveri che aiutano i poveri.
È una manifestazione della presenza di Dio che suscita la sua generosità nel cuore dei poveri.
L’auspicio è che questa stessa solidarietà si trasmetta a tutta l’Africa.
Un messaggio, questo, che porterà in Burundi nel corso della sua prossima visita? Certamente.
Ma direi di più, perché in Burundi andiamo a inaugurare una scuola dedicata a Benedetto XVI.
Questo nostro dono vuole essere il segno di quanto sia importante per noi proprio la formazione dell’uomo.
Un uomo nuovo, nuovo nel cuore, può essere un segno di speranza per il futuro dell’Africa.
(©L’Osservatore Romano – 26 febbraio 2011)

VIII Domenica del Tempo Ordinario Anno A

 Preghiere e racconti   La ricchezza La ricchezza diventa un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona».
Eppure questo non significa un masochismo pauperista.
Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola.
La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).
(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).
Quello che non abbiamo cercato “Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato.
Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui.
La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato.
A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.
(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).
Che cosa è tuo? «A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro.
Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti.
Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi.
Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.
Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti.
Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno? Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente.
Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno.
E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.
Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra.
Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.
(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).
L’imperativo biblico: amare le persone e usare le cose L’imperativo biblico è piuttosto chiaro: dobbiamo amare le persone e usare le cose.
Gesù ci avverte che, ovunque sia il nostro tesoro, lì ci sarà anche il nostro cuore.
Sento il Signore dirci: “Risparmiate il vostro cuore per l’amore, e date il vostro amore solo alle persone: a voi stessi, al vostro prossimo e al vostro Dio.
Non date mai il vostro cuore alle cose: se lo farete, quella cosa, qualunque essa sia, diventerà gradualmente la vostra padrona, vi conquisterà e vi terrà stretti al guinzaglio della dipendenza.
Le preoccupazioni che ne deriveranno, vi renderanno inquieti e vi terranno svegli la notte.
Quel che è peggio, se date il vostro cuore a una cosa, ben presto inizierete a invertire in modo radicale le vostre priorità.
Quando si incomincia ad amare le cose, si iniziano ad usare le persone per ottenere queste cose, per avere sempre più cose.
È dunque opportuno osservare che la Bibbia non dice che il denaro è la causa di ogni male, bensì che l’amore per il denaro è la causa di ogni male.
Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore.
Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile.
Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più.
Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi.
Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…] La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me.
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).
Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro? Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi.
Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro.
È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria.
Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.
Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria.
Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza.
Vogliono averne sempre di più.
Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia.
In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro.
Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso.
Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri.
Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri.
Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità.
Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri.
O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano.
Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.
Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro.
Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo.
Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli.
Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente.
Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità.
E sono  necessari criteri etici.
Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici.
Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia.
Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità.
È necessaria soprattutto la libertà interiore.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).
Dire Dio Dio! dice la porta schiudendosi sulla strada piena di passanti.
Dio! dice l’ape posandosi sulla ciotola cerchiata di luce.
Dio! dice il vento che rigira senza fine la sua fronda familiare.
Dio! dice il tordo chinandosi per bere il cielo nello stagno.
Dio! dice la neve ricoprendo di lana le fredde carreggiate.
Dio! dice il bambino vedendosi giocare nelle braccia di sua madre.
E solo, quaggiù, l’uomo attende per dire Dio a modo suo.
(M.
Carême, Il sapore del pane)       * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
      VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 49,14-15          Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato».
Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai.
       v In Israele, prima di ripudiare la moglie, il marito doveva riflettere a lungo perché si trattava di una scelta irreversibile, non erano ammessi ripensamenti, non gli era più permesso di riprendersela.
     In esilio, a Babilonia, Israele si sente una sposa ripudiata.
Sa di essere stata infedele, di aver tradito il suo Dio, ha abbandonato ogni speranza di ricostruire il rapporto d’amore infranto e, mestamente, va ripetendo: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (v.
14).
È il lamento con cui inizia la lettura di oggi ed è l’espressione della dolorosa esperienza di chiunque, caduto nell’abisso del peccato, si rende conto di aver fatto scelte di morte ed è convinto che anche il Signore lo rifiuti.
     Questi pensieri sorgono quando vengono proiettati in Dio i nostri criteri di giudizio e le nostre meschinità.
Compare allora il Dio suscettibile, permaloso e persino vendicativo.
Questa deformazione del suo volto è la più subdola delle astuzie diaboliche e il Signore si premura di cancellarla.
Per bocca del profeta dichiara: «Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Io ti riprenderò con immenso amore» (Is 54,6-7).
     Il suo amore non è una risposta ai meriti o alle dimostrazioni di affetto dell’uomo, è una passione incontenibile che prescinde dalle nostre opere buone, è come l’amore di una madre – ecco la nuova, commovente metafora introdotta dalla lettura di oggi (v.
16) — un amore incondizionato e invincibile.
Una madre ama il figlio non perché è riamata, ma perché è suo figlio e lo amerà sempre, qualunque cosa egli faccia.
     Quest’immagine ha già in sé una forte risonanza emotiva, tuttavia, per comprenderne tutta la ricchezza, vale la pena ricordare alcune celebri figure di madri bibliche: il sublime eroismo di Rispa che «dal principio della mietitura dell’orzo, fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia», vegliò i cadaveri dei figli consegnati alla morte da Davide (2Sam 21); il coraggio della madre di Mosè che sfida l’ordine del faraone pur di salvare il figlio (Es 2,2-9); il tormento della meretrice che accetta di essere privata del figlio purché non venga ucciso (1Re 3,16-17); la forza d’animo della madre che incoraggia i figli ad affrontare la morte per non rinnegare la fede (2Mac 7).
     Tutta questa carica di emozioni e di sentimenti è presente nell’immagine dell’amore di una madre e aiuta a comprendere con quale passione Dio ama e si interessa dell’uomo.
  Seconda lettura: 1Corinzi 4,1-5          Fratelli, ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio.
Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele.
A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato.
Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà.
Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode.
          v La parola del vangelo è il più grande dono che si possa ricevere, per questo è facile non solo provare profonda simpatia e riconoscenza per chi lo ha offerto, ma anche legarsi fin troppo al messaggero.
Accade oggi ed è accaduto anche nella comunità di Corinto dove, a causa dell’attaccamento all’uno o all’altro degli apostoli, erano sorti dei partiti: alcuni si gloriavano di appartenere a Pietro, altri ad Apollo, altri ancora a Paolo (1Cor 1,12).
     Il brano di oggi conclude la lunga trattazione di questo argomento, iniziata con il severo monito: «Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?» (1Cor 1,13).
     Paolo impiega il plurale – «Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (v.
1) – perché non parla solo di sé, si riferisce a tutti gli annunciatori del vangelo.
Con due termini espressivi ne definisce il ruolo: sono servi (hypêrétai in greco) cioè inservienti che liberamente hanno accettato di svolgere un incarico; sono dei subordinati, dei dipendenti a servizio di un signore, Cristo; sono degli amministratori (oikónomoi in greco, economi) non dei padroni, hanno in mano beni che appartengono a Dio, a loro sono stati solo affidati affinché li facciano fruttare.
     Agli amministratori si richiede solo la fedeltà (v.
2).
Chi annuncia il vangelo – intende dire Paolo – deve avere un’unica preoccupazione: trasmettere il messaggio del Maestro, senza nulla aggiungere e nulla togliere.
Il padrone non gli chiederà se è riuscito a convincere molte persone, se si è accattivato la simpatia degli uomini, se ha ricevuto applausi e approvazioni; domanderà soltanto se ha annunciato il vangelo secondo verità, senza cedere agli opportunismi, senza scendere a compromessi, senza rispetti umani.
     Nella seconda parte del brano (vv.
3-5) Paolo risponde alle critiche che i corinzi gli muovono.
Assicura che non è per niente preoccupato dei giudizi pronunciati su di lui, siano essi di approvazione o di condanna.
Non è ai corinzi che deve rendere conto del proprio operato, ma a Dio.
Non si fida nemmeno del giudizio della sua coscienza, anche se, onestamente, riconosce che non gli rimprovera nulla (v.
4).
Tiene presente questo giudizio, ma non lo considera definitivo, attende quello del Signore che verrà pronunciato al termine della dura «giornata di lavoro».       Le parole dell’Apostolo non sono un invito a ignorare il giudizio che una comunità pronuncia su chi svolge un ministero.
La comunità ha il diritto e il dovere di esprimere il proprio parere sull’operato dei ministri e amministratori e questi non possono arrogarsi il diritto di agire in modo arbitrario e di «comportarsi da padroni» (1Pt 5,3).
Ma non va dimenticato che, solo alla fine, «ciascuno riceverà da Dio la lode».
  Vangelo: Matteo 6,24-34          In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.
Non potete servire Dio e la ricchezza.
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?  Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre.
Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano.
Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.
Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”.
Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani.
Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso.
A ciascun giorno basta la sua pena».
     Esegesi        Il bambino che perde i genitori non può stare solo, ha bisogno di avere qualcuno in cui riporre la sua fiducia, qualcuno che gli dia sicurezza.
Egli cerca spontaneamente un modello, un punto di riferimento nella vita.
     Capita anche con Dio: non se ne può fare a meno, non si può rimanerne orfani; chi lo rifiuta, lo rimpiazza subito con un sostituto.
Il pericolo non è l’ateismo, ma la scelta del dio sbagliato.
     Molti credono che, nell’alto dei cieli, ci sia un Padre che si prende cura di loro; costoro sono convinti che egli prova per loro anche sentimenti materni: si interessa, con affetto e sollecitudine, dei loro bisogni.
Se egli è padre di tutti, gli uomini non sono dei compagni di viaggio, dei vicini più o meno simpatici, più o meno meritevoli di attenzioni; non sono degli antagonisti con i quali competere o, peggio ancora, dei nemici da combattere, ma dei fratelli da amare e aiutare.
     Non tutti accettano questo Padre.
A chi lo rifiuta si presenta subito, con tutto il suo incantevole fascino, il più seducente, il più subdolo degli idoli, il denaro.
Il vangelo di oggi inizia con una denuncia della pericolosità di quest’idolo (v.24).
     Matteo ci ha conservato il termine aramaico – mamônâ – usato da Gesù.
È significativo: deriva dalla radice ‘aman che vuol dire offrire sicurezza, essere solido, affidabile.
Il denaro, come Dio, garantisce ogni bene a chi gli presta culto: dona cibo, bevande, salute, piaceri, divertimenti; ma cosa chiede in cambio? Come ogni dio, esige tutto.
     Dio è il punto di riferimento dei pensieri, delle azioni, della vita dell’uomo e vuole essere amato «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5).
Anche il denaro pretende il coinvolgimento totale dei suoi devoti.
Per amor suo bisogna essere disposti a rinunciare alla propria dignità, a ingannare, a rubare, a rovinare gli altri, a perdere le amicizie, a trascurare persino moglie e figli (per loro non ci sarà più tempo!), bisogna essere pronti anche a uccidere.
Coloro che adorano il denaro hanno tutto, ma non sono più uomini, divengono schiavi.
«L’attaccamento al denaro – scrive l’autore della lettera a Timoteo – è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono, da se stessi, tormentati con molti dolori» (1Tm 6,10) ed è un’idolatria (Ef 5,5).
     La prima follia in cui trascina l’adorazione di mamônâ e l’accumulo.
Chi accumula si illude di aver trovato un obiettivo concreto e gratificante che dia un senso alla vita, ma ha solo scoperto un vano ripiego per esorcizzare il pensiero della morte.
«Lasciare in eredità» è un palliativo.
     Il Padre che sta nei cieli si colloca agli antipodi: invita alla rinuncia all’uso egoistico del denaro.
Non chiede di «non rubare», di fare elemosine, ma di instaurare un rapporto com-pletamente nuovo con i beni; propone la condivisione, l’attenzione ai bisogni dei fratelli.
Qualunque forma di accumulo egoistico è una violazione del primo comandamento: «Non avrai altro dio all’infuori di me» (Es 20,3).
     Nessuno può servire a due padroni; o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro.
Non è possibile servire Dio e mamônâ.
     Noi vorremmo tenerceli buoni tutti e due, convinti che quello che non ci concede l’uno ce lo darà l’altro.
Ma i due non sono soci in affari, sono antagonisti, non possono stare insieme nel cuore dell’uomo, danno ordini opposti.
Il Padre che sta nei cieli ripete: «Ama, aiuta tuo fratello, dà cibo a chi ha fame, vesti chi è nudo, offri la tua casa a chi è privo di casa».
Il denaro ordina invece: «Sfrutta il povero, non dare nulla gratuitamente, non preoccuparti di chi è nel bisogno, stima e apprezza le persone in proporzione di ciò che possiedono».
     Il distacco dai beni è uno dei temi ricorrenti nel vangelo ed è uno dei più difficili da assimilare.
L’uomo infatti si affeziona ai tesori di questo mondo, è portato a idolatrarli fino a dimenticare l’eredità «che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, quella che è conservata nei cieli» (1Pt 1,4).
     Fin dal suo primo discorso – quello della montagna dal quale è tratto il brano di oggi – Gesù mette in guardia i discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano.
Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-21).
A chi lo vuole seguire chiede di dare anche il mantello e raccomanda di non volgere le spalle a chi chiede un prestito (Mt 6,40.42).
     Le richieste di Gesù sono paradossali e sconcertanti.
Prima di decidersi ad accettarle, non si può non chiedersi: Che ne sarà della mia vita? Che cosa mangerò, che cosa berrò, come mi vestirò? Chi mi assicura che avrò poi il sufficiente per vivere? Non mi pentirò di aver rinunciato alla sicurezza che offre il denaro accumulato e goduto? Non sarà meglio limitarsi a elargire qualche elemosina?      È a questi interrogativi che Gesù risponde nella seconda parte del vangelo di oggi (vv.
25-34) dove invita alla fiducia nel Padre che sta nei cieli, che si prende cura dei figli e che non lascerà mancare il necessario a chi ha creduto in lui.
     Le immagini con cui è presentata la premura di Dio nei confronti delle sue creature sono deliziose: «Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre.
Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano.
Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (vv.
26-29).
Dà quasi l’impressione di essere un ingenuo sognatore, di proporre una vita spensierata, giuliva, ma completamente staccata dalla realtà.
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