Segnaliamo alcune iniziative formative dell’ ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE DELLA TOSCANA “Santa Caterina da Siena”
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Segnaliamo alcune iniziative formative dell’ ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE DELLA TOSCANA “Santa Caterina da Siena”
Il Rapporto Delors insiste perché sia affermato il primato dell’educazione e perché l’educazione sia messa al centro della società, della convinzione che scegliere un modello di educazione vuol dire scegliere un modello di società.
Qual è il compito specifico della scuola?
Questa domanda veniva posta nel 1996 dalla Commissione dell’UNESCO, coordinata da Jaques Delors, e affrontata nel famoso rapporto Delors. Sono passati ventisei anni da quella data e ancora si parla di come riformare la scuola e quale sia il suo compito specifico.
Da questa riflessione prende le mosse il libro del Prof. Lino Prenna Educare istruendo, arricchito dalla Prefazione di Luciani Caimi e dalla postfazione di Lorenzo Pellegrino, e che propone una precisa idea di come dovrebbe essere la scuola.
Scuola e società sono un tema, da sempre, di grande attualità. Argomento di cui la pedagogia si è occupata e su cui grandissimi studiosi, come John Dewey, si sono espressi prendendo una posizione netta. Scuola e società non possono essere separati, in quanto sono profondamente collegati.
L’Autore riesce a tracciare le linee guida di una teoria e pedagogia della scuola, raccogliendo degli interessanti spunti per guardare al futuro.
L’ultimo capitolo è interamente dedicato alla scuola cattolica e alla necessità di ripensarla strutturalmente nel rapporto stretto tra fede e materie da insegnare. La scuola cattolica deve sentirsi impegnata nel contribuire all’educazione dell’uomo e quindi del cittadino.
Educare istruendo è un cammino da percorrere per porsi delle domande sulla scuola come istituzione. Un libro dedicato principalmente agli insegnati che sono il motore di questa istituzione, da sempre impegnati dell’affinare le proprie competenze culturali, disciplinari e didattiche.
L’obiettivo è sempre lo stesso: formare giovani menti che un giorno diventeranno dei cittadini consapevoli e attivi.
Lino Prenna ha compiuto gli studi di Teologia, nella Pontificia Università Gregoriana, e di Filosofia, nell’Università di Genova. Ordinario di Filosofia dell’educazione, è stato presidente dei corsi di laurea in Scienze dell’Educazione dell’Università di Perugia. Studioso di Pedagogia scolastica, ha elaborato una teoria dell’istruzione religiosa a scuola, esposta nel saggio Dio fece tra anelli. Le religioni a scuola (Aliseicoop, Todi 2016) e declinata in unità tematiche nel manuale Immagini dell’invisibile. Il linguaggio culturale della religione (Aliseicoop, Todi 2014). Tra le ultime pubblicazioni: Un nuovo umanesimo europeo. Popoli, religioni, culture (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020) e Dal cattolicesimo democratico al nuovo popolarismo. Sui sentieri di Francesco (il Mulino, Bologna 2021).
DATI LIBRO
AUTORE: Lino Prenna
TITOLO: Educare istruendo. Un’idea di scuola
COLLANA: Educare oggi
PAGINE: 112
PREZZO: 13,00 €
ISBN: 9788832713084
Contatti
Lucia Pasquini
Editrice Ave -Faa
Marketing – Promozione
Via Aurelia 481 – 00165 Roma
Tel. 06-66132341
L’Insegnante di religione “allo specchio”.
Identità, formazione e professionalità ‘riflessiva’
ACCEDI ALLA RIVISTA ONLINE nella sezione “CATECHETICA ED EDUCAZIONE”
Il presente numero della Rivista “Catechetica ed Educazione” è stato pro-gettato dall’équipe di Pedagogia religiosa, costituita dai docenti Giampaolo Usai, Sergio Cicatelli, Giuseppe Cursio, Anna Peron e Cristina Carnevale, coordinata da Corrado Pastore.
In continuità con gli anni precedenti, questo terzo fascicolo è dedicato agli Insegnanti di religione (Idr) e ha come titolo: L’Insegnante di religione “allo specchio”. Identità, formazione e professionalità ‘riflessiva’.
Si vuole attirare l’attenzione su un tema nuovo nella proposta formativa e al contempo confermare la consapevolezza delle qualità richieste all’Idr dai fatti e dal profilo professionale, che lo rendono un docente particolare, talvolta originale, nel panorama scolastico.
In questa prospettiva sono stati pensati i diversi articoli. I primi tre presentano la situazione, leggono la figura dell’Idr, prendendo in considerazione i risultati della Quarta Indagine Nazionale e ne tracciano un bilancio.
Andrea Porcarelli con il suo contributo, Voglio fare l’Insegnante di religione, esamina le motivazioni che possono indurre oggi a diventare Idr. Considera che riflettere sugli orientamenti e le motivazioni di coloro che si accostano all’insegnamento è questione complessa. Per quanto riguarda la scelta specifica di diventare Idr sono diversi i fattori che emergono da alcune ricerche empiriche. Le motivazioni prevalenti dichiarate dagli Idr in servizio propongono l’insegnamento della religione come vocazione o missione, legata al desiderio di contribuire alla formazione religiosa dei giovani.
L’articolo di Anna Peron, L’Insegnante di religione. Un profilo tra ideale e realtà, mette a fuoco la figura ideale dell’Idr confrontandola con un profilo che emerge da considerazioni fatte da alunni e da esperti formatori riguardo alla loro prassi didattica. La ricerca effettuata in un campione di scuole a Roma mette in evidenza la stima nei confronti degli Idr oggi, ma anche la necessità di un confronto costante con i bisogni educativi e religiosi delle nuove generazioni, in una società che ha perso i punti di riferimento.
Giordana Cavicchi sviluppa il tema Potenzialità e limiti della formazione iniziale dell’Insegnante di religione. Con la revisione del Concordato del 1984 e le successive intese fra Stato e Chiesa l’Insegnamento della religione cattolica è andato definendosi come disciplina scolastica proposta da docenti qualificati che ricevono la formazione di base prevalentemente negli Istituti Superiori di Scienze Religiose (ISSR). L’articolo ripercorre il cammino di formazione dei piani di stu-dio degli ISSR, offrendo alcune piste di miglioramento sollecitate anche dai docenti che sperimentano in classe la validità della formazione iniziale ricevuta. La professionalità docente richiede una preparazione costante che deve coniugare formazione di base e in itinere: una sfida istituzionale.
Seguono due studi che analizzano i criteri e i punti di riferimento per dare una prospettiva in termini di competenze umane e professionali.
Il paradigma dell’insegnante-professionista riflessivo. Fondamenti teorici, elaborato da Dariusz Grządziel, inquadra teoricamente il modello di professionista riflessivo. La formazione degli insegnanti costituisce uno dei più significativi ambiti della ricerca didattica, pedagogica e sociologica. Il contributo cerca di delineare le basi teoriche del professionista riflessivo e proporre un riferimento epistemologico valido su cui fondare e realizzare il proprio sviluppo professionale. La peculiarità della proposta sta nel fatto che sottolinea il valore formativo della riflessione e delle attività lavorative quotidiane. Per costruire il quadro teorico vengono riportati riferimenti di alcuni degli studi più significativi al riguardo, a partire da quelli di John Dewey e Donald Schön.
Giuseppe Cursio presenta una Autobiografia di un Idr come professionista riflessivo. Per avviare l’elaborazione del senso della disciplina che si insegna, ma anche della relazione pedagogica che si è chiamati a sostenere in classe, occorre riconoscere il valore della propria saggezza pratica in una ricerca/formazione mirata, perché guidata da domande concrete, elaborate in una scrittura autobiografica, in una condivisione di esperienze formative all’interno di gruppi di riflessione. Il diario riflessivo, l’autobiografia formativa sono elementi importanti nella formazione di un insegnante disposto ad apprendere.
Seguono tre articoli che prendono in considerazione situazioni e azioni che vedono gli Idr come referenti e protagonisti.
Nel suo studio, L’Insegnante di religione tra difficoltà e soddisfazioni: cura di sé e cura delle relazioni per vivere bene la professione, Luca Raspi analizza la situazione lavorativa degli insegnanti di religione. Cerca di mettere in luce gli aspetti stressanti della professione. Per raggiungere questo obiettivo delinea dapprima il costrutto psicologico di stress lavoro-correlato e sindrome di burnout nell’insegnamento. Pone poi l’attenzione sugli strumenti per evitare di subire gli effetti dello stress, sottolineando la necessità della cura di sé come punto di partenza per potersi prendere cura dell’altro.
Francesco Rovida in Significatività dell’Idr nella comunità scolastica, fa vedere che l’Idr viene a essere una figura del tutto peculiare all’interno della comunità scolastica, dove ha modo di conoscere un maggior numero di classi, di alunni, di problemi. Per questo può essere una risorsa, ma può anche soffrire una condizione di emarginazione.
Finalmente Sergio Cicatelli, Per una deontologia dell’Idr, inquadra questo tema all’interno di un più generale discorso sulla deontologia docente, con riferimento alla natura professionale dell’insegnamento, al contesto di esercizio che è la scuola e alle condizioni di qualsiasi deontologia: autonomia, responsabilità, libertà. La deontologia docente viene articolata in quattro tipi di doveri: verso gli alunni, la disciplina, la scuola, i colleghi. Passa poi in rassegna alcuni principi generali: centralità dell’alunno, esemplarità del docente, collegialità, riservatezza, distanza, autorità, giustizia.
Per concludere questo percorso si dà la parola a tre Idr, che narrano la propria esperienza, la propria storia di vita. Sono essi: Giuliana Migliorini, Narrazione e bellezza dell’esperienza religiosa; Anna Valentinetti, La mia Storia di Vita come Idr: tutto ha preso inizio da un’esperienza; Simone Miliozzi, Storia di un IdR all’inizio del suo percorso.
In Memoriam
La mattina del 9 settembre 2022 ci ha sorpreso la notizia della morte a Siviglia in Spagna, di Don Emilio Alberich Sotomayor, per ben 41 anni membro dell’équipe dell’Istituto di Catechetica. Una grande figura di salesiano e di do-cente, che ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della catechetica fon-damentale ed è stato uno dei primi studiosi della catechesi degli adulti.
Dalle pagine di “Catechetica ed Educazione” vogliamo rendergli un meri-tato omaggio di gratitudine.
Viene offerto il profilo di Emilio Alberich Sotomayor, elaborato da Cesare Bissoli, che ha vissuto con lui per diversi decenni.
Seguono poi 4 testimonianza di colleghi e discepoli: Hommage del gesuita belga André Fossion, Emilio Alberich, amigo y Maestro. Sabio profesor y compañero ilustre, di tre catecheti spagnoli: Pelayo González Ibáñez, José María Pérez Na-varro, fsc, Álvaro Ginel Vielva, sdb.
A continuazione si propongono due studi sul contributo di Emilio Alberich nell’ambito della catechetica.
Giuseppe Ruta in Porre le basi per una “scienza” giovane: La Catechetica fondamentale di Emilio Alberich, si sofferma sull’obiettivo centrale della sua ricerca, ossia porre le basi, le fondamenta della catechetica, denominata da lui catechetica fondamentale o generale, una scienza relativamente giovane, bisognosa di consolidamento e di riconoscimento.
Da parte sua, Jerome Vallabaraj in Adulti credenti e credibili si diventa! Il contributo di Emilio Alberich alla catechesi degli adulti, mette in rilievo l’apporto di Emilio Alberich nel campo della catechesi degli adulti, ricordando il suo slogan “adulti credenti e credibili si diventa”. Diventare e maturare nella fede cristiana come adulti dipende da una catechesi che si presenti come messaggio attraente, convincente, significativo e vivibile.
Non poteva mancare il pensiero catechetico dello stesso Emilio Alberich. Abbiamo scelto dei brani presi da delle interviste in cui tratta alcuni dei temi a lui più cari: l’educazione alla fede, il futuro della catechesi, la catechesi biblica, la catechesi degli adulti, la formazione dei catechisti e degli agenti pastorali. Quasi un “testamento” offerto a catechisti e catecheti.
L’omaggio si conclude con la bibliografia, che raccoglie la vasta produzione scientifica di Emilio Alberich Sotomayor, curata da Corrado Pastore.
I MEMBRI DELL’ISTITUTO DI CATECHETICA
catechetica@unisal.it
ALLEGATO:
«Catechetica ed Educazione» 7 (2022) 3, 5-8
L’articolo che segue è di Faggioli ed è interessante per comprendere la situazione generale della Chiesa cattolica e in particolare per il ruolo che ha assunto «nella storia delle violenze e degli abusi nella Chiesa». Acquisire uno statuto di minoranza (e a maggiore ragione acquisirlo per demerito), specie nei paesi con «radici» cristiane non lascia dormire sonni tranquilli, agita i dibattiti, specie per l’interrogativo su come porsi di fronte al nuovo: ne parla sull’ultimo numero dell’anno Massimo Faggioli, presentando le due diverse e complementari visioni di Chantal Delsol (La fin de la chrétienté, Cerf, Paris 2021) e di Danièle Hervieu-Leger e Charles Schlegel (Vers l’implosion?, Seuil, Paris 2022).
1° gennaio 2023
«Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi 5,1-2).
1. Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie.
2. Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini, ribaltando l’apparente tranquillità anche delle società più privilegiate, generando disorientamento e sofferenza, causando la morte di tanti nostri fratelli e sorelle.
Spinti nel vortice di sfide improvvise e in una situazione che non era del tutto chiara neanche dal punto di vista scientifico, il mondo della sanità si è mobilitato per lenire il dolore di tanti e per cercare di porvi rimedio; così come le Autorità politiche, che hanno dovuto adottare notevoli misure in termini di organizzazione e gestione dell’emergenza.
Assieme alle manifestazioni fisiche, il Covid-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà.
Inoltre, non possiamo dimenticare come la pandemia abbia toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento.
Raramente gli individui e la società progrediscono in situazioni che generano un tale senso di sconfitta e amarezza: esso infatti indebolisce gli sforzi spesi per la pace e provoca conflitti sociali, frustrazioni e violenze di vario genere. In questo senso, la pandemia sembra aver sconvolto anche le zone più pacifiche del nostro mondo, facendo emergere innumerevoli fragilità.
3. Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al «giorno del Signore». Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori. Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?
Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Abbiamo anche imparato che la fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della globalizzazione non solo è stata eccessiva, ma si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica, compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace. Nel nostro mondo che corre a grande velocità, molto spesso i diffusi problemi di squilibri, ingiustizie, povertà ed emarginazioni alimentano malesseri e conflitti, e generano violenze e anche guerre.
Mentre, da una parte, la pandemia ha fatto emergere tutto questo, abbiamo potuto, dall’altra, fare scoperte positive: un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni; nonché un impegno, in certi casi veramente eroico, di tante persone che si sono spese perché tutti potessero superare al meglio il dramma dell’emergenza.
Da tale esperienza è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola «insieme». Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali.
4. Al tempo stesso, nel momento in cui abbiamo osato sperare che il peggio della notte della pandemia da Covid-19 fosse stato superato, una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità. Abbiamo assistito all’insorgere di un altro flagello: un’ulteriore guerra, in parte paragonabile al Covid-19, ma tuttavia guidata da scelte umane colpevoli. La guerra in Ucraina miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante.
Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cf. Vangelo di Marco 7,17-23).
5. Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un «noi» aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune.
Per fare questo e vivere in modo migliore dopo l’emergenza del Covid-19, non si può ignorare un dato fondamentale: le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace.
Nel condividere queste riflessioni, auspico che nel nuovo anno possiamo camminare insieme facendo tesoro di quanto la storia ci può insegnare. Formulo i migliori voti ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leaders delle diverse religioni. A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e per il mondo intero.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2022
Francesco
Discorso di papa Francesco alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi
Cari fratelli e care sorelle!
1. Il Signore ci dà ancora una volta la grazia di celebrare il mistero della sua nascita. Ogni anno, ai piedi del Bambino che giace nella mangiatoia (cfr Lc 2,12), veniamo messi nella condizione di guardare la nostra vita a partire da questa speciale luce. Non è la luce della gloria di questo mondo, ma «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). L’umiltà del figlio di Dio che viene nella nostra condizione umana è per noi scuola di adesione alla realtà. Così come Egli sceglie la povertà, che non è semplicemente assenza di beni, ma essenzialità, allo stesso modo ognuno di noi è chiamato a ritornare all’essenziale della propria vita, per buttare via tutto ciò che è superfluo e che può diventare impedimento nel cammino di santità. E questo cammino di santità non va negoziato.
2. È però importante avere chiaro che quando si esamina la propria esistenza o il tempo trascorso, bisogna sempre avere come punto di partenza la memoria del bene. Infatti, solo quando siamo consapevoli del bene che il Signore ci ha fatto siamo anche in grado di dare un nome al male che abbiamo vissuto o subito. Essere consapevoli della nostra povertà senza esserlo anche dell’amore di Dio ci schiaccerebbe. In questo senso l’atteggiamento interiore a cui dovremmo dare più importanza è la gratitudine.
Il Vangelo, per spiegarci in che cosa essa consiste, ci racconta la storia dei dieci lebbrosi che furono tutti sanati da Gesù; solo uno però torna indietro a ringraziare, un samaritano (cfr Lc 17,11-19). L’atto di ringraziare ottiene a quest’uomo, oltre alla guarigione fisica, la salvezza totale (cfr v. 19). L’incontro con il bene che Dio gli ha concesso non si ferma cioè alla superficie, ma tocca il cuore. È così: senza un costante esercizio di gratitudine finiremmo solo per fare l’elenco delle nostre cadute e oscureremmo ciò che più conta, cioè le grazie che il Signore ci concede ogni giorno.
3. Molte cose sono accadute in questo ultimo anno, e innanzitutto vogliamo dire grazie al Signore per tutti i benefici che ci ha concesso. Ma tra tutti questi benefici speriamo che ci sia anche la nostra conversione. Essa non è mai un discorso concluso. La cosa peggiore che possa accaderci è pensare di non avere più bisogno di conversione, a livello sia personale sia comunitario.
Convertirsi è imparare sempre di più a prendere sul serio il messaggio del Vangelo e tentare di metterlo in pratica nella nostra vita. Non è semplicemente prendere le distanze dal male, è mettere in pratica tutto il bene possibile: questo è convertirsi. Davanti al Vangelo rimaniamo sempre come dei bambini bisognosi di imparare. Presumere di avere imparato tutto ci fa cadere nella superbia spirituale.
Quest’anno sono ricorsi i sessant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. Cos’è stato l’evento del Concilio se non una grande occasione di conversione per tutta la Chiesa? San Giovanni XXIII a questo proposito disse: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». La conversione che il Concilio ci ha donato è stato il tentativo di comprendere meglio il Vangelo, di renderlo attuale, vivo, operante in questo momento storico.
Così, come più volte era già accaduto nella storia della Chiesa, anche nella nostra epoca come comunità di credenti ci siamo sentiti chiamati a conversione. E questo percorso è tutt’altro che concluso. L’attuale riflessione sulla sinodalità della Chiesa nasce proprio dalla convinzione che il percorso di comprensione del messaggio di Cristo non ha fine e ci provoca continuamente.
Il contrario della conversione è il fissismo, cioè la convinzione nascosta di non avere bisogno di nessuna comprensione ulteriore del Vangelo. È l’errore di voler cristallizzare il messaggio di Gesù in un’unica forma valida sempre. La forma invece deve poter sempre cambiare affinché la sostanza rimanga sempre la stessa. L’eresia vera non consiste solo nel predicare un altro Vangelo (cfr Gal 1,9), come ci ricorda Paolo, ma anche nello smettere di tradurlo nei linguaggi e nei modi attuali, cosa che proprio l’Apostolo delle genti ha fatto. Conservare significa mantenere vivo e non imprigionare il messaggio di Cristo.
4. Il vero problema, però, che tante volte dimentichiamo, è che la conversione non solo ci fa accorgere del male per farci scegliere il bene, ma nello stesso tempo spinge il male ad evolversi, a diventare sempre più insidioso, a mascherarsi in maniera nuova affinché facciamo fatica a riconoscerlo. È una vera lotta. Il tentatore torna sempre, e torna travestito.
Gesù nel Vangelo usa un paragone che ci aiuta a comprendere quest’opera che è fatta di tempi e modi diversi: «Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino» (Lc 11,21-22). Il nostro primo grande problema è confidare troppo in noi stessi, nelle nostre strategie, nei nostri programmi. È lo spirito pelagiano di cui più volte ho parlato. Allora alcuni fallimenti sono una grazia, perché ci ricordano che non dobbiamo confidare in noi stessi, ma solo nel Signore. Alcune cadute, anche come Chiesa, sono un grande richiamo a rimettere Cristo al centro. Perché «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Lc 11,23). È così semplice.
Cari fratelli e care sorelle, è troppo poco denunciare il male, anche quello che serpeggia in mezzo a noi. Ciò che si deve fare è decidere una conversione davanti ad esso. La semplice denuncia può darci l’illusione di aver risolto il problema, ma in realtà quello che conta è operare dei cambiamenti che ci mettano nella condizione di non lasciarci più imprigionare dalle logiche del male, che molto spesso sono logiche mondane. In questo senso, una delle virtù più utili da praticare è quella della vigilanza. Gesù descrive la necessità di questa attenzione su noi stessi e sulla Chiesa – la necessità della vigilanza – attraverso un esempio efficace: «Quando lo spirito impuro esce dall’uomo – dice Gesù –, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima» (Lc 11,24-26). La nostra prima conversione riporta un certo ordine: il male che abbiamo riconosciuto e tentato di estirpare dalla nostra vita, effettivamente si allontana da noi; ma è da ingenui pensare che rimanga lontano per lungo tempo. In realtà, dopo un po’ si ripresenta a noi sotto una nuova veste. Se prima appariva rozzo e violento, ora invece si comporta in maniera più elegante ed educata. Allora abbiamo ancora una volta bisogno di riconoscerlo e smascherarlo. Permettetemi l’espressione: sono i “demoni educati”: entrano con educazione, senza che io me ne accorga. Solo la pratica quotidiana dell’esame di coscienza può far sì che ce ne rendiamo conto. Per questo si vede l’importanza dell’esame di coscienza, per vigilare la casa.
Nel secolo XVII – per esempio – ci fu il famoso caso delle monache di Port Royal. Una delle loro abbadesse, Madre Angelica, era partita bene: aveva “carismaticamente” riformato se stessa e il monastero, respingendo dalla clausura perfino i genitori. Era una donna piena di doti, nata per governare, ma poi diventò l’anima della resistenza giansenista, mostrando una chiusura intransigente persino davanti all’autorità ecclesiastica. Di lei e delle sue monache si diceva: “Pure come angeli, superbe come demoni”. Avevano scacciato il demonio, ma poi era tornato sette volte più forte e, sotto la veste dell’austerità e del rigore, aveva portato rigidità e presunzione di essere migliori degli altri. Sempre torna: il demonio, cacciato via, torna; travestito, ma torna. Stiamo attenti!
5. Gesù, nel Vangelo, racconta molte parabole rivolte soprattutto a ben pensanti, a scribi e farisei, con l’intento di portare alla luce l’inganno di sentirsi giusti e disprezzare gli altri (cfr Lc 18,9). Ad esempio, nelle cosiddette parabole della misericordia (cfr Lc 15), Egli narra non solo le storie della pecorella smarrita o del figlio minore di quel povero padre, che si vede trattato da morto proprio da quest’ultimo, le quali ci ricordano che il primo modo di peccare è andarsene, perdersi, fare cose evidentemente sbagliate; ma in quelle parabole parla anche della dracma perduta e del figlio maggiore. Il paragone è efficace: ci si può perdere anche in casa, come nel caso della moneta di quella donna; e si può vivere infelici pur rimanendo formalmente nel recinto del proprio dovere, come accade al figlio maggiore del padre misericordioso. Se, per chi va via, è facile accorgersi della distanza, per chi rimane in casa è difficile rendersi conto di quanto si viva all’inferno, per la convinzione di essere solo vittime, trattati ingiustamente dall’autorità costituita e, in ultima analisi, da Dio stesso. E quante volte ci succede questo, qui, a casa!
Cari fratelli e care sorelle, a tutti noi sarà successo di perderci come quella pecorella o di allontanarci da Dio come il figlio minore. Sono peccati che ci hanno umiliato, e proprio per questo, per grazia di Dio, siamo riusciti ad affrontarli a viso scoperto. Ma la grande attenzione che dobbiamo prestare in questo momento della nostra esistenza è dovuta al fatto che formalmente la nostra vita attuale è in casa, tra le mura dell’istituzione, a servizio della Santa Sede, nel cuore stesso del corpo ecclesiale; e proprio per questo potremmo cadere nella tentazione di pensare di essere al sicuro, di essere migliori, di non doverci più convertire.
Noi siamo più in pericolo di tutti gli altri, perché siamo insidiati dal “demonio educato”, che non viene facendo rumore ma portando fiori. Scusatemi, fratelli e sorelle, se a volte dico cose che possono suonare dure e forti, non è perché non creda nel valore della dolcezza e della tenerezza, ma perché è bene riservare le carezze agli affaticati e agli oppressi, e trovare il coraggio di “affliggere i consolati”, come amava dire il servo di Dio don Tonino Bello, perché a volte la loro consolazione è solo l’inganno del demonio e non un dono dello Spirito.
6. Infine, un’ultima parola la vorrei riservare al tema della pace. Tra i titoli che il profeta Isaia attribuisce al Messia c’è quello di «Principe della pace» (9,5). Mai come in questo momento sentiamo un grande desiderio di pace. Penso alla martoriata Ucraina, ma anche a tanti conflitti che sono in atto in diverse parti del mondo. La guerra e la violenza sono sempre un fallimento. La religione non deve prestarsi ad alimentare conflitti. Il Vangelo è sempre Vangelo di pace, e in nome di nessun Dio si può dichiarare “santa” una guerra.
Dove regnano morte, divisione, conflitto, dolore innocente, lì noi possiamo solo riconoscere Gesù crocifisso. E in questo momento è proprio a chi più soffre che vorrei si rivolga il nostro pensiero. Ci vengono in aiuto le parole di Dietrich Bonhoeffer, che dal carcere dove era prigioniero scriveva: «Guardando la cosa da un punto di vista cristiano, non può essere un problema particolare trascorrere un Natale nella cella di una prigione. Molti, in questa casa, celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome. Un prigioniero capisce meglio di chiunque altro che miseria, sofferenza, povertà, solitudine, mancanza di aiuto e colpa hanno, agli occhi di Dio, un significato completamente diverso che nel giudizio degli uomini; che Dio volge lo sguardo proprio verso coloro da cui gli uomini sono soliti distoglierlo; che Cristo nacque in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo; tutto questo per un prigioniero è veramente un lieto annunzio» (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo – MI, Ed. Paoline, 1988, 324).
7. Cari fratelli e care sorelle, la cultura della pace non la si costruisce solo tra i popoli e tra le nazioni. Essa comincia nel cuore di ciascuno di noi. Mentre soffriamo per l’imperversare di guerre e violenze, possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo alla pace cercando di estirpare dal nostro cuore ogni radice di odio e risentimento nei confronti dei fratelli e delle sorelle che vivono accanto a noi. Nella Lettera agli Efesini leggiamo queste parole, che ritroviamo anche nella preghiera di Compieta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (4,31-32). Possiamo domandarci: quanta asprezza c’è nel nostro cuore? Che cos’è che la alimenta? Da cosa nasce lo sdegno che molto spesso crea distanze tra di noi e alimenta rabbia e risentimento? Perché la maldicenza in tutte le sue declinazioni diventa l’unico modo che abbiamo per parlare della realtà?
Se è vero che vogliamo che il clamore della guerra cessi lasciando posto alla pace, allora ognuno inizi da sé stesso. San Paolo ci dice chiaramente che la benevolenza, la misericordia e il perdono sono la medicina che abbiamo per costruire la pace.
La benevolenza è scegliere sempre la modalità del bene per rapportarci tra di noi. Non esiste solo la violenza delle armi, esiste la violenza verbale, la violenza psicologica, la violenza dell’abuso di potere, la violenza nascosta delle chiacchiere, che fanno tanto male e distruggono tanto. Davanti al Principe della Pace che viene nel mondo, deponiamo ogni arma di ogni genere. Ciascuno non approfitti della propria posizione e del proprio ruolo per mortificare l’altro.
La misericordia è accettare che l’altro possa avere anche i suoi limiti. Anche in questo caso è giusto ammettere che persone e istituzioni, proprio perché sono umane, sono anche limitate. Una Chiesa pura per i puri è solo la riproposizione dell’eresia catara. Se così non fosse, il Vangelo, e la Bibbia in generale, non ci avrebbero raccontato limiti e difetti di molti che oggi noi riconosciamo come santi.
Infine il perdono è concedere sempre un’altra possibilità, cioè capire che si diventa santi per tentativi. Dio fa così con ciascuno di noi, ci perdona sempre, ci rimette sempre in piedi e ci dona ancora un’altra possibilità. Tra di noi deve essere così. Fratelli e sorelle, Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi a stancarci di chiedere perdono.
Ogni guerra per essere estinta ha bisogno di perdono, altrimenti la giustizia diventa vendetta, e l’amore viene riconosciuto solo come una forma di debolezza.
Dio si è fatto bambino, e questo bambino, diventato grande, si è lasciato inchiodare sulla croce. Non c’è cosa più debole di un uomo crocifisso, eppure in quella debolezza si è manifestata l’onnipotenza di Dio. Nel perdono opera sempre l’onnipotenza di Dio. La gratitudine, la conversione e la pace siano allora i doni di questo Natale.
Auguro a tutti buon Natale! E ancora una volta vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie!
Realtà giovanile, linguaggi multimediali, comunicazione della fede: si costruisce sull’intreccio di queste tre dimensioni il libro Giovani, fede, multimedia. Evangelizzazione e nuovi linguaggi, a cura di Assunta Steccanella e Lorenzo Voltolin, con prefazione del sociologo Fausto Colombo, Università Cattolica del Sacro Cuore, nuova uscita nella collana Sophia della Facoltà teologica del Triveneto in coedizione con Edizioni Messaggero Padova.
La riflessione nasce all’interno di un laboratorio teologico-pastorale condotto nella stessa Facoltà per indagare una variabile determinante introdotta dalla pandemia di Covid nel panorama della comunicazione: lo spazio digitale come dimensione ormai imprescindibile.
Di qui la ricerca, sviluppata da una decina di autori, ha approfondito alcuni aspetti dei linguaggi multimediali, avvicinati nelle loro peculiarità e coordinate fondamentali, per trovare un orientamento sui modi adeguati di incarnare la missione nello spazio digitale. «Pensare e sperimentare forme nuove di partecipazione, nuovi codici e nuovi modi di comunicare la fede: si tratta di una grande sfida con risvolti potenzialmente fecondi in un tempo complesso come l’attuale» si legge nell’introduzione firmata da Assunta Steccanella. «Porsi alla scuola dei percorsi comunicativi dei giovani offre alla pastorale non solo la possibilità di entrare in relazione con loro ma anche di imparare nuove vie per il cammino dell’evangelizzazione tout court».
Il procedere della ricerca si muove fra tre poli: l’ascolto, il discernimento, le pratiche, secondo lo schema proprio della teologia pratica che mette in circolo prassi e teoria in un rimando continuo che ha come sfondo la centralità dell’agire umano nel processo conoscitivo.
La prima parte del libro – In ascolto del mondo giovanile – si sofferma su alcune prassi di comunicazione attraverso i new media, sul ruolo delle emozioni e sulla portata comunicativa dell’agire concreto (contributi di Carlo Meneghetti, Domenico Cravero e di alcuni componenti della fraternità del Sermig).
Il secondo passaggio – Coordinate per il discernimento sul mondo giovanile – considera i criteri che valgono per tutta l’azione evangelizzatrice della Chiesa mettendo a tema quelle coordinate che sembrano particolarmente preziose quando ci si voglia rivolgere ai giovani e abitare lo spazio digitale (Roberto Tommasi, Sergio Gaburro, Dario Vivian, Assunta Steccanella, Leonardo Paris, Giorgio Bonaccorso, Lorenzo Voltolin).
La terza e ultima parte si concentra sulle Nuove pratiche per il mondo giovanile, presentando alcune concrete esperienze di comunicazione della fede in ambiente digitale, che possono aprire l’orizzonte di ricerca e progettazione di prassi a-venire che assumano un linguaggio capace di comunicare il vangelo: un piccolo tentativo di inculturazione della fede verso il mondo giovanile in ambiente digitale.
«Il confronto con la comunicazione digitale che viene introdotto nel testo sollecita e accompagna il lettore verso la conoscenza di una realtà che abbraccia diverse dimensioni, personali e sociali. In e per mezzo di essa il soggetto è coinvolto: nelle sue emozioni, con la sua immaginazione, attraverso il linguaggio visivo e sonoro – subìto e agìto – egli elabora il proprio universo interpretativo della realtà» spiega Steccanella.
«Scopo del cammino svolto è stato quello di individuare e offrire alcune coordinate orientative per il lavoro di comprensione e di apprendimento di un tale modo – multimediale – di comunicare, prezioso anche per la comunicazione della fede, in particolare verso i giovani. Non si tratta di una missione impossibile: una sollecitazione emergente, infatti, è a riscoprire il patrimonio di linguaggi performativi propri della tradizione cristiana, così contemporanei nella loro struttura. La sfida è quella di ri-mediarli adeguatamente nell’ambiente digitale, uno spazio di evangelizzazione non più nuovo, molto frequentato ma non sempre valorizzato».
Settimana News 6 dicembre 2022
Prendiamo spunto da un’indagine dell’Ufficio Catechistico della diocesi di Bergamo, presentato all’ultimo convegno diocesano dei catechisti (22 settembre).[1] I numeri sono importanti. All’indagine hanno risposto 209 parrocchie su 389, 25.000 gli iscritti ai percorsi di Iniziazione Cristiana, 2.818 i catechisti.
Negli ultimi vent’anni la Chiesa italiana si è impegnata sul fronte del rinnovamento della catechesi, distinguendosi nell’ambito europeo per aver promosso un lungo cammino di ricerca e di sperimentazione, che ha interessato diocesi e parrocchie, coinvolgendo le conferenze episcopali regionali. Il lavoro è confluito in “Incontriamo Gesù”, approvato dall’Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana nel maggio del 2014.[2]
“Incontriamo Gesù” ha offerto un quadro di sintesi utile, lasciando però aperte alcune questioni, con la volontà di promuovere un ulteriore approfondimento. Questo ha preso il via mediante un confronto promosso dall’Ufficio Catechistico Nazionale il 12 ottobre 2022 con i direttori degli Uffici catechistici diocesani e le loro équipes. Oltre 200 i partecipanti on line. Nei prossimi mesi si raccoglieranno gli sviluppi che la proposta ha favorito.
Possiamo però dire che, dai lavori intrapresi dalle diverse diocesi, emergono con chiarezza dei punti di forza: catechesi esperienziale, catechesi come itinerario, “processo globale”, linguaggio comune. Vengono segnalati anche qualche positivo impegno per il coinvolgimento dei genitori. Risultano nodi problematici come la partecipazione alla messa domenicale, la partecipazione con riserva agli incontri di catechesi, la catechesi scolastica.
Il dato della partecipazione tuttavia continua ad essere molto alto e può portare, per un verso, a soprassedere al compito del rinnovamento. Diverse situazioni pastorali risultano onerose per i preti, con l’effetto di un’eccessiva delega della progettazione della catechesi in mano a catechisti non sempre adeguatamente formati.
Per alcuni vi è poi l’idea che non sia più tempo per una proposta rivolta ai bambini e ai ragazzi e sia più opportuno orientare le poche energie a disposizione su altri soggetti e altre forme di evangelizzazione.
L’indagine della diocesi di Bergamo riesce a dirci qualcosa in merito al tipo di formazione messa in campo per i catechisti dell’IC. Il 66,7% si affida alla formazione parrocchiale, ma una buona percentuale, 28,1%, dice che viene lasciata all’iniziativa di ciascuno. Lo stesso si verifica a livello di strumenti per la preparazione dove ognuno cerca da sé (56,9%).
Una rinnovata catechesi necessita di rinnovati catechisti. Ben inteso, si tratta di trovare e fare proprio un possibile punto di equilibrio tra la necessità di cambiamento e la realtà oggettiva delle comunità chiamate a servire e ad accompagnare le persone in questo tempo.
È il momento di promuovere una nuova generazione di catechisti, che non siano solo “maestri di dottrina”, ma capaci di far interagire le voci dei diversi soggetti interessati: ragazzi, famiglie, comunità.
La nostra indagine di riferimento non fa cenno alla formazione del clero, ma mi spingo a sostenere che rimane un punto dolente. Si intuisce, senza fatica, che la mancanza di questo tassello ha comportato diverse problematiche anche dentro le sperimentazioni in atto, trascurando adeguate programmazioni e una reale conversione pastorale legata alla comunità in chiave missionaria.
A differenza dei catechisti, i preti non sempre intravvedono i vantaggi di un rinnovamento generato anche dalla catechesi in atto, perché sempre meno risultano coinvolti nella catechesi dell’IC, al di là della programmazione legata soprattutto alle tappe sacramentali e agli incontri per genitori.
Circa la frequenza, si rimane per il 72% dei rispondenti all’ora settimanale, un 23% scivola sull’ora e mezza ogni due settimane. I tempi ristretti di incontro dicono che non si è completamente passati da una lezione frontale a un incontro che tiene maggiormente conto dei destinatari e delle loro capacità di accoglienza e di elaborazione di quanto proposto.
Si tratta non solo di apprendere degli insegnamenti, ma di fare esperienze. La proposta di fede deve diventare qualcosa di attraente, capace di stabilire un approdo nella terra del proprio interlocutore, senza presumere il suo interesse e la sua attenzione. Il messaggio per essere accolto deve suscitare una certa sorpresa, esercitare un fascino che incuriosisca l’interlocutore e susciti interesse. Il racconto biblico, il gioco, l’immagine, un oggetto aprono alla risposta e alla sorpresa.
Di fronte ad una informazione che oggi è basata su micro messaggi, questo passaggio metodologico risulta importante per educare al gusto della ricerca, premiando e valorizzando lo sforzo dell’apprendimento.
I gruppi sono strutturati secondo l’età anagrafica per l’85,5% e stessa percentuale si riscontra per la celebrazione dei sacramenti, che avviene durante una classe scolastica: ad esempio, 4ª elementare per la comunione e 2ª media per la cresima.
La scansione della catechesi dice della fatica di immaginare il tempo della gente non più ritmato a partire da una dinamica religiosa univoca. Nella maggior parte dei casi è un errore partire dal presupposto che i ragazzi maturino tutti nello stesso tempo e abbiano gli stessi ritmi di crescita e di comprensione.
L’IC deve tener conto della graduale maturazione del ragazzo più che del calendario e dell’età. L’età anagrafica dice la tipicità di un’impostazione di cristianità condivisa che non è più così, se è vero che anche in diocesi di Bergamo un bambino su tre non viene battezzato. Anche questo dato deve spingere verso un’impostazione missionaria dell’evangelizzazione.
Questo valore della missionarietà è bene evidenziato dalla domanda sulle motivazioni che spingono a chiedere il battesimo tra i 6 e i 14 anni. Rispetto al 27,6% che dice di recuperare per motivi contingenti, è interessante notare come il 12,4% lo faccia per un incontro piacevole con la comunità o grazie alla riscoperta della fede da parte della famiglia (7,8%), oppure l’incontro con un testimone di fede (5,9%).
Di fatto, sempre da un adeguato coinvolgimento della comunità dipendono anche le scelte più audaci che riguardano, per esempio, la collocazione dei sacramenti, i quali rimangono nell’ordine più tradizionale. Sull’ordine dei sacramenti rimangono valide le riflessioni teologiche e le opportunità pastorali, per questo non è il caso di parteggiare per nessuna delle soluzioni.
Sta di fatto che, in alcuni casi, si sono avvicinate tra loro le scadenze sacramentali nella volontà di rispettare meglio l’unità. È però rimasta viva l’incoerenza tra la teoria – che indica l’eucaristia e l’inserimento nella comunità come punto di arrivo dell’IC – e la pratica che invece continua a proporre la cresima come ultimo dei sacramenti dell’IC, facendolo sembrare il punto di arrivo del cammino.
L’accompagnamento del clero richiederebbe un differente investimento, per evitare cortocircuiti che limitano le potenzialità della proposta e soprattutto per favorire il riconoscimento del valore generativo dell’IC per la comunità stessa, e quindi anche per il ministero del presbitero.
Al tempo del catecumenato sociologico, la parrocchia non aveva per sé il compito di generare alla fede, ma solo di nutrirla, curarla, renderla coerente. Quello che mancava era solo la dottrina per poter ricevere con coerenza i sacramenti, e l’ora settimanale di catechismo rispondeva a questo impianto.
Oggi si suppone, in una certa misura, che ogni parrocchia sia una comunità viva, capace di attenzione e di integrazione nei confronti dei ragazzi e delle famiglie. Ma forse non sono poche le realtà nelle quali si accusa una stanchezza pastorale, il ripiegamento nella sterile ripetizione di programmi e nell’offerta di servizi, con conseguente perdita della propria capacità generativa.
Qui ci viene a sostegno la nostra inchiesta, quando leggiamo che le attività principali che si fanno immediatamente prima o dopo gli incontri sono la preghiera in chiesa tutti insieme (44,4%) e la celebrazione della messa (43,1%). Si dà il caso che, in alcune situazioni, si celebrino due messe in contemporanea perché tutti possano partecipare.
Fa nascere qualche interrogativo il fatto che la partecipazione all’eucaristia, da punto di arrivo della maturazione del cammino si trasformi in un ostinato punto di partenza. Si perpetua la tanto discussa situazione nella quale si fa compiere ai bambini quello che gli adulti non fanno più: la partecipazione all’eucaristia domenicale, le confessioni, i momenti di ritiro.
Si rinuncia ad azioni evangelizzatrici generative. Il risultato è una proposta di iniziazione che investe pressoché tutto nel momento catechistico, quindi in una sola parte di ciò che caratterizza un itinerario di iniziazione. Non si investe la stessa energia nell’introduzione alla vita liturgica, all’esperienza di fraternità e all’esercizio della carità.
In altre parole, il processo di rinnovamento, pur partendo dalla preziosa intuizione della comunità come soggetto dell’IC, non ha avuto la forza o la possibilità sufficienti per attrarre dentro il processo anche altri soggetti con una responsabilità diretta, allo scopo di generare una vera iniziazione.
Nei progetti e nelle sperimentazioni si è fatto affidamento al coinvolgimento delle famiglie, e anche la nostra indagine non si esime dal considerare quale impatto e attenzione abbia avuto questo ambito.
Occorre riconoscere che, nella diocesi di Bergamo, non si è dato il via in modo strutturato a un ripensamento dell’IC, per cui verso la famiglia rimangono stabili le percentuali di iniziative che da sempre si mettono in atto. Troviamo allora: messa domenicale con attenzione alla famiglia 71,9%, riunione all’inizio del cammino 74,5%, riunioni negli anni dei sacramenti 61,4%. Percentuali più basse si riscontrano in catechesi alle famiglie (30,7%), con le famiglie (29,4%) nelle famiglie (13,7%).
Non esiste nulla a livello di percorsi di pastorale post-battesimale (58,9%), una celebrazione all’anno (32,7%); appoggio alle scuole dell’infanzia parrocchiale (20%).
Non vogliamo generalizzare, perché la nostra attenzione è concentrata su un territorio ristretto rispetto all’Italia. Questi dati – e le conoscenze che abbiamo di diverse realtà diocesane – dicono che il rapporto fra la comunità e le famiglie è debole e chiede di essere ulteriormente chiarito. Diversamente, un parroco o un catechista può essere tentato di ritirarsi dalla fatica del coinvolgimento delle famiglie e limitarsi a fare catechesi con i ragazzi.
Le percentuali riportate indicano, inoltre, il permanere della prassi diffusa delle conferenze tenute dal sacerdote a cui pochi genitori partecipano. È importante considerare il dato che il concetto di famiglia non è più univoco e chiede di tenere conto di un intreccio complesso di situazioni eterogenee.
Da quando il venire alla vita non coincide più con il venire alla fede, anche l’identificazione dei soggetti implicati nell’IC è meno scontata. Rimane indiscutibile il fatto che nessuno si dà la fede da sé stesso, ma che l’atto credente prende corpo solo dentro una rete feconda di relazioni. Si tratta di riconoscere se e in quale modo, oggi, sussista quel rapporto tra generazioni entro il quale normalmente si iscrive la trasmissione della fede.
L’epoca contemporanea presenta una progressiva disaffezione dalle istituzioni e da tutto ciò che viene presentato in forme istituzionalizzate. In tale contesto la fede pubblica conosce un processo di elaborazione personale che la rende tutt’altro che inutile o assente, ma così personale e intima da sembrare invisibile.
Nelle principali esperienze rinnovate di IC, è costante l’attenzione alla partecipazione attiva dei genitori, per porre rimedio ad una riconosciuta mancanza di dialogo tra la famiglia e la comunità cristiana. Comunità e genitori rimangono sostanzialmente estranei nella prima fase della vita del bambino, dal battesimo all’iscrizione al catechismo.
Solo se la comunità accompagna l’evoluzione della famiglia, si realizza un incontro di interessi e di preoccupazioni, che a volte consente di riannodare i fili di un percorso interrotto dopo il matrimonio. Incontriamo Gesù sollecita a pensare i genitori cristiani come primi educatori alla fede «qualunque situazione essi vivano» (IG 28).
L’obiettivo del coinvolgimento delle famiglie non può essere quello di trasferire a loro l’incapacità delle comunità, quanto di avviare una collaborazione per ridare un ruolo attivo alla famiglia, attraverso modalità differenti e consone alle possibilità di ognuno.
Queste note dicono che c’è spazio per pensare la ministerialità del catechista e dare concretezza alle intuizioni che, in questi anni, sono maturate e poi messe da parte per mancanza di operatori preparati e per mancanza di costanza nel provare e riprovare a creare una tradizione con gradualità. La gradualità significa rispetto delle situazioni in atto, ma anche coraggio operativo, un passo chiama l’altro. Solo se si fa un passo, si può capire come e dove fare quello successivo.
Il percorso rimane aperto e le prospettive ricche di promesse.
[1] Ufficio Catechistico Diocesi di Bergamo, Uno sguardo di prospettiva. Rilettura dell’indagine sull’Iniziazione Cristiana. I dati si possono recuperare dal sito della diocesi. Una valutazione del cammino di rinnovamento dell’Iniziazione Cristiana nella diocesi di Treviso si può trovare nel testo: A. Zanetti, Iniziazione Cristiana e comunità. Criteri per una verifica sul campo, Marcianum Press, Venezia 2022.
[2] Conferenza Episcopale Italiana, Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, EDB, Bologna 2014.
Chi fra noi celebrerà il Natale? Colui che finalmente deporrà davanti alla mangiatoia ogni violenza, ogni onore, ogni apparenza, ogni presunzione, ogni arroganza, ogni ostinazione. Colui che starà dalla parte degli umili e considererà grande solo Dio. Chi nel bimbo dentro la mangiatoia vedrà la gloria del Signore proprio nell’umiltà. Chi dirà con Maria: “Il Signore ha guardato la mia umiltà. La mia anima magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (D. Bonhoeffer)