Declino degli ordini religiosi

 

 

È la fine di una grande storia?

 

 

Ottimi affari, negli ultimi anni ma ancor più nei prossimi, per gli agenti immobiliari romani che trattano «grandi edifici di pregio». Dopo il Concordato — e poi, con ritmo accelerato, nel secondo dopoguerra — congregazioni e istituti cattolici del mondo intero hanno costruito a Roma le loro Case generalizie. Alcuni hanno eretto qui anche i loro noviziati e seminari. Spesso non si è badato a spese, soprattutto nell’ampiezza dell’area acquistata, sistemata a parco per proteggere tranquillità e privacy dei religiosi. I progettisti erano in gran parte del Paese d’origine dell’Istituto, così che Roma ha finito per ospitare una collezione di architettura mondiale (nel meglio e nel peggio), anche se quasi sempre invisibile dietro cancelli, mura, alberi. Ebbene, non solo la secolarizzazione,  ma anche le prospettive dopo il Vaticano II, stanno realizzando silenziosamente quanto fecero con la violenza i francesi del giovane Bonaparte, allorché occuparono Roma e deportarono il Papa; e   poi i Piemontesi, quando lo costrinsero a imprigionarsi non a Parigi ma nel recinto vaticano. In entrambi i casi, tra le prime mosse degli invasori ci fu lo sfratto violento di frati, monaci e monache   la messa sul mercato del loro grande patrimonio immobiliare. Patrimonio che, poi, fu ricostituito, anzi moltiplicato sino a quando, raggiunto il vertice alla metà degli anni Sessanta, ha cominciato un imprevisto declino.


Molto si è parlato e si parla del rarefarsi delle vocazioni alla vita sacerdotale, pensando però, soprattutto, al clero secolare, quello delle diocesi, delle parrocchie. Ma forse meno si è detto, almeno  nel mondo laico, dell’inarrestabile declino numerico delle innumerevoli congregazioni di religiosi e, in modo ancor più accentuato, di religiose. Tra Ottocento e primo Novecento sono sorte centinaia di famiglie di suore di «vita attiva», che hanno svolto preziosi compiti sociali, spesso con un impegno ammirevole e talvolta eroico. Ma ora quei compiti sono gestiti (spesso a costi ben maggiori e con efficacia ben minore: ma questo è un altro discorso…) da enti pubblici, oppure quei bisogni sono stati eliminati dai tempi mutati. La giovane che abbia oggi — ad esempio — la vocazione al servizio dei malati come infermiera, o dei bambini come maestra, pensa a un contratto ospedaliero o statale e non, come un tempo, a un noviziato di Sorelle. Anche le Congregazioni maschili hanno sentito duramente la sparizione dei compiti per i quali erano stati fondati. Ma sia tra gli uomini che tra le donne ha agito anche lo spirito conciliare, con la riscoperta del «sacerdozio universale» con la conseguente rivalutazione del laicato, dunque con la consapevolezza che per essere cristiani sino in fondo la vita religiosa non è la via obbligata.


Di fronte al declino, i Superiori hanno spesso reagito nel modo contrario a quanto suggerivano esperienza e sensus fidei: nelle molte crisi della sua storia, sempre la Chiesa ha affrontato la sfida scegliendo il rigore, non l’allentamento delle briglie. Non avvenne così quando la Riforma protestante svuotò metà dei conventi d’Europa o nel XIX secolo, dopo la bufera rivoluzionaria? Nel dopo  Vaticano II, invece, la riscrittura di Regole e Statuti per addolcire ascesi e disciplina, l’imborghesimento di vite che erano state austere, non ha attratto novizi, desiderosi di Assoluto, come tutti i  giovani, e non di compromessi con lo spirito del tempo. Non a caso, chi ha retto meglio sono i monasteri di clausura che hanno continuato a proporre una Regola esigente, come da Tradizione. Dopo l’esodo impressionante del decennio ’68-78, i vuoti non sono stati riempiti e (seppur in modo più o meno accentuato, a seconda degli Istituti) il declino continua e l’età media s’innalza.
Verranno generosi e abbondanti rincalzi, allora, da Asia e Africa? I Superiori generali che interrogai, quando feci una lunga inchiesta tra le Congregazioni, mi confessarono che questa è stata,  almeno in parte, una grande illusione. Motivi spesso dubbi sull’origine della «vocazione» (un modo, come da noi un tempo, di sottrarsi alla miseria, di studiare, di diventare un notabile), culture,  temperamenti, storie troppo diverse per identificare la vita intera al carisma di un Fondatore europeo spesso di secoli fa.


Insomma, le statistiche sono impietose e la realtà, troppo spesso, presenta case di formazione trasformate in case di riposo, che assorbono per l’assistenza molte delle energie superstiti. Non passa  mese in cui qualche scuola non si chiuda; qualche convento, anche storico e illustre, non venga abbandonato; qualche chiesa non sia passata alle diocesi, esse pure in grandi difficoltà di personale. Intanto, qualche Casa generalizia di Roma è messa sul mercato, per ritirarsi in luoghi meno vasti e più economici.


Realtà rattristante, per un credente? Certamente è doloroso assistere al declino di istituzioni che furono benemerite e madri di tanti santi e constatare il dolore di cristiani che hanno dato la vita a Famiglie che amavano e che, ora, vedono estinguersi. Ma, nella prospettiva di fede, nulla può esserci di davvero inquietante. La Provvidenza che guida la storia (e tanto più la Chiesa, corpo stesso di Cristo) sa quel che fa: «Tutto è Grazia», per dirla con le ultime parole del curato di campagna di Bernanos. La Chiesa non è un fossile, ma un albero vivo dove, sempre, alcuni rami inaridiscono mentre altri spuntano e vigoreggiano. Chi conosce la sua storia sa che in essa, sull’esempio del Fondatore, la morte è seguita dalla risurrezione, spesso in forme umanamente impreviste. Non si dimentichi che nel primo millennio cristiano c’erano soltanto preti secolari e monaci: tutte le famiglie religiose sono apparse solo a partire dal secondo millennio. Frati e suore non ci furono per molti secoli, dunque, pur lasciando un ricordo glorioso e nostalgico, potrebbero non esserci in futuro (è una ipotesi estrema) o, almeno, avere sempre meno peso e influenza. Ciò che è certo è che, a ogni generazione, in molti cristiani continuerà ad accendersi il bisogno di vivere il Vangelo sine glossa, nella sua radicalità. Quale volto nuovo assumerà la vita consacrata per intero al perfezionamento personale e al servizio del prossimo? Beh, la conoscenza del futuro ci è preclusa, è monopolio di Colui che, attraverso poveri uomini, guida una Chiesa che non è nostra ma sua.


in “Corriere della Sera” del 31 agosto 2011

Rivoluzione organizzativa nella scuola italiana

 

Scuola, tutti i numeri della rivoluzione organizzativa

 

Per 5 milioni di famiglie cambierà il riferimento del dirigente scolastico. Verrà rivoluzionata la rete delle istituzioni scolastiche sul territorio: 5.600 (oltre la metà) verranno accorpate in 4.500, cioè le varie sedi verranno aggregate in un minor numero di istituzioni scolastiche (presidenze), con la soppressione di oltre 1.100. In totale le istituzioni scolastiche passeranno da 10.500 a 9.400, di cui 2 mila, le più piccole, date in reggenza a presidi di scuole più grandi. A Bari dovrà essere accorpato il 95% degli istituti del 1° ciclo. Nelle Isole verrà soppressa un’istituzione scolastica su 5.

Eliminato il 30% dell’organico di dirigente scolastico (-3.180 posti), al punto che una parte dei vincitori del prossimo concorso non troveranno posto. Salterà anche l’11% dei posti di direttore amministrativo (1.130 posti) e verranno tagliati 1.100 posti di assistente amministrativo, ma saranno almeno in 30 mila a dover produrre documentazione e dichiarare servizi per difendere la propria sede e non essere trasferiti d’ufficio o rimanere senza sede. Decadranno 53 mila consiglieri di istituto e dovrà essere rieletta la maggior parte delle RSU (almeno 14 mila rappresentanti).

Tuttoscuola ha fatto i conti e spiegato in un nuovo dossier cosa accadrà, per effetto della manovra bis di luglio, nei prossimi 12 mesi, che si annunciano tra i più caldi nella storia dell’organizzazione del servizio di istruzione.

Nelle prossime ore su tuttoscuola.com verranno pubblicate progressivamente notizie sul tema, e sarà a breve scaricabile gratuitamente il testo integrale del dossier. Seguiteci.




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tuttoscuola.com mercoledì 31 agosto 2011

 

Rivoluzione organizzativa/1: i risparmi e gli obiettivi della manovra

 

Pochi se ne sono accorti, ma la scuola italiana sta per essere investita da una profonda riorganizzazione, di portata simile a quella che ha accompagnato l’avvio dell’autonomia scolastica nel 2000, che entro un anno ne cambierà i connotati dal punto di vista organizzativo e gestionale.

Infatti la manovra bis di luglio (Decreto Legge n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011 n. 111, “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”), ha chiamato ancora una volta la scuola a contribuire ai risparmi di sistema in modo più incisivo di quanto, forse, sia stato percepito dall’opinione pubblica e in molti casi anche dai diretti interessati.

Cosa succederà, in sintesi? Ecco una breve rassegna predisposta da Tuttoscuola degli effetti, diretti e indiretti, della manovra:

  • l’accorpamento in istituti comprensivi e il loro ridimensionamento coinvolgerà tre quinti delle istituzioni scolastiche (ognuna – che accorpa più sedi o scuole – con la presidenza e la segreteria amministrativa, e quindi con il dirigente scolastico e il direttore dei servizi amministrativi), cioè circa 5.700 delle attuali 10.500 istituzioni esistenti, quasi tutte del 1° ciclo;

  • i consigli di istituto delle 5.700 istituzioni scolastiche coinvolte nella ristrutturazione decadranno: per questo ultimo anno funzioneranno regolarmente poi si dovrà procedere a nuove elezioni;

  • tutte le rappresentanze sindacali di istituto (rsu) dovranno essere rielette negli istituti ristrutturati; si tratta di circa 14 mila rappresentanti da rieleggere;

  • vi sarà una contrazione di organico di circa 3.180 posti di dirigente scolastico (-30%), di circa 1.130 posti Dsga (-11%), di circa 1.100 posti di assistente amministrativo; non vi sarà incidenza sull’organico dei docenti;

  • la ristrutturazione delle istituzioni scolastiche comporterà una notevole discontinuità didattica e amministrativa (revisione dei Pof, ricomposizione dei collegi docenti, cambio dei revisori dei conti, nuovi bilanci, gestioni finanziarie di esercizi diversi, ecc.);

  • le dotazioni in carico alle istituzioni soppresse o aggregate comporteranno passaggi di beni alle nuove istituzioni e saranno modificati gli inventari, per un valore stimabile in 150 milioni di euro;

  • più di 5 milioni di famiglie vedranno modificato il loro riferimento con la segreteria della scuola e con il dirigente scolastico;

  • accorpamenti delle istituzioni e soppressione di organico modificheranno profondamente la funzione dirigenziale non solo relativamente alla riduzione di posti, ma anche per la modifica della funzione con nuovi carichi di lavoro, riorganizzazione dei servizi e diffusa situazione delle reggenze (circa 2mila).

Tutto ciò è la conseguenza di poche righe contenute in tre commi dell’articolo 19 della legge n. 111, che stabiliscono queste modifiche:

  1. tutte le istituzioni scolastiche del 1° ciclo dovranno essere accorpate in istituti comprensivi;

  2. i nuovi e i vecchi istituti comprensivi dovranno avere almeno 1000 alunni;

  3. le micro-istituzioni scolastiche con meno di 500 alunni non potranno avere il dirigente scolastico titolare, ma saranno affidate in reggenza ad altro dirigente.

Ma perché tutto questo? Quali gli obiettivi della manovra?

Il decreto legge 98/2011 convertito nella legge n. 111/2011 ha disposto la ristrutturazione della rete scolastica con il duplice obiettivo di:

  • garantire nel 1° ciclo di istruzione un processo di continuità didattica, generalizzando il modello di istituti comprensivi;

  • ottenere una consistente riduzione nella spesa per la rete scolastica, quantificabile complessivamente in circa 200 milioni di euro all’anno

  • finanziare per il triennio 2012/2014, con le risorse conseguenti, il sistema nazionale di valutazione

 

Nelle prossime ore su tuttoscuola.com verranno pubblicate progressivamente notizie sul tema, e sarà a breve scaricabile gratuitamente il testo integrale del dossier. Seguiteci.




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tuttoscuola.com mercoledì 31 agosto 2011

 

 

Rivoluzione organizzativa/2: l’accorpamento in istituti comprensivi

 

Attualmente nel 1° ciclo di istruzione funzionano 7.311 istituzioni scolastiche:

  • 2.120 circoli didattici (organizzano scuole dell’infanzia e scuole primarie),

  • 1.198 istituti principali di scuola secondaria di I grado (organizzano soltanto scuole secondarie di I grado, le ex-scuole medie)

  • 3.933 istituti comprensivi (organizzano scuole dell’infanzia, scuole primarie e scuole secondarie di I grado).

Gli istituti comprensivi rappresentano oggi il 54% delle istituzioni scolastiche del 1° ciclo. Nati a metà degli anni ’90 dalla fusione sperimentale di circoli didattici e scuole medie nei territori di montagna e nei piccoli comuni, già al momento d’avvio dell’autonomia scolastica nel 2000 erano arrivati al numero di 3.277, il 43,5% delle istituzioni del 1° ciclo. In dieci anni sono aumentati di oltre 10 punti in percentuale, essendo stati considerati un modello vincente dal punto di vista didattico e organizzativo.

D’ora in poi diventeranno il 100% delle istituzioni scolastiche del settore, in quanto i circoli didattici e gli istituti principali di scuola secondaria di I grado (presidenze di scuola media) scompariranno completamente dal sistema nazionale di istruzione per essere accorpati in istituti comprensivi.

Che vuol dire, in pratica? Nulla accadrà alle singole sedi scolastiche (o punti di erogazione del servizio) dove vivono gli alunni, se non che cesseranno di far parte, ad esempio, di un certo circolo didattico, e diverranno parte di un istituto comprensivo. Quel circolo didattico verrà soppresso, insieme alla relativa presidenza e segreteria amministrativa. Ne consegue che per i docenti e per le famiglie cambieranno in molti casi il dirigente scolastico e il direttore amministrativo di riferimento. Cambieranno anche il consiglio di istituto e il collegio dei docenti, e aderiranno a un nuovo piano dell’offerta formativa (Pof). Dovranno essere eletti nuovi rappresentanti sindacali nelle RSU d’istituto.

Se la manovra finanziaria si fosse limitata a prevedere gli accorpamenti in istituti comprensivi senza mettere mano anche al parametro del dimensionamento (almeno mille alunni), la “rivoluzione” della rete avrebbe riguardato soltanto gli attuali 2.120 circoli didattici e i 1.198 istituti principali di scuola secondaria di I grado, cioè complessivamente quasi il 46% delle istituzioni scolastiche del 1° ciclo (che non è poco), ma, come vedremo, oltre agli accorpamenti vi sarà anche un forte ridimensionamento che toccherà anche i vecchi istituti comprensivi.

Tuttavia anche il solo accorpamento dei circoli didattici e delle presidenze di scuola media, in alcuni territori, scompaginerà l’intera rete, vista la scarsa presenza attuale di istituti comprensivi. È il caso, ad esempio, della Puglia, dove gli attuali istituti comprensivi costituiscono poco più di un quarto (26,7%) di tutte le istituzioni scolastiche del 1° ciclo. Anche la Campania, dove gli istituti comprensivi attualmente non raggiungono il 40%, dovrà mettere mano all’intera rete.

Avranno meno accorpamenti da fare le Marche, dove attualmente gli istituti comprensivi rappresentano già il 75% delle istituzioni del 1° ciclo o il Veneto dove i comprensivi sono il 72,5%.

A Oristano, su 27 istituzioni scolastiche del 1° ciclo, attualmente i comprensivi sono 24.

A Bari, invece, dove le istituzioni scolastiche sono 245, gli istituti comprensivi sono attualmente soltanto 12: dovranno essere accorpate – cioè verranno toccate dalla riorganizzazione – tutte le restanti 233 istituzioni, cioè più del 95%.

 

Istituzioni scolastiche del 1° ciclo – a.s. 2010-11

Regioni

tot. istituzioni scolastiche

circoli didattici

presidenze scuole medie

istituti comprensivi

Puglia

643

273

198

172

26,7%

Campania

977

363

230

384

39,3%

Umbria

118

42

27

49

41,5%

Abruzzo

196

66

41

89

45,4%

Piemonte

478

166

90

222

46,4%

Lazio

624

215

105

304

48,7%

Totale Nazionale

7.311

2.120

1.198

3.993

54,6%

Sicilia

836

253

108

475

56,8%

Liguria

149

38

25

86

57,7%

Friuli Venezia G.

135

32

23

80

59,3%

Sardegna

265

63

39

163

61,5%

Emilia Romagna

387

94

50

243

62,8%

Calabria

370

91

43

236

63,8%

Toscana

361

80

47

234

64,8%

Lombardia

923

189

94

640

69,3%

Basilicata

111

25

9

77

69,4%

Molise

64

12

6

46

71,9%

Veneto

494

84

52

358

72,5%

Marche

180

34

11

135

75,0%

 

Area Geografica

tot. istituzioni scolastiche

circoli didattici

Presidenze scuole medie

istituti comprensivi

Sud

2.361

830

527

1.004

42,5%

Totale Nazionale

7.311

2.120

1.198

3.993

54,6%

Centro

1.283

371

190

722

56,3%

Isole

1.101

316

147

638

57,9%

Nord Ovest

1.550

393

209

948

61,2%

Nord Est

1.016

210

125

681

67,0%

 




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Tuttoscuola.com mercoledì 31 agosto 201

Quale giustizia senza perdono?

Perché il perdono è un tema così decisivo nella nostra vita umana e cristiana?


Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa negazione del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, che noi facciamo a noi stessi e agli altri, che gli altri ci fanno. Il male – nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo  parlare – è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male – dice Gesù – è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cf. Mc  7,20-23; Mt 15,18-20) . Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo (cf. Rm 7,18-19) . Non a caso le domande che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro sono: “Non abbandonarci alla tentazione” e “Liberaci dal male” (Mt 6,13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché ci renda capaci di perdonare i nostri fratelli: “Rimetti  a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).
Il male come azione malvagia ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale… L’uomo si abitua al male, e soprattutto, la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? Non giungiamo perlomeno a sperare il male per chi ci ha fatto soffrire?
Questo è l’istinto di conservazione: vogliamo vivere a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi ci difendiamo attaccando, come gli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e vendetta che finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto interruzione del male, dire no a una logica di morte.
Gesù con la sua vita ha cercato di narrarci il volto di Dio fino a vivere lui stesso il perdono fino all’estremo. Perdono donato anche ai suoi carnefici, ai suoi aguzzini, a chi lo ha condannato a morte e angariato durante la sua esecuzione: “Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno” (cf. Lc 23,34). Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l’insegnamento di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ci ha rivelato Dio quale fonte di ogni perdono. Ecco lo straordinario annuncio dell’Apostolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,8-10) .
È una scandalosa simultaneità: mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo, a tal punto che Hannah Arendt,  filosofa ebrea e non credente, ha scritto: “A scoprire il ruolo del perdono nell’ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret” ( Vita activa. La condizione umana ). Questo è lo scandalo della croce  di Cristo , e solo nella folle logica della croce si può comprendere il perdono di Dio verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi e gli altri.
Ma nel nostro cuore, di fronte a questo perdono così radicale ed esteso, sorge una domanda: e la giustizia? Misericordia, perdono sì, ma la giustizia? Certo, è anch’essa un attributo del Nome di Dio (“… non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”: Es 34,7 ). Ma guai a noi se misurassimo la giustizia di Dio con i nostri criteri umani, se proiettassimo in Dio la nostra giustizia. La giustizia degli uomini è necessaria, capace di sanzionare il male, di arginarlo; ma solo la misericordia sa rendere all’uomo la sua dignità, sa fare del colpevole una creatura nuova, perché l’uomo ha bisogno di giustizia, ma anche di amore e gratuità del perdono. Solo la misericordia permette di fare giustizia senza vendicarsi, senza umiliare il colpevole, e di perdonare senza svuotare la legge, il diritto. Noi cristiani dobbiamo fare un altro passo avanti nella comprensione della giustizia e nel cammino di umanizzazione. È stato il beato Giovanni Paolo II ad aprirci il cammino alla comprensione di come sia possibile coniugare perdono e giustizia. Nel suo Messaggio per la giornata mondiale della pace del 2002 egli ha  confessato che, confrontandosi con la Parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, era giunto a comprendere che il Vangelo esige che il principio “perdono” sia immanente a quello di “giustizia”.
Così ha potuto coniare un’affermazione che dà il titolo al suo testo: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Questo il messaggio che chiede a tutti una prassi di perdono affinché sia possibile edificare insieme una polis, segnata da giustizia, pace, solidarietà comune. Ma Giovanni Paolo II ha anche chiesto che il perdono sia anche una virtù proposta alla comunità civile. Così scriveva: “Solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una ’politica del perdono’, espressa in atteggiamenti sociali e istituti  giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano”.
Questa la risposta alle patologie della società, ai conflitti che dividono gli uomini contrapponendoli tra loro. L’ordine sociale e la costruzione della polis non possono avvenire senza coniugare  giustizia e perdono. Bisogna quindi situare il perdono anche in ambito giuridico: occorre arginare e disarmare il colpevole, occorre la detenzione per impedirgli di reiterare i delitti; ma nello  stesso tempo occorre pensare a una rieducazione, a un cammino di umanizzazione e di reinserimento nella società, mostrando anche la possibilità di un perdono, di un condono. Già ad Atene,  nell’antichità, si conosceva l’amnistia, con lo scopo della riconciliazione nella polis. Nel contesto economico, il perdono può essere esercitato con la remissione del debito dei Paesi poveri, dando  loro la possibilità di un’economia che conosca uno sviluppo. Sì, il perdono, come ha detto Giovanni Paolo II (“Le famiglie, i gruppi, gli stati, la stessa comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale”): a livello giuridico, politico ed economico internazionale non è solo un atto che vuole dimenticare un  passato che altrimenti potrebbe alimentare il conflitto, ma apre a un nuovo futuro. Perdonare è prendere coscienza che è necessario rinnovare la comunicazione, la relazione con l’altro, per non negarlo, per non lasciarlo nella condizione di nemico. Si pensi al perdono reciproco che si è attuato tra neri e bianchi in Sudafrica o a quello tra ebrei e palestinesi al fine di giungere a una pace vera e duratura. Il cammino del perdono è il cammino dell’umanizzazione, è il cammino di Dio per noi uomini.

 

in “Avvenire” del 27 agosto 2011

Una campagna anticattolica?

 

Riprende la campagna mai sopita su Chiesa cattolica e tasse.

 

 

Riportiamo di seguito alcuni contributi per comprendere i dati della polemica e la rispota scaricabile  pubblicata nel volume “La vera questua”

 


Campagna anticattolica
Da 4 anni le stesse bugie


Freezer e microonde sono il toccasana in tante cucine. E pure in certe redazioni. Proprio ieri un “settimanale di politica cultura economia” lanciava una roboante inchiesta dal titolo «La santa evasione», così riassunta: «I vescovi lanciano l’anatema contro chi non paga le tasse, ma i patrimoni della Chiesa vivono di agevolazioni ed esenzioni. Ecco la mappa di un tesoro che conta un quinto degli immobili italiani. E per legge sfugge alla manovra».

Nulla di nuovo. La fonte principale, se non unica, è una vecchia inchiesta di Curzio Maltese apparsa sulla “Repubblica” dal 28 settembre al 17 dicembre 2007, poi raccolta nel volume “La Questua”. A ogni puntata dell’inchiesta seguiva una pagina di Avvenire che confutava, dati alla mano, errori, verità dimezzate e omissioni, lavoro poi confluito nel libro “La vera questua” (scaricabile qui). “Repubblica” non rispose mai né mai corresse i suoi sbagli; ma Maltese ripulì il libro dagli errori più madornali, pur senza mai citare “Avvenire”, esempio perfetto di mobbing mediatico: ci sei ma non esisti.

Nient’altro di nuovo, se non un misterioso «altro libro» di Piergiorgio Odifreddi, che accuserebbe la Chiesa di un’evasione doppia, rispetto a quella denunciata da Maltese.

A sconcertare è l’assenza totale di fonti che i lettori possano controllare. Si citano vaghe «stime» e «calcoli», magari dei «Comuni». Tutto così generico da risultare inattendibile. Si dice, si ripete, si ridice che «la Chiesa non paga l’Ici», ma da quattro anni non facciamo che ripetere la verità: la Chiesa paga l’Ici per tutti gli immobili di sua proprietà che danno reddito, a cominciare dagli appartamenti (vedi la lettera del parroco romano) e dai cinema con caratteristiche commerciali. E se qualcuno non paga ma dovrebbe pagare, sbaglia e va fatto pagare. Ma chi?

L’inchiesta, se così la si può definire, non lo dice. Sbrina e riscalda. E insinua. Afferma che a Roma gli immobili del Vaticano sono grandi evasori. Ma non si prende la briga di chiedere all’Agenzia delle Entrate della capitale l’elenco degli enti non commerciali contribuenti. Comprensibile: se fosse una vera inchiesta, dovrebbe spiegare che Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica) e Propaganda Fide sono al secondo e al terzo posto tra i contribuenti, dietro un importante istituto di previdenza. Quindi paga, eccome se paga. Ma poiché il teorema esige che evada, le cifre dell’Agenzia vanno oscurate, altrimenti farebbero saltare il teorema.

Son fatte così queste “inchieste”. Perfino la Caritas romana viene messa nel mirino come «proprietaria» di ben 70 immobili. La Caritas non «possiede» nulla ma gestisce, in effetti, mense e comunità di recupero per ex tossicodipendenti, case per malati terminali di Aids o per giovani madri in difficoltà… che per il gruppo guidato da Carlo De Benedetti, così in sintonia con le parole d’ordine e le campagne di Radicali italiani e Massoneria italiana, devono fruttare ampi redditi, e quindi vanno ben spremuti.

Nulla di nuovo, dunque. Anche se con ineffabile faccia tosta qualcuno afferma che la Chiesa manterrebbe un imbarazzato silenzio e non avrebbe mai smentito nulla, tutto è già stato ampiamente confutato dal 2007 in poi; ma la campagna militare esige l’applicazione del mobbing mediatico: so perfettamente che ci sei, mi rispondi e cerchi il dialogo, ma ti ignoro e faccio come se tu non esistessi. Via allora con le cifre sparate a casaccio senza citare fonti controllabili. Così gli immobili di proprietà della Chiesa cattolica, in Italia, ieri erano il 30 per cento, oggi calano al 22 e domani chissà… palesi enormità, avvalorate da numeri che si riferiscono a Roma, dove però tutte le congregazioni religiose del mondo hanno una “casa madre” o una rappresentanza, e molte Conferenze episcopali nazionali hanno i loro collegi dove ospitano i propri studenti che frequentano le Pontificie università. Che un collegio di seminaristi o giovani preti, che studiano e pregano, collegio che non produce reddito alcuno ma ha soltanto dei costi, debba pagare l’Ici è una palese sciocchezza. Nessun istituto d’istruzione la paga.

Ma la campagna contro la Chiesa non teme le sciocchezze. Leggiamo infatti l’elogio dell’emendamento dei Radicali «che farebbe cadere l’esenzione dall’Ici (…) per tutti gli immobili della Chiesa non utilizzati per finalità di culto», con questo elenco: «Quelli in cui si svolgono attività turistiche, assistenziali, didattiche, sportive e sanitarie, spesso in concorrenza con privati che al fisco non possono opporre scudi di sorta». La scure decapiterebbe anche innumerevoli ong, enti di promozione sportiva laicissimi, scuole non cattoliche, realtà culturali, politiche e sindacali. Un massacro. E costerebbe una cifra inaudita (la sola scuola paritaria, pubblica esattamente come la statale, fa “risparmiare” 6 miliardi all’anno) a uno Stato costretto a intervenire là dove la Chiesa, e altri, sarebbe costretti a mollare. Ma che importa? La furia demagogica ha bisogno di un facile bersaglio da additare all’odio popolare. E intanto gli evasori, quelli veri, gongolano.

Umberto Folena

 

Qualcosa che impressiona di Marco Tarquinio


– Il Grande Oriente suona la carica | La lettera: «Io, parroco, pago tutto»


– L’OSPITE  Chiesa e non profit: la ricchezza dei poveri di Angelino Alfano

 

 

L’Ici no, ma la Chiesa qualcosa deve fare
di Alberto Melloni

Farebbero malissimo i vescovi a sottovalutare la richiesta che arriva da più parti e che riguarda i «sacrifici» che anche la Chiesa dovrebbe fare nell’indomabile montare della crisi.
È ovvio che in molti casi queste istanze nascondono la stessa faciloneria che ha convinto milioni di italiani che il problema dei debiti sovrani dipenda in Italia dai privilegi dei politici che  esistono e sono odiosi ma non sono certo il cuore della cosa. E dunque potrebbe essere fortissima la tentazione di respingere al mittente tali istanze con argomenti tecnicamente e giuridicamente solidi.
Sui patroni basterebbe ammiccare ai sindaci e agli uffici scolastici per far sì che il calendario delle lezioni reintroduca dalla finestra festività che così verranno sottratte solo ai ceti operai e impiegatizi che non possono permettersi i ponti. Sulle festività che il concordato blinda ci si potrebbe limitare a richiamare la indisponibilità del tema (è la Repubblica che ha deciso insieme alla Santa Sede di mettere sotto l’ombrello di un trattato internazionale le feste dei dogmi di Pio IX e di Pio XII anziché il triduo pasquale: per cui, se ne ha voglia, porti la politica al Papa una legge con allegato il trattato sul triduo di Hans Urs von Balthasar). Sull’8 per mille, materia decisa dal concordato Casaroli-Craxi, i vescovi potrebbero ricordare agli smemorati radicali che gli accordi di Villa Madama prevedevano un riesame in commissione paritetica (nell’infondato timore che la quota stabilita non colmasse la «congrua») e che non è stato un ukaze Cei a impedirlo. Così pure sulle esenzioni Ici i vescovi potrebbero legittimamente rimandare ad una più attenta lettura all’elenco delle Onlus fra le quali (con esiti insostenibili dal punto di vista costituzionale) si chiede di discriminare quelle che hanno «fini di religione», declinati nella libertà della loro espressione.
Così facendo, però, verrebbero meno a quel dovere evocato dal presidente Napolitano nella sua orazione civica di Rimini, e che è una chiamata in attesa di reclute: porsi cioè al livello delle sfide che il Paese non può non affrontare. E qui i vescovi potrebbero cogliere in istanze vulnerabili o populiste una occasione. Il sistema dell’8 per mille, infatti, era stato inventato da grandi  ecclesiastici (Casaroli, Silvestrini, Nicora) per dare alla Chiesa italiana, e non alla Santa Sede, una sua autonomia, specialmente rispetto alla politica: e quel sistema aveva una implicazione di parificazione fra Chiese e religioni che non è stato implementato dallo Stato che ne aveva il dovere.
Se il miliardo e passa di entrate non basta a proteggere la Chiesa da una politica delle blandizie la questione, allora, è ancora più grande.
Il denaro dato alla Cei, infatti, è stato speso (quasi sempre) bene: ha rimesso in sesto un patrimonio che il Fondo edifici di culto del ministero degli Interni non poteva mantenere; ha finanziato tanta solidarietà. Non mancano le ombre: ha certo foraggiato sacche di interessi e comprato consensi in vendita, ha dato fiducia a mezze tacche della finanza o della cultura, ha coperto operazioni meschine (d’altronde, come spiegava un grande cardinale italiano, in fatto di denaro «i preti delinquenti si fidano sempre di delinquenti, perché sono anche loro delinquenti; i preti buoni si fidano dei delinquenti perché sono buoni»). Ma non è lo Stato che può dar lezioni di rigore, se non segna un punto e a capo per tutti.
Quel denaro però ha eroso qualcosa di assai più profondo per la Chiesa italiana: e cioè la sua fede nella povertà come via necessaria della Chiesa, secondo il limpido dettato della costituzione conciliare Lumen Gentium 8. Perché — come ha insegnato l’emersione dei crimini di pedofilia — ogni consiglio evangelico può essere vissuto in modo estrinseco o profondo: e come la superficialità esalta le turpitudini, la sincerità anche debole accresce la virtù. Così la scarsa fiducia, per dir così, nella povertà ha sottratto alla Chiesa una credibilità di cui oggi avrebbe bisogno, per essere  nella svolta che stiamo vivendo fattore di unità profonda del Paese.
Con quella credibilità potrebbe affrontare tutte le questioni sul tappeto difendendo il diritto delle feste religiose di tutti, cercando un punto di ripartenza del senso civico di tutti, insegnando  quel «linguaggio di verità», che il presidente ha evocato sul presente, sui vent’anni ultimi e che forse andrebbe spinto almeno indietro per poter produrre un rinnovamento vero della coscienza civica di tutti.
Qualcosa di limpido e impolitico come un tale atto di fede — con tutte le conseguenze di rigore e di trasparenza che esso comporta — darebbe ai vescovi o comunque accrescerebbe quella autorevolezza di cui hanno bisogno loro, spettatori di rimpianti e di lotte di carriera ecclesiastica spudorate: e di cui ha ancor più bisogno il Paese. Nei giorni più difficili della sua storia  post-fascista — l’8 settembre del 1943, il 9 maggio del 1978 — l’Italia ha trovato nella Chiesa un sostegno infungibile e in quei gesti di coraggio la Chiesa ha guadagnato una credibilità capitalizzata  per decenni. Nessuno può escludere che giorni, per fortuna diversi nella forma, ma non meno impegnativi nella sostanza, siano oggi innanzi al Paese.

in “Corriere della Sera” del 28 agosto 2011

 

 

 

Rassegna Stampa

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30 agosto 2011

 

“«So bene – ha detto Bagnasco… – che il compito è arduo perché si tratta di intaccare consuetudini e interessi vetusti»… ha parlato di «reazione di disgusto» della gente semplice nei confronti, in politica, di «stili non esemplari che sono la norma»… Il vero uomo, ha detto il cardinale, non è quello che ha potere e denaro: «I giovani non vogliono essere ingannati»…”
“Per combattere la corruzione, tornata a galla nelle cronache di questi giorni, bisogna far capire con l’esempio che cos’è il valore della verità… essa va richiesta in modo particolare a coloro che costituiscono, per ruolo o visibilità, modelli di comportamento, [ma] è necessario interrogare in primo luogo se stessi… se abbiamo… la determinazione… di cercare al di là dell’apparenza, di fare fatica. Se si ha voglia, in sintesi, di essere consapevoli o servi”
“Gennaro Acquaviva, che è stato il plenipotenziario di Bettino Craxi per la revisione del Concordato del 1984… non chiede certo alla Chiesa di pensare a «una rinuncia, ma a una riduzione», questo sì, «per coerenza con lo scopo dell’8 per mille»… «Il metodo dei radicali non va bene perché non si può strattonare in questo modo un soggetto come la Chiesa cattolica che letteralmente tiene in piedi e unito il nostro Paese»… Sta alla Cei pensare il da farsi…”

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29 agosto 2011

 

“in un momento di straordinaria gravità, non è lecito attendersi dalla Chiesa un qualcosa di più, un gesto unilaterale e di valore sostanziale e simbolico?”.

28 agosto 2011

 

  • Economia e gratuità di Bernard Ginisty in www.garrigues-et-sentiers.org del 28 agosto 2011 (nostra traduzione)
“È una bellissima cosa che degli economisti ci ricordino che la gratuità non è ristretta in una parentesi vacanziera, ma che essa sola dà senso all’arte di vivere da esseri umani”
“Per la strategia liberista, che ha un’ossessiva paura della memoria, la gente deve dimenticare il suo passato sociale… senz’altro ideale che la religione del danaro. Sono da seppellire le aspirazioni condivise di una vita felice per tutti senza confini, il senso di compiutezza umana provato nel lottare insieme per la giustizia… la constatazione che la fatica e il sangue versato sono seme e nutrimento, la speranza contro ogni speranza, l’esperienza che il pane condiviso è pane moltiplicato e fonte di vita per tutti”
“In Cei lo ripetono da giorni: «E’ sbagliato confondere una tassa come l’Ici con l’otto per mille che è un’intesa tra lo Stato e le confessioni religiose». E una cosa è il Vaticano e un’altra le diocesi con le loro spese per culto e carità. Adesso la protesta esce dai Sacri Palazzi e diventa pubblica. Il quotidiano della Conferenza episcopale punta l’indice contro «Radicali, massoni e il potente partito dell’evasione»”
“Quel denaro però ha eroso qualcosa di assai più profondo per la Chiesa italiana: e cioè la sua fede nella povertà come via necessaria della Chiesa, secondo il limpido dettato della costituzione conciliare Lumen Gentium 8. (…) Così la scarsa fiducia, per dir così, nella povertà ha sottratto alla Chiesa una credibilità di cui oggi avrebbe bisogno, per essere nella svolta che stiamo vivendo fattore di unità profonda del Paese.”
“Per restare con i piedi per terra conviene ricordare pacatamente all’Avvenire che sul Fatto Quotidiano è stata posta sin dall’inizio una domanda fondamentale, che circola nelle teste di tanti cittadini credenti e diversamente credenti. La Chiesa è disponibile o no – di fronte al rischio di crack dell’Italia – a rinunciare volontariamente a una parte delle sovvenzioni statali derivanti dall’8 per mille, visto che tagli pesanti sono imposti a settori vitali come sanità, istruzione, enti locali? È una domanda non acrimoniosa, che nulla disconosce dell’impegno della Chiesa per i più deboli. “
“Oggi, la Chiesa ufficiale, quella del Vaticano e della Cei, è un potente sostegno al potere politico, qui da noi. E davanti a una mobilitazione della pubblica opinione, arcistufa dei privilegi fiscali che quel potere ha concesso al sistema ecclesiastico (una “leggenda nera”, secondo il quotidiano dei vescovi), il tirare in ballo il potere occulto della Massoneria suona a dir poco grottesco. Davvero, come ha scritto Avvenire, si tratta di “Qualcosa che impressiona””
“Impressionante la realtà dell’evasione fiscale. Impressionante la disattenzione verso quell’immenso e bistrattato valore e quella portentosa (ma non inesauribile) risorsa che è la famiglia, e la famiglia con figli. Impressionante la campagna politico-mediatica che è stata scatenata contro la Chiesa per il solo fatto di aver detto tutto questo”

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27 agosto 2011

 

“è anche vero che spesso non c’è trasparenza nella gestione di tutte le risorse materiali della Chiesa cattolica. Un dibattito aperto e partecipato sulle scelte che è possibile operare e sui criteri da seguire alla luce del Vangelo sarebbe un passo importante.”
“Senza grandi gesti, in realtà, basterebbe che l’8×1000 fosse calcolato esattamente per il gettito che dà”
premesso tutto quanto già sta facendo per fronteggiare la crisi e le ragioni dell’attuale regime fiscale, è immaginabile qualche gesto simbolico e liberamente scelto da parte della Chiesa italiana per contribuire al risanamento del debito pubblico?
“Freneticamente alla ricerca di unità d’azione nel luglio scorso, l’associazionismo cattolico si è ammutolito dopo il decreto anticrisi. Eppure ci sarebbe molto da dire da parte cattolica sullo svuotamento dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, sull’evasione fiscale, sui costi della politica. Stupisce particolarmente il silenzio sullo scardinamento – attraverso l’articolo 8 del decreto – del principio della “giusta causa” nei licenziamenti…”
“E’ in giuoco quell’impresa di riappropriazione “pubblica” dei “beni comuni” (al plurale) che pure è stata da più parti segnalata come l’indice di un vento nuovo fatto di insperata coscienza politica e di desiderio di partecipazione” “non va mollata la presa sul tema dei “beni comuni” come tessere di quel più vasto mosaico che è il massimo bene umano possibile, da realizzare non con la delega in bianco a qualcuno ma con il concorso consapevole e il controllo assiduo di tutti.”

26 agosto 2011

 

“”Possiamo rassicurare tutti, compreso Pierluigi Bersani: le mense della Caritas non si toccano e rimarranno esenti dalle fiscalità come del resto tutte le associazioni di assistenza e beneficenza”.” “L’intento del partito di Marco Pannella è quello di far abolire gli sgravi per le attività commerciali svolte da enti ecclesiastici, come per l’appunto quelle ricettivo-turistiche, assistenziali, ricreative, sportive e sanitarie, “equiparandoli a chi fa le stesse cose senza insegna religiosa””
“A questi ricchi italiani non si chiede la metà in solidarietà, ma solo un piccolo contribuito. E se hanno frodato il Fisco non si chiede loro il quadruplo, ma solo il giusto. Quella di Zaccheo è stata una conversione miracolosa. A questi ricchi si chiede solo una conversione all’equità e alla solidarietà semplicemente umane e all’osservanza delle leggi” “… Se n’è accorta finalmente anche la Conferenza episcopale italiana…”
“Anziché tassare i patrimoni dei ricchi, coloro ai quali anche un forte prelievo fiscale non cambierebbe la vita, s’è preferito colpire quell’ammortizzatore sociale italiano per eccellenza che è la famiglia. Unico vero patrimonio del Paese”

 

 

 

Quei giovani dal Papa che sanno scuotere le nostre paure e le fughe nel privato

Un mare di giovani provenienti da tutto il mondo (si calcola che ai momenti di incontro con Papa Benedetto XVI siano stati oltre un milione e mezzo, di cui più di centomila gli italiani).

Una folla gioiosa e festante per le vie di Madrid. Una stupenda tavolozza di colori, di bandiere, di magliette, di volti, un coro di voci di ogni genere, un fiume in piena di canti, di parole, di risate. E poi, quegli stessi giovani raccolti nel silenzio prolungato dei momenti di adorazione, attenti e riflessivi nei tempi delle catechesi, spontanei e generosi, stanchi e felici, pronti sempre a  ricominciare la giornata con entusiasmo. E noi, vescovi e sacerdoti, educatori e catechisti, insieme con loro, a condividere cibo ed esperienze, testimonianza e fatica, fede e gioia profonde, sin dai giorni dei cosiddetti “gemellaggi” nelle principali città della Spagna. Tutto questo e molto di più è stata la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (GMG), tenutasi nella capitale spagnola in questo agosto infuocato. Alcuni media hanno dato evidenza a qualche chiassosa contestazione di “laicisti” radicali (certamente non “laici”, se con questo termine si vuole intendere la  posizione di chi rispetta tutte le posizioni e le identità): la violenza verbale (e talvolta non solo) di qualche scalmanato ha trovato la sua smentita migliore nella risposta del tutto non violenta e serena dei giovani, che hanno semplicemente continuato a cantare, testimoniando gioia e amicizia, simpatia e bellezza della loro scelta di fede.


Stando con questi ragazzi, parlando loro con fiducia e trasparenza, ascoltandoli e vedendoli nei tanti momenti di incontro, non ho potuto non chiedermi quale messaggio venga da loro a tutti noi e alla nostra Europa in crisi economica e morale. Provo a dare qualche risposta, certo però  che ciò che si è vissuto in questi giorni a Madrid ha un potenziale di vita e di speranza ben più grande di quanto immediatamente si possa rilevare. In primo luogo questi ragazzi hanno saputo testimoniare che libertà e impegno non solo non si oppongono, ma sono l’una il volto dell’altro: se si pensa ai sacrifici che hanno affrontato (dormendo per giorni in sacco a pelo nelle condizioni anche più proibitive, e mangiando in una maniera che definire sobria è già molto…) e alla gioia con cui li hanno vissuti, ci si rende conto che nessuno avrebbe potuto costringerli a tanto se non ci fosse stata in ciascuno una scelta libera e consapevole di volerci essere. Qui sta la bellezza dei cammini di preparazione che hanno portato questi ragazzi a vivere la GMG, ma qui emerge anche la straordinaria capacità dei nostri giovani di saper fare scelte consapevoli e responsabili di impegno e di dedizione. Vedendoli, mi è venuta tante volte in mente la frase fulminante di Paul Ricoeur a proposito del rapporto fra libertà e necessità: “C’est l’amour qui oblige”. Solo per amore si fa liberamente quello che nessun obbligo esteriore e nessun oro del mondo potrebbe portarti a fare.


Una seconda impressione che ho ricevuto da questi giovani è quella della loro trasparenza, della lealtà e della limpidezza dei loro occhi, dei loro sguardi, del loro cuore. Il loro stare insieme in un clima di amicizia semplice e festoso, dimostra come tanti, veramente tanti giovani di oggi siano molto migliori di come qualcuno vorrebbe dipingerli nel loro insieme. Di fronte allo scenario della politica non solo nostrana, che  suscita tante volte disaffezione e perfino disgusto, soprattutto quando si sente dai responsabili della cosa pubblica l’appello alla solidarietà e alla rinuncia senza vederne le conseguenze nella vita e nello stile propri di chi queste rinunce le chiede, questi ragazzi sono una sfida vivente a credere che un mondo diverso e migliore sia non solo possibile, ma necessario e urgente. Nel volto e nel cuore di questi ragazzi la speranza torna a essere l’anticipazione militante dell’avvenire, la passione per ciò che è possibile e bello per tutti, l’inizio di quel mondo nuovo che tira nel presente degli uomini qualcosa della bellezza del futuro promesso di Dio.


Infine, è la radice profonda del comportamento dei giovani a Madrid che mi sembra debba far pensare tutti: essi ci sono andati per ascoltare parole forti, tutt’altro che accomodanti, come quelle che Benedetto XVI sa dire con la sua intelligenza e la fede del suo cuore. Il loro ascolto, il loro entusiasmo li ha accomunati al di là delle differenze e perfino delle distanze di lingue, di culture, di condizioni sociali e politiche, dimostrazione ineccepibile di come il Vangelo sia ancora oggi e forse ancor più che in altri momenti della storia buona novella per amare, sperare e dare la vita per gli altri. E il Vangelo è sfida e dono a vivere quell’esodo da sé senza ritorno in cui consiste propriamente l’amore: un amore certo impossibile alle sole capacità umane, ma che diventa possibile con la grazia di Dio. Questo possibile, impossibile amore hanno incontrato e annunciato i giovani convenuti a Madrid: l’alternativa al vuoto di valori, all’assenza di senso, all’evasione egoistica e inconsistente, esiste, ed è l’impegno di amore al servizio del bene comune, sostenuto dalla fede e dall’amore che il Dio crocifisso ha offerto alla storia di tutti.

Mi chiedo se da questi giovani non venga a tutti noi una proposta capace di scuotere le nostre paure, i nostri calcoli mediocri, le nostre fughe nel privato. La proposta di un Dio più che mai giovane, attuale e necessario come giovane e necessario è per tutti l’amore, per vivere e dare senso e bellezza alla vita.

in “Il Sole 24 Ore” del 21 agosto 2011


Le parole del Papa



I testi integrali dei discorsi e delle omelie di Benedetto XVI alla Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid, nel sito del Vaticano:   > JMJ 2011 Madrid


GMG di Madrid online!
Racconta live la tua esperienza



iGMG è un’applicazione creata in occasione della Giornata Mondiale delle Gioventù 2011 di Madrid. Ricca di contenuti audio e video sarà la tua compagna di viaggio in questo evento popolato da giovani di tutto il mondo. All’interno di questa applicazione troverai un diario giornaliero che ti permetterà di appuntare, giorno per giorno, i luoghi visitati, le esperienze vissute, una piccola riflessione; inoltre potrai aggiungere gli amici conosciuti, scattare foto o registrare dei video e tenerli “inseriti” nella giornata in modo che questi momenti diventino ricordi indelebili della tua vita. Sarà possibile anche condividere tutto ciò sulla tua bacheca di Facebook.

Guarda l’articolo – 6/07/2011

La prossima GMG da Madir a Rio de Janeiro



Da Madrid il cuore guarda già a Rio de Janeiro, dove si svolgerà la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, dal 23 al 28 luglio 2013.
Nell’udienza generale di mercoledì 24 agosto, il Papa ne ha presentato anche il tema, tolto dal Vangelo: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19).
Con ancora negli occhi e nel cuore la “formidabile esperienza di fraternità e di incontro con il Signore, di condivisione e di crescita nella fede” vissuta tra i circa due milioni di giovani di tutto il mondo che hanno partecipato alla Gmg di Madrid, il Papa ha voluto immediatamente avviare la preparazione del prossimo appuntamentio che avrà una tappa significativa nella prossima domenica delle Palme, quando la Gmg sarà celebrata a livello diocesano attorno all’espressione paolina “Siate sempre lieti nel Signore” (Fil 4,4).
Ripercorrendo i momenti delle giornate di Madrid – “un grande dono” – Benedetto XVI ha espresso le emozioni suscitate dall’entusiasmo con il quale i giovani e la Spagna lo hanno accolto e accompagnato fino alla celebrazione conclusiva, avvenuta domenica scorsa, 21 agosto.
L’impressione più viva che il Papa ha detto di conservare “con gioia nel cuore” è quella che hanno saputo suscitare i circa due milioni di giovani presenti, con la loro disponibilità a portare nel mondo “la speranza che nasce dalla fede”.

Dopo Madrid.

Come Benedetto XVI ha innovato le GMG


Sono almeno tre le novità che con questo papa caratterizzano le Giornate Mondiali della Gioventù:

gli spazi di silenzio, l’età giovanissima, la passione di testimoniare la fede nel mondo.Dopo ogni suo viaggio fuori d’Italia, Benedetto XVI ama tracciarne un bilancio nell’udienza generale del mercoledì successivo.

Fece così dopo la Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia, nell’agosto del 2005:

> Riflessione sul pellegrinaggio a Colonia

Non lo fece invece tre anni dopo, di ritorno da Sydney, perché era luglio e in questo mese le udienze generali sono sospese. Ma il papa commentò più tardi quella sua trasferta australiana nel discorso che tenne alla curia romana per gli auguri di Natale del 2008, riprodotto in questo recente servizio di www.chiesa:

> A Madrid risplende una stella

Questa volta, di ritorno da Madrid, ecco la riflessione che mercoledì 24 agosto Benedetto XVI ha dedicato alla terza Giornata Mondiale della Gioventù del suo pontificato:

> “Oggi vorrei riandare brevemente con il pensiero…”

Da questa e dalle sue precedenti riflessioni, è evidente che Benedetto XVI vede le Giornate Mondiali della Gioventù come un momento saliente della sua missione di successore di Pietro.

A una semplice osservazione esterna, questi ultimi raduni mondiali manifestano almeno tre caratteri distintivi e nuovi, che a Madrid sono apparsi con particolare visibilità.

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Il primo è il silenzio. Un silenzio prolungato, intensissimo, che cala nei momenti chiave, in una marea di giovani che fino a subito prima esplodevano di gioia festante.

La Via Crucis è uno di questi momenti. Un altro, ancor più impressionante, è quello dell’adorazione dell’ostia santa durante la veglia notturna. Un terzo è stato quello della comunione durante la messa conclusiva.

L’adorazione silenziosa dell’ostia santa è un’innovazione introdotta nelle Giornate Mondiali della Gioventù da Benedetto XVI. Il papa si inginocchia e con lui si inginocchiano sulla nuda terra centinaia di migliaia di giovani. Tutti protesi non al papa ma a quel “nostro pane quotidiano” che è Gesù.

Il violento scroscio temporalesco che a Madrid ha preceduto l’adorazione eucaristica, creando notevole scompiglio, ha reso ancor più impressionante l’irrompere di tale silenzio. E altrettanto è accaduto la mattina dopo, nella messa. L’inaspettata cancellazione della distribuzione della comunione – per non chiarite ragioni di sicurezza – non ha prodotto disordine e distrazione nella distesa sterminata dei giovani ma, al contrario, un silenzio di compostezza e intensità sorprendenti, una “comunione spirituale” di massa di cui non si ricordano precedenti.

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Un secondo carattere distintivo di quest’ultima Giornata Mondiale della Gioventù è l’età media molto bassa dei convenuti, 22 anni.

Questo significa che molti di essi vi hanno preso parte per la prima volta. Il loro papa è Benedetto XVI, non Giovanni Paolo II, che hanno conosciuto solo da bambini. Essi sono parte di una generazione di giovani e giovanissimi molto esposta a una cultura secolarizzata. Ma sono nello stesso tempo il segnale che le domande su Dio e i destini ultimi sono vive e presenti anche in questa generazione. E ciò che muove questi giovani sono proprio queste domande, alle quali un papa come Benedetto XVI offre risposte semplici eppure potentemente impegnative e attrattive.

I veterani delle Giornate Mondiali della Gioventù c’erano, a Madrid. Ma soprattutto tra le decine di migliaia di volontari che si sono prestati per l’organizzazione. O tra i numerosi sacerdoti e religiose che hanno accompagnato i giovani, e le cui vocazioni sono sbocciate proprio in precedenti Giornate Mondiali della Gioventù. È ormai assodato che questi appuntamenti sono un vivaio per le future leadership delle comunità cattoliche nel mondo.

*

Un terzo carattere distintivo è la proiezione “ad extra” di questi giovani. A loro non interessano affatto le battaglie interne alla Chiesa per un suo ammodernamento al passo con i tempi. Sono lontani anni luce dal “cahier de doléances” di certi loro fratelli maggiori: per i preti sposati, per le donne prete, per la comunione ai divorziati risposati, per l’elezione popolare dei vescovi, per la democrazia nella Chiesa, eccetera eccetera.

Per loro, tutto questo è irrilevante. A loro basta essere cattolici come papa Benedetto fa vedere e capire. Senza diversivi, senza sconti. Se alto è il prezzo con il quale siamo stati salvati, il sangue di Cristo, alta dev’essere anche l’offerta di vita dei veri cristiani.

Non è la riorganizzazione interna della Chiesa, ma la passione di testimoniare la fede nel mondo a muovere questi giovani. Il papa glielo stava per dire con queste parole, nel discorso interrotto dal temporale:

“Cari amici, non abbiate paura del mondo, né del futuro, né della vostra debolezza. Il Signore vi ha concesso di vivere in questo momento della storia, perché grazie alla vostra fede continui a risuonare il suo nome in tutta la terra”.

Il vaticanista americano John L. Allen ha definito i giovani convenuti a Madrid “Evangelical Catholics”:

> Big Picture at World Youth Day: ‘It’s the Evangelicals, stupid!’

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La nota di Catholic News Service a proposito della “comunione spirituale” durante la messa conclusiva:

> ‘Spiritual Communion’: Youths learn a traditional concept the hard way

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Su un’altra innovazione introdotta da Benedetto XVI nell’ultima Giornata Mondiale della Gioventù:

> Papa Benedetto confessore. L’esordio a Madrid

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di Sandro Magister


Altri contributi sulla GMG:

26 agosto 2011

“Un ebreo, Benjamin, due musulmane, Farah e Dieynaba, degli scout col fazzolettone, dei membri del Movimento eucaristico dei giovani, dei fan di Taizé, degli accompagnatori di giovani nella loro diocesi, una persona convertita da poche settimane… I giovani del gruppo Coexister hanno passato la settimana a Madrid. Alla GMG, hanno fatto molti incontri che hanno portato a grandi dibattiti: con i giovani cristiani del mondo intero, ma anche tra loro”
“È molto difficile esprimere una valutazione della GMG da poco terminata a Madrid in questo mese d’agosto 2011, appena scesi dal pullman di ritorno da Madrid… desideravo sostenere e accompagnare i giovani dell’associazione Coexister che avevano deciso di parteciparvi insieme, cattolici, musulmani ed ebrei”

24 agosto 2011

L’arcivescovo di Madrid: «Il Papa si è comportato come un padre, ha voluto incontrare tutti. Abbiamo sperimentato l’espressione concreta della comunione». Yago de la Cierva: nelle difficoltà i ragazzi sono stati un esempio di civiltà.

Annuncio vocazionale che vince la mediocrità di Antonello Mura

– Madrid rilancia l’evangelizzazione

– E anche l’economia sorride

22 agosto 2011

“La massa di ragazzi convenuta dai cinque continenti e da ben 193 Paesi, nonostante prima l’afa, poi la tempesta, quindi la mancanza d’acqua e poi una notte quasi insonne, hanno accolto con gioia e passione ancora ieri mattina Benedetto XVI nell’immenso campo attorno alla base aerea… Per molti osservatori il Papa è uscito dalla Spagna non solo con un successo rafforzato di immagine, ma anche con un risultato politico concreto”
“«Se Dio è buono, perché mi ha caricato di così tanto dolore», chiede il giovane cattolico Pablo, dopo aver visto due milioni di suoi coetanei, cantare e pregare per eccesso di gioia”

21 agosto 2011

Dal Rapporto del Censis emerge un volto dei giovani italiani di oggi ben diverso: “non hanno alcuna fiducia nella lotta collettiva per cambiare il mondo e dunque preferiscono adattarsi.”
“Il mondo va a rotoli, l’Europa barcolla, lo spettro del collasso dell’economia aleggia nel Vecchio Continente, il futuro è incerto soprattutto per le giovani generazioni, ma nell’ultima settimana Madrid è stata pacificamente invasa da un pezzo di umanità che non sembra segnata dalla paura e dal pessimismo”

20 agosto 2011

“Tra questi Antonio, pugliese che studia a Roma, e che tutti i venerdì sera distribuisce la cena alla persone che vivono per strada a Porta Pia. E Irene, al terzo anno di liceo, che a Novara si occupa del catechismo ai bambini rom. E Lena, che ad Anversa tutti i sabati fa un doposcuola per bambini di diverse nazionalità per favorire l’integrazione. Il Papa li ha guardati e benedetti tutti.”
“…Poi però parli con loro (senza microfono) e scopri che le preoccupazioni ci sono, e ci sono anche le sofferenze; c’è a volte la malattia, c’è il senso di precarietà causato dalla mancanza di lavoro. Ma non c’è angoscia. C’è, al contrario, una profonda fiducia nell’uomo e nelle sue risorse, perché tutti vivono una fede che non è fondata su una teoria o su una filosofia. Dicono di aver fatto l’incontro che ha cambiato la loro vita.”
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19 agosto 2011

Benedetto XVI e la verità. “E’ nel dialogo, è nell’incontro con l’alterità che ci si accosta alla verità. Lì imparo a non vedere me stesso e le mie idee come il tutto, come un assoluto. Senza questo atteggiamento, la religione diventa ideologia. Un atteggiamento che, se applicato fino in fondo, avrebbe secondo me conseguenze di vasta portata nella Chiesa cattolica.”
“La Giornata mondiale umanitaria, celebrata oggi, rappresenta un’opportunità per esprimere il nostro apprezzamento e gratitudine per le donne e gli uomini che lavorano in condizioni difficili e, talvolta, pericolose e che dedicano il loro lavoro e le loro vite al servizio dell’umanità”
“Chiede loro [ai giovani] di non cedere «agli impulsi ciechi ed egoisti, alle proposte che lusingano, ma che… lasciano il vuoto»… Nella terra del laico Zapatero mette in guardia da coloro che… si arrogano il diritto di decidere ciò che è la verità, il bene e il male, ciò che giusto o ingiusto, sino a chi è degno di vivere e chi no… la polemica del Papa non è diretta. Non spinge ad uno scontro ideologico con la cultura laica. Rivendica il contributo positivo dei valori cristiani”
“resta particolarmente importante chiarire cosa s´intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; come non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici… in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza”
“Guardando i volti dei cinquemila autoconvocati dei centri sociali, dei partiti comunista e repubblicano, delle associazioni laiche come anche dei cristiani di base e di altre associazioni cattoliche fermamente contrarie all’opulenza del cerimoniale approntato, e confrontandoli con quelli dei gruppi di pellegrini, fedeli e scout raccolti per festeggiare Benedetto XVI si ha l’impressione di guardare le stesse persone, due facce della stessa medaglia.”
” non è fatta di “bambini papalini” la gioventù che arriva alle Giornate. È’ uno spaccato di carne viva di una generazione (o di una fascia di generazione), che cerca solidarietà, fraternità, autenticità di valori e il difficile dialogo con quel soggetto misterioso chiamato Dio” Ma “Nessuno vuole mai ascoltarli (i giovani) su come loro vorrebbero vedere la Chiesa nel terzo millennio. Vescovi, cardinali e papi li considerano come persone da “orientare”.

18 agosto 2011

“La sera di mercoledì 17 agosto erano parecchie migliaia i partecipanti alla marcia organizzata da più di un centinaio di associazioni di laici, atei e cristiani progressisti, appoggiati dagli “indignati” per denunciare il costo delle Giornate Mondiali della Gioventù (GMG), che si svolgono a Madrid a partire dal 15 agosto.””
“Buenos catolicos y catolicas usan preservativos” “spiace vedere giovani cattolici (quelli con la maglietta rossa e quelli con lo zainetto) non entrare in dialogo e restare separati per una questione di idee. In mezzo ai tanti incontri e alle tante catechesi che si tengono in questi giorni, forse non sarebbe stato male organizzare anche una tavola rotonda…” (ndr.: finalmente un giornalista che fa il suo mestiere: informa e riflette)
“La “profezia” di questa Gmg2011, celebrata solo otto mesi dopo la conclusione di quel 2010 che nella storia della Chiesa verrà certamente ricordato come “l’anno zero” dell’istituzione clericale, consiste anche in quel milione e mezzo di famiglie che, inviando i loro figli poco più adolescenti a Madrid, dimostrano di fidarsi ancora del cattolicesimo. Perché hanno un Papa che, quando parla, è umile e dice sempre la verità.”(ndr.: Non è solo Gesù Cristo la via la verità e la vita? l’enfasi sui numeri sa tanto di prova muscolare più che di prova evangelica)
“Bisogna affrontare il problema con saggezza e prudenza, ma non si può fare finta di niente e accantonare l’intera questione come accaduto negli ultimi anni. Con una crisi sempre più prepotente e in una società così precaria è pericoloso se le persone si sentono escluse, e Londra non è poi così lontana…”
“Può la Chiesa italiana rifiutarsi di affrontare nella fase attuale la questione dell’8 per mille, che pesa sul bilancio dello stato per oltre mille milioni?” “La via maestra, la più dignitosa per la Chiesa, è che la Cei nella seduta del suo prossimo Consiglio permanente a settembre annunci di lasciare allo Stato una quota cospicua dei finanziamenti”.
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17 agosto 2011

“Per alcuni atei, il mantenere l’identità europea sarebbe un motivo sufficiente per mettere da parte la lunga inimicizia tra loro e le chiese””a differenza degli Stati Uniti – dove le dispute fra atei e credenti sono aspre e persistenti – in Europa i non credenti conservatori hanno trovato alleati pronti in alcuni leader religiosi del continente, in particolare in papa Benedetto XVI”
“Pur mostrandosi all’attacco per quanto riguarda il posto del cattolicesimo in Spagna, il cardinale Antonio Maria Rouco Varela ha fatto molta attenzione a non esprimere critiche nei confronti del governo socialista e a non ricordare le leggi contro le quali la Chiesa si è levata in questi ultimi anni, come il matrimonio omosessuale o la liberalizzazione dell’aborto. Una netta differenza rispetto ad altri discorsi od omelie sentite nel passato”
“il 75% della popolazione spagnola continua a dichiararsi cattolico (tra i giovani il 53%)… ma solo il 15% degli spagnoli va a messa “quasi tutte le domeniche” (tra i giovani il 9%)… Evaristo Villar, prete e teologo… portavoce dell’associazione Redes cristianas (reti cristiane) che parteciperà ad una manifestazione contro la celebrazione delle GMG: “La separazione del trono e dell’altare fa parte del messaggio di Cristo. Ora, la gerarchia cattolica della Chiesa spagnola, che gode di molte sovvenzioni, fa troppa politica e assume posizioni retrograde che dimostrano le sue reticenze a modernizzarsi””
“da Papa teologo ha cercato di trasmettere con immagini vive ai ragazzi della GMG i misteri della fede cattolica, come quando a Colonia, sei anni fa, paragonò il cambiamento che avviene nella consacrazione eucaristica alla fissione nucleare” (ndr.:Non mi sembra che il neoediorialista della Stampa, già vaticanista del Giornale, abbia scelto l’esempio migliore. I misteri della fede non hanno bisogno di queste pseudodelucidazioni scientifiche, che hanno l’effetto di confondere più che di chiarire. Utilizzare poi la fissione nucleare, la rottura del nucleo di un atomo, per “spiegare” l’eucaristia, cioè l’espressione della massima unione possibile, del massimo amore, è davvero troppo. Non è oltretutto un’idea originale, già utilizzata da altri nel passato per “spiegare” l’immagine della sindone, suscitando giustificata ilarità. Un maggiore spirito critico non guasterebbe)



Meatig di rimini 2011: E l’esistenza diventa una immensa certezza

Domenica 21 agosto 2011 – Sabato 27 agosto 2011 “


E l’esistenza diventa una immensa certezza” è il titolo scelto per la XXXII edizione del Meeting. Esso parte da una constatazione, semplice e al tempo stesso drammatica: nella mentalità più diffusa ai nostri giorni, nella coscienza con cui ciascuno di noi affronta le sfide e le fatiche del vivere, sembra che non sia più possibile alcuna vera certezza.

È qui, al fondo di noi stessi, che si rivela la radice nascosta delle tante “crisi” del nostro tempo: esse non segnano soltanto la messa in discussione o la perdita di certezze che si credevano acquisite – nella politica come nell’economia, nelle scienze come nell’etica, nella cultura come nella convivenza sociale – come è spesso successo in altre epoche storiche. Quello che è in gioco oggi, nell’epoca attraversata dalla grande ombra del nichilismo, è qualcosa di più radicale, e quindi più radicale è la sfida che essa ci pone: gli uomini non sarebbero più capaci di certezza, e anzi ogni certezza sarebbe una nostra costruzione, e alla fine nient’altro che una grande illusione.

Quando pensiamo al senso della nostra esistenza non siamo forse tutti tentati, come figli del nostro tempo, di ritenere che la nostra origine e la nostra destinazione siano in balìa della sorte, e che in definitiva nulla possiamo rispetto alle forze incontrollabili di un fato cieco e di un’insensata casualità? Eppure gran parte del pensiero “moderno”, per il quale l’uomo è l’unico, vero artefice del proprio destino, senza bisogno di riferirsi ad un senso più grande di sé, aveva preteso di fornire una strategia “scientifica” e “politica” che dominasse l’incertezza del vivere, il rischio mortale della solitudine e dell’insensatezza, fonte di risentimento e di violenza. Le uniche certezze di cui ancora disponiamo – così si pensa – sono quelle prodotte dal controllo tecnologico del mondo. Tutto il resto, valori ed emozioni, sentimenti ed opinioni, appartiene al gioco del relativismo.

Eppure noi ci accorgiamo sempre più che la realtà, sia a livello naturale che sociale, è molto meno controllabile di quanto si creda, e soprattutto scopriamo che l’esistenza dell’io è sempre più indebolita nelle sue ragioni. «A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato», ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman, è la percezione che «la nostra impotenza sia incurabile». Tutta la partita dell’esistenza si gioca qui, nella certezza o nell’incertezza riguardo al motivo per cui ciascuno di noi è al mondo. Il Meeting proverà a raccogliere questa sfida del nostro tempo, riaprendo una partita da molti dichiarata ormai chiusa. E lo farà, come è suo stile, non in virtù di una più scaltra analisi culturale e politica, ma a partire dall’esperienza in atto di persone che non si accontentano di concepire la propria esistenza come destinata al nulla. Uomini e donne che non censurano il peso dell’incertezza né si sottraggono al lavoro che essa esige, ma che la vivono come il segno evidente che non siamo i padroni di noi stessi, ma siamo in rapporto con qualcosa di Altro, che continua a sopraggiungere alla nostra vita. Prima di ogni calcolo sulle nostre capacità o incapacità, la percezione di fondo del nostro io è quella di una certezza. E non una sicurezza a buon mercato o una garanzia a nostra disposizione, ma una certezza di appartenenza: siamo di qualcuno. Inizialmente noi siamo certi di noi stessi, perché ci viene incontro il volto di nostra madre e ci viene offerto il suo seno. È la prima percezione del vivere, che resta poi come una costante, anche se nascosta o soffocata. Prima di ogni incertezza c’è una certezza: essa è un dato, un incontro, un invito. Il Meeting cercherà di raccontare e testimoniare questo lavoro dell’io che riparte dall’evidenza di un incontro, di tutti quegli incontri in cui si rende presente in carne ed ossa il significato per cui vale la pena vivere, amare, costruire e anche soffrire. La certezza che cerchiamo non è un’ideologia o una strategia o una convinzione psicologica, ma è quella che ci fa riconoscere ciò che già “siamo”. Non tanto che le cose andranno a posto come pensiamo noi, ma che noi stessi siamo in rapporto con Chi ci fa continuamente.

Per questo l’esistenza, come dice il titolo del Meeting, diventa una certezza: non si tratta infatti di sapere in anticipo quello che accadrà a noi e nel mondo, ma di essere disponibili a farci provocare da ciò che accade, cioè a chiederne il senso e a riconoscerne la ragione. E la certezza è immensa proprio perché non è un nostro prodotto, ma la scoperta di ciò che ci raggiunge e chiede ogni volta di noi. Questa certezza non potrebbe esistere senza la nostra libertà. E in fondo anche il Meeting è un modo per prendere sul serio l’invito che ci proviene ogni giorno dagli avvenimenti e dagli incontri che accadono: l’invito a rispondere con tutta la nostra attesa, mettendo sempre in gioco la nostra inquietudine

 

 

 

 

Segnare la svolta di un’epoca. Le parole che mancano ai cattolici


La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un  «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani.

In questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel ’29  e nell’89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede. Questi non sono i tempi di Gregorio Magno, che davanti alla fine di un’era, raduna il popolo in basilica per spiegare il profeta Ezechiele. Non sono i tempi di papa Giovanni, che nel montare del fatalismo atomico, scardina i parametri dottrinali della guerra giusta.Sono i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale. E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte, Nel Medio Oriente sunnita esplode una jihad nella quale il nome di Dio non viene usato per aggredire, ma per sopportare, senza che chi ne ha giustamente criticato le perversioni violente ne sappia dare una lettura. Un assassino psicotico norvegese trascina fuori dall’oscurità il fondamentalismo di antisemiti classici, omofobici aggressivi, tradizionalisti paranoidi, monoculturalisti fascisti, che il diritto penale e canonico hanno ignorato, prima e dopo quel crimine.


Il genio di personaggi come Pacelli, Adenauer, De Gasperi e Schuman che — parlando in tedesco e pensando in cattolico — hanno dato all’Europa un orizzonte politico di pace, viene irriso per mesi dall’egoismo tedesco senza che il discorso cattolico sappia uscire dal vittimismo delle radici, dall’euforia dei crocifissi e dall’ossessione dei diritti dei gay.

La guerra di Libia suscita proteste periodiche del Papa che cadono nel vuoto di una Chiesa più sensibile allo spiritualismo che alla realtà. E quel pezzo di Africa che annega fra la Sirte e Lampedusa estorce qualche senso di colpa alle anime colte, ma alla fine viene trattato come una fatalità che non deve essere capita, ma accettata. La forza che ha avuto la Chiesa in transizioni di magnitudo comparabile a questa — nel VI secolo si diceva, ma anche nell’XI e nel XVI con le riforme, nel XX con il Concilio — è stata quella di saper leggere i processi storici nella loro globalità: trovarne quella chiave supremamente sintetica che, a partire dall’atto di fede in Gesù Cristo morto e risorto, sa indicare le vie di un nuovo tempo e preparare quel che è già tutto scritto nelle premesse presenti. Oggi questo atto — reso più urgente dal tragico nanismo delle leadership politiche — tarda a farsi sentire.

Eppure solo l’intuito spirituale di una comunità globale come quella cattolica può dire con autorevolezza che, se crolla un’Europa poco amata, non finisce l’euro, ma la pace. Può spiegare alla luce del proprio tesoro di insegnamenti sulla sobrietà e la condivisione che il crollo di uno stile di vita è un’opportunità di giustizia o l’anticamera del cannibalismo economico. Ma la Chiesa sa anche che per ogni profezia c’è un tempo opportuno, un «kairós», perduto il quale resta solo il peso silenzioso della penitenza: anche questa testimoniata dalle lunghe epoche buie della sua storia.

Sarebbe stupido e irriverente pensare che il dire tocchi al Papa o che l’afasia di questi mesi sia la sua. Certo Benedetto XVI ha certo modo di farsi sentire: in questi giorni a Madrid davanti a milioni di ragazzi, soprattutto a Berlino nel discorso al Bundestag di settembre, a ottobre alla preghiera interreligiosa di Assisi. E quel che dice resterà. Ma è dalla Chiesa come communio che il mondo attende una lettura del tempo che mostri la capacità di rompere quella omologazione ai riti del potere e dei media. È la communio che permette di leggere un tempo che deve essere trattenuto dalla tendenza a diventare prebellico proprio da una forza spirituale che lo lega, se sa di essere una forza e se sa di essere spirituale.


in “Corriere della Sera” del 20 agosto 2011

 

 

De Rita: “Fragili e sfiduciati, rinunciano ad indignarsi”

 

 

intervista a Giuseppe De Rita

 


Giovani esclusi da ogni prospettiva di futuro. Ma anche incapaci di scosse perché troppo fragili. E circondati da una società rattrappita. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, ragiona sul presente e futuro della generazione dimenticata dalle manovre e dai mercati.


Una generazione sfiduciata…
«La sfiducia dei giovani si ricollega a una sfiducia nel sistema. Non è la crisi a paralizzarli. Ma la barra abbassata sul futuro da un sistema incapace di tornare a fare sviluppo. Questo crea disagio».


Perché non si indignano?
«Se facessero come a Madrid o al Cairo, non sarebbero capiti. E poi qui non succederà».


Perché?
«Perché non hanno alcuna fiducia nella lotta collettiva per cambiare il mondo e dunque preferiscono adattarsi. E poi perché non esiste alcuna rappresentanza. I sindacati difendono l´articolo 18 e le pensioni. Le altre organizzazioni si occupano dei loro perimetri, i loro orti».


Come si adattano i giovani italiani?
«Nell´unico modo possibile da noi: il sommerso, l´arte di campare comunque, di arrangiarsi. Quella è la strada. Ma il sommerso non crea sviluppo».


In questo la politica non li aiuta.
«La politica conta poco. Anche se le nostre parti sociali non danno speranze o segnali. Solo tavoli. Nel ‘70 c´erano autunni caldi, l´arrivo al potere del Pci, la crisi della chimica e della grande industria, il governatore Baffi costretto a chiedere ai petrolieri di non attraccare al porto di Napoli perché non c´erano soldi. Eppure la scossa individuale alla ripresa portò a un milione di imprese,raddoppiandole».


E oggi la scossa perché non arriva?
«Da una parte la società è tutta rattrappita: imprenditori, Stato, Comuni, spesa pubblica, ripiegati su loro stessi. Dall´altra, i giovani sono fragili psichicamente e nella capacità a vivere la professione.
Anche perché hanno studiato cose che non servono. E questo non li aiuta a fare da sé, a sviluppare una professionalità propria».


La crisi li ha sommersi.
«Certo. Ma il sistema ha retto: il reddito della famiglia, la casa di famiglia e appunto il sommerso. I giovani si sono sentiti protetti e si sono adattati. Ma questo non si tradurrà in piccola impresa e lavoro autonomo, come negli anni ‘70».


in “la Repubblica” del 21 agosto 2011


Una grammatica per dialogare

«Non ritenere vittoria l’usare la violenza contro una forma di culto o un’opinione. Farai dunque così: cesserai di polemizzare con gli altri e parlerai della verità in modo che tutte le cose dette siano inattaccabili… Io sono consapevole di non avere mai polemizzato contro greci o altri, perché penso sia  sufficiente, per uomini onesti, poter conoscere ed esporre il vero in se stesso… Ciascuno infatti afferma di possedere la moneta regale, ma in realtà ha forse appena l’immagine ingannevole di una particella di verità». Milleduecento anni prima che Voltaire intonasse il suo inno alla tolleranza (per altro rivolto in forma orante al «Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e dei tempi»), tra il V e il VI secolo, un oscuro monaco nascosto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita intesseva questo programma di confronto teorico e personale, con l’orizzonte in cui era immerso, un programma concretizzato nei suoi scritti che si rivelavano come un’originale riformulazione della dottrina cristiana usando la strumentazione del pensiero neoplatonico. Siamo partiti così  lontano per proporre un tema che è iscritto nel Dna del cristianesimo, anche se spesso si sono assunti vigorosi anticorpi per estenuarne l’energia. Infatti, era già l’apostolo Pietro che ammoniva così i suoi interlocutori dell’Asia Minore nella prima delle due Lettere a noi giunte sotto il suo patronato: «Siate  pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi, ma questo sia fatto con dolcezza, rispetto e retta coscienza» (3, 15-16).


I nemici del dialogo – questo è appunto il tema a cui rimandavano san Pietro e lo Pseudo-Dionigi –sono molteplici e spesso antitetici tra loro. Da un lato, il fondamentalismo integrista che mette mano subito alla spada per un duello; d’altro lato, il sincretismo che gorgheggia in un duetto confuso e incolore. Da una parte, ecco la rigidità intellettuale scambiata per rigore; d’altra parte, l’approssimazione vaga che impedisce la pesatura delle argomentazioni,  perché sui piatti della bilancia si deposita solo nebbia o mucillagine ideologica. Certo, il dialogo è faticoso, talora arduo, anche perché – come suggerisce l’etimo stesso del vocabolo – è l’attraversamento (dià) di un lógos, ossia di un discorso scomponendone tutti i segmenti argomentativi e, se si vuole, è anche l’incrociarsi (dià) di due lógoi di matrice diversa se non opposta. Ai nostri giorni s’imbocca spesso la via in discesa dello scontro immediato, senza ascolto o verifica dell’altrui pensiero, nella tipica aggressività inconcludente e pirotecnica del talk-show televisivo. La forza dimostrativa più alta è nell’insulto («Capra, capra, capra…!») oppure nel più pacato ma sempre “esclusivo” asserto dello statista vittoriano Disraeli: «Il mio concetto di persona piacevole è quello di una persona che è d’accordo con me». La difficoltà del dialogo raggiunge picchi alti quando di mezzo sono le religioni con le loro concezioni dogmatiche e le loro concrezioni secolari: ci sono ormai volumi e volumi di documenti che attestano il costante e non di rado infruttuoso sforzo di un insonne dialogo interreligioso ed ecumenico.


Per non parlare poi del confronto all’interno della stessa singola confessione religiosa ove i conservatori scagliano anatemi contro chi, a loro avviso, cavalca oltre le frontiere dell’ortodossia e questi ultimi sbeffeggiano e scandalizzano quei tiratardi inconcludenti. Ecco perché è da tenere stretto tra le  mani il libro di un teologo francese, Jean-Marie Ploux, 74 anni, che – sulla base anche di una lunga esperienza pastorale – ha elaborato una sorta di  grammatica del dialogo come impegno irreversibile per il credente. La stessa sorgente della fede cristiana è proprio in un dialogo divino che squarcia il silenzio del nulla e che ha come interlocutore privilegiato la creatura umana.


Sulle tonalità differenti di questo colloquio, che ha appunto «in principio il Lógos» per usare il celebre incipit del Vangelo di Giovanni, si leggono in questo  saggio pagine illuminanti attorno a soggetti che ora elenchiamo soltanto: l’«ospite interiore», accettare la differenza, la libertà e la verità, il «paese  dell’altro», il rischio dell’incontro, la gratuità e così via. All’abbondante sequenza di lezioni, di regole, di eccezioni che questa grammatica ideale propone si  associano anche i capitoli degli «esercizi» pratici: l’incrocio con l’ebraismo, il Dio del Corano, il risveglio del buddhismo, il confronto con coloro che non credono in nessun Dio (un «esercizio», quest’ultimo, che mi coinvolge particolarmente attraverso il progetto di un «Cortile dei Gentili», simbolo giudaico destinato a illustrare il dialogo credenti-atei). Ma Ploux s’impegna anche a declinare i “casi” dell’incontro attorno ai nodi incandescenti della verità scientifica, etica e teologica. E il suo sguardo s’allunga fino ad Assisi, divenuta per merito del beato Giovanni Paolo II l’emblema del dialogo interreligioso e  che Benedetto XVI, il prossimo 27 ottobre, ha voluto riproporre come sede del convergere attorno alla verità e alla pace della folla dei credenti secondo le mille denominazioni, ma anche dei non credenti che s’interrogano sull’«oltre» e sull’«altro» rispetto al «qui» e al «se stessi».


La certezza e la speranza sono, alla fine, quelle che il poeta surrealista francese Paul Eluard ben esprimeva in alcuni suoi versi: «Non verremo alla meta a uno a uno / ma a due a due. / Se ci conosceremo a due a due, noi ci conosceremo / tutti, noi ci ameremo tutti e i figli / un giorno rideranno / della leggenda nera dove un uomo / lacrima in solitudine».


Jean-Marie Ploux, Il dialogo cambia la fede?, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 296, € 25,00


in “Il Sole 24 Ore” del 21 agosto 2011

Celbrare pasqua fuori stagione

 

Guerra Fredda e il monastero

 


Fin dai primi anni della mia vita a Bose, la mia naturale passione per i viaggi – una passione del resto tardiva: fino all’adolescenza ero quasi terrorizzato dal dover uscire dal mio Monferrato natale
– si è orientata verso monasteri antichi e nuovi in cui scoprire le comuni radici e cogliere il senso di tradizioni e differenze. La nostra avventura di vita comunitaria a Bose era appena avviata, con le asperità e gli entusiasmi propri di ogni inizio: con il nostro lavoro faticavamo a procurarci il necessario per vivere dignitosamente nelle poche case abbandonate e prive di energia elettrica e di riscaldamento, eppure non ci facevamo mai mancare almeno un viaggio “monastico” ogni anno – Francia, Spagna, Belgio, Germania e Svizzera – per coltivare i rapporti fraterni con abazie benedettine e trappiste o con le allora giovani comunità di Taizé e Grandchamp.


Ma non solo: l’Europa orientale mi affascinava, era una terra di cui avevo imparato a conoscere le ricchezze spirituali che cercavo di tradurre, anche letteralmente, per la nostra cultura e il nostro vissuto ecclesiale occidentale. Ma era anche una terra che viveva la cattività comunista e in cui i cristiani conoscevano la persecuzione…
Così, per recarmi a Costantinopoli dall’amato patriarca Athenagoras come pure per raggiungere il Monte Athos, invece di utilizzare il traghetto da Brindisi, preferivo sempre attraversare in auto l’intera Jugoslavia, sfiorando l’Albania per giungere a Salonicco. Viaggi davvero avventurosi, con una piccola 127 che si destreggiava in mezzo ad autotrasporatori bulgari su strade spesso approssimative ma che in compenso consentiva preziose digressioni per visitare i monasteri, in particolare quelli di Serbia e Kosovo. Impresa tutt’altro che facile: non solo le indicazioni stradali erano praticamente assenti, ma era quasi impossibile per un’auto con targa occidentale passare inosservata e aggirare il divieto di sostare nei pressi di edifici religiosi. Così, diverse volte, volendomi fermare più a lungo in un monastero, dovevo nascondere l’auto al riparo da sguardi inquisitori: una volta, a Zica l’impresa non mi riuscì e, anziché trascorrere la notte in monastero, io e i miei due compagni la passammo nella cella della locale stazione di polizia, finché al mattino un commissario benevolo ci invitò a partire in fretta quand’era ancora buio senza ripassare dal monastero… Eppure erano rischi e fatiche che affrontavo con la gioia nel cuore, per poter visitare monaci e monache con cui ero andato intessendo legami fraterni. Come dimenticare i colloqui con l’igumena di Manassia o con madre Iustina di Zica, una donna forte e sapiente, autentica guida spirituale delle sue sorelle con le quali condivideva il duro lavoro?
Ogni mattina dei camion venivano a caricare le monache per portarle al lavoro nei campi di proprietà collettiva, assieme alle donne semplici dei paesi attorno al monastero. A sera, quando rientravano spossate dalla fatica, le attendeva il canto dell’ufficio notturno in chiesa: ma per loro non era una fatica supplementare, bensì l’autentico coronamento di una giornata spesa nella  ricerca di Dio e nella solidarietà fraterna.


Raramente anche in seguito ho sperimentato la stessa intensità di preghiera in un coro monastico.
E come avrei potuto non commuovermi quando, attraversando il Kosovo al confine con l’Albania al 19 di luglio, vigilia di Sant’Elia, avevo assistito alla festa di un intero villaggio ortodosso serbo dove erano convenuti anche tutti i vicini musulmani per celebrare insieme nella gioia il profeta del Dio unico? Tutti mi invitarono a restare con loro per l’intera giornata e le difficoltà di comunicazione scomparvero di fronte al linguaggio universale dell’uomo di Dio che aveva saputo ricondurre il cuore dei figli verso i padri e il cuore dei padri verso i figli.
Ma il desiderio di conoscere i cristiani e i monaci di oltre cortina mi portava a percorrere anche altre strade, spingendomi a est senza tuttavia mai poter raggiungere la Russia, terra di santi monaci che hanno alimentato la mia ricerca spirituale. Così nell’estate del 1971 vissi una delle avventure spirituali per me più memorabili.
Con il fratello e la sorella che mi accompagnavano


in quel viaggio avevamo deciso di rientrare dalla Romania attraverso la Bulgaria per conoscere qualcosa di quella terra così oscura anche rispetto agli altri Paesi socialisti. A Taizé avevo  conosciuto un giovane monaco di Sofia, che diventerà poi vescovo, e le poche notizie che avevo avuto sui cristiani di là mi erano bastate per mettere in moto la mia curiosità spirituale. Sulla vecchissima cartina stradale che avevo con me erano indicati alcuni monasteri che tuttavia apparivano privi di strade di accesso, quasi punti sperduti nella selva. Uno in particolare aveva  attirato la nostra attenzione perché apparentemente non troppo lontano dal nostro itinerario: Etropolskj. Sì, ma come trovarlo senza nessun cartello stradale, senza poter chiedere a nessuno, tanto meno a poliziotti o a chiunque indossasse una divisa e per i quali la richiesta di indicazioni per un monastero avrebbe costituito fonte di grave sospetto? Infine una semplice contadina ci mostrò  una strada sterrata, poco più di un sentiero tra i boschi, che percorremmo con fatica e trepidazione per quasi un’ora. Finalmente, ecco alcune case in una radura, ma nessun segno esteriore che  indicasse che quello era un monastero. Appena scendiamo dall’auto per chiedere informazioni, ecco tre monache che sembrano fuggire, poi una di loro viene verso di noi mentre le altre la osservano trepidanti nascoste dietro casa. La monaca – come anche le altre che vedremo dopo, una decina in tutto – ha l’abito monastico consumato, pieno di pezze rammendate, irriconoscibile; il corpo appare piegato dalla fatica, ma lo sguardo è colmo di stupore misto a paura.


Conosce qualche parola di francese, ma ci capiamo soprattutto a gesti – un segno di croce, le mani levate nell’atto di pregare – e con poche parole in greco e slavo liturgico. Ed eccole invitarci inchiesa, in quella stanza preziosa nascosta a occhi indiscreti, e intonare il tropario pasquale. Mi  chiedono se sono anche prete e posso celebrare l’eucaristia! Pasqua è passata da mesi, siamo a luglio, ma per quelle monache l’aver potuto vedere a abbracciare dei fratelli nella fede, aver ricevuto la visita di cristiani al cuore del loro nascondimento è davvero evento di risurrezione, promessa di una gioia che nessun regime può soffocare, respiro dello Spirito santo che ridà vita là dove tutto sembrava indicare un progressivo spegnimento. Ci spiegarono che da anni non avevano più  incontrato né un prete né altri cristiani, che vivevano nella paura e che per loro la nostra era una visita del Signore. Cantammo gli uni dopo gli altri canti pasquali propri delle nostre tradizioni,cattolica noi e ortodossa loro, ci abbracciammo scambiandoci la pace e l’annuncio «Cristo è risorto!», poi ci invitarono a far festa alla loro tavola: c’era solo del miele, pane, formaggio e unamarmellata di rosa canina, ma l’atmosfera era veramente pasquale, carica di gioia e di esultanza. Sì, a Etropolskj abbiamo celebrato Pasqua fuori stagione, ed è stata la Pasqua più gioiosa della miavita.