Benedetto XVI missionario in Africa

 

Tra quaranta giorni Benedetto XVI farà una puntata in Africa, nel Benin.

L’Africa subsahariana è il continente che nell’ultimo secolo ha registrato il più impressionante aumento dei cristiani. Erano 7 milioni nel 1900, sono 470 milioni oggi. Di essi, più di 170 milioni appartengono alla Chiesa cattolica.

Il 20 novembre, a Cotonou, papa Joseph Ratzinger firmerà l’esortazione apostolica scaturita dal sinodo speciale del 2009 dedicato all’Africa, e la consegnerà ai rappresentanti dei vescovi del continente.

In un pontificato che vuole dare slancio a una “nuova evangelizzazione” soprattutto nelle regioni di antica presenza della Chiesa oggi scristianizzate, continua infatti a essere viva anche la volontà di annunciare la fede cristiana là dove essa non è mai arrivata.

Non è la prima volta che la Chiesa cattolica risponde così – con un rinnovato slancio missionario “fino ai confini della terra” – all’offensiva di una cultura che erode la fede nei paesi di antica cristianità.

Nel saggio riportato più sotto, lo storico Gianpaolo Romanato mostra come l’ultima grande espansione missionaria della Chiesa cattolica in Africa, in Asia e in Oceania sia avvenuta proprio dopo la Rivoluzione francese e in reazione all’incalzare in Europa di una cultura e di poteri ostili al cristianesimo.

Oggi, tuttavia, dentro la stessa Chiesa c’è chi avanza delle obiezioni contro il riandare in missione “secondo il vecchio stile”. Benedetto XVI, nel discorso prenatalizio alla curia romana del 21 dicembre 2007, riassunse così tali obiezioni:

“È lecito ancora oggi ‘evangelizzare’? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, ciascuna nel proprio modo?”.

Il papa rispose che sì, è giusta un’azione comune tra le diverse religioni “in difesa dell’effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana per l’edificazione di una società più giusta e solidale”. E a questo dedicherà l’incontro di preghiera ad Assisi del prossimo 27 ottobre.

Ma aggiunse subito che ciò non vieta – anzi! – che Gesù sia annunciato a tutti i popoli:

“Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. […] In Gesù Cristo è sorta per noi una grande luce, ‘la’ grande Luce: non possiamo metterla sotto il moggio, ma dobbiamo elevarla sul lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”.

Ma ritorniamo all’epopea missionaria dell’Ottocento. Il profilo che ne traccia Romanato può essere una lezione anche per i cattolici d’oggi. Da un evento – l’offensiva laicista – che la Chiesa di quel tempo giudicò catastrofico scaturì un’espansione straordinaria della fede cristiana nel mondo.

Romanato insegna storia contemporanea all’Università di Padova e si definisce “uno studioso laico che è abituato a ragionare laicamente”.

Ha letto questa sua relazione a un convegno a Subiaco, il 6 ottobre 2011. E lo stesso giorno “L’Osservatore Romano” l’ha pubblicata.

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PRIMAVERA MISSIONARIA

di Gianpaolo Romanato

Le missioni furono la grande scoperta e la grande speranza della Chiesa dell’Ottocento.

Scoperta perché la missione in età postrivoluzionaria, rivolta ai popoli nuovi di Africa, Oceania, Asia e delle due Americhe, non garantita dalle strutture del patronato statale in vigore nell’ancien régime, fu sostanzialmente diversa da quella del periodo prerivoluzionario.

Speranza perché di fronte al nuovo nemico rappresentato dalla modernità e dall’organizzazione dello Stato liberale, la conquista di popolazioni sconosciute e mai toccate dal cristianesimo apparve come una nuova frontiera, un’imprevista possibilità di rifondazione del messaggio cristiano, una rivincita dopo le ripetute sconfitte patite in Europa.

Questa proiezione missionaria avvenne sotto l’egida della più rigida cultura controrivoluzionaria, a partire dal papa che per primo se ne fece interprete e banditore, Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Cappellari, monaco camaldolese originario di Belluno, che prima dell’elezione era stato per cinque anni prefetto di Propaganda Fide.

Egli, mentre impostò con le encicliche “Mirari vos” (1832) e “Singulari nos” (1834) le linee portanti di quella che per un cinquantennio sarebbe rimasta l’intransigenza cattolica antimoderna, avviò anche la rinascita delle missioni con una serie di iniziative che vanno dalla fondazione di quarantaquattro vicariati apostolici nelle terre nuove alla promulgazione dell’enciclica “Probe nostis” (1840), il manifesto della nuova missionarietà.

La cosiddetta “primavera missionaria” ottocentesca nasce così da radici culturali opposte a quelle della modernità.

Che lo slancio della Chiesa verso i popoli nuovi derivasse da un desiderio di rivalsa nei confronti dell’ondata laicizzatrice liberale dilagante in Europa, emerge dalle parole stesse di papa Gregorio XVI. L’enciclica iniziava, infatti, ricordando le “sventure” che opprimevano la Chiesa “da ogni parte”, gli “errori” che ne minacciavano la sopravvivenza. Ma, “mentre per un verso dobbiamo piangere – scriveva il papa – dall’altra parte dobbiamo rallegrarci dei frequenti trionfi delle missioni apostoliche”, trionfi che dovrebbero suscitare “maggiore vergogna” in “coloro che la perseguitano”. Questa contrapposizione diventerà uno dei fili conduttori della storia missionaria, conficcata fin dall’inizio nel più tipico filone intransigente, controrivoluzionario.

Ma non solo la cultura missionaria, bensì anche il personale che la realizzò provenne da una cultura fondamentalmente “ultramontana”, di scontro, estranea al mito ottocentesco della nazione che fu invece uno dei grandi alvei in cui si sviluppò la rivoluzione della modernità, di cui il colonialismo ottocentesco fu una delle espressioni.

È importante tenere presente questo sfondo intellettuale e teologico, che conferma, se ce n’è bisogno, la complessità e l’imprevedibilità della storia. Nel caso di cui ci stiamo occupando la novità non è figlia della rivoluzione ma della reazione, cioè di una cultura che normalmente non apre al futuro ma induce a rifugiarsi nel passato. L’elemento vincente della cultura missionaria fu, infatti, proprio la sua estraneità al mito della nazione.

UNIVERSALISMO CRISTIANO

I missionari che sciamarono per il mondo possedevano molto più il senso della Chiesa che il senso della patria. Si sentivano figli e difensori di una Chiesa perseguitata e costretta sulla difensiva dal liberalismo, dalle rivoluzioni nazionali. Ciò accentuò la loro estraneità rispetto alle idee politiche ottocentesche e rafforzò l’identificazione con l’universalismo cristiano. Le missioni non nascono italiane, francesi o tedesche, nascono cattoliche, figlie di una Chiesa ricompattata attorno a Roma e ormai distaccata dalle vecchie Chiese nazionali prerivoluzionarie, nascono in rotta di collisione con quegli ideali di grandezza e di potenza che mossero le potenze europee a conquistare e ad annettere i continenti nuovi.

Queste considerazioni valgono in particolare per i missionari italiani, quelli più vicini, anche geograficamente, a Roma e al nuovo spirito della cattolicità.

Il missionario italiano si sentì prevalentemente uomo di Chiesa, portatore di un disegno di evangelizzazione, come diremmo oggi, potenzialmente universale, non condizionato da interessi politici o nazionali. Negli istituti italiani sorti nel XIX secolo e dediti esclusivamente ad attività missionaria – dalle missioni africane di Verona fondate da Daniele Comboni al Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), dai saveriani ai missionari della Consolata – l’ideologia nazionale, o nazionalistica, è quasi inesistente. Predomina invece l’ansia apostolica, che diventa più forte e impellente quanto più le vicende politiche italiane sembrano riservare alla Chiesa in Italia un futuro incerto e difficile.

Sono proprio queste difficoltà che rafforzano il loro senso di appartenenza alla Chiesa, al di sopra del sentimento patriottico, il desiderio di aprirle strade nuove presso popoli lontani, non ancora toccati dal cristianesimo, l’ansia di trovare una “missione vergine” dove il Vangelo non fosse ancora arrivato, e fosse possibile predicarlo senza contaminarlo con interessi politici, ideologici.

Nelle “Regole” del PIME è detto che “l’Istituto fin dal principio mirò ad avere missioni proprie tra le popolazioni più derelitte e più barbare”. La speranza e l’ideale di questi istituti è quello di rifondare il cristianesimo il più lontano possibile dalla vecchia Europa, dalle sue divisioni e dai suoi interessi.

Analoga l’intenzione di Comboni, che imitò l’istituto lombardo pensando esclusivamente all’Africa come alla “più infelice e certo la più abbandonata parte del mondo”. In lui fu sempre chiarissima la consapevolezza che l’opera missionaria sarebbe stata tanto più efficace quanto più libera da fattori politici. La missione “deve essere cattolica, non già spagnola, o francese o tedesca o italiana”, non si stancava di ripetere. Egli conosceva perfettamente le associazioni e gli istituti missionari europei, per averli visitati e frequentati, e lamentava che in Francia “lo spirito di Dio” fosse ancora troppo condizionato dallo “spirito di nazione”.

Ma neppure in Francia il condizionamento della nazionalità impedì di vedere chiaramente che le missioni dovevano tenersi lontane dalla politica degli Stati cui appartenevano i missionari, come scrisse con grande lucidità il superiore francese della missione in Eritrea al governatore Ferdinando Martini, quando si stava preparando l’espulsione di missionari transalpini dalla nostra colonia: “Per noi non esiste che una sola parola: la Missione Cattolica, siano i membri che la compongono francesi, italiani, tedeschi o inglesi”.

TRA MISSIONE E COLONIZZAZIONE

L’intreccio fra missione e colonialismo è complesso. I due fenomeni sono paralleli, contemporanei e interdipendenti, tanto in età moderna quanto in età contemporanea.

In età moderna i missionari giungono nelle Americhe e in Asia sulle navi dei colonizzatori, protetti dalle medesime leggi, imbrigliati nei vincoli del patronato statale. E la situazione non è diversa nelle aree del globo, in particolare il Nord America oggi canadese, all’epoca sotto controllo francese. Ma tanto la Santa Sede quanto gli ordini religiosi impegnati nelle missioni non tardano a entrare in conflitto con il potere politico e a cercare spazi di autonomia.

Roma fonderà la potente congregazione di Propaganda Fide, nel 1622, proprio allo scopo di riportare, dovunque fosse possibile, le missioni sotto il controllo ecclesiastico, anche tramite abili espedienti canonici come l’istituto dei vicari apostolici, vescovi dipendenti direttamente da Roma, vescovi cioè “in partibus”, che rispondevano del loro operato alla sede apostolica e non all’autorità politica.

I vicari apostolici furono utilizzati in particolare nel tentativo di aggirare il patronato portoghese. Nel caso del patronato spagnolo il modo per sfuggire al vincolo statale consistette nell’avvio di esperimenti di evangelizzazione svincolati dalla giurisdizione della corona di Madrid, in territori posti fuori o ai margini dalla sua giurisdizione.

In questo secondo caso va ricordato l’esperimento delle Riduzioni fra i guaraní del Paraguay (ma in realtà allargato anche ad altre aree e popolazioni sudamericane). Le Riduzioni erano missioni totalmente sotto controllo della Compagnia di Gesù, sulle quali la corona di Spagna non aveva quasi nessun potere. Sappiamo però che esse crollarono quando Spagna e Portogallo riordinarono i confini e privarono le missioni degli spazi di autonomia di cui avevano goduto per un secolo e mezzo. Non sempre Propaganda Fide riuscì a realizzare gli intendimenti per cui era sorta, neppure con l’espediente dei vicari apostolici.

Per tutta l’età moderna, insomma, missione e colonizzazione vissero una difficile coabitazione, spesso conflittuale.

In età contemporanea notiamo caratteristiche analoghe. Missioni e colonie vanno insieme, sia pure con sfasature non prive di importanza. In genere la missione precede la colonia e spesso si dirige in territori estranei o ai margini della colonizzazione: l’Oceania dove operò il PIME, la Patagonia dove si insediarono i salesiani.

Ma le coincidenze, nonostante queste sfasature, non devono impedirci di notare le diversità.

Nell’Ottocento e nel Novecento i missionari imparano le lingue locali, operano non sovrapponendosi alle culture autoctone ma penetrandole dall’interno, favoriscono la nascita di clero e gerarchie locali, seguendo le direttive romane emanate fin dalla famosa Iistruzione ai vicari apostolici del Tonchino del lontano 1659 – un documento pontificio lungimirante, più citato che conosciuto –, ribadite in tutte le successive direttive pontificie e riprese dalla enciclica “Maximum illud” di Benedetto XV del 1919. Mentre la colonia è una conquista di territori, spazi e risorse, un’operazione di potere, la missione è un tentativo di innesto del cristianesimo senza alterare le culture locali.

Non sempre l’operazione fu portata avanti con la necessaria chiarezza, ma l’intenzione era questa. Comboni dirà che la presenza missionaria nella “Nigrizia” – come si definiva allora l’Africa – doveva durare fino a quando fosse nata una cattolicità locale, poi sarebbe dovuta cessare. È esattamente ciò che è avvenuto in Sudan, il territorio della sua missione, dove esiste oggi una gerarchia sudanese, alle dipendenze della quale operano i missionari comboniani. “Salvare l’Africa con l’Africa” fu il suo motto, che esprime appunto tale intenzione. Arrivare, cristianizzare, creare una Chiesa locale e poi venire via.

Se osserviamo a posteriori la storia del colonialismo europeo, notiamo più chiaramente la differenza fra colonialismo e missione. Il colonialismo è esploso lasciando macerie che hanno devastato, e continuano a devastare, i continenti extra-europei. La missione non è esplosa, è sopravvissuta all’età coloniale, si è trasformata e ha dato vita alle cosiddette giovani Chiese, con clero e gerarchia indigeni.

Oggi nel sacro collegio sono presenti decine di cardinali provenienti da Paesi africani o asiatici che furono colonie fino al secondo dopoguerra. Le missioni sono servite a dilatare il cattolicesimo su scala planetaria e a inculturarlo nei popoli nuovi.

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Il programma del prossimo viaggio africano di Benedetto XVI:

> Viaggio Apostolico in Benin, 18-20 novembre 2011

Rapporto Caritas 2011: cresce la povertà giovanile

 

 

Nell’ambito della Giornata mondiale di lotta alla povertà presso l’università Gregoriana di via della Pilotta a Roma, è stato presentato, l’ultimo rapporto della Caritas intitolato “Poveri di diritti”.

 

Il testo, pubblicato per i tipi della casa editrice Il Mulino, è suddiviso in due parti: i diritti dei poveri previsti dalla Costituzione e a livello internazionale; il ruolo svolto dalla Chiesa nel contrasto della povertà economica.

Alcuni numeri sono stati già resi noti  nei giorni scorsi e dipingono uno scenario a tinte fosche sull’aumento delle situazioni di indigenza nel nostro Paese.

Dal rapporto emerge come la legislazione non privilegia l’incontro tra diritti e doveri, non valorizza le capacità dei singoli, non coinvolge e promuove la partecipazione dei poveri.

8,3 milioni di cittadini, pari al 13,8% della popolazione italiana vivono in condizioni di indigenza. Sono  le famiglie numerose e monogenitoriali i nuclei più colpiti, specialmente se sono al Sud.

In cinque anni, dice il rapporto, la percentuale di giovani con meno di 35 anni è aumentata di quasi il 60% e di questi oltre il 75% non studia e non lavora. E la deprivazione economica trascina con sé altre conseguenze: negazione del diritto al lavoro, alla famiglia, all’abitazione, ma anche alla giustizia, all’educazione, alla salute.

Viene presentato il quadro comparativo delle regioni, con parametri di spesa e risposta. Durante la presentazione del testo, sarà ritagliato uno spazio per le proposte operative per far fruttare gli investimenti e ridare speranze alle persone in difficoltà.

Introduce la presentazione padre François-Xavier Dumortier, rettore della Pontificia Università Gregoriana. Intervengono Mons. Mariano Crociata, segretario generale della C. E. I.; Tiziano Vecchiato, direttore della Fonda­zio­ne -«Emanuela Zan­can­onlus»; Walter Nanni, capo Ufficio Studi e Forma­zio­ne­ di Caritas Italiana; mons. Giuseppe Pasini, presidente della Fondazione “Emanuela Zancan onlus». Concluderà lincontro mons. Vittorio Nozza, direttore di Caritas Italiana.

Coordina don Ivan Maffeis, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni so­cia­­li della Conferenza Episcopale Italiana.


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tuttoscuola.com

 

 

Nell’onda lunga della crisi economica, cambia il volto della povertà: precarietà e lavoro nero in aumento; le difficoltà dei giovani; le “nuove” povertà degli stranieri; la povertà e la qualità della vita nelle aree montane; la difficile presa in carico istituzionale; le risposte ecclesiali di contrasto e nuovi progetti anti-crisi economica. Sono alcuni dei temi che emergono dal Rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia, curato da Fondazione Zancan e Caritas Italiana, presentato lunedì 17 ottobre.

“Poveri di diritti” è il titolo del Rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia, curato da Fondazione Zancan e Caritas Italiana. Viene presentato lunedì 17 ottobre, alle 11, a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana (P.za della Pilotta, 4). Dopo il saluto del Rettore, p. François-Xavier Dumortier sj, intervengono S.E. Mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana; mons. Giuseppe Pasini, Presidente della Fondazione Emanuela Zancan onlus; mons. Vittorio Nozza, Direttore di Caritas Italiana; Tiziano Vecchiato, Direttore della Fondazione Zancan e Walter Nanni, Capo Ufficio Studi e Formazione di Caritas Italiana. Coordina don Ivan Maffeis, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI.

file attached Intervento di Mons. Crociata alla presentazione del Rapporto

Un’etica della responsabilità ambientale per tutta la terra

Dopo secoli in cui la natura era più forte dell’umanità e l’uomo doveva difendersi da essa, oggi è proprio l’ambiente che è diventato fragile, sovente vittima dell’uomo, al punto che l’uomo ormai con la sua potenza nucleare è in grado di distruggere la terra. Così siamo diventati al massimo grado responsabili della terra e della nostra potenza: in quest’ottica ciò che è più difficile è non  cedere all’eccesso e alla dismisura. La sfida etica ci chiede di acquisire la padronanza del nostro potere tecnico-scientifico, ponendo un limite alle nostre azioni e ai nostri progetti e riconoscendo  che esistono diritti della natura, dell’ambiente, di tutti i nostri co-inquilini sul pianeta. Occorre fare questo passo a livello di coscienza sociale, fino a esprimere questi diritti mediante istituti e legislazioni giuridiche. E se l’ambiente è titolare di diritti, noi umani abbiamo dei doveri, una precisa responsabilità che, se non assunta o violata, ci rende trasgressori della legge necessaria all’abitare la terra, al costruire un mondo più sinfonico e più bello.
È quindi necessaria un’etica della responsabilità che si preoccupi dell’avvenire della specie umana e della terra. Hans Jonas l’ha così formulata: «Agisci in modo che le conseguenze della tua  azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra». Se un tempo la responsabilità significava rispondere dei propri atti passati e presenti, ora essa è tale anche  verso l’avvenire del pianeta e dell’universo. È il futuro in cui gli abitanti della terra saranno le nuove generazioni, i nostri figli, i nostri nipoti, che richiede la mia responsabilità oggi, perché  oggi l’uomo può distruggere la terra: da questo potere nascono obblighi e doveri. Come siamo giunti a elaborare un «contratto sociale», così oggi dobbiamo andare al di là del sociale e del politico  per elaborare un «contratto naturale», un contratto con l’ambiente! Questo senza mai dimenticare che questione ecologica e questione sociale sono due aspetti del medesimo disordine da noi  provocato, due frutti della medesima volontà di potenza, del medesimo sfruttamento che non conosce doveri né limiti, del medesimo edonismo che pensa solo a se stessi, senza gli altri e contro gli  altri. Quando si giunge a trattare le persone solo in funzione della loro capacità di produrre e di possedere, si finisce anche per trattare la natura e gli esseri viventi solo in funzione di un loro  possibile sfruttamento, del loro valore di mercato…
Ma accanto alla responsabilità vi è un’altra necessità per un’etica rispettosa della terra: la sobrietà.
Parola detestata questa, spesso anche derisa, eppure oggi siamo più consapevoli che mai del fatto che le risorse della terra non sono infinite, lo sviluppo non è in costante crescita, la produzione  non è illimitata, i consumi non possono più essere sfrenati. Per questo bisogna ritornare a quella parola attestata con grande frequenza nella Regola di Benedetto: mensura, misura. Misura del cibo,  dei consumi, del tempo libero, del lavoro… Misura, cioè sobrietà, moderazione, attitudini attraverso le quali noi umani riconosciamo il nostro limite di terrestri. Misura, in senso ecologico,  significa lasciar cadere le pretese non attinenti ai bisogni fondamentali ma indotte o addirittura imposte come esigenze alienanti dalla società dei consumi. Occorre che ci liberiamo dei desideri  superflui per acquisire anche una capacità critica, una libertà, e non essere piegati alle richieste prepotenti del mercato. Talvolta occorre anche una rinuncia o, per usare un altro termine  bandito dal nostro linguaggio, un sacrificio, cioè la disponibilità a privarci di qualcosa, nel caso che la nostra soddisfazione passeggera provochi danno all’ambiente e alle creature di cui siamo  co-inquilini, ad altre genti o ad altri popoli.
Integrare la nostra situazione nel mondo è decisivo per conoscere la nostra identità terrestre e saper vivere il nostro rapporto con la terra, questo «terzo satellite di un sole detronizzato dal suo  seggio centrale, divenuto astro pigmeo errante tra miliardi di stelle in una galassia periferica di un universo in espansione» (Edgar Morin). La terra è l’unico pianeta sul quale, almeno per oggi,  sappiamo esistere questa specie di animali biologici ma anche esseri culturali, gli animali umani: umani nel senso che l’uomo non è compiuto pienamente se non dalla cultura e nella cultura;  umani nel senso che sanno sentirsi responsabili degli altri co-inquilini animali, vegetali e minerali, responsabili per tutti; umani perché capaci di com-passione, di soffrire con questa terra,  capaci di sim-patia con tutte le creature; umani perché atti ad abitare la terra, ricercando e perseguendo la pace: una pace non solo tra gli uomini ma cosmica, cioè lo shalom, la vita piena per tutta  a terra.

 

Un’etica della responsabilità ambientale per tutta la terra
di Enzo Bianchi
in “Jesus” n. 10 dell’ottobre 2011

 

ALTRI CONTRIBUTI


Il valore etico dell’idea di una «decrescita felice»
di Giannino Piana
in “Jesus” n. 10 dell’ottobre 2011

Nonostante la crisi economica mondiale, la convinzione che è possibile una crescita illimitata è ancora oggi largamente diffusa, al punto che è divenuta l’ideologia dominante della nostra società. La misurazione di ogni scelta personale e sociale secondo criteri mercantili e quantitativi, l’affermarsi di una competitività radicale, la tendenza a ricercare il profitto immediato e il guadagno  facile sono altrettanti assiomi che stanno alla base di tale orientamento e che hanno acquisito una consistente credibilità a seguito del crollo dei sistemi a economia pianificata dei Paesi del  socialismo reale e della conseguente rivincita di una forma di capitalismo selvaggio favorito dal processo di globalizzazione in corso. La logica che soggiace a questa ideologia dell’espansione continua è la logica dell’«avere» e del «consumare», la quale si appoggia sulla creazione di bisogni sempre nuovi, indotti dall’esterno mediante la pressione sociale — i media esercitano al riguardo  una funzione determinante — e in larga misura alienanti.
Le conseguenze di questo processo, che qualcuno ha giustamente definito come una delle peggiori e più disastrose utopie, sono oggi sotto gli occhi di tutti. L’accumulo della ricchezza privata con  sempre maggiori spoliazioni collettive e perciò con l’incremento della marginalità sociale, il crescente indebitamento degli Stati — il nostro ha, in proposito, un primato poco lusinghiero — , la  riduzione del lavoro a merce con la tendenza al ridimensionamento dei salari e dei diritti e, da ultimo (ma non ultimo per ordine di importanza), l’ampiezza della crisi ecologica, a causa sia del  degrado ambientale che della progressiva riduzione delle risorse disponibili, denunciano il verificarsi di una situazione dai risvolti drammatici. Se poi si allarga lo sguardo — come oggi è  doveroso fare, stante la stretta interdipendenza esistente tra i vari popoli della terra — al contesto mondiale, appaiono evidenti i segni dello stato di grave squilibrio in atto e delle profonde  ingiustizie che ne sono la causa. L’economia dei Paesi ricchi, che crea forme di sperequazione intollerabili nella distribuzione della ricchezza sia tra le nazioni che tra le classi sociali, scarica il  suo impatto globale sugli ecosistemi dei Paesi più poveri, accentuando le condizioni di disagio in cui vivono.
La considerazione che la crescita non può essere infinita, che ha dei limiti che devono finire per imporsi, non è, d’altra parte, di per sé nuova. Già agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso il  Mit (Massachusetts Institute of Technology) con il rapporto sui Limiti dello sviluppo (Milano I 972) — la traduzione corretta del testo originale inglese sarebbe piuttosto «limiti alla crescita» —  metteva in evidenza con chiarezza come la crescita economica non avrebbe potuto continuare indefinitamente a causa della limitata disponibilità di risorse naturali e della limitata capacità di  assorbimento delle sostanze inquinanti da parte del pianeta. La consapevolezza di questo fatto è cresciuta negli ultimi decenni, al punto che vi è chi ha cominciato a teorizzare la «decrescita» — il  primo a introdurre tale ipotesi è stato Serge Latouche, noto economista ed ecologista parigino — come via da percorrere per ristabilire gli equilibri infranti e dare avvio a un processo di vera  umanizzazione.

Lungi dal costituire una rinuncia che mortifica le possibilità di espressione della persona, la decrescita, che comporta il rifiuto del consumismo e l’abolizione del superfluo, è considerata da chi la  sostiene una opportunità — per questo si parla di decrescita «serena» o «felice» (a questa ultima dizione si rifa in particolare il movimento fondato in Italia da Maurizio Pallante) — , cioè come  un mezzo per dare sempre più spazio ai valori immateriali, a quelli relazionali in particolare, e per migliorare la qualità della vita. Essa implica anzitutto l’adozione di alcune scelte prioritarie in campo socioeconomico e politico, quali l’attenzione privilegiata ad assicurare a tutti cibo e farmaci, la preoccupazione per la preservazione della biodiversità, la regolazione del clima, la  depurazione delle acque e dell’aria, la protezione dalle inondazioni, la prevenzione dalle malattie, ecc. Ma implica anche l’adozione di precise scelte personali, quali la pratica del riciclo dei  rifiuti, la preferenza data alle energie alternative, l’abolizione degli sprechi alimentari e dell’abuso di risorse naturali; e l’elenco potrebbe continuare.
La posta in gioco è, in definitiva, culturale ed etica. Si tratta di decidere se si vuole assegnare il primato alla ricerca del benessere economico a ogni costo o si vuole invece privilegiare la ricerca della felicità, la quale implica anche la limitazione dei bisogni materiali — specialmente se superflui o alienanti —e l’acquisizione di stili di vita capaci di fare spazio a istanze valoriali che  restituiscano alla vita il suo senso vero e favoriscano una più equa distribuzione dei beni tra gli uomini. A queste condizioni infatti la decrescita acquisisce un significato altamente positivo  poiché diviene occasione di una autentica crescita umana.

 

 

 

La Chiesa che non tace


Domenico Mogavero con Giacomo Galeazzi, La Chiesa che non tace, BUR-Saggi, pp. 206, € 14.

Ci sono libri che hanno la fortuna, o la virtù, di essere segnali di un passaggio d’epoca. Insieme, sintomi della malattia e medicine per curarla, proprio nell’accezione etimologica della parola «crisi». La lunga intervista di Giacomo Galeazzi al vescovo siciliano Domenico Mogavero, edita dalla Rizzoli nella collana «Bur-saggi» ne è un buon esempio. Perché è la testimonianza di come il disagio della Chiesa italiana nell’era del post-ruinismo non sia più relegato tra quei preti del dissenso, ai margini dell’ortodossia confessionale e della disobbedienza ecclesiastica, ma pervada ormai i vertici dell’episcopato e, persino, gli antichi e fedeli collaboratori dell’ex carismatico capo dei vescovi del nostro Paese.
Domenico Mogavero, infatti, è stato per circa 15 anni il «numero tre» della Chiesa italiana, affiancando Camillo Ruini come sottosegretario alla Cei. Un’esperienza che l’attuale vescovo di Mazara  del Vallo non rinnega affatto, ma che, al confronto con la realtà dei problemi di una diocesi di frontiera, viene profondamente ripensata e trasformata dal protagonista del libro con accenti di apprezzabile sincerità e di grande apertura, anche autocritica. Così, stimolato dalle domande tutt’altro che compiacenti di Galeazzi, anzi talvolta consapevolmente provocatorie, il presule siciliano si fa portabandiera di «una Chiesa che non tace», come s’intitola significativamente l’intervista-confessione.
La lettura del testo, alla vigilia dell’importante raduno dei cattolici a Todi fissato per lunedì prossimo, autorizza a pensare come il passaggio del testimone tra Ruini e Bagnasco a capo della Conferenza episcopale italiana annunci un vero e proprio «rompete le righe» in quella specie di militarizzazione dell’episcopato che aveva consentito al cardinale emiliano di guidare con mano fermissima la condotta della Chiesa. Al prezzo, però, di spegnere le voci più innovative e anticonformiste o, perlomeno, di indurle a troppe prudenze diplomatiche.
Indicativa è l’ammissione di Mogavero sul motivo di questo suo spostamento da posizioni «centriste», come le definisce lui stesso, a visioni assimilabili a quelle progressiste, per usare un lessico  mutuato dalla politica: il contatto con la realtà dell’immigrazione maghrebina nella sua diocesi. Un fenomeno che ha fatto di quel territorio un avamposto di pacificazione nel Mediterraneo, un  luogo di cerniera tra cristianesimo e islam, un esempio di come sia possibile la sperimentazione di una convivenza non solo senza grossi traumi, ma capace di produrre un vero arricchimento  reciproco, culturale, sociale e, perché no, anche religioso.
La parabola personale del vescovo di Mazara, perciò, può suggerire anche dove e come potrebbe cominciare il rinnovamento della Chiesa nell’era Bagnasco. Non più dal centralismo illuminato di un cardinale di grande carisma e intelligenza come Camillo Ruini, ma dall’apertura della comunità cattolica a quelle «voci dal fondo» che, dalla concreta esperienza pastorale, riescono più  facilmente a percepire una sensibilità nuova, quella di un mondo che cammina più in fretta della testa degli uomini.

 

Per una Chiesa che non taccia
di Luigi La Spina
in “La Stampa” del 15 ottobre 2011

Siate affamati. Siate folli

 

Discorso di Steve Jobs alla Stanford University di Palo Alto il 12 giugno 2005


Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato a un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.

La prima storia parla di “unire i puntini”. Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perché ho smesso? Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università. Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. Ok, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti.

Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio: il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’ e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.

Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun pc ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono. Certamente non era possibile all’epoca “unire i puntini” e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo. Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… Questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia parla di amore e di perdita. Fui molto fortunato – ho trovato cosa mi piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io e Woz fondammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo appena vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci anni Apple è cresciuta […] sino ad una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. Avevamo appena rilasciato la nostra migliore creazione – il Macintosh – un anno prima, e avevo appena compiuto trent’anni… quando venni licenziato. Come può una persona esser licenziata da una società che ha fondato? Beh, quando Apple si sviluppò assumemmo una persona – che pensavamo di grande talento – per dirigere la compagnia con me, e per il primo anno le cose andarono bene. In seguito però le nostre visioni sul futuro cominciarono a divergere finché non ci scontrammo. Quando successe, il nostro consiglio di amministrazione si schierò con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in maniera plateale. Ciò che aveva focalizzato la mia intera vita adulta non c’era più, e tutto questo fu devastante.

Non avevo la benché minima idea di cosa avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di aver tradito la precedente generazione di imprenditori, che avevo lasciato cadere il testimone che mi era stato passato. Mi incontrai con David Packard e Bob Noyce e provai a scusarmi per aver mandato all’aria tutto così malamente: era stato un vero fallimento pubblico, e arrivai addirittura a pensare di andarmene dalla Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi strada dentro me: amavo ancora quello che avevo fatto, e ciò che era successo alla Apple non aveva cambiato questo di un nulla. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare. Non potevo accorgermene allora, ma venne fuori che essere licenziato dalla Apple era la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.

Nei cinque anni successivi fondai una Società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie. La Pixar produsse il primo film di animazione interamente creato al computer, “Toy Story”, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo. In una mirabile successione di accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai in Apple e la tecnologia che sviluppammo alla NeXT è nel cuore dell’attuale rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia insieme.

Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo mi sarebbe accaduto se non fossi stato licenziato dalla Apple. Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che “il paziente” ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. […] Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi.

La mia terza storia parla della morte. Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi ci avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatré anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa. Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto – tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio – sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore.

Un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Effettuai una scansione alle sette e trenta del mattino, e mostrava chiaramente un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che con ogni probabilità era un tipo di cancro incurabile, e avevo un’aspettativa di vita non superiore ai tre-sei mesi. Il mio dottore mi consigliò di tornare a casa “a sistemare i miei affari”, che è un modo per i medici di dirti di prepararti a morire. Significa che devi cercare di dire ai tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei successivi dieci anni in pochi mesi. Significa che devi fare in modo che tutto sia a posto, così da rendere la cosa più semplice per la tua famiglia. Significa che devi pronunciare i tuoi “addio”. Ho vissuto con quella spada di Damocle per tutto il giorno. In seguito quella sera ho fatto una biopsia, dove mi infilarono una sonda nella gola, attraverso il mio stomaco fin dentro l’intestino, inserirono una sonda nel pancreas e prelevarono alcune cellule del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia moglie, che era lì, mi disse che quando videro le cellule al microscopio, i dottori cominciarono a gridare perché venne fuori che si trattava di una forma molto rara di cancro curabile attraverso la chirurgia. Così mi sono operato e ora sto bene.

Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale. Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non voglion morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la morte è la migliore invenzione della vita. E’ l’agente di cambio della vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora “il nuovo” siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete “il vecchio” e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità. Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario. Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava “The whole Earth catalog”, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali. Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di “The whole Earth catalog”, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.
Siate affamati. Siate folli.

di Steve Jobs

Io sto con il Papa

1. Cosa è diventato il discorso pubblico nel nostro tempo? A quali altezze ci conducono oggi le parole di chi viene ascoltato, perché considerato degno di esserlo?

 

Con Martin Luther King abbiamo scalato montagne che apparivano impervie, con Franklin Delano Roosevelt siamo stati capaci di sconfiggere la bestia della paura e della disperazione collettiva, con Giovanni XXIII abbiamo capito che non è la guerra, ma la pace, la dimensione in cui far esprimere conflitti e differenze. Ma ora? Ora tutto sembra al filo della terra, parole spaventate , senza forza, senza ispirazione, senza anima. Parole corte, per una società corta. Odio, populismo di quart’ordine, rimozione sistematica e deliberata di quel “senso delle cose” senza il quale ogni avventura umana, compresa la stessa esistenza individuale, sembra uno straccio abbandonato. Così il mondo della comunicazione ovunque, della rete che ci avvolge fino a stritolarci, del successo a portata di  mano, dell’Io ipertrofico e tronfio ci riempie di molto per portarci al nulla. La frammentazione sociale, la perdita della linearità del ciclo di vita conquistata nel Novecento dell’occidente – studio  , lavoro, pensione – ci rende fragili e insicuri. E così ci rinchiudiamo in identità spesso autorappresentative, come una coperta da stendere sul capo, per ripararsi dalla globalizzazione del mondo.  Insegne religiose usate come spade e carte d’identità brandite come scudi. Nuove ideologie, senza i recinti delle quali, l’uomo sembra sentirsi nudo e solo. Ma nel brodo di coltura delle ideologie  sono nati Auschwitz e i Gulag, Pol Pot e i Desaparecidos.
Il nuovo millennio, il discorso pubblico, troveranno una via d’uscita alla alternativa secca tra il tutto delle ideologie e il nulla della vita ridotta a merce, a campione senza valore? La politica ha,  per me, questo compito precipuo. Insieme con la soluzione concreta dei problemi concreti degli esseri umani. Ha il compito di fornire un senso “laico” alla domanda di ragione dell’esistenza che  mai, nella storia, è stata risolta dalla contemplazione di sé in uno specchio. Nel bel dialogo tra Aldo Bonomi e Eugenio Borgna, pubblicato da Einaudi in questi giorni, ci si interroga sulle ragioni sociali e psicologiche del dilagare della depressione come malattia contemporanea.
E se ne indicano le cause, in primo luogo lo sfarinamento del sistema delle relazioni sociali e umane. E se ne indicano però anche le soluzioni, in primo luogo la ricostruzione di quella coscienza della comunità di destino, senza la quale ogni inciampo è un precipizio. Alla comunità delle anime ferite bisogna indicare un poliforme orizzonte di senso. Bisogna passare dalla “egologia”,  Zeitgeist del tempo, alla ecologia di un corretto rapporto tra sé e gli altri, tra sé e la natura, tra sé e il tempo, in fondo tra sé e il senso della vita.
Nella presentazione del suo libro a Roma, Eugenio Scalfari ha ricordato la definizione di Kant dell’uomo come “legno storto” e ha giustamente ragionato sulla pericolosità e difficoltà del proposito  di raddrizzarlo e dei fallimenti storici di chi se lo è proposto. Accettare i miliardi di “legni storti” spinge a creare un ambiente dove essi possano riconoscersi e rispettarsi e, per questa via, creare  un contesto “laicamente” diritto. Avremo bisogno urgente di ritrovare il senso di comunità, perché alla depressione individuale sta per saldarsi anche quella dell’economia. E, se vorremo uscirne, dovremo sfidare la paura e ritrovare la speranza.
Per questo io che non credo o che, come ho detto sinceramente “credo di non credere”, ho ascoltato con enorme interesse l’affascinante discorso al Parlamento tedesco di Benedetto XVI nel quale ha lanciato un invito che non può non essere raccolto. E’ necessaria, ha detto Papa Ratzinger, una “discussione pubblica”, in particolare in Europa, sul rapporto tra politica, diritto e ragione:  “Invitare urgentemente ad essa – ha aggiunto – è un’intenzione essenziale di questo discorso”.
Non si può non raccogliere l’invito, innanzi tutto perché di una discussione pubblica sul senso della politica, sui suoi compiti e i suoi limiti, si avverte un bisogno drammatico, in un passaggio  storico come quello che stiamo vivendo, segnato da una crisi profondissima, che come è evidente a tutti non è solo economica e finanziaria, ma anche politica e culturale. Ma c’è una seconda ragione  che va evidenziata: l’invito del Papa è, per l’appunto, a una “discussione pubblica”, alla quale ciascuno partecipa, secondo un metodo critico e non dogmatico, con la sola forza dei suoi argomenti. E  gli argomenti di Ratzinger sono forti, proprio perché aperti. Gli stessi punti solidamente fermi, nella mente e nel cuore del Papa-teologo, colpiscono in modo tanto più penetrante, in quanto  emergono, quasi si fanno largo, tra interrogativi radicali, che non solo non vengono elusi, ma vengono problematizzati in modo non esplicito. Già questa è una indicazione, non solo metodologica: c’è una sola via, sembra dire Papa Benedetto, per affrontare la crisi con spirito costruttivo. Ed è la via del dialogo aperto, del confronto trasparente, a partire dalla comune passione per l’umanità e il  suo destino.

2. La riflessione proposta da Ratzinger è ormai largamente nota, soprattutto ai lettori di questo giornale. Essa ha al centro l’affermazione che la buona politica, la politica che vuole essere impegno per la giustizia e costruzione delle condizioni di fondo per la pace, è una politica subordinata al diritto, una politica che conosce il suo limite e riconosce la supremazia del diritto, secondo una  visione liberale, pluralista, poliarchica. “Togli il diritto – dice il Papa citando sant’Agostino – e allora cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”. Una politica ridotta a volontà di  potenza, a mera risultante dei rapporti di forza, o anche solo ad arte e tecnica della conquista e della conservazione del potere, è la minaccia più grande per l’umanità: nella migliore delle ipotesi,  avremo cattiva politica, malgoverno, corruzione. Ma il Novecento, per altri versi il secolo delle lotte per la libertà e degli spettacolari progressi della scienza e della tecnica, ci ha anche  insegnato, in modo definitivo, che una politica che perde il senso del limite è capace di spalancare davanti all’umanità l’abisso del male assoluto, di generare il mostro totalitario, la scientifica e  sistematica, intenzionale e organizzata distruzione della dignità e della stessa vita umana. Nessuno lo sa meglio di noi tedeschi, ricorda Ratzinger.
E tuttavia, dire che la politica deve fondarsi sul diritto e non viceversa, significa dire che il principio di maggioranza, che in gran parte della materia da regolare giuridicamente “può essere un  criterio sufficiente”, “nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità” non può bastare. E allora? Come riconoscere ciò che è giusto? Di fronte al  male assoluto dei regimi totalitari, c’è il diritto-dovere alla resistenza. “Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia  veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente”.
Ratzinger vuole essere ancora più chiaro: “Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé”. Anni di discussioni, spesso laceranti, sulle questioni cosiddette “eticamente sensibili”, sono lì a dimostrarlo. Come sono lì a dimostrarlo le non meno dure contrapposizioni, in tutte le sedi multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite, tra il principio di sovranità degli stati e i diritti inviolabili della persona.
La risposta all’interrogativo radicale “come si riconosce ciò che è giusto?” non può venire, secondo Ratzinger, né dal “diritto rivelato”, dalla pretesa di imporre una legge sulla base di un  riferimento alla religione, uno dei pericoli più grandi che minacciano l’umanità contemporanea, né dal “positivismo giuridico”, che relega nella sfera della irrazionalità qualunque dimensione  della razionalità umana non riconducibile a ciò che è verificabile o falsificabile: un riduzionismo scientista, che è stato contestato, dice Ratzinger in uno dei passaggi più sorprendenti del  discorso, dal movimento ambientalista. Quel movimento, ha detto con coraggio, ci ha aiutato a capire che “nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un  materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni”.
La via proposta dal Papa è piuttosto quella di una riscoperta dell’idea di “diritto naturale”, per la quale sono la natura e la ragione le vere fonti del diritto: una linea di pensiero che da Atene e  Roma, attraverso l’incontro col pensiero giudaico e cristiano e poi il filtro dell’Illuminismo, giunge fino alla Dichiarazione universale dei diritti umani e alle grandi costituzioni democratiche  del Dopoguerra.
Non si tratta, come è chiaro, di una formula magica, che garantisce l’evidenza delle soluzioni e l’infallibilità delle decisioni politiche e legislative, ma piuttosto di un orizzonte nel quale collocare il dialogo tra visioni diverse, sul piano politico, filosofico, religioso, per consentire loro di collaborare per la giustizia nella pace.
Una collaborazione, beninteso, che non elimina il conflitto, la dialettica, la competizione, ma le colloca su un terreno di comunicazione, di condivisione di un patrimonio di principi e di valori che possono tenere insieme la società: un’esigenza tanto più forte in società aperte, libere, secolarizzate, non gerarchiche, come quelle moderne.

3. La riflessione e la proposta di Papa Ratzinger, entrambe aperte e problematiche, pur attorno a un nucleo di convinzioni forti e radicate, a me paiono di straordinario interesse e suggestione sul  piano intellettuale e di potenziale fecondità sul piano politico. Tanto più in un paese come il nostro, profondamente segnato dal dialogo, ma anche dalla contrapposizione, tra laici e cattolici, tra credenti e non credenti. Una discussione pubblica, orientata alla riscoperta e alla attualizzazione di un nucleo di principi e valori fondamentali come quelli che sostengono la nostra Carta costituzionale, non a caso anch’essa figlia di uno dei più alti momenti di dialogo che la nostra storia nazionale abbia conosciuto, aiuterebbe a rafforzare l’unità dialettica del paese, tanto più  necessaria in una fase delicata e per molti versi drammatica, come quella che stiamo vivendo.
La traccia proposta da Papa Benedetto a Berlino può risultare preziosa per dar vita, nel nostro paese, a una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti e a scongiurare invece dannose e fuorvianti contrapposizioni. Preziosa è innanzi tutto la “pars destruens” del ragionamento ratzingeriano, quel doppio no, da una parte all’integralismo fondamentalista, alla pretesa di dedurre da  una fede religiosa criteri normativi validi per tutta la società; e dall’altro alla concezione speculare e in definitiva subalterna allo stesso integralismo religioso, secondo la quale la libertà vive solo nella negazione di qualunque principio e valore che non sia l’arbitrio individuale. Si tratta, come è evidente, di due posizioni estreme, tanto presenti nell’autorappresentazione pubblica,  quanto poco rappresentative sia dell’universo dei credenti, cattolici e non solo, irriducibili allo stereotipo del fanatismo integralista e invece da tempo allenati e appassionati al dialogo, al  confronto, alla contaminazione; sia di quello dei non credenti, che a ragione rivendicano la loro capacità di pensare e vivere sulla base di principi e valori che pur non avendo, dal loro punto di vista, un fondamento trascendente, pur non ponendosi in una prospettiva metastorica, non per questo sono meno metapolitici, capaci cioè di dare fondamento non effimero ad una vita etica e ad una  olitica fondata sul diritto.
Penso che sia vitale, per il futuro del nostro paese, incoraggiare e favorire una comune capacità, da parte di credenti e non credenti, di coltivazione dei valori comuni, sulla base di una comune  fiducia nella ragione. La prima condizione perché ciò accada è che i credenti imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, confidando nella ragione, che del resto, nella  loro fede, è essa stessa dono di Dio, logos umano che partecipa del logos divino. La sistematica applicazione di questa regola eviterebbe il cortocircuito integralista, che rende il dialogo impossibile. La seconda, speculare condizione, è che i non credenti, a loro volta, imparino a rispettare fino in fondo i convincimenti religiosi e sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica,  come una condizione di possibilità della libertà degli individui. Attraverso questa regola, la libertà come principio di autodeterminazione si apre alla responsabilità ed evita di ridursi ad egoismo individualistico.

4. Una considerazione finale che ovviamente si allontana dalle riflessioni grandi del Papa per planare su questo passaggio, l’ennesima transizione, della storia italiana. Promuovere una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti è indispensabile anche per scongiurare il rischio che, dopo la fine ormai conclamata del berlusconismo, il bipolarismo italiano si ristrutturi lungo  una linea di frattura etico-religiosa, anziché politico-programmatica.
Non ci si può dividere su ciò su cui ci si dovrebbe unire. Nel celebre dialogo con Habermas, quasi otto anni fa, l’allora cardinale Ratzinger definiva l’incontro dialogico tra credenti e non credenti come “ciò che tiene unito il mondo”, che corre invece il rischio mortale di dividersi lungo una faglia che finirebbe per opporre una religiosità ridotta a fanatismo fondamentalista, a un razionalismo non meno dogmatico e intollerante. Per questo penso che il nuovo protagonismo dei credenti cattolici, delle loro associazioni, movimenti, opere, al servizio di un rilancio e di una ricostruzione di un paese che da decenni non era così fiaccato e umiliato, sarà tanto più fecondo, quanto più saprà irrorare tutto lo schieramento politico. Entrambi i poli di un nuovo bipolarismo,  finalmente liberato dall’ipoteca populista e plebiscitaria del berlusconismo, finalmente articolato su schieramenti costruiti attorno a programmi per il governo e non sulla demonizzazione  dell’avversario, capaci entrambi di reciproca legittimazione e di positiva collaborazione, nella distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione, dovranno vedere presenti e protagonisti laici e  attolici, credenti e non credenti.
Naturalmente, rendere questo possibile è compito innanzi tutto delle forze politiche. E sul versante del centrosinistra è compito innanzi tutto del Partito democratico, che mai come oggi può comprendere quanto la sua originaria vocazione a unire le diverse culture riformiste, guardando ben oltre i tradizionali confini della sinistra storica e dando vita ad una identità nuova, unitaria  e plurale, l’identità democratica, sia condizione vitale per il suo stesso ruolo nel paese.

 

in “il Foglio” del 1 ottobre 2011

“Il cambiamento demografico”

 

Presentato a Roma il secondo rapporto-proposta curato dal Comitato per il progetto culturale della CEI.

 

Alla presentazione sono intervenuti S.Em. il card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana (in allegato il testo del suo intervento); S.Em. il card. Camillo Ruini, presidente del Comitato per il progetto culturale della CEI; il prof. Giancarlo Blangiardo, ordinario di demografia presso l’Università di Milano-Bicocca; il prof. Antonio Golini, ordinario di demografia presso l’Università “La Sapienza” di Roma; il dott. Giuseppe Laterza, presidente della Casa editrice Laterza; il prof. Francesco D’Agostino, ordinario di filosofia del diritto presso l’Università Tor Vergata di Roma.

 

 

Il volume, come ha spiegato il card. Ruini, si articola in tre parti.
La prima intende fornire una lettura oggettiva del cambiamento, attraverso l’analisi dei fenomeni demografici e delle trasformazioni strutturali della popolazione e delle famiglie.
La seconda parte si spinge alla riflessione sulle cause e sulle relative conseguenze di ordine economico e socio-culturale.
Nella terza parte, infine, vengono avanzate alcune proposte per affrontare la questione del governo del cambiamento demografico.






file attached L’intervento del card. Bagnasco

 

 

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“Con il «Rapporto-proposta» ‘Il cambiamento demografico’ la Cei avanza analisi e proposte avvalendosi del contributo di esperti. Chiede di cambiare passo. Non è accettabile «aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, quando si prosciugherà il destino di un popolo». Questa volta la Chiesa non si ferma alla difesa dei valori «non negoziabili». Con l’emergenza denatalità pone all’agenda del paese il tema del suo futuro”
“Fu Camillo Ruini a prendere contatto con Giuseppe Laterza. Con l’intento di dare veste laica alle ricerche sociali promosse dai vescovi. Il volume sul declino demografico dell’Italia è il secondo… Veste laica ma senza il contraddittorio che è, invece, costume della Casa editrice. E qualcuno, nella bacheca, ha appeso un brano di don Milani: «Io al mio popolo gli ho tolto la pace… ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di passione del mio popolo»”