“C’è Dio nella malattia”


intervista a Gianfranco Ravasi, a cura di Andrea Tornielli

«La dimensione antropologica e teologica della malattia: Il Signore guarisce tutte le malattie (Salmo 103,3)».

È il tema  del convegno dell’Associazione medici cattolici italiani che si apre questa mattina al Centro congressi Assolombarda di  ilano. Dopo l’introduzione del professor Giorgio Lambertenghi Deliliers, la prima parte del convegno vedrà  confrontarsi Alessandro de Franciscis, Presidente del «Bureau Medicale» di Lourdes, la psicoterapeuta Paola Bassani e  padre Carlo Casalone, Superiore provinciale d’Italia dei gesuiti. Nella seconda parte si terranno le relazioni di Massimo  Cacciari (su «Malattia e male») e del cardinale Gianfranco Ravasi. Le conclusioni sono affidate al professor Alfredo  Anzani, della Pontificia accademia per la vita.

«Vengo invitato sempre più spesso a convegni medici: sta crescendo la consapevolezza che la malattia e il dolore sono  un tema globale e simbolico, non soltanto fisiologico. L’accompagnamento umano, psicologico, affettivo e spirituale è  tutt’altro che secondario. C’è bisogno di tornare a una concezione umanistica della medicina».

Il cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio consiglio per la cultura, è abituato a confrontarsi con chi non crede. Ma di fronte alla domanda drammatica sul perché della sofferenza e del dolore – tema del convegno organizzato  oggi a Milano dai Medici cattolici – non si rifugia nelle formule di rito.

Come risponde al quesito sul perché della malattia?
«La scrittrice americana Susan Sontag nel 1978 raccontò la sua esperienza di ammalata di cancro in un libro intitolato  “La malattia come metafora”. Definizione interessante: la malattia non è mai solo una questione biologica. Quando  siamo ammalati abbiamo bisogno di essere confortati, guardiamo alla vita in modo diverso, cambiano le priorità e se la  alattia si aggrava cambia la scala dei nostri valori. E anche chi non crede può arrivare a chiedere a Dio il perché di  quanto gli accade.
Comunque la prima risposta è semplice, logica e razionale».

Qual è la «razionalità» iscritta nella malattia?
«Il dolore è una componente della finitezza delle creature. Un dato che nella nostra società orgogliosa e tecnologica,  che qualcuno ha definito “post-mortale”, non si vuole accettare. Si occulta in tutti i modi la morte, o magari si insegue  la possibilità di vivere fino a 120 o 130 anni, continuando ad allontanare l’appuntamento. Dobbiamo invece avere il  coraggio di guardare in faccia malattia e morte come componenti dell’esistenza».

Una capacità che sembra perdersi in Occidente, ma che è ancora presente in altre culture…
«È vero. Quando ero in Iraq a fare degli studi archeologici, un giorno uno dei miei collaboratori locali mi invitò a casa  sua, così avrei potuto vedere suo padre che stava morendo. Ci andai e vidi quel vecchio adagiato al centro dell’unica  grande stanza della casa, con le donne che cucinavano da un lato e i bambini che giocavano dall’altro e che ogni tanto  si avvicinavano al nonno per toccargli la mano».

La coscienza della finitezza non basta a spiegare il dolore innocente, la malattia dei bambini,
la sorte che si accanisce con chi ha già sofferto.

«Il problema è la distribuzione del male. Resta drammatica quella pagina de “La peste” di Albert Camus, dove davanti  alla morte di un bambino si afferma: non posso credere a un Dio che permette questo. È l’eccesso del male. Qui ha inizio  a frontiera in cui si attestano le religioni con le loro  risposte, che non esauriscono il mistero. Nel Libro di  Giobbe, al culmine della disperazione umana, Dio parla e spazza via tutte le spiegazioni e i tentativi di razionalizzare. La  oluzione può essere solo meta-razionale, globale e trascendente e si trova nell’incontro con Dio».

La risposta del cardinale Ravasi?
«È quella cristiana, totalmente diversa dalle altre religioni. Perché nel cristianesimo è Dio stesso, in Cristo, che non  solo si piega verso di noi per spiegarci il significato della sofferenza, non solo in qualche caso guarisce grazie alla sua  onnipotenza con i miracoli, ma entra nella nostra umanità e prova tutto il dolore dell’uomo. Il dolore fisico, morale, la  paura, il silenzio del Padre. E alla fine anche la morte, che è la carta d’identità dell’uomo, non di Dio. Diventa un  cadavere, senza mai cessare di essere Dio, soffre tutta la sofferenza umana e vi depone un germe di trasfigurazione, che è la resurrezione, fecondando la nostra natura mortale».

Questo però non cancella e il dolore né la domanda. Anche per chi crede.
«Gesù Cristo, il Figlio di Dio non è venuto a cancellare il dolore, tant’è vero che lo ha vissuto. Ma lo ha assunto su di sé  e trasfigurato con il germe dell’infinito, che è preludio d’eternità per noi. Il cristianesimo è una religione fieramente  carnale e vicina al dramma di chi soffre – al contrario di tante altre religioni – perché per i cristiani Dio è diventato un  uomo ed è morto in croce. I cristiani, come attesta la nascita degli ospedali, hanno sempre avuto questa attenzione  verso i malati, perché credono in un Dio che è stato sofferente, ha conosciuto la morte ed è risorto».

Il suo dicastero ha organizzato di recente un convegno dedicato alle staminali adulte, via alternativa all’uso di quelle embrionali. Chiesa e scienza si possono ritrovare insieme?
«L’utilizzo delle cellule embrionali sta ottenendo risultati minimi rispetto a quelli ottenuti con le staminali adulte: si  cancella così il luogo comune che ci attribuisce la responsabilità di non voler alleviare le sofferenze di tanti malati.  Proprio le staminali adulte, che non hanno alcuna controindicazione di tipo etico, stanno portando risultati  incoraggianti in campo oncologico, e contro il Parkison e l’Alzheimer».

 

in “La Stampa” del 26 novembre 2011

Ripensare l’integrazione degli immigrati

“Il presidente ha ragione bisogna ripensare la legge o siamo destinati al declino”:

intervista ad Andrea Riccardi, a cura di Marco Ansaldo.

 

«Sì, il presidente Giorgio Napolitano ha ragione: c’è la possibilità di riprendere in mano le politiche sull’immigrazione. E dunque occorre ripensare la legge sulla cittadinanza. Perché l’integrazione è un tema centrale di quest’epoca. Lo  faremo, allora, nell’interesse del Paese, della generazione dei bambini immigrati e delle loro famiglie».
Per Andrea Riccardi è un periodo davvero intenso. Citato pubblicamente ieri dal capo dello Stato per l’importanza del nuovo ministero che gli è stato affidato, ma anche elogiato da un ministro del passato governo (Gianfranco Rotondi, il  quale ha detto che lo storico della Chiesa e fondatore della Comunità di Sant’Egidio «ha una bella storia personale»), sa  di avere dietro di sé anche l’attenzione del Vaticano e dello stesso Pontefice, che lo conosce bene e lo stima. Riccardi  allora si schernisce, e si dice ancora «scombussolato» per la chiamata del premier Mario Monti a partecipare al nuovo esecutivo in un ruolo chiave, benché senza portafoglio. E tuttavia «felice» per la nuova avventura.
Lo incontriamo mentre esce dal suo ministero, a Roma, a Largo Chigi.

Il presidente della Repubblica ha parlato di «assurdità e follia» per il fatto che i figli degli immigrati nati in Italia non siano cittadini italiani. È uno dei temi centrali del suo ministero. Che cosa ne pensa?
«Mi sembra che il capo dello Stato abbia dato – per la seconda volta nel giro di pochi giorni – un contributo al  ripensamento dell’identità italiana. Ponendo l’accento sull’importanza di sapere chi siamo e dove andiamo. Un argomento decisivo».


Perché?

«Intanto perché giunge nell’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia. Proprio quest’anno i giovani hanno potuto  riscoprire le loro radici, direi con un orgoglio maturo».


E poi?

«Perché ha posto il problema dei nuovi italiani e fatto cenno alla legge che porta il suo nome, la Turco-Napolitano del  1998, che segnala un percorso per stabilizzare gli stranieri, seguendo una logica che va dal momento dell’emergenza a quello della stabilizzazione del fenomeno».

Però oggi le prospettive sono diverse.
«Sì, lo sono perché ora abbiamo un popolo di bambini che sono figli di immigrati. I nati in Italia giuridicamente  stranieri superano il mezzo milione. E i minori residenti sono quasi un milione.
Insomma, parlano l’identica lingua, vedono i medesimi paesaggi, vivono la stessa storia, sono legati al nostro mondo.  Senza di loro l’Italia sarebbe più vecchia e con minori capacità di sviluppo».


Qual è la sua intenzione allora?

«Occorre ripensare la legge sulla cittadinanza. Questo proprio perché abbiamo fiducia nella nostra identità. Che è forte  e al tempo stesso flessibile. Capace di integrare».

Un obiettivo ambizioso. Ma non vede dei rischi?
«Io piuttosto vedo convergere in questo progetto, come nelle grandi scelte della politica, l’identità nazionale con  l’interesse nazionale. E anche con l’interesse dei soggetti in questione, cioè i bambini e le loro famiglie».

In quanto fondatore di Sant’Egidio è un argomento a lei caro. Non si attirerà però delle critiche?
«Veramente, e lo dico in modo assolutamente modesto, sono anni che auspico che questo tema sia trattato in modo  ragionevole, legale, e soprattutto umano. Prima di ricevere questo incarico avevo già deciso di parlare di integrazione. Lo faccio ora a maggior ragione».

E dal punto di vista storico come lo considera?
«Credo che il tema dell’immigrazione sia importante tanto quanto la questione dei confini nell’Otto- Nocevento. E  andrebbe affrontato perciò in modo preveggente, freddo e ragionevole».

Si dice che l’Italia abbia una società invecchiata, se non addirittura sclerotizzata. Ma è davvero così?
«Beh, sul tema dell’immigrazione ci si gioca sul serio il futuro, e la possibilità di acquisire nuove energie. L’integrazione  è un passaggio importante. Gli stranieri ringiovaniscono il Paese. È una grande possibilità per il domani. E per tutti i cittadini italiani».

Napolitano ieri ha ricordato il significato della sua nomina a ministro, citando «l’integrazione nella società e nello Stato italiano». Un invito chiaro a puntare su questo aspetto?
«Io sono grato che Napolitano abbia fatto cenno al mio ministero. Anzi confesso che non sono ancora abituato a  pronunciare questa parola, sono ancora fresco di nomina. Ma credo che rappresenti un segnale per affrontare la questione in modo non partigiano».

 

Documentazione

 

Sabato 19 novembre 400 persone hanno partecipato alle prime ‘Assises nationales de la diversité culturelle’ a Parigi. La giornata, fatta di conferenze e di laboratori, organizzata da ‘Témoignage chrétien’ e ‘Salamnews’, si è conclusa con un appello per una società interculturale.

 

Benedetto XVI e l’Africa

Realismo e speranza sono infatti le chiavi di lettura del documento e della visita papale in questo Paese, certo non grande e segnato dalla povertà, ma soprattutto giovane e vitale. Giovinezza e vitalità esuberanti, come è apparso con evidenza immediata dall’accoglienza calorosissima da parte del popolo beninese – riversatosi nelle strade per festeggiare e salutare il Papa – e da parte delle sue autorità, a iniziare da Thomas Boni Yayi, il presidente della Repubblica, cristiano protestante. “Amico autentico dell’Africa” ha poi definito Benedetto XVI, a nome delle istituzioni del Benin, il gran cancelliere Koubourath Osseni, donna e musulmana, esprimendo una percezione comune e diffusa, sicuramente non soltanto tra i cattolici.
Sì, il vescovo di Roma è un vero amico dell’Africa, rispettata e amata dalla Chiesa cattolica. Sentimenti, questi, che emergono a ogni pagina dell’esortazione apostolica. Un documento che non è rivolto soltanto al grande continente che avanza e si rinnova, ma a tutto il mondo. Con parole che invitano a non avere paura della modernità e a viverla con coraggio, radicati nella tradizione. Secondo una continuità cattolica che in queste terre risale alle primissime generazioni cristiane. Significativi sono così il ricordo dei Padri della Chiesa africani, il richiamo della vita contemplativa abbracciata nei primi secoli ma anche nel Novecento e l’auspicio a rinnovare la tradizione teologica e intellettuale della scuola di Alessandria.
Modernità e tradizione, dunque, come nei canti latini mescolati a ritmi africani che oggi rinnovano l’esperimento felice della Missa luba di oltre mezzo secolo fa. A dimostrazione della maturità cristiana raggiunta, come afferma l’esortazione Africae munus, che Benedetto XVI ha firmato attorniato da cardinali e vescovi del continente. Con indicazioni valide per tutto il mondo cattolico, nel riaffermare che il ruolo della Chiesa non è politico, ma soprattutto di educazione al senso religioso, per annunciare Cristo, tesoro prezioso. Anche se impegnative politicamente sono le conseguenze che devono scaturirne: riconciliazione, giustizia, pace, dialogo paziente tra le religioni. Per non spegnere la speranza, espressa dal simbolo, evocato dal Papa, della mano tesa.

Resterà questo viaggio di Benedetto XVI in Benin. E a lungo rimarranno le immagini e le parole del ritorno in Africa del Papa, venuto nel continente una prima volta come vescovo di Roma per consegnare a Yaoundé il documento preparatorio dell’assemblea sinodale e ora tornato per firmarne l’esortazione apostolica conclusiva. “Dato a Ouidah, in Benin, il 19 novembre dell’anno 2011, settimo del mio pontificato” è la formula solenne che si legge alla fine del lungo testo, vera e propria magna charta che, con realismo e speranza, delinea il futuro di una parte del mondo troppo spesso sfruttata e, nello stesso tempo, il compito che la Chiesa cattolica è chiamata a svolgervi.

g. m. v. (©L’Osservatore Romano 20 novembre 2011)

 

 

L’esortazione apostolica Africae munus

 

“Terra di una nuova Pentecoste”, l’Africa è chiamata a diventare “Buona Novella” per la Chiesa e per il mondo. È con questa convinzione che il Papa ha affidato alla comunità ecclesiale e civile del continente l’esortazione apostolica post-sinodale Africae munus, firmata nella tarda mattinata di sabato 19 novembre, nella basilica di Ouidah. Il documento – che Benedetto XVI consegnerà ufficialmente ai vescovi africani nel corso della messa di domenica mattina a Cotonou – si basa sulla consapevolezza che “una Chiesa riconciliata al suo interno e tra i suoi membri” può essere “segno profetico di riconciliazione a livello della società”. Perché solo “riconciliati e in pace con Dio e con il prossimo – ha spiegato il Pontefice – gli uomini possono lavorare per una maggiore giustizia in seno alla società”. Proprio a questi temi il Papa ha dedicato anche il discorso pronunciato all’inizio della giornata davanti ai rappresentanti politici e religiosi del Benin, riuniti nel palazzo presidenziale. A loro e ai responsabili del resto del mondo ha chiesto di essere “servitori della speranza” e costruttori di futuro, dando risposte concrete alle legittime rivendicazioni di “maggiore dignità” e “maggiore umanità” che provengono dai popoli.

(©L’Osservatore Romano 20 novembre 2011)

Africae munus: Esortazione Apostolica Postsinodale sulla Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace (19 novembre 2011)

 

 

LA VISITA IN BENIN

 

 

 

 


Il Papa ai governi: non private
l’Africa della speranza

“Grazie per l’accoglienza calorosa, direi semplicemente per ‘l’accoglienza africana”, che mi avete riservato”. Sono le parole con cui il Papa ha concluso il suo incontro con i vescovi del Benin, nella nunziatura di Cotonou, ultimo appuntamento di una giornata densissima di impegni, incontri, parole e fatti e soprattutto del calore della popolazione e delle personalità che lo ha incontrato. La gente per le strade, a piedi, in carrozzella, su moto con scritte in cinese sulla carlinga, ha mostrato il suo affetto in modo semplice e spontaneo. Le autorità lo hanno fatto con i discorsi pubblici.

 

 

 

 

L’INCONTRO CON I BAMBINI A COTONOU
“Il giorno della mia prima Comunione è stato uno dei più bei giorni della mia vita”. Benedetto XVI ha voluto ricordarlo oggi nell’incontro più tenero di questo straordinario viaggio africano, quello con i bambini della parrocchia di Santa Rita a Cotonou, dove è rientrato nel pomeriggio dopo la visita a Ouidah. “Non lo è stato forse anche per voi?”, ha chiesto ai piccoli che lo circondavano sottolineando che la gioia quel giorno “non è solo a causa dei bei vestiti o dei regali o anche del pranzo della festa, è soprattutto perché, quel giorno, riceviamo per la prima volta Gesù-Eucaristia”. “Quando io faccio la comunione – ha spiegato il Pontefice teologo piegandosi alla semplicità del linguaggio di chi stava conversando con lui – Gesù viene ad abitare in me. Devo accoglierlo con amore e ascoltarlo attentamente. Nel profondo del mio cuore, posso dirgli per esempio: Gesù, io so che tu mi ami. Dammi il tuo amore così che io ti ami e ami gli altri con il tuo amore. Ti affido le mie gioie, le mie pene e il mio futuro”.

“Non esitate cari bambini – ha poi suggerito ai bambini ricordando San Kizito il piccolo martire ugandese, paggio della corte reale, ucciso alla fine dell’800 con 21 compagni per non aver voluto rinnegare il proprio battesimo – a parlare di Gesù agli altri. Egli è un tesoro che bisogna saper condividere con generosità. Nella storia della Chiesa, l’amore di Gesù ha riempito di coraggio e di forza tanti cristiani e anche dei bambini come voi! Così, san Kizito, un ragazzo ugandese, è stato messo a morte perché voleva vivere secondo il Battesimo che aveva ricevuto. Kizito pregava. Aveva capito che Dio è non solo importante, ma che è tutto”.

Alla fine dell’incontro ognuno dei piccoli ha ricevuto in dono un rosario. “Quando lo avrete in mano – ha detto loro Benedetto XVI – potrete pregare per il Papa, per la Chiesa e per tutte le intenzioni importanti”. “E ora – ha esortato – prima che io vi benedica tutti con grande affetto, preghiamo insieme un’Ave Maria per i bambini del mondo intero, specialmente per quelli che soffrono la malattia, la fame e la guerra”.

Nel seminario di Ouidah, in mattinata, ilPapa aveva invece ricordato la sua ordinazione sacerdotale nel breve saluto ai seminaristi del Benin. “Dopo 60 anni di vita sacerdotale – erano state le sue parole – posso confidarvi cari seminaristi, che non rimpiangerete di avere accumulato durante la vostra formazione tesori intellettuali, spirituali e pastorali”. I futuri sacerdoti sono stati così incoraggiati “a mettersi alla scuola di Cristo per acquistare le virtù che vi aiuteranno a vivere il sacerdozio ministeriale come il luogo della santificazione”. “Fuori da questa logica – infatti – il ministero non è che una semplice funzione sociale”.

LA FIRMA DELL’ESORTAZIONE APOSTOLICA “AFRICAE MUNUS”
Punizione dei “responsabili” dei conflitti e “finanziatori dei crimini” e “giustizia per le vittime”. Lotta all’analfabetismo, che in Africa è un “flagello” pari a Aids, Tbc e malaria. Azione decisa dei cristiani e della Chiesa contro la violenza sulle donne, spesso collegata a pratiche ancestrali, e per la promozione di ragazze e donne in ogni ambito sociale.

Sono alcune delle proposte più forti che il Papa avanza nella Esortazione apostolica “Africae munus – L’impegno dell’Africa”, 130 pagine nella edizione italiana in cui Benedetto XVI raccoglie le proposte del sinodo  per l’Africa del 2009 e le rilancia alla Chiesa, volendo fare di quell’evento un punto di partenza per il rilancio del continente africano.

Nel testo Benedetto XVI parla sempre in positivo di “sfide” per l’Africa e per ognuna passa dalla denuncia alla indicazione di obiettivi e possibili soluzioni. Tra le indicazioni di Benedetto XVI anche: l’Occidente impari dall’Africa il modo di prendersi cura degli anziani; difendere i giovani da “mancanza di formazione, disoccupazione, sfruttamento politico” perché non cadano nella “frustrazione” e possano “prendere in mano il proprio avvenire”; difendere i bambini dai “trattamenti intollerabili inflitti a tanti di loro in Africa”, tra cui i bimbi soldato, i bimbi vittime di stregoneria, i bimbi schiavizzati sessualmente; combattere “sfruttamento e malversazioni locali e straniere” che privano le popolazioni africane delle proprie risorse naturali, aumentando la “povertà” e impedendo “ai popoli africani di consolidare le proprie economie”: il Papa “incoraggia i governanti a proteggere i beni fondamentali, quali sono la terra e l’acqua” per la vita delle generazioni future e per la pace.

Il testo papale auspica inoltre che la “globalizzazione della solidarietà” eviti la “tentazione del pensiero unico sulla vita, sulla cultura, sulla politica, sull’economia, a vantaggio di un costante rispetto etico delle diverse realtà umane per una solidarietà effettiva”.

Nel documento anche una ampia sezione sulla Chiesa in Africa, sul ruolo di vescovi, preti, laici e donne, sul rapporto con le culture tradizionali e con le altre religioni, compreso l’islam, con il quale il Papa auspica “collaborazione”. Benedetto XVI si augura inoltre la proclamazione di “nuovi santi africani”. L’Esortazione apostolica si conclude con un rinnovato appello all’Africa ad alzarsi in piedi e prendere in mano il proprio futuro, per essere, come a tutto diritto può essere, “polmone spirituale per il mondo intero”.

L’INCONTRO CON I SEMINARISTI E I SACERDOTI
“L’amore per il Dio rivelato e per la sua Parola, l’amore per i Sacramenti e per la Chiesa, sono un antidoto efficace contro i sincretismi che sviano. Questo amore favorisce una giusta integrazione dei valori autentici delle culture nella fede cristiana. Esso libera dall’occultismo e vince gli spiriti malefici, perché è mosso dalla potenza stessa della Santa Trinità”. Lo ha detto Papa Benedetto XVI, in questi giorni in visita in Benin, nel corso dell’incontro con i sacerdoti, i seminaristi, i religiosi e fedeli laici nel cortile del seminario Saint Gall a Ouidah.

“Vissuto profondamente -ha rilevato il Papa – questo amore è anche un fermento di comunione che infrange ogni barriera, favorendo così l’edificazione di una Chiesa nella quale non vi è segregazione tra i battezzati, perché tutti non sono che uno in Cristo Gesù. Con grande fiducia conto su ciascuno di voi, sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi e fedeli laici, per far vivere una Chiesa così”.

“Di fronte alle sfide dell’esistenza umana – ha rilevato Benedetto XVI – il sacerdote di oggi come quello di domani – se vuole essere un testimone credibile a servizio della pace, della giustizia e della riconciliazione – dev’essere un uomo umile ed equilibrato, saggio e magnanimo. Dopo 60 anni di vita sacerdotale, posso confidarvi, cari seminaristi, che non rimpiangerete di avere accumulato durante la vostra formazione tesori intellettuali, spirituali e pastorali”.

BAGNO DI FOLLA NEL TRASFERIMENTO A OUIDAH
Una quantità impressionante di persone lungo i circa 40 chilometri da Cotonou a Ouidah ha assistito al passaggio del Papa, diretto dalla città degli schiavi per rendere omaggio alla tomba del cardinale Bernardin Gantin, eroe nazionale beninese e figura di spicco della Chiesa d’Africa a Roma.

La folla festeggia il passaggio del corteo papale con canti e sventolando striscioni. Prima di recarsi in macchina a Ouidah – e dopo aver incontrato gli esponenti politici, diplomatici e religiosi del Benin, tra cui la gran cancelliera del Paese, signora Koubourath Osseni, di religione islamica, che gli ha anche rivolto un discorso di saluto – il Papa ha reso una visita di cortesia, nel palazzo presidenziale di Cotonou, al presidente della Repubblica del Benin, Thomas Boni Yayi. Dopo il colloquio privato c’è stato lo scambio dei doni e le foto ufficiali. Il Papa ha anche firmato il libro d’oro. Il presidente ha donato al Pontefice una croce pettorale con su scritto “Benin 2011-Riconciliazione, giustizia e pace”, un paramento liturgico ricamato dalle suore e alcuni abiti tradizionali con stampate al centro le immagini di Benedetto XVI, Giovanni Paolo II e del cardinale Gantin.

Contemporaneamente all’incontro tra il Papa e il presidente beninese si è svolto un colloquio tra il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, accompagnato dal nunzio, dal sostituto e dal presidente della Conferenza episcopale beninese, con il ministro degli Esteri del Benin e con altri sei ministri del piccolo Stato che ospita Benedetto XVI per il suo secondo viaggio africano. Nei colloqui, ha riferito il portavoce del Papa padre Federico Lombardi, si è parlato anche del contributo della Chiesa alla vita e allo sviluppo della società beninese.

L’INCONTRO NEL PALAZZO PRESIDENZIALE
No ai conflitti “in nome di Dio” e per un “dialogo interreligioso” che rispetti le diversità. Lo ha chiesto oggi il Papa incontrando nel palazzo presidenziale di Cotonou esponenti politici, diplomatici e religiosi del Paese . “Non mi sembra necessario ricordare – ha detto – i recenti conflitti nati in nome di Dio, e le morti date in nome di Colui che è la Vita. Ogni persona di buon senso comprende che bisogna sempre promuovere la cooperazione serena e rispettosa delle diversità culturali e religiose”.

“Nonostante gli sforzi compiuti, – ha osservato Benedetto XVI – sappiamo anche che, talvolta, il dialogo interreligioso non è facile, o anche che è impedito per diverse ragioni. Questo non significa affatto una sconfitta. Le forme del dialogo interreligioso sono molteplici. La cooperazione nel campo sociale o culturale può aiutare le persone a comprendersi meglio e a vivere insieme serenamente. È anche bene sapere che non si dialoga per debolezza, ma che si dialoga perché si crede in Dio”.

Benedetto XVI ha quindi commentato come le considerazioni che ha svolto oggi si applichino “in maniera particolare all’Africa” dove in molte famiglie i membri professano diverse religioni, e convivono pacificamente. Si tratta di una “unità” dovuta “non solo alla cultura”, ma anche all’ “affetto”. “Naturalmente, – ha ricordato Benedetto XVI – talvolta ci sono anche delle sconfitte, ma anche parecchie vittorie. In questo campo particolare, l’Africa può fornire a tutti materia di riflessione ed essere così una sorgente di speranza”.

Il Papa ha concluso con una immagine: la mano. “La compongono cinque dita, diverse tra loro. Ognuna di esse però è essenziale e la loro unità forma la mano. La buona intesa tra le culture, la considerazione non accondiscendente delle une per le altre e il rispetto dei diritti di ciascuno sono un dovere vitale. Occorre insegnarlo a tutti i fedeli delle diverse religioni. L’odio è una sconfitta, l’indifferenza un vicolo cieco, e il dialogo un’apertura!”.

In Africa non mancano alcuni segnali di speranza: “in questi ultimi mesi – ha elencato il Papa – numerosi popoli hanno espresso il loro desiderio di libertà, il loro bisogno di sicurezza materiale e la loro volontà di vivere armoniosamente nella diversità delle etnie e delle religioni. È anche nato un nuovo Stato nel vostro Continente”. Ma, ha aggiunto, “numerosi sono stati anche i conflitti generati dall’accecamento dell’uomo, dalla sua volontà di potere e da interessi politico-economici che escludono la dignità delle persone o quella della natura. La persona umana aspira alla libertà; vuole vivere degnamente; vuole buone scuole e
alimentazione per i bambini, ospedali dignitosi per curare i malati; vuol essere rispettata; rivendica un modo di governare limpido che non confonda l’interesse privato con l’interesse generale; e soprattutto, vuole la pace e la giustizia”.

VENERDI’ L’ARRIVO A COTONOU
No alla “sottomissione incondizionata alle leggi del mercato o della finanza”, al “nazionalismo e tribalismo esacerbato e sterile, che possono diventare micidiali”, alla “politicizzazione estrema delle tensioni interreligiose a scapito del bene comune o infine alla disgregazione dei valori umani, culturali, etici e religiosi”. Lo ha detto il Papa nel discorso all’aeroporto di Cotonou, dove è stato accolto dal presidente Thomas Boni Yayi e dall’arcivescovo di Cotonou, Antoine Ganyé. Benedetto XVI ha invitato a non aver “paura della modernità” che però, ha aggiunto, “non deve costruirsi sull’oblio del passato”, evitando “gli scogli che esistono sul continente africano”.

Nel suo primo discorso di questo viaggio il Papa ha ricordato l'”affetto” che nutre per Africa e Benin e ha ricordato il card. Bernardin Gantin, morto nel 2008 e eroe nazionale africano, al quale tra l’altro è dedicato l’aeroporto di Cotonou. “Il Benin è un Paese in pace”, nel quale “funzionano” le istituzioni democratiche e si respira uno “spirito di libertà e responsabilità”, di giustizia e di senso del “lavoro per il bene comune”.

Dopo la cerimonia di accoglienza calorosissima all’aeroporto, con centinaia di ragazze in abiti tradizionali che
ballavano sulla pista trasformata dalla coreografia in un cielo azzurro con il colore dei foulard delle danzatrici, Papa Ratzinger ha raggiunto sulla “Papamobile” la Cattedrale attraversando la città gremita di folla. Le transenne, dove c’erano, non hanno retto e le vie erano invase. Ma non ci sono state difficoltà per la Papamobile nel raggiungere il centro, e il Pontefice appariva molto contento di tanto entusiasmo.

Primo atto della visita in Benin di Benedetto XVI è stato nel pomeriggio rendere omaggio a Maria Madre dell’Africa e agli eroici vescovi che hanno saputo guidare il cammino di questo Paese dal comunismo alla libertà. “Un omaggio con riconoscenza”, ha definito il suo gesto Papa Ratzinger, parlando durante la visita alla cattedrale di Nostra Signora della Misericordia a Cotonou dove riposano monsignor Christophe Adimou e monsignor Isidore de Sousa. “Essi – ha ricordato – sono stati valorosi operai nella Vigna del Signore,
e la loro memoria resta ancora viva nel cuore dei cattolici e di numerosi abitanti del Benin. Questi due presuli sono stati, ciascuno a suo modo, Pastori pieni di zelo e di carità. Si sono spesi senza risparmio al servizio del Vangelo e del Popolo di Dio, soprattutto delle persone più vulnerabili”. “La Vergine Maria – ha affermato Benedetto XVI riferendosi poi alla patrona della Cattedrale – ha sperimentato al massimo livello il mistero dell’amore divino”. Tramite il suo sì alla chiamata di Dio, “ella ha contribuito alla manifestazione dell’amore divino tra gli uomini. In questo senso, è Madre di Misericordia per partecipazione alla missione del suo Figlio;
ha ricevuto il privilegio di poterci soccorrere sempre e dovunque”. “Al riparo della sua misericordia – ha ricordato il Papa – i cuori feriti guariscono, le insidie del maligno sono sventate e i nemici si riconciliano. In Maria abbiamo non soltanto un modello di perfezione, ma anche un aiuto per realizzare la comunione con Dio e con i nostri fratelli e le nostre sorelle”. Invitando i cattolici del Benin e di tutta l’Africa a invocarla con fiducia, il Papa ha poi pubblicamente chiesto alla Vergine di esaudire “le più nobili aspirazioni dei giovani africani”, “i cuori assetati di giustizia, di pace e di riconciliazione”, “le speranze dei bambini vittime della fame e della guerra”.

 

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Africa risorgi! Vademecum del viaggio del papa in Benin

di Sandro Magister


Il viaggio che Benedetto XVI si appresta a compiere in Benin è il suo ventiduesimo fuori d’Italia e il secondo in Africa, dopo quello del marzo del 2009 in Camerun e in Angola che attirò l’attenzione mondiale su alcune sue affermazioni riguardo al preservativo nella lotta all’AIDS:

> Mine vaganti. In Africa il preservativo, in Brasile l’aborto

In quello stesso anno 2009, in ottobre, il sinodo dei vescovi tenne anche una speciale sessione dedicata all’Africa, che terminò con cinquantasette “propositiones” presentate al papa:

> Sinodo per l’Africa, penultimo atto. Le proposizioni finali

In Benin papa Joseph Ratzinger trarrà le conclusioni di quel sinodo. Sabato 19 novembre, poco dopo mezzogiorno, firmerà l’esortazione apostolica postsinodale “Africæ munus”. E il giorno dopo, domenica 20, la consegnerà ufficialmente ai vescovi del continente.

Il testo integrale dell’esortazione, in più lingue, potrà essere letto e scaricato da questa pagina web del Vaticano, a partire dal pomeriggio di sabato 19:

> “Africæ munus”

Quanto allo svolgimento del viaggio, ne darà man mano notizia quest’altra pagina web, in italiano, in inglese e in spagnolo:

> News.va

Ma per chi vorrà andare ai testi integrali del papa, la pagina giusta è quest’altra, con il programma dettagliato del viaggio e i discorsi, ciascuno dei quali apparirà in rete poche ore dopo che sarà stato pronunciato:

> Viaggio Apostolico in Benin, 18-20 novembre 2011

Benedetto XVI, in Benin, parlerà prevalentemente in francese. In qualche momento anche in inglese e in portoghese. Le versioni integrali in italiano, in inglese e in spagnolo saranno disponibili in rete da subito.

I discorsi del papa saranno in tutto dodici. Ma alcuni avranno più rilievo di altri e meriteranno una particolare attenzione.

Venerdì 18 novembre farà notizia il botta e risposta tra Benedetto XVI e i giornalisti in volo sull’aereo papale. Il papa risponderà a braccio, e di conseguenza la trascrizione integrale e autorizzata delle sue parole tarderà di qualche ora. Ma l’essenziale sarà messo quasi subito in rete da News.va e dalla Radio Vaticana.

Sabato 19 novembre il discorso clou sarà quello che Benedetto XVI rivolgerà, nel palazzo presidenziale di Cotonou, alle autorità istituzionali e politiche, al corpo diplomatico, a uomini di cultura e a rappresentanti delle principali religioni.

Nel pomeriggio dello stesso giorno di sabato 19 sarà anche da tener d’occhio una novità. Per la prima volta in un suo viaggio il papa incontrerà dei bambini e parlerà direttamente con loro. L’unico precedente del genere fu l’incontro che Benedetto XVI ebbe con i bambini della prima comunione di Roma e del Lazio in piazza San Pietro, il 15 ottobre 2005:

> “Caro papa…”

Domenica 20 novembre, infine, sarà importante l’omelia che Benedetto XVI pronuncerà durante la messa nello stadio “De l’Amitié” di Cotonou, con la consegna dell’esortazione postsinodale sull’Africa.

Tra i capitoli del documento sarà interessante vedere quello dedicato alle religioni tradizionali africane, sulle quali Benedetto XVI lo scorso mese ha avuto parole critiche:

> Africa. Quella religione che immola i bambini

Sul contributo dei cattolici del Benin alla democratizzazione del loro paese è uscito in Italia questo libro, presentato lo scorso 15 novembre alla Radio Vaticana dall’arcivescovo Giuseppe Bertello, presidente del governatorato dello Stato della Città del Vaticano e già nunzio in Benin, e da monsignor Barthélemy Adoukonou, beninese, segretario del pontificio consiglio della cultura:

Susanna Cannelli, “Cattolici d’Africa. La nascita della democrazia in Benin”, Guerini e Associati, Roma, 2011, pp. 256, euro 24,00.

L’autrice è responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i rapporti con i paesi dell’Africa occidentale francofona.

http://chiesa.espresso.repubblica.it/

17 novembre 2011

 

 

Benedetto XVI in Benin

 

 

 

Altri contributi

 

Con la consegna dell’esortazione apostolica «Africae munus» ai vescovi africani si è concluso il viaggio del Papa in Benin. Una Chiesa vicina ai poveri e ai sofferenti, ai malati di Aids. «Il futuro dell’Africa speranza per tutti» “«Perché un paese africano non potrebbe indicare al resto del mondo la strada da prendere per vivere una fraternità autentica nella giustizia fondandosi sulla grandezza della famiglia e del lavoro?»”

 

In occasione della visita pastorale di Benedetto XVI in Benin il prossimo fine settimana, “La Croix” descrive il terreno sociale e politico nel quale si sviluppa la Chiesa cattolica sul continente. “Dalla fine dell’offensiva delle FRCI in aprile, padre Jean-Louis percorre questa pista per portare aiuto ai rifugiati. In partenariato con il Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, distribuisce cibo e sementi a quelli che sono fuggiti a causa della guerra civile… Il ritorno al villaggio è indispensabile perché queste popolazioni possano uscire dall’estrema povertà nella quale si trovano dal mese di aprile”
“Il nostro ruolo è quello di aiutare ad uscire da una concezione della teologia di retribuzione, secondo la quale chi ha l’HIV ha per forza fatto qualcosa di male”, spiega Beverly Haddad, teologa anglicana e direttrice del centro. Questo lavoro teologico non teme di opporsi a certi discorsi della Chiesa cattolica… che invitava all’astinenza e alla fedeltà coniugale e condannava l’uso del preservativo. “Che senso ha parlare di fedeltà quando i due terzi degli adulti sudafricani non sono sposati e non lo saranno mai?”
“Se la coabitazione tra le due religioni sembra felice in Mali, la Chiesa deve far fronte, da alcuni anni, ad una corrente di profondità che sta trasformando l’islam del paese. Predicatori, imam, radio libere difendono apertamente un islam rigorista e, quindi, marginalizzano i cristiani… Per rispondere a questa situazione, i Padri Bianchi hanno fondato nel 2007 un istituto di formazione cristiano-islamico”
“‘Dobbiamo denunciare la corruzione senza pensare a eventuali rischi. È il nostro dovere di pastori denunciare ciò che è male’, assicura il cardinale Christian Tumi… conosciuto per la sua parola sincera e schietta… nel 1999 il Camerun è stato percepito come il paese più corrotto al mondo… [Nonostante] un’azione di lotta contro la corruzione e l’appropriazione indebita di fondi pubblici… la corruzione continua tranquillamente come se niente fosse stato fatto”
In occasione della visita pastorale di Benedetto XVI in Benin questo fine settimana, La Croix descrive il terreno sociale e politico nel quale si sviluppa la Chiesa cattolica sul continente. “La guerra civile ha straziato il paese dal 1976 al 1992 e ha fatto quasi un milione di morti… sono stati istituiti diversi corsi di formazione ai diritti umani nelle dodici diocesi… che hanno come obiettivo l’unificazione e la riconciliazione del paese… ‘Si tratta di consolidare la democrazia, insegnando ai mozambicani ad operare per il bene comune e a costruire il loro futuro'”
Il riscatto dell’Africa e il ruolo della Chiesa al centro della visita di Benedetto XVI in Benin. Riconciliazione, giustizia e pace le vie indicate dall’esortazione apostolica Africae munus firmata ieri dal pontefice. L’appello ai politici.
Con la consegna dell’esortazione apostolica «Africae munus» ai vescovi africani si è concluso il viaggio del Papa in Benin. Una Chiesa vicina ai poveri e ai sofferenti, ai malati di Aids. «Il futuro dell’Africa speranza per tutti» “«Perché un paese africano non potrebbe indicare al resto del mondo la strada da prendere per vivere una fraternità autentica nella giustizia fondandosi sulla grandezza della famiglia e del lavoro?»”

 

 

Video

 

 

 

 

 

Biblioteche ecclesiastiche in rete

Un patrimonio a portata di clic

Il Polo delle biblioteche ecclesiastiche (PBE) nasce nel 2007 e confluisce nel marzo 2010 nel Servizio bibliotecario nazionale. In questo primo anno di attività le nuove adesioni sono state costanti fino a raggiungere il significativo numero di 100 istituti, con già una decina di nuove biblioteche che stanno completando l’iter formativo per l’inserimento.
Ad oggi sono presenti 60 biblioteche diocesane, distribuite sul territorio nazionale con una lieve prevalenza di quelle collocate nel settentrione, mentre il patrimonio complessivo di copie custodite dal Polo sfiora quota 310.000, tutte catalogate secondo criteri riconosciuti a livello internazionale.
L’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici, che tiene le fila di questo imponente lavoro, ha preparato una dettagliata comunicazione per fare il punto dei diversi fronti che vedono impegnato il PBE, dando anche notizia della convenzione firmata lo scorso 15 novembre con l’ICCU, l’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche del Ministero per i beni e le attività culturali.
L’accordo riguarda la descrizione informatizzata dei documenti manoscritti ed accrescerà la sinergia tra le biblioteche ecclesiastiche del PBE e il sistema nazionale, attraverso l’utilizzo del sistema “Manus On-Line”. Al fine di programmare al meglio le attività, è stato predisposto un breve questionario che verrà distribuito nei prossimi giorni alle biblioteche del Polo per raccogliere on line le informazioni circa le collezioni manoscritte e il loro trattamento.

http://www.chiesacattolica.it/

L’ultima lettera di Alda Merini

Il 1° novembre di due anni fa si spegneva all’ospedale San Paolo di Milano Alda Merini. La notizia mi raggiunse a sera,  mentre rientravo da un viaggio in America Centrale, e a comunicarmela era un giornalista che naturalmente voleva  intervistarmi, riconoscendo la vicinanza che la poetessa aveva testimoniato a più riprese e in pubblico nei miei  confronti. Effettivamente l’amicizia era sorta quando io vivevo a Milano e si era manifestata da parte mia anche in tre  prefazioni che avevo scritto ad altrettanti suoi poemetti di forte intensità spirituale. Ma soprattutto il filo era tenuto  dalle sue interminabili telefonate che intrecciavano il suo affetto per me col libero sfarfallio della sua fantasia e con una  sorprendente caratteristica che la assimilava agli antichi rapsodi o aedi.
La Merini, infatti, creava spesso le sue poesie oralmente e spingeva il suo interlocutore a raccoglierle per scritto o  semplicemente – come nel mio caso – le affidava all’ascolto. Devo riconoscere di essermi pentito di non aver  cristallizzato quella voce nelle righe di un foglio, e d’essermi solo lasciato condurre dal flusso delle sue immagini, così  inquiete e cangianti, delle sue parole iridescenti come in un caleidoscopio, del balenare delle sue intuizioni spesso  folgoranti.
L’ultima telefonata fu da quel l’ospedale ove era ricoverata e ove veniva curata, credo, a fatica, dato il suo  temperamento insofferente di ogni continuità o regolarità, anche terapeutica.
Nello stesso timbro della voce intuivo la fatica che si univa a una sorta di «basso continuo» destinato esplicitamente a  me. Alda, infatti, non si era rassegnata alla mia partenza da Milano per Roma: la considerava come una fuga o un  tradimento nei confronti non solo suoi ma anche di una città che mi amava. Nella sua casa lungo i Navigli, immersa  nella confusione, persino nel degrado, lei mi aveva accolto la prima delle poche volte in cui la visitai, con una vera e  propria festa. Aveva costellato di mazzi di fiori il disordine estremo delle sue cose, aveva convocato un violinista e il  suo cantante preferito che metteva in musica i suoi versi e si era messa lei stessa al pianoforte, che suonava con  passione, per offrirmi un benvenuto caloroso secondo una sua tipica cifra simbolica, ossia l’eccesso nel donare.
Infatti, cercando spesso di rifiutare i suoi molteplici regali, io combattevo quella che chiamo la sua “autodepredazione”, che si manifestava nei confronti di tutti, attuando quel motto, che mi pare fosse di D’Annunzio,  secondo il quale «io ho solo ciò che ho donato». Ma, ritornando a quell’ultimo dialogo telefonico dall’ospedale, un  argomento era stato dominante. Di lì a poco io avrei presentato a Benedetto XVI, nella Cappella Sistina, quasi trecento  artisti provenienti da tutto il mondo, secondo ogni genere di arte. Naturalmente avevo invitato anche lei che  desiderava «dire alcune cose al Papa», come mi ripeteva. Già aveva pensato all’abito da indossare, mutando mille volte  parere e convincendosi alla fine che sarei stato io a trovarle quello adatto. Il 21 novembre 2009, data dell’incontro, si avvicinava e lei, dal letto dell’ospedale, percepiva l’impossibilità di quella sua enuta a Roma e ne  soffriva.
Mi confidò, allora, di essersi decisa a scrivere una lettera a Benedetto XVI che ammirava, pur essendo stata legata  idealmente e appassionatamente alla figura di Giovanni Paolo II.
Evidentemente ritenevo che fosse solo un sogno, nonostante l’ostinazione con cui mi ripeteva di farmi tramite per la  consegna. Lei confermava che l’avrebbe dettata ad alcuni suoi amici e amiche che l’assistevano e che aveva convinto a  preparare dipinti o foto o testi che accompagnassero la sua lettera. In verità, dopo la sua morte, preso com’ero dai  preparativi del l’incontro della Sistina, non pensai più a quel progetto di Alda, né ricevetti mai la lettera che avrei  dovuto presentare al Papa.
La sorpresa è stata forte quando alcuni mesi fa, per una semplice coincidenza – stavo preparando un altro incontro di  Benedetto XVI con gli artisti, in occasione dei suoi 60 anni di sacerdozio, evento che si è realizzato il 4 luglio scorso –  ebbi una fotocopia della lettera che effettivamente Alda Merini aveva dettato il 28 ottobre 2009, a tre giorni di  distanza dalla sua morte. Dattiloscritta su carta intestata dell’«Azienda Ospedaliera San Paolo Polo Universitario –  Ufficio Relazioni col Pubblico», lo scritto reca in finale la sua tipica firma-sigla e al suo interno custodisce tutta la trasparenza dell’umanità, della spiritualità, della storia sofferta della poetessa.
C’è il rimando ai suoi “allievi”, c’è la confessione delle colpe («io sono un guado pieno di errori»), c’è la dimensione  mistica della sua esperienza personale («ho incontrato faccia a faccia il Signore») e c’è anche il riferimento al suo  desiderio frustrato di incontrare nella Sistina il Papa: «Avrei voluto venire da lei ma me l’hanno proibito per la mia  salute e per riguardo ad Ella» (suggestivo questo segno di umiltà nella consapevolezza della sua “sregolatezza”). Ampio  è lo spazio riservato ai sentimenti materni che hanno tormentato tutta la sua esistenza. Le righe sono quasi intrise di lacrime e striate di amarezza e si fanno fin confuse attraverso il velo della sofferenza. Ritorna alla fine la sua confessione di colpa la fa equiparare alla Maddalena. E a suggello – al di là dell’invocazione di rito «per la malattia e la  guarigione di Alda Merini» – ecco un fulminante guizzo poetico: «Abbracci le donne, sono fredde come il ghiaccio».
Credo sia significativo – ora a distanza di anni – far conoscere questa testimonianza di una poetessa che è stata amata  da tanti lettori e lettrici e che è stata ascoltata con emozione da tanti giovani (ne sono stato spesso testimone) quando  in pubblico narrava senza pudore la sua esperienza drammatica nei manicomi, le sue lacerazioni, i suoi ardori, le sue  ascesi mistiche, la sua carnalità spirituale. È anche un modo per esprimerle gratitudine per un ascolto, una stima e un  affetto che mi aveva sempre riservato, giungendo fino al punto di dedicarmi a mia insaputa un’intera sua raccolta  poetica, La clinica dell’abbandono, pubblicata da Einaudi nel 2003.
A conclusione di questo ricordo molto personale mi tornano in mente alcuni versi di uno dei suoi scritti da lei  prediletti, il Magnificat dedicato a Maria la madre di Gesù, raffigurata nel gesto della “Pietà” michelangiolesca, ossia la  “deposizione” del corpo del Figlio, gesto che s’incrocia, però, con la memoria della maternità che accoglie il suo  bambino sulle ginocchia: «Miserere di me, che sono caduta a terra/come una pietra di sogno./Miserere di me, Signore,  che sono un grumo di lacrime./Miserere di me, che sono la tua pietà./Mio figlio,/grande quanto il cielo./Mio  figlio, che dorme sulle mie gambe…».

in “Il Sole 24 Ore” del 13 novembre 2011

Io sono come la Maddalena
di Alda Merini
Ospedale San Paolo
Milano, 28 ottobre 2009

Sua Santità Benedetto XVI
Santo Padre, mentre La ringrazio, La prego di tenere conto dei continui omaggi molto belli fatti da alcuni miei allievi,  fra i quali Giuliano, i quali, pur onorandoLa, sono assai lontani da Lei. Noi poveri peccatori cerchiamo di onorarLa con  disegni e preghiere, ma non vorremmo toccare l’ambito della superbia in cui è facile cadere. Grazie a Dio il  Cristianesimo trionfa ma attenti alle false meretrici e peccatrici perché Dio ama i peccatori come noi.
Io sono un guado pieno di errori che ho fatto e di cui mi pento.
Santo Padre ho sentito la Terra Santa perché ho incontrato faccia a faccia il Signore. Io sono vissuta nella sporcizia, ho  servito San Francesco e avrei voluto venire da Lei ma me lo hanno proibito per la mia salute e per riguardo ad Ella.  «Peccatore come sono» ma madre sicura che non meritava 4 figli. Sono belli ma non cattolici, alcuni di loro non sanno  di essere battezzati. Vanno a derubare la loro mamma ma sono sempre doni caro Santo Padre. Questi buoni ladroni  sono la mia consolazione e moriranno con me, con i miei dolori.
Hanno pianto, non avevano la mamma.
Ma la mamma è sempre stata con loro, non li ha mai abbandonati. Oh dolce è stato il mio destino al quale ho lasciato i  miei anni. Come è vera la storia di Maddalena, anche io come Maddalena.
Abbracci le donne sono fredde come il ghiaccio. Per la malattia e la guarigione di Alda Merini

Di fronte alle prospettive deflazionistiche: un nuovo modello di leadership

Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano.

 

Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul PIL per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.

Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.

A questo punto le soluzioni non sono più tante.

Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento.

È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari.

È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia.

Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.

I paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino.

Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.

Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.

Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli.

L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.

Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce.

Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al PIL. Nei paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del PIL, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.

La soluzione è in mano ai governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione.

Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica.

Ma soprattutto i governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una “governance” adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.

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Tra i numerosi interventi di Ettore Gotti Tedeschi sul crollo della natalità come causa ultima dell’attuale crisi economica mondiale, ecco una sintesi dell’articolo da lui pubblicato l’estate scorsa su “Atlantide”, rivista della Fondazione per la sussidiarietà, dell’area di Comunione e liberazione:

> Riprendiamo a fare figli e l’economia ripartirà

Su “L’Osservatore Romano” del 27 agosto 2011 Gotti Tedeschi si è pronunciato con ancor più energia contro la tassazione dei patrimoni privati, sostenuta da politici, sindacalisti, economisti, imprenditori e uomini d’affari di diversi paesi, oltre che da numerosi esponenti cattolici:

> L’orizzonte di Noè, per una vera soluzione della crisi

Gotti Tedeschi è inoltre fermamente contrario a una tassazione delle transazioni finanziarie in un paese come l’Italia, nel quale il risparmio delle famiglie è molto elevato. A suo giudizio questo risparmio privato, invece che punito con nuove tasse, dovrebbe essere indirizzato, con garanzie da parte dello Stato, a finanziare le imprese medie e piccole che sono l’ossatura dell’economia produttiva italiana.

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Una netta stroncatura del documento del pontificio consiglio della giustizia e della pace è venuta anche da un economista laico italiano di grande autorevolezza, il professor Francesco Forte, successore all’Università di Torino sulla cattedra che fu del grande economista liberale Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia e poi presidente della repubblica dal 1948 al 1955:

> Il professor Forte boccia il temino targato Bertone

In Francia un commento critico del documento è venuto dal professor Jean-Yves Naudet, dell’Université Paul Cézanne d’Aix-Marseille III, presidente dell’Associazione degli economisti cattolici:

> Un texte qui doit inviter à la réflexion

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Il documento del 24 ottobre 2011 del pontificio consiglio della giustizia e della pace:

> “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”

E la presentazione che ne hanno fatto il cardinale Turkson, monsignor Toso e l’economista Becchetti:

> Conferenza stampa del 24 ottobre 2011

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L’enciclica “sociale” di Benedetto XVI:

> “Caritas in veritate”

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Futuro dell’umanità

Tutti vorrebbero conoscere il futuro dell’ umanità. È più di una semplice curiosità o di un sfizio dell’ immaginazione. Si tratta di un bisogno arcano, da sempre nascosto nel profondo delle aspirazioni di ciascuno. Gli strumenti statistici e le analisi della società, tuttavia, riescono oggi, malgrado l’ invalicabilità del limite, a dirci qualcosa su come sarà probabilmente il mondo di domani. O, almeno, come potrebbe presentarsi la condizione di vita sulla Terra, se i parametri attuali rimanessero costanti. Cosa evidentemente insicura. È questo l’ argomento dell’ importante rapporto di quest’ anno del Fondo dell’ Onu per la popolazione. Il quadro che emerge sul futuro dell’ umanità appare veramente molto interessante. Intanto si conferma un dato del presente che riguarda il censimento complessivo. Dal 31 ottobre il nostro pianeta ha 7 miliardi di abitanti, un miliardo in più rispetto a 12 anni fa e 6 rispetto all’ Ottocento. Fin qui abbiamo a che fare non con le previsioni ma con una constatazione di base. L’ aumento demografico si consolida. Tanto che, se i tassi di crescita resteranno gli attuali, gli inquilini della Terra toccheranno nel 2100 la quota di 15 miliardi. Ma sappiamo anche che la tendenza attuale – come è già avvenuto prima – decrescerà nel futuro. Una prima riflessione s’ impone e riguarda la distribuzione degli incrementi che coinvolgono l’ emisfero nord in modo sensibilmente inferiore rispetto a quello centrale e meridionale. Nell’ Europa Occidentale ci sono oggi 170 abitanti per chilometro quadro. Nell’ Africa subsahariana 70. Maa nessuno viene in mente di affermare che in Europa ci sono troppe persone. Le ragioni macrodemografiche sono ovviamente complesse, coinvolgendo sia gli atteggiamenti economici che le identità culturali. In ogni caso il ritmo di aumento delle natalità, con il concorso effettivo della vita media, connesso con l’ invecchiamento occidentale, contribuirà di sicuro ad una forma di mescolamento migratorio inevitabile. Il documento delle Nazioni Unite, tuttavia, guarda soprattutto alle probabili modalità di configurazione dell’ ordine sociale dell’ avvenire. Si è registrato una costante intensificazione della mobilità, non soltanto da Paese a Paese, ma anche tra i diversi continenti. E, cosa abbastanza significativa, un processo di urbanizzazione crescente che si realizzerà in modo massiccio nei prossimi 40 anni. Qui si indica già un campo su cui attivare politiche adeguate, viste le tendenze all’ accentramento di popolazione di vasta scala nelle città. D’ altronde, il ruolo politico delle grandi metropoli sta diventando sempre più consapevolmente un perno del processo d’ integrazione democratica. Qui s’ incontrano demografia e cultura democratica. Il rapporto dà, però, in modo esplicito alcune indicazioni chiare sui giovani, cui è riconosciuto un potenziale enorme a causa del fatto che la metà della popolazione mondiale sarà composta da persone con meno di cinquant’ anni. Poiché l’ 80% proverrà da continenti in via di sviluppo, puntare su istruzione, salute e occupazione è interesse unanime. Stesso discorso anche per la condizione femminile che appare addirittura, tra le righe del resoconto, un elemento chiave per il bene comune dell’ umanità. L’ emancipazione del genere femminile, in costante accentuazione, garantirà insieme all’ acquisizione di un ruolo e di un’ identità specifica delle donne, un protagonismo fondamentale nell’ educazione delle successive generazioni. Due osservazioni di straordinaria rilevanza devono essere accompagnate a questi fatti. In primo luogo la constatazione, valida a livello globale, che non è possibile uno sviluppo complessivo dell’ umanità senza che le dinamiche spontanee siano supportate da interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’ accesso alle risorse. Questo primo punto è imprescindibile per scongiurare catastrofi umanitarie ed esiti negativi in termini di miseria e di impossibile sopravvivenza, specialmente nei Paesi cerniera che hanno rapidamente accesso a tassi di crescita significativi. In secondo luogo, come emerge con chiarezza nelle conclusioni del rapporto, è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite perché le crisi non verranno certo dall’ aumento della popolazione, ma dalle diseguaglianze culturali, ambientali ed economiche che possono insinuarsi. Per adesso, anzi, è una costante la crescita economica legata alla crescita demografica. Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’ applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali. Intervenire laddove gli sprechi sono estenuanti, pianificare un controllo degli investimenti, vuol dire garantire un’ espansione dell’ umanità in un mondo vivibile tendenzialmente e senza problemi da tutti. Appare, in tal senso, impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato nel permettere educazione, salute e formazione etica civilizzatrice della prole. Si deve riconoscere, insomma, che solo nel tessuto domestico si formano le categorie etiche fondamentali e si constata la pratica dell’ equa dignità tra i sessi, nonché la fiducia nel grado di umanizzazione che s’ intende diffondere a livello intergenerazionale. Dà comunque soddisfazione, per una volta, intravedere un quadro complessivo in cui non è la crescita di umanità ma la diminuzione d’ immoralità a minacciare il futuro. Un futuro, conviene precisare, che o è umano o non esiste. E per questo può pensarsi anche nel segno dell’ ottimismo.

 

Repubblica

02 novembre 2011 

La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi

Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso.
La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine  spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione,   anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un’Italia in cui  l’appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni  religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non  particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta  nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella  propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di  spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano  ercepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei  santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle  pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità  popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata.  Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile  ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione  ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca  attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo – parafrasando Peter  Berger – non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta»  che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L’immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal  cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l’80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in  cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una  funzione rassicurante per la nazione?
Perché molti continuano a identificarsi – pur in modo ambivalente – con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei  cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di  salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero,  per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi  dell’esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente  impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un’immagine del  cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come  muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota  di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come  criterio di vita, più per l’educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un  serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si  conciliano con la propria cultura e abitudini.
Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità
nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul
territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti italiani alla fede della  tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi  ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o  anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non  produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Si può essere  convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso  sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria  tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive  dell’esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa  di attribuire un’ anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall’altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.

in “La Stampa” del 1° novembre 2011

Halloween, la notte dei relativisti «Un rito che non ci appartiene»

 

L’anatema di due cardinali: snatura le feste della Chiesa.

 

Halloween nemica delle feste cattoliche di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti? Il dilemma si ripresenta da anni ad ogni fine ottobre.
Ma nel 2011 una differenza c’è. Riguarda la durezza con cui l’Arcidiocesi di Bologna del cardinale Carlo Caffarra ha  parlato di «brutta resa al relativismo dilagante», con tanto di nota sull’edizione bolognese di Avvenire, per la  manifestazione organizzata in piazza Re Enzo a base di zucche da intarsiare per Halloween dalla Coldiretti, associazione  di area cattolica. La curia invita a usare le zucche «per la vellutata o il ripieno dei tortelli». A Torino l’arcivescovo  Cesare Nosiglia rincara la dose: «La prossima festa dei Santi e la commemorazione dei fedeli defunti, tanto care alla tradizione anche familiare del popolo cristiano, da anni sono contaminate da Halloween. Tale festa non ha nulla a che  vedere con la visione cristiana della vita e della morte e il fatto che si tenga in prossimità delle feste dei santi e del  suffragio ai defunti rischia sul piano educativo di snaturarne il messaggio spirituale, religioso, umano e sociale che  questi momenti forti della fede cristiana portano con sé. Halloween fa dello spiritismo e del senso del macabro il suo  centro ispiratore».
Vincenzo Pace, docente di Sociologia della religione all’università di Padova, replica con una riflessione ottimista ma  che consegna un dubbio alla Chiesa: «Halloween non ha affatto soppiantato quella di Tutti i Santi. Il culto che la base  cattolica riserva proprio ai Santi è tuttora solidissimo. Io vivo a Padova e vedo cosa avviene ogni giorno alla Basilica di  ant’Antonio. La tradizione del pellegrinaggio perdura così come, ripeto, non conosce crisi il culto dei Santi. Direi  che resiste più della figura dello stesso Papa…». Affermazione interessante, visto che viene da un sociologo della religione. Pace respinge anche il nodo del relativismo: «Ricordo che le stesse figure dei santi sono relative, ciascuno ha il proprio “ambito” in cui esercita, secondo i credenti, una influenza».
Pippo Corigliano, scrittore (il suo «Preferisco il Paradiso» edito da Mondadori ha superato le 20 mila copie), per  uarant’anni responsabile delle relazioni esterne dell’Opus Dei, si schiera con i vescovi: «Hanno ragione, Halloween è  una moda importata dall’America che, come tutte le mode, inducono alla superficialità. La bonomia buongustaia  bolognese fa capolino anche in questo caso perché la nota della Curia invita a usare le zucche per i tortellini o per la  “vellutata”…». Detto questo, aggiunge Corigliano, «le feste di Tutti i Santi e della Commemorazione dei defunti sono comunque momenti sanamente inquietanti perché inducono a riflettere sull’aldilà. È bene ricordare che Gesù è stato  chiaro: esiste la vita eterna e l’immagine che usa più di frequente per illustrarla è quella del banchetto, cioè una  riunione di famiglia e di amici in cui si mangia e si sta bene assieme». Dunque una festa… «Un modo per far capire che  in Dio staremo bene e non ci mancherà nulla. Sarà come mangiare dei tortellini di zucca e anche meglio. In tutta Italia  si confezionano i dolci dei morti sotto forme molto svariate. L’importante è imitare Gesù nel suo amare tutti, altrimenti  ci sarebbe anche l’inferno col suo “pianto e stridore di denti”. Ma speriamo che l’argomento non ci riguardi».
Più problematico Brunetto Salvarani, teologo e critico letterario, impegnato nel dialogo interreligioso, direttore della  collana Emi «Parole delle fedi»: «Ritengo che il problema sia più ampio della questione legata ad Halloween e a una  possibile accusa di relativismo. C’è una questione di omologazione del tempo. Fino agli anni immediatamente  successivi alla Seconda guerra mondiale, in Italia gran parte dei credenti erano anche praticanti e, attorno alle  parrocchie, scandivano il tempo della propria vita con le festività». E ora, professor Salvarani? «Tutto diverso.
La pratica nelle chiese è quella che vediamo. Assistiamo a una sorta di nomadismo culturale, religioso e spirituale che  denota una trasformazione complessiva. Occorre porsi il problema se talune festività cattoliche abbiano perso la forza  di “parlare” ai fedeli».
Cosa dovrebbe fare il mondo cattolico? «Ci viene offerta un’occasione per stare dentro questa trasformazione, per  intercettarne i dati eventualmente positivi. La mutazione non dovrebbe vedere la Chiesa cattolica come semplice  spettatrice, se non addirittura come parte ostile. In una contingenza simile, non si può stare l’un contro l’altro armati».

in “Corriere della Sera” del 31 ottobre 2011

“Occupare Wall Street”

Il Vaticano sulle barricate

Alla vigilia del G-20 la Santa Sede invoca un’autorità politica universale che governi l’economia. Per cominciare, chiede che sia introdotta una tassa sulle transazioni finanziarie

 

A sentire padre Thomas J. Reese, professore alla Georgetown University di Washington e già direttore del settimanale dei gesuiti di New York, “America”, il documento rilasciato oggi dalla Santa Sede “è non solo più a sinistra di Obama: è più a sinistra anche dei democratici liberal ed è più vicino alle vedute del movimento ‘Occupare Wall Street’ che di qualsiasi membro del congresso americano”.

In effetti, il documento diffuso lunedì 24 ottobre dal pontificio consiglio della giustizia e della pace invoca niente meno che l’avvento di un “mondo nuovo” che dovrebbe avere il suo cardine in una autorità politica universale.

L’idea non è inedita. Era già stata evocata nell’enciclica “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, del 1963, ed è stata rilanciata da Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate” del 2009, al paragrafo 67.

La “Caritas in veritate”, però, diceva molto altro e molto di più e l’auspicio di un governo mondiale della politica e dell’economia non ne era sicuramente il centro.

Qui invece, l’intero documento ruota attorno a questa idea, richiamata fin dal titolo:

> “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”

Quanto di utopico e quanto di realistico ci sia, nell’invocazione di tale governo supremo del mondo, è fatto intravedere dal generale disordine che le cronache dell’attuale crisi economica e finanziaria ci descrivono ogni giorno.

All’ambito del realistico e del praticabile appartiene però uno specifico elemento di innovazione auspicato dal documento: la tassazione delle transazioni finanziarie, altrimenti detta “Tobin tax”.

Il documento dedica ad essa poche righe. E si sa che la proposta è contrastata da forti e argomentate obiezioni. Come pure si sa che la sostengono economisti famosi, quali Joseph Stiglitz e Jeffrey Sachs.

Ma nel presentare il documento alla stampa, la Santa Sede ha deciso di schierarsi con grande risolutezza a favore della “Tobin tax”. Non solo chiedendo di “riflettervi”, come si legge nel documento, ma rispondendo punto per punto alle obiezioni e mostrandone la praticabilità e l’utilità già nell’immediato.

Questa apologia della “Tobin tax” è stata affidata all’economista Leonardo Becchetti, professore all’Università di Roma “Tor Vergata”. Ed egli ha svolto il suo compito con precisione e con ricchezza di dati:

> “L’aspetto positivo delle crisi…”

Sul tavolo dei capi di governo del G-20, che si riuniranno a Cannes, in Francia, il 3 e 4 novembre prossimi, ci sarà dunque questa netta presa di posizione della Santa Sede a favore dell’introduzione della “Tobin tax”, il cui gettito “potrebbe contribuire alla costituzione di una riserva mondiale per sostenere le economie del paesi colpiti dalle crisi”.

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POST SCRIPTUM – Per una critica del documento da parte di un grande economista, vedi in “Settimo cielo”:

> Il professor Forte boccia il temino targato Bertone

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