Categoria: In evidenza
Inserire un’articolo in questa categoria se lo si vuole porre più evidente degli altri in home page. Attenzione! Vengono visualizzati come in evidenza solo gli utlimi 3 atricoli indipendentemente dalla categoria
Babele, fallimento di una sola cultura
Dio sparse i semi della diversità
Dopo il diluvio e la scialuppa di salvataggio di Noè, l’umanità ricresce e si raccoglie nella valle di Scin’ar. Costruisce una montagna a forma di torre per abitare in cielo. Nelle illustrazioni dell’episodio si vede un’opera incompiuta, ma secondo la lettera della scrittura sacra l’edificio ha raggiunto il suo culmine. L’impresa di abitare il cielo non viene interrotta, è invece fallita. E il più fantastico edificio mai concepito da una storia, degno perciò di un grandioso insuccesso. La divinità interviene dopo l’ultima pietra. Sulle labbra dei costruttori spiccano a zampillo le innumerevoli lingue del mondo, napoletano compreso. Non è un castigo ma un dono. L’umanità, fornita di un solo indirizzo e di una sola lingua, si era ridotta alla concordia di un termitaio, di un alveare. Il fervore dell’ opera aveva cancellato le scelte e le diversità. Erano diventati maestranze di una sola impresa.
La divinità con la consegna delle lingue restituisce la varietà, il viaggio, l’arbitrio. Babele è la parola che riassume il balbettio frenetico di una lingua sbriciolata in mille altre nuove. Così la divinità disperde la specie umana «sopra i volti di tutta la terra». Il progetto è chiaro: la sparge a seme dai ghiacciai ai deserti per farla attecchire ovunque, inestirpabile. Si allontanarono dall’ombelico di una valle, si moltiplicarono i suoi centri. Il dono delle lingue non servì solo a disperdere ma pure a attecchire. I nostri emigranti impararono le parole delle patrie seconde per radicarsi in fretta nella terra nuova. Sovrapposero ai loro affettuosi dialetti i vocabolari delle nazioni, generose con loro più della patria matrigna che non li riconosceva per figli. Scrive Garcìa Màrquez in Cent’anni di solitudine: «Non si è di nessun posto finché non si ha un morto sottoterra». Penso diversamente che non si è di nessun posto finché non se ne cantano le canzoni, finché non si è invitati a ballare a una festa di nozze.
Ho imparato a scuola il latino e il greco. Ho poi aggiunto per mio conto altre grammatiche, alfabeti.
Quando inizio una nuova lingua mi sembra di piantare un albero dal seme. Lentamente affiora dal silenzio, come da sottoterra e avvia la sua lenta crescita. A volte non arriva a farsi albero e resta cespuglio. Mezza vita fa ascoltavo e parlavo kiswahili in un villaggio della Tanzania, di sera sotto un gran mandorlo indiano. Come allora mi accorgo che una lingua è un albero e pronunciarla è stare nel campo della sua ombra.
in “Corriere della Sera” del 10 novembre 2011
Dio è persona?
in dialogo con Vito Mancuso
Continuo la riflessione avviata nel numero scorso sull’ultimo libro di Vito Mancuso (Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti, 2011). Un secondo problema sul quale mi soffermo, dopo aver esaminato quello della relazione comunitaria (Noi e Dio), riguarda il carattere personale di Dio. A proposito dell’esistenza di Dio e della sua dimostrazione Mancuso si diffonde ampiamente con lo sviluppo di varie argomentazioni. Le sue posizioni sono molto chiare. Egli sostiene che la ragione può dimostrare l’esistenza di un essere o un bene assoluto ma non il suo carattere personale. Alla scoperta di un Dio personale, egli sostiene, si può pervenire solo con argomenti sviluppati all’interno dell’esperienza di fede (in particolare, ma non solo, cristiana), argomenti quindi validi solo per i credenti. Esaminiamo brevemente il significato e le motivazioni di queste posizioni. esiste un Assoluto Mancuso più volte ripete che non vi devono essere dubbi sull’esistenza di un Essere, di un Bene, di una Vita assoluti. È innegabile che esista «l’essere-energia… dentro la quale tutti siamo venuti all’esistenza, verso la quale tutti camminiamo e nella quale tutti con la morte saremo assorbiti. Siamo emersi dall’essere-energia come da una sorgente… e in questa stessa sorgente, alla fine pensabile come porto, ritorneremo quando la nostra libertà non esisterà più. Questo è un semplice dato di fatto…» (pp. 108-109). «Se poniamo Assoluto=Essere, è evidente che l’Assoluto esiste» (p. 109). Riflettendo in questo modo, però, arriviamo «solo a ciò che comunemente viene detto Essere o anche Totalità, Assoluto, Uno, Tutto» (p. 109). «Se si intende questo, è chiaro che Dio esiste, è evidente che c’è. È il Dio di Spinoza su cui si struttura tutta la sua Ethica…» (ib.). Lo ripete poco dopo: «È chiaro che il bene, nel senso di bonum, esiste… Ciò di cui posso conoscere l’esistenza riflettendo seriamente con la mia ragione è quanto Pascal chiamava Dio dei filosofi e si potrebbe chiamare anche Assoluto, Sommo Bene, Uno, Tutto. È la cifra di molte altre speculazioni» (p. 110). Si deve notare che anche se «evidente» o «un dato di fatto», tuttavia non è detto che questa Realtà suprema sia affermata da tutti, perché, in ogni caso, l’acquisizione e la conseguente affermazione è risultato di esperienze vissute con consapevolezza, è un’interpretazione razionale della vita, che consente di vivere in pienezza, ma che, come tale, potrebbe anche non essere raggiunta. Mancuso qualifica questa esperienza come spirituale e la collega alle «altre forme mediante cui è giunta a espressione la dimensione spirituale, come la pittura, la scultura, la danza, il teatro, la poesia, la musica» (p. 114). Sono «invenzioni umane» «ma l’orizzonte dischiuso da queste discipline inventate dagli uomini non è necessariamente falso. Lo è per chi non ha idea di che cosa vi sia in gioco, per chi non sente queste dimensioni dell’essere ritenendole solo un bizzarro passatempo o un proficuo investimento. Ma per chi vive per esse, a volte per esse soffre la fame, e vi dedica tutta la vita, non esiste nulla di più reale e concreto. Si tratta di invenzioni, sì, ma nel senso etimologico del termine» (p. 114), cioè di scoperte della realtà profonda della vita. «Inventare [infatti] nella sua radice latina (invenire) significa ‘imbattersi in qualcosa, trovare, scoprire’. L’invenzione è anzitutto scoperta» (p. 115). Come accade a molti cultori della scienza che hanno scoperto energie e leggi della natura prima ignote e non utilizzate, così nel mondo dello spirito umano esistono possibilità di «invenzioni». Per esemplificare Mancuso richiama il fascino della bellezza. «Chiunque abbia avuto una reale esperienza estetica sa che si è trattato al contempo di qualcosa di estatico, qualcosa che l’ha fatto uscire da sé verso una dimensione più grande, preesistente, rispetto alla quale tuttavia non si è sentito estraneo ma coappartenente» (p.115). Ciò vale per tutte le esperienze ‘spirituali’: «quando si esce da sé senza tuttavia perdersi, ma ritrovandosi a un livello più alto»; vale, ad esempio, per «l’emozione purissima che una poesia, un quadro, una musica, una preghiera, una carezza fa sorgere dentro di noi». Mancuso si chiede: «come nominare questa dimensione più grande alla quale tuttavia si sente di appartenere: regno della suprema bellezza, dell’armonia compiuta, della pace del cuore, della luce buona dell’essere?» (p. 115). Risponde: «il complesso di termini quali ‘Dio, divino, divinità’ racchiude i simboli più efficaci ‘inventati’ dalla mente umana per nominare questa realtà avvolgente, materna e paterna, che si dischiude alla mente e al cuore in alcune peculiari esperienze vitali… Tali immagini cercano di portare al pensiero… una realtà che c’è da sempre» attraverso di esse «lo spirito… attinge il profondo dell’uomo» (pp. 115-116). È vero quindi che Dio è «invenzione» umana «per quanto attiene al concetto, ma questo non implica che la realtà cui rimanda il termine Dio sia falsa» (p.114), anzi la concretezza dell’esperienza induce la certezza della sua esistenza. Il Bene, la Vita, la Verità, la Bellezza esistono in forma piena e si esprimono in modo parziale e frammentario in noi. il carattere personale di Dio è dato di fede Mancuso però nega che questa realtà assoluta a cui si perviene riflettendo sulle varie esperienze umane, possa già essere scoperta come «persona», dotata, cioè, di conoscenza e di amore. La realtà divina a cui si perviene riflettendo sulla forza che sostiene il processo vitale è impersonale, è la «potenza neutra dell’essere-energia» (p. 108): «Così arrivo non a Deus, ma arrivo a Deum» (p. 109), a quello che S. Anselmo designava come «ciò di cui non si può pensare uno più grande». L’assoluto a cui si perviene con la riflessione di ragione «questo bonum impersonale non sarà conoscibile con certezza razionale come bonus, come Dio personale» (p. 110). Se quindi «si intende dire che sopra questa totalità onnicomprensiva dell’essere-energia, o al di fuori di questa totalità, o dentro di essa in una dimensione più profonda, o chissà dove altro ancora, vi sia un essere personale a cui potersi rivolgere dicendo Abbà-Padre, allora non è più evidente, non lo è per nulla, che tale Deus esista» (p.109). La realtà a cui si perviene non è «il tenero Abbà-Padre di Gesù. Di questo non si potrà mai conoscere razionalmente l’esistenza. Con buona pace del dogma cattolico» (p. 110). Mancuso nega quindi che a questo stadio il divino possa essere termine di una relazione personale, possa essere invocato, benedetto, lodato, adorato. Il Dio personale, come quello della tradizione ebraico-cristiana, lo si conosce solo per la rivelazione e lo si incontra solo nell’esercizio della fede. Senza questa esperienza personale non si può affermare l’esistenza del Dio credo per la testimonianza di Gesù. Egli conclude: «Sto dicendo, in un certo senso, che Dio esiste solo per chi lo fa esistere. Chi lo fa esistere avrà trovato ponte tra la sua fame e sete di giustizia e il senso ultimo del mondo: verus pontifex maximus» (p. 428). Potrebbe suscitare confusione il fatto che il carattere personale di Dio sia difeso con chiarezza da Mancuso e sia argomentato con lo stesso tipo di ragionamento con il quale egli afferma l’esistenza ‘evidente’ di un Assoluto. Scrive infatti: «la mia fede in Dio si determina come fede in un Dio certamente personale, dato che, in quanto principio di tutte le cose, Dio è anche al principio della personalità che quindi non deve e non può essere esclusa dal suo essere» (p. 79). Per questo aspetto Mancuso riassume la sua posizione con le parole di Immanuel Kant: «Anche se vi vedrete costretti a desistere dal linguaggio del sapere, vi sarà sufficiente un linguaggio, che pur vi resta, di una salda fede, giustificato dalla più rigorosa ragione» (Critica della Ragion pura, (1781) citata a p. 108). Egli ricorda anche che lo stesso filosofo nella prefazione alla seconda edizione della sua famosa opera scriveva: «Ho dunque dovuto sospendere il sapere per far posto alla fede» (ib. (1787) citato a p. 114). Come si vede si tratta di un «linguaggio della salda fede»; esso si svolge però sorretto da una «rigorosa ragione» e segue le regole dell’argomentazione logica. L’esperienza di fede inizia e si sviluppa per dinamiche di testimonianza che precedono la ragione, anche se la coinvolgono nel suo sviluppo e nell’analisi del suo fondamento. L’esercizio della fede non nasce per conclusione di ragionamenti, ma la ragione entra in azione quando il credente cerca la motivazione delle sue scelte e intende spiegarne il fondamento. Si dovrebbe forse aggiungere che anche chi non vive la fede, può già partire dalla consapevolezza della propria tensione vitale e dall’esercizio del proprio amore per argomentare che il Tutto che l’avvolge e lo sostiene è un Tu che, conoscendolo e amandolo, può condurre là dove la vita tende come a compimento. Mi sembra che in fondo sia questa «la sfida che attende la teologia cristiana contemporanea» (p. 426). Solo alcuni dei molti stimoli preziosi che il libro del giovane teologo può offrire alla ricerca attuale di Dio. La sua diffusione può favorire tale ricerca da varie parti avvertita
in “Rocca” del 15 novembre 2011
Il 23% dei giovani italiani non studia e non lavora
dal Rapporto sulle Economie Regionali della Banca d’Italia
Sono circa 2,2 milioni i giovani che non lavorano e non sono impegnati in corsi di studio o di formazione.
Il dato, in crescita rispetto al passato, emerge dal Rapporto sulle Economie Regionali della Banca d’Italia, presentato ieri.
Nel 2010 la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni definiti “Neet” – Not in Education, Employment or Training – è cresciuta al 23,4% del totale rispetto al 20% circa registrato tra il 2005 ed il 2008.
Secondo Bankitalia, “l’aumento è stato più marcato nel Nord e al Centro, meno pronunciato nel Mezzogiorno, dove tuttavia l’incidenza di giovani Neet era prossima al 30 per cento già prima della crisi”.
Tra i Neet, le donne superano il 26 per cento, mentre gli uomini si attestano al 20. La loro percentuale è superiore tra i non diplomati, ma analizzando la fascia d’età fino ai 35 anni la quota di Neet tra i laureati è del 20,5 per cento.
Il Rapporto, comunque, rileva che la condizione dei giovani che non lavorano e non studiano “è solo in parte collegata al fenomeno della disoccupazione”.
I giovani tra 15 e 29 anni che non studiano e non lavorano risiedono nella maggioranza dei casi con almeno un genitore; nel Mezzogiorno sono tre Neet su quattro.
Tra i dati maggiormente significativi, il 33,8% dei Neet ha cercato un’occupazione (ben il 40% nel Nordovest e al Centro, 30% nel Sud) nel corso del 2010.
–>
tuttoscuola.com
“Il lavoro giovanile nel Mezzogiorno d’Italia” è il titolo del seminario di studio dopo la 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani organizzato per sabato 5 novembre dall’Arcidiocesi di Benevento in collaborazione con il Comitato scientifico ed organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani.
http://www.chiesacattolica.it
Monitoraggio delle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo
Il ministero dell’istruzione, Direzione Generale degli ordinamenti scolastici, ha emanato il 4 novembre la circolare n. 101, con la quale fornisce indicazioni alle istituzioni scolastiche del primo ciclo, statali e paritarie, sul monitoraggio delle Indicazioni, previsto dall’art. 1 del Regolamento di riordino del 1° ciclo (DPR 89/2009).
Il monitoraggio, affidato all’ANSAS, è volto a raccogliere le esperienze che dal 2009 le istituzioni scolastiche hanno realizzato in ordine all’applicazione delle Indicazioni (nazionali/Moratti e per il curricolo/Fioroni) per realizzare al meglio le riforme introdotte dal ministro Gelmini.
Si tratta, come ben si può capire, di una importante operazione che servirà a conoscere apertamente lo stato di attuazione delle modifiche intervenute, le criticità e le potenzialità dei processi avviati, nonché per raccogliere gli esiti delle esperienze condotte e della relativa valutazione.
La finalità ultima del monitoraggio è, comunque, quella di contribuire all’eventuale revisione delle attuali Indicazioni e, proprio per questo, “è di tutta evidenza – precisa la 101 – che l’ampio concorso delle scuole alla sua compilazione potrà contribuire a tale rilevante operazione. In ugual modo tali risultanze saranno tanto più probanti in quanto frutto di approfondimenti da parte di tutto il personale scolastico coinvolto e di valutazione il più possibile condivisa”.
Sembra di capire che la compilazione del questionario non costituisce un adempimento obbligatorio per le scuole, ma piuttosto un’occasione di notevole importanza per contribuire alla revisione delle Indicazioni (e forse non solo di quelle).
Per dare la misura di questa operazione di cui non vi sono significativi precedenti per la dimensione del target di destinazione, bastano alcune cifre: nel settore statale le istituzioni scolastiche del 1° ciclo interessate al monitoraggio sono 7.161, i docenti di scuola dell’infanzia circa di 82 mila, quelli della primaria altri 200 mila e i prof. della secondaria di I grado 130 mila, per un totale complessivo che, dirigenti compresi, arriva a circa 420 mila persone. Per il settore paritario, dove le istituzioni scolastiche interessate sono circa 12 mila con quasi 70 mila unità di personale scolastico interessato.
La carica della 101 sfiora il mezzo milione di persone.
tuttoscuola.com
Indicazioni nazionali, criteri e tempi per il monitoraggio
La circolare n. 101 del 4 novembre u.s., oltre a chiarire la finalità dell’operazione-monitoraggio per l’eventuale revisione delle Indicazioni, fornisce suggerimenti sulle modalità di compilazione del questionario (compilazione che avviene on line da parte delle scuole accreditate sul sito dell’ANSAS (http://www.indire.it/indicazioni/monitoraggio).
Dopo aver precisato anche che oltre al questionario, sono “allo studio ulteriori iniziative-focus per raccogliere dalle scuole significative esperienze sull’applicazione delle Indicazioni, al fine di disporre di una qualificata base di riferimento per l’eventuale revisione”, la Direzione Generale per gli ordinamenti scolastici indica le modalità per accreditarsi presso l’ANSAS e fissa come termine ultimo per la compilazione del questionario il 30 novembre prossimo. Ma chi dovrà provvedere alla compilazione del questionario?
Il Miur fornisce una risposta aperta e flessibile: “In considerazione del fatto che il questionario è strutturato in quattro parti, una di carattere generale e le altre riferite a ciascuno dei tre settori scolastici interessati (infanzia, primaria e secondaria di I grado), è possibile prevedere, a titolo esemplificativo, che il dirigente, eventualmente insieme al proprio staff di direzione, proceda alla compilazione degli aspetti generali, lasciando ai docenti l’incarico di rispondere alle domande sugli specifici aspetti del proprio settore, eventualmente tramite il personale docente incaricato di funzioni strumentali oppure mediante gruppi di lavoro o commissioni specificamente predisposte”.
Ci sembra un modo appropriato per affrontare questa importante operazione di rilevazione che non ha certamente caratteristiche referendarie, anche se non è difficile prevedere che non mancherà chi cercherà di darvi una applicazione strumentale.
C’è infine un ultimo consiglio fornito alle istituzioni scolastiche: è opportuno stampare copia del questionario, scaricabile in formato pdf sul sito dell’ANSAS, per farne oggetto preliminare di conoscenza, approfondimento e discussione prima della sua compilazione formale.
tuttoscuola.com
Futuro dell’umanità
Tutti vorrebbero conoscere il futuro dell’ umanità. È più di una semplice curiosità o di un sfizio dell’ immaginazione. Si tratta di un bisogno arcano, da sempre nascosto nel profondo delle aspirazioni di ciascuno. Gli strumenti statistici e le analisi della società, tuttavia, riescono oggi, malgrado l’ invalicabilità del limite, a dirci qualcosa su come sarà probabilmente il mondo di domani. O, almeno, come potrebbe presentarsi la condizione di vita sulla Terra, se i parametri attuali rimanessero costanti. Cosa evidentemente insicura. È questo l’ argomento dell’ importante rapporto di quest’ anno del Fondo dell’ Onu per la popolazione. Il quadro che emerge sul futuro dell’ umanità appare veramente molto interessante. Intanto si conferma un dato del presente che riguarda il censimento complessivo. Dal 31 ottobre il nostro pianeta ha 7 miliardi di abitanti, un miliardo in più rispetto a 12 anni fa e 6 rispetto all’ Ottocento. Fin qui abbiamo a che fare non con le previsioni ma con una constatazione di base. L’ aumento demografico si consolida. Tanto che, se i tassi di crescita resteranno gli attuali, gli inquilini della Terra toccheranno nel 2100 la quota di 15 miliardi. Ma sappiamo anche che la tendenza attuale – come è già avvenuto prima – decrescerà nel futuro. Una prima riflessione s’ impone e riguarda la distribuzione degli incrementi che coinvolgono l’ emisfero nord in modo sensibilmente inferiore rispetto a quello centrale e meridionale. Nell’ Europa Occidentale ci sono oggi 170 abitanti per chilometro quadro. Nell’ Africa subsahariana 70. Maa nessuno viene in mente di affermare che in Europa ci sono troppe persone. Le ragioni macrodemografiche sono ovviamente complesse, coinvolgendo sia gli atteggiamenti economici che le identità culturali. In ogni caso il ritmo di aumento delle natalità, con il concorso effettivo della vita media, connesso con l’ invecchiamento occidentale, contribuirà di sicuro ad una forma di mescolamento migratorio inevitabile. Il documento delle Nazioni Unite, tuttavia, guarda soprattutto alle probabili modalità di configurazione dell’ ordine sociale dell’ avvenire. Si è registrato una costante intensificazione della mobilità, non soltanto da Paese a Paese, ma anche tra i diversi continenti. E, cosa abbastanza significativa, un processo di urbanizzazione crescente che si realizzerà in modo massiccio nei prossimi 40 anni. Qui si indica già un campo su cui attivare politiche adeguate, viste le tendenze all’ accentramento di popolazione di vasta scala nelle città. D’ altronde, il ruolo politico delle grandi metropoli sta diventando sempre più consapevolmente un perno del processo d’ integrazione democratica. Qui s’ incontrano demografia e cultura democratica. Il rapporto dà, però, in modo esplicito alcune indicazioni chiare sui giovani, cui è riconosciuto un potenziale enorme a causa del fatto che la metà della popolazione mondiale sarà composta da persone con meno di cinquant’ anni. Poiché l’ 80% proverrà da continenti in via di sviluppo, puntare su istruzione, salute e occupazione è interesse unanime. Stesso discorso anche per la condizione femminile che appare addirittura, tra le righe del resoconto, un elemento chiave per il bene comune dell’ umanità. L’ emancipazione del genere femminile, in costante accentuazione, garantirà insieme all’ acquisizione di un ruolo e di un’ identità specifica delle donne, un protagonismo fondamentale nell’ educazione delle successive generazioni. Due osservazioni di straordinaria rilevanza devono essere accompagnate a questi fatti. In primo luogo la constatazione, valida a livello globale, che non è possibile uno sviluppo complessivo dell’ umanità senza che le dinamiche spontanee siano supportate da interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’ accesso alle risorse. Questo primo punto è imprescindibile per scongiurare catastrofi umanitarie ed esiti negativi in termini di miseria e di impossibile sopravvivenza, specialmente nei Paesi cerniera che hanno rapidamente accesso a tassi di crescita significativi. In secondo luogo, come emerge con chiarezza nelle conclusioni del rapporto, è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite perché le crisi non verranno certo dall’ aumento della popolazione, ma dalle diseguaglianze culturali, ambientali ed economiche che possono insinuarsi. Per adesso, anzi, è una costante la crescita economica legata alla crescita demografica. Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’ applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali. Intervenire laddove gli sprechi sono estenuanti, pianificare un controllo degli investimenti, vuol dire garantire un’ espansione dell’ umanità in un mondo vivibile tendenzialmente e senza problemi da tutti. Appare, in tal senso, impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato nel permettere educazione, salute e formazione etica civilizzatrice della prole. Si deve riconoscere, insomma, che solo nel tessuto domestico si formano le categorie etiche fondamentali e si constata la pratica dell’ equa dignità tra i sessi, nonché la fiducia nel grado di umanizzazione che s’ intende diffondere a livello intergenerazionale. Dà comunque soddisfazione, per una volta, intravedere un quadro complessivo in cui non è la crescita di umanità ma la diminuzione d’ immoralità a minacciare il futuro. Un futuro, conviene precisare, che o è umano o non esiste. E per questo può pensarsi anche nel segno dell’ ottimismo.
Repubblica
02 novembre 2011
Africa. Quella religione che immola i bambini
con una denuncia diretta, Benedetto XVI ha criticato le religioni tradizionali africane che arrivano ad uccidere vecchi e bambini come in una moderna caccia alle streghe
Il primo personaggio a destra nella foto, accanto al papa, al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e al rabbino David Rosen, è il professor Wande Abimbola, nigeriano.
Ad Assisi, al “pellegrinaggio” promosso da Benedetto XVI lo scorso 27 ottobre, Abimbola ha preso la parola “a nome dei capi e dei seguaci delle religioni indigene d’Africa”. Lui stesso è sacerdote e rappresentante mondiale della religione Ifa e Yoruba, diffusa in larga parte dell’Africa subsahariana e arrivata anche nelle Americhe sulla rotta delle migrazioni.
Parlando ad Assisi, Abimbola ha chiesto che “alle religioni indigene africane venga dato lo stesso rispetto e considerazione delle altre religioni”.
E Benedetto XVI – che quando scrive i discorsi di suo pugno, come in questo caso, non è mai politicamente corretto – l’ha preso in parola.
Nel discorso tenuto poco dopo ai trecento esponenti religiosi e “cercatori della verità”, il papa ha espresso considerazioni critiche su tutte le religioni, comprese le religioni tradizionali africane. Le ha accomunate in una storia fatta anche di “ricorso alla violenza in nome della fede”: una storia, quindi, bisognosa per tutte di purificazione.
Ma due giorni dopo l’incontro di Assisi, Benedetto XVI è stato ancor più crudo e mirato. Ricevendo in Vaticano i vescovi dell’Angola in visita “ad limina”, ha denunciato una violenza che in nome delle tradizioni religiose africane arriva persino ad uccidere bambini ed anziani:
“Uno scoglio nella vostra opera di evangelizzazione è il cuore dei battezzati ancora diviso fra il cristianesimo e le religioni tradizionali africane. Afflitti dai problemi della vita, non esitano a ricorrere a pratiche incompatibili con la sequela di Cristo. Effetto abominevole di ciò è l’emarginazione e persino l’uccisione di bambini ed anziani, a cui sono condannati da falsi dettami di stregoneria. Ricordando che la vita umana è sacra in tutte le sue fasi e situazioni, continuate, cari vescovi, ad alzare la vostra voce a favore delle sue vittime. Ma, trattandosi di un problema regionale, è opportuno uno sforzo congiunto delle comunità ecclesiali provate da questa calamità, cercando di determinare il significato profondo di tali pratiche, d’identificare i rischi pastorali e sociali da esse veicolati e di giungere a un metodo che conduca al loro definitivo sradicamento, con la collaborazione dei governi e della società civile”.
Già due anni prima, nel 2009, nel corso del suo viaggio in Angola, Benedetto XVI aveva sollevato la questione:
“Tanti vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati; disorientati, arrivano al punto di condannare bambini della strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni”.
E aveva anche respinto un’obiezione corrente nella stessa Chiesa:
“Qualcuno obietta: ‘Perché non li lasciamo in pace? Essi hanno la loro verità; e noi, la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com’è, perché realizzi nel modo migliore la propria autenticità’. Ma, se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che senza Cristo la vita è incompleta, le manca una realtà – anzi la realtà fondamentale –, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, dobbiamo farlo, è un obbligo”.
Anna Bono, esperta di tradizioni africane, ha commentato sul giornale cattolico on line “La Bussola Quotidiana”:
“Ciò che il papa ha denunciato non succede solo in Angola. In Africa la stregoneria è una delle più radicate e persistenti istituzioni tribali. Se ne parla poco, forse anche perché la sua esistenza contraddice la prevalente rappresentazione delle comunità tradizionali africane come modelli di pacifica convivenza, tolleranza, equità e armonia sociale, depositarie di valori umani che l’Occidente avrebbe invece sacrificato al potere e al denaro”.
Nello stesso commento, Anna Bono riferisce alcuni casi recenti di uccisioni di bambini per motivi di stregoneria in vari paesi dell’Africa, o di loro mutilazioni “a causa delle proprietà speciali attribuite ai loro organi”, come avviene con gli albini.
C’è chi è rimasto stupito per una denuncia così esplicita di tali uccisioni, fatta da Benedetto XVI parlando ai vescovi dell’Angola.
I discorsi del papa ai vescovi in visita “ad limina”, infatti, passano sempre al vaglio della diplomazia vaticana, di solito molto prudente.
Questa volta, però, anche il revisore che se ne è più di tutti occupato, in segreteria di Stato, sapeva il fatto suo.
L’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, oggi sostituto segretario di Stato per gli affari generali, cioè numero due del governo centrale della Chiesa subito dopo il cardinale Tarcisio Bertone, era nunzio in Angola quando Benedetto XVI visitò quel paese, con tappa precedente nel Camerun, e sollevò il velo su quell’abominio.
Il 18 novembre prossimo papa Joseph Ratzinger si recherà in Benin per consegnare a una rappresentanza di vescovi del continente l’esortazione apostolica conclusiva del sinodo dei vescovi del 2009, dedicato appunto all’Africa.
Sarà interessante vedere che cosa il documento dirà sulle religioni tradizionali africane.
__________
Il discorso del 29 ottobre 2011 di Benedetto XVI ai vescovi dell’Angola:
E l’omelia tenuta dal papa a Luanda il 21 marzo 2009:
__________
Il commento di Anna Bono su “La Bussola Quotidiana”:
La crisi economica: una riflessione sulle cause e le soluzioni
Crescere nella crisi.
Commissione famiglia e società della Conferenza dei vescovi di Francia
Tutte le analisi sull’attuale crisi economica indicano la necessità di «cambiare i nostri comportamenti e i nostri stili di vita. Tuttavia, sembra che a una simile lucidità non si accompagni una reale disponibilità al cambiamento. Anche quando pareva che vi fosse un consenso sulla necessità di un cambiamento di rotta, come nel caso della riforma del sistema pensionistico, sui termini delle modifiche da operare vi era poi un disaccordo tale che la sua realizzazione appariva frutto di una costrizione imposta piuttosto che un compromesso accettato in vista di un bene comune». Sembrano parole indirizzate al contesto italiano quel le a firma della Commissione famiglia e società dell’episcopato francese rese note lo scorso febbraio nel documento Crescere nella crisi. Esso, infatti, si rivolge a quel «malessere più generale » costituito dalla mancanza di «fiducia negli altri e nella collettività nazionale », che, assieme alla lucidità rispetto a un futuro incerto, generano «una grande angoscia, della quale la prossima generazione rischia di essere la prima vittima». Sullo stesso tema e con tonalità simili sono anche intervenuti i vescovi irlandesi (cf. in questo numero a p. 474).
J.-C. Descubes, Commissione famiglia e società Conferenza dei vescovi di Francia
Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf
Visualizza il testo dell’articolo
Dalla crisi alla speranza.
Consiglio giustizia e pace della Conferenza vescovi cattolici irlandesi
«Solidale con tutti coloro che soffro no a causa della crisi economica», il Consiglio per la giustizia e la pace della Conferenza episcopale irlandese ha pre sentato il 21 febbraio scorso una di chiarazione aggiungen do «la sua voce a tutte quelle che si levano per domandare un cambiamento positivo nella nostra società». L’attuale momento «di notevole inquietudine politico- finanziaria» vie ne analizzato – alla luce dell’en ci clica Caritas in veritate – con un’attenzione particolare ai «costi umani» di una crisi i cui effetti «sorprendenti e spaventosi» sono disoccupazione, insicurezza, «crollo del – la fiducia nelle istituzioni» e disperazione. Di fronte al fallimento di un modello economico e culturale, consapevoli che non si uscirà dalla crisi senza promuovere una «cultura della speranza», i membri del Consiglio offrono un’alternativa ispirata ai valori evangelici e alla dottrina sociale cristiana nella quale, tenendo conto «delle variabili presenti in ogni equazione politica: efficienza economica, libertà individuale, tutela dell’ambiente e giustizia sociale», an che «il principio di gratuità e la logica del dono» trovano spazio tra i criteri che possono e devono regolare l’attività economica.
Consiglio per la giustizia e la pace – Conferenza vescovi cattolici irlandesi
Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf
Visualizza il testo dell’articolo
Da consultare
Un nuovo modello di leaderschip
Ettore Gotti Tedeschi
Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano. Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul pil per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.
Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.
A questo punto le soluzioni non sono più tante. Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento. È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari. È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia. Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.
I Paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino. Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.
Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.
Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché non c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli. L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.
Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce. Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al pil. Nei Paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del pil, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.
La soluzione è in mano ai Governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione. Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica. Ma soprattutto i Governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una governance adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.
(©L’Osservatore Romano 4 novembre 2011)
Paolo Sorbi
Avvenire 3 novembre 2011
I meccanismi liberistici senza regole non funzionano. Si è iniziata una riflessione sui temi della produzione e dell’economia riecheggiando tematiche “interventiste” degli stati nazionali pensando di ricopiare alcuni modelli keynesiani degli anni Trenta. Ma la natura della crisi globale non è assimilabile a quella della prima grande crisi del 1929. Gli attuali processi di stagnazione internazionale non sono l’assemblaggio delle singole crisi dei sistemi nazionali. Inoltre l’attuale crisi generale (non solo economica, ma anche culturale ed antropologica) inizia a bloccare le forti crescite economiche classiche che avevano visto per protagonisti gli stati ed i grandi territori del Brasile, della Russia, dell’India e della Cina. Contemporaneamente, negli ultimi due anni, dati Fao, il numero di coloro che sono affamati non solo non è diminuito, ma è accresciuto: addirittura del 25%.
Dai grattacieli di Manhattan, ai deserti dell’Africa centrale è tutto il ciclo della globalizzazione “soft” – cioè quella prima ed iniziale fase di globalizzazione della finanza e delle tecnologie che aspiravano ad una crescita senza contraddizioni – ad aver ceduto. Sono i “cicli lunghi”, studiati dall’economista, Kondratieff, delle conflittualità sociali e popolari, ad aver indotto ristrutturazioni ed innovazioni di portata internazionale. Gli esiti economici, all’inizio del terzo millennio, sono stati grandi mutamenti “hard” per il volto feroce che hanno assunto verso centinaia di milioni di nuovi poveri. Un altro “volano” che ritengo decisivo, è determinato dalle dinamiche-sociodemografiche su scala globale.
È stato il crollo della natalità in Usa, Europa e Giappone, ad essere uno dei vettori dell’attuale crisi internazionale di stagnazione dello sviluppo. Sono le ricerche del maggior economista-demografo contemporaneo Alfred Sauvy, a dimostrare che nell’Occidente della crescita zero, la mancanza di innovazioni è correlata al “grande inverno” dell’invecchiamento delle popolazioni. Quelle ricerche dimostrano che tra popolazione giovane, sviluppo economico ed innovazioni istituzionali c’è una forte correlazione. Colpisce la decelerazione economica, ancora poco studiata, della Cina. Cresciuta in anni di boom economico straordinario in modo impressionante, in recenti surveys della società “Oxford Economic” emergono dati preoccupanti di un deleveraging, vale a dire di una rapida ed improvvisa decrescita che potrebbe raggiungere uno stop netto verso il 2014.
Gli investimenti in Cina si fermano, perché crescono contemporaneamente i tassi bancari ed il costo del lavoro per l’estesa diffusione di lotte operaie e popolari. La catena delle forniture in Asia colpisce il motore profondo della crescita economica ininterrotta e si aprono problemi di recessione e disoccupazione anche in quei territori. L’estensione rapidissima di lotte sociali è emersa anche in tutta la realtà del colosso brasiliano. Conflittualità sempre più apportatrici di fiducia tra fasce sociali estremamente povere di quelle aree che, per la prima volta nella loro storia, si autoidentificano come lavoratori portatori di rivendicazioni e saperi culturali solidali. Quello che sta accadendo, durante questi recenti anni di crisi internazionale, non a sufficienza monitorato dalla ricerca sociale, è un grande mutamento di ciclo economico.
La globalizzazione reale ha voluto dire un processo di costruzione e di decentramento produttivo in una sorte di corrente tecnologica “nord-sud” del mondo. Ora invece quella corrente si rovescia verso una tendenza “sud-nord”. Nell’attuale crisi, innumerevoli realtà imprenditoriali multinazionali, sia americane che europee, cominciano a comprendere che non conviene più l’outsourcing produttivo in molte aree dei cosiddetti paesi in sviluppo.
Un recente studio del “McKinsey Quarterly”, fine del 2010, evidenzia che in Cina i salari sono cresciuti del 15% all’anno, dal 2000 al 2009. Nei prossimi anni di rallentamento, anche in Cina, i salari cresceranno, comunque, tra il 20 ed il 30% in più. Gli utili stanno diminuendo, perché i costi della produzione stanno rapidamente aumentando.
Ad esempio, Barack Obama, all’inizio di quest’anno, nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha enfatizzato l’importanza del “rientro in patria” degli ordini manifatturieri e tecnologici. In Inghilterra la crescita delle piccole e medie imprese dei segmenti della meccanica e del tessile, dopo oltre tre decenni di declino, ha subito una rapida ripresa riportando quei segmenti produttivi, all’inizio degli anni Novanta. Insomma l’Occidente finanziarizzato ha in buona parte perduto i criteri dell’economia reale che non può essere un semplice mondo di servizi e consumi.
“Ritorno della produzione” in Occidente vuol dire, secondo recenti ricerche di team di sociologi industriali, tra cui Francesco Garibaldo, che bisogna mettere mano ad una riorganizzazione sul territorio anche del sindacato e dei suoi modelli di partecipazione e democrazia. È ovvio che le nuove produzioni saranno sempre di più finalizzate ai mutamenti ecosistemici, decisivi per aprire concretamente nuove strade di crescita, ma anche per aprire nuove strade a modelli sociali differenti ed, in parte, anche oltre le logiche del puro profitto capitalistico.
Non è il ritorno meccanico ad una tradizionale forza-lavoro industriale, ma è certamente una crescita di lavori collegata a queste nuovi materiali e nuove produzioni, a dinamiche di mobilità sostenibili, a dinamiche di manutenzione del territorio, a dinamiche anche di grandi opere, ma di certe opere, orientate alla conversione strutturale ed ecosistemica delle vecchie strutture capitalistiche che non possono produrre “nuova crescita”.
ATRI CONTRIBUTI
- Dagli strali anti-Marchionne alle campane contro la Borsa Se gli indignati sono i preti di Renato Piva in Corriere del Veneto del 4 novembre 2011
- Primato della Politica sulla Finanza la Visione economica del Vaticano di Marco Ventura in Corriere della Sera del 4 novembre 2011
- Le Chiese vogliono far sentire la loro voce al G20 di Corinne Boyer in La Croix del 3 novembre 2011 (nostra traduzione)
- Un’altra economia è possibile di Philippe Clanché in www.temoignagechretien,fr del 3 novembre 2011 (nostra traduzione)
- Quell’abisso fra ricchi e poveri che scatena le crisi globali di Massimo Mucchetti in Corriere della Sera del 29 ottobre 2011
- Via d’uscita dalla crisi con nuovo spirito di alleanza di Mauro Magatti in Avvenire del 29 ottobre 2011
- L’etica del capitalismo s’applica anche al debito: i cattolici stanno peggio di Paolo Rodari in il Foglio del 3 novembre 2011
- Con gli indignati, contro la City La scelta della Chiesa anglicana di Fabio Cavalera in Corriere della Sera del 3 novembre 2011
- La Chiesa d’Inghilterra decide di tollerare gli “indignati” di Londra sul suo sagrato di Eric Albert in Le Monde del 3 novembre 2011 (nostra traduzione)
- È ora di contestare gli idoli dell’alta finanza di Rowan Williams in www.archbishopofcanterbury.org del 1 novembre 2011 (nostra traduzione)
- Il futuro dell’umanità di Joaquin Navarro-Valls in la Repubblica del 2 novembre 2011
La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi
Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso.
La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione, anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un’Italia in cui l’appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano ercepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata. Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo – parafrasando Peter Berger – non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta» che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L’immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l’80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una funzione rassicurante per la nazione?
Perché molti continuano a identificarsi – pur in modo ambivalente – con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero, per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi dell’esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un’immagine del cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come criterio di vita, più per l’educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si conciliano con la propria cultura e abitudini.
Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità
nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul
territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti italiani alla fede della tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Si può essere convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive dell’esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa di attribuire un’ anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall’altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.
in “La Stampa” del 1° novembre 2011
Con il nuovo Evangeliario la liturgia diventa arte
Nel congedarsi dalla diocesi di Milano, il cardinale Martini – vescovo della Parola in una stagione di immagini distorte – ha voluto che l’ultima iniziativa del suo ministero pastorale fosse la «Casa della carità»: un luogo che rendesse manifesto il chinarsi dei cristiani sulle sofferenze dei poveri. Il suo successore, il cardinale Tettamanzi – vescovo della carità in una stagione di indifferenza verso il prossimo – ha voluto che l’ultimo dono alla diocesi fosse il libro del Vangelo, la Parola posta al cuore della celebrazione liturgica, un libro che rendesse manifesto il piegarsi dell’orecchio dei cristiani alla Parola proclamata. Così, nella scia di san Paolo, il cardinale Tettamanzi ha inteso «affidare alla Parola» i cristiani della sua diocesi e lo ha fatto attraverso un «Evangeliario», concepito e realizzato come compendio della sua sollecitudine di pastore e del suo amore di padre.
Ma cos’è un evangeliario? «Questo è il Libro della vita, / questa la fonte e l’origine dei libri.
Qui scintillano i quattro fiumi dall’unica sorgente». Nei versi anonimi vergati sulle prime pagine di un manoscritto del IX secolo cogliamo il significato e il valore che le chiese cristiane, sin dall’antichità, hanno attribuito all’evangeliario, cioè a quel libro, destinato al culto liturgico, che contiene il testo dei quattro Vangeli, suddiviso secondo l’ordine delle pericopi che vengono proclamate nel susseguirsi dei giorni, delle domeniche e delle feste dell’anno liturgico. Sì, i cristiani hanno sempre riconosciuto uno statuto particolare a questo libro che custodisce l’«attestazione» delle parole del Signore Gesù, raccolte dagli apostoli e dalle prime comunità cristiane e trasmesse sino a noi.
Non si tratta semplicemente di un libro, ma del Libro per eccellenza, non riducibile a una mera suppellettile per il culto: nella fede della Chiesa che si esprime nella liturgia, questo oggetto è riconosciuto come simbolo vivo, come «sacramento» e «icona» del Cristo risorto, che si fa presente in mezzo alla sua comunità, che parla al suo cuore e spezza il pane delle Scritture. Per questo, attraverso i secoli, il libro del Vangelo quadriforme è stato circondato da eculiari segni di onore e venerazione nelle diverse tradizioni liturgiche: affidato alla ministerialità del diacono, portato solennemente in processione fra lumi, incensi e canti di acclamazione, intronizzato sul leggio più alto degli amboni, salutato con il bacio da parte dei ministri e talora dei fedeli. Il libro, inserito nel dinamismo celebrativo all’interno del «sito» liturgico della proclamazione, rende per così dire visibile ai nostri occhi e udibile alle nostre orecchie la presenza del Figlio e Verbo di Dio, che ha assunto la visibilità della nostra carne e l’udibilità delle nostre parole umane per narrare agli uomini la misericordia e la condiscendenza del Padre.
È proprio all’interno di questa secolare tradizione che si inscrive anche la progettazione e realizzazione del nuovo Evangeliario Ambrosiano, promossa dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Un evangeliario «nuovo» sotto diversi punti di vista: contiene infatti la nuova traduzione liturgica della Scrittura approvata dalla Conferenza episcopale italiana; inoltre segue la scelta delle letture evangeliche selezionate secondo la recente riforma del Lezionario ambrosiano pubblicato nel 2008; ed è nuovo, infine, per la scelta audace della Chiesa di tornare a farsi interlocutrice e committente nei confronti della tecnica e dell’arte contemporanee. Frutto di un lavoro di équipe, che con la consulenza di esperti, biblisti e liturgisti ha chiamato un architetto (Pierluigi Cerri) e sei artisti (Giovanni Chiaramonte, Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Nicola Samorì, Ettore Spalletti e Nicola Villa) a dare forma e volume, colore, figura e visibilità segnica alle «parole di vita eterna» dei santi Vangeli, senza trascurare una certa omogeneità del progetto decorativo. I testi evangelici – che si susseguono organizzandosi intorno ai grandi poli dei Misteri dell’Incarnazione, della Pasqua e della Pentecoste – sono suddivisi in tre tomi, segno questo di un’attenzione pastorale concreta all’uso liturgico dell’Evangeliario, che deve coniugare la «nobile bellezza» della forma con le esigenze di praticità e di maneggevolezza richieste da un libro rituale.
Questo ambizioso progetto – illustrato ora dalla mostra «La bellezza nella Parola: il nuovo Evangeliario Ambrosiano e capolavori antichi» (Milano, 5 novembre – 11 dicembre) manifesta dunque lo sforzo sinergico della Chiesa e del genio contemporaneo, per dare vita a un’autentica ars liturgica , frutto di una sapiente «cospirazione» fra la ricerca di nuove espressività, la preservazione della coerenza simbolica, l’alleanza culturale tra la fede cristiana, la creatività e l’abilità tecnica dell’operare umano, e la fedeltà alla tradizione della Chiesa. Sì, la liturgia ha bisogno di questa diaconia della bellezza: bellezza della materia, bellezza dell’arte umana, bellezza ordinata alla carità, bellezza che sa narrare la bellezza ella presenza e dell’azione del Signore vivente. Si tratta indubbiamente di una bellezza che esige un cammino di discernimento, un cammino ascetico mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni bellezza, la quale sempre rimanda a Dio, lui che è l’«autore della bellezza». Solo così la bellezza dei simboli e dell’arte nella liturgia potrà essere rivelativa di Dio, della sua azione, del suo amore fedele per questa creazione e per l’umanità intera.
Davvero negli ultimi trent’anni di ministero pastorale a Milano sono state «scritte» pagine esemplari di primato della parola di Dio e di carità operosa verso gli ultimi: ora sono simbolicamente raccolte e offerte a tutti attraverso un’opera d’arte che non esiteremmo a definire l’«Evangeliario della carità».
in “La Stampa” del 3 novembre 2011
Altri contributi
- Quell’arte che unisce la fede alla bellezza di Bruno Forte in Il Sole 24 Ore del 30 ottobre 2011
- La Buona Novella giorno per giorno di Angelo Scola in Avvenire del 2 novembre 2011
- Gli artisti di oggi che dipingono Dio di Dionigi Tettamanzi in Corriere della Sera del 2 novembre 2011
- Paul Klee, Henry Miller e gli altri: gli artisti moderni tra secolarizzazione e mistero divino di Gianfranco Ravasi in il Foglio del 1 novembre 2011