Una scuola dove nessuno vuole andare ad insegnare

NAPOLI Alla scuola Viviani ci sono 27 cattedre libere ma nessuno ci vuole andare ad insegnare. Già, perché la Viviani non si trova in una zona “normale” ma al Parco verde di Caivano, un quartiere popolare in provincia di Napoli che di verde ha solo il nome ed è ritenuto un fortino della criminalità organizzata. E i professori si rifiutano di andare.

UNA PRESIDE CHE RESISTE

A chi chiede spiegazioni alla preside Eugenia Carfora scopre che qui, la preside, fa anche l’insegnante, la segretaria e la bidella. Perché neanche il personale non docente ci vuole venire a lavorare. La segreteria è chiusa a chiave, dall’inizio dell’anno sono senza amministrativi. Quando arriviamo a scuola troviamo solo 7 docenti su 34 e un numero impressionante di professori in malattia. Per la stessa cattedra di Italiano sono arrivati a pagare fino a 8 docenti. Ma neanche il tempo di sedersi dietro alla cattedra e si sono messi tutti in malattia. Gli altri in graduatoria, invece, rifiutano l’incarico. Al Provveditorato agli studi di Napoli dicono che hanno le mani legate, questa è la normativa e per le zone a rischio non è prevista alcuna eccezione. «Sono arrivata da appena 5 mesi – dice la dirigente Luisa Franzese -. Prometto che alla prima occasione farò visita al Parco Verde” di Caivano». Nel frattempo, un giro in questa scuola di frontiera lo abbiamo fatto noi. In classe ci sono pochissimi banchi. L’evasione scolastica è al 49 %. Nel quartiere gli adolescenti rappresentano manovalanza per la criminalità organizzata. Peri i genitori la scuola è l’ultimo dei pensieri. Ogni famiglia ha almeno un parente in carcere. Quei pochi alunni che frequentano sono quelli che la preside preleva ogni mattina di casa in casa, andando a bussare alle porte di questo quartiere che altri evitano persino di attraversare con la macchina. Ma non tutti hanno gradito. Anzi, quasi subito è partita la contestazione nei suoi confronti.

«BANCHI RUBATI E PISTOLE IN AULA»– Al suo primo giorno di scuola la Carfora trovò tutto sottosopra. Nemmeno i banchi in aula c’erano. Di notte qualcuno li rubava e poi li rivendeva. In una delle aule trovarono nascoste persino delle pistole. «A molti non va a genio la preside perché è un tipo tosto – dicono alcune mamme nel quartiere -. Noi sappiamo solo che senza la sua determinazione i nostri figli a quest’ora starebbero in mezzo alla strada. Senza contare che prima che arrivasse lei questa scuola sembrava uno scantinato: puzzava di urina e c’erano topi ovunque. Lei s’è rimboccata le maniche e l’ha ripulita da cima a fondo». Giorni fa la preside lanciò un appello: «Non abbandonate la mia scuola nelle mani della criminalità». Hanno risposto centinaia di prof da tutta Italia, che qui verrebbero ad insegnare per davvero. Ma per il ministero ci sono le graduatorie da rispettare e sulla carta non c’è distinzione tra fannulloni e docenti. Da mesi scrive al ministero dell’Istruzione chiedendo una diversa procedura per l’assegnazione del personale nelle scuole a rischio. Nessuna risposta. Al suo fianco si è ritrovata solo la parte sana del quartiere, magari minoritaria, ma che ha voglia di cambiare e spera che arrivi qualcuno a dare man forte alla dirigente di ferro. Ma per il momento sono arrivate solo minacce e insulti, compresa una pagina su facebook dal titolo eloquente: «Ti odiamo a morte preside!». Firmato: Parco Verde.

Antonio Crispino21 novembre 2011

 


Allegati

 

 


Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia

 

VIII convegno nazionale delle associazioni locali Scienza&Vita

 

Pubblichiamo stralci della lectio magistralis del cardinale arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana che il 18 novembre scorso ha aperto a Roma “Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia”, VIII convegno nazionale delle associazioni locali Scienza&Vita. Alla tavola rotonda, moderata dal direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio, hanno partecipato gli onorevoli Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani, Pier Ferdinando Casini, Roberto Maroni

 

Nella gabbia invisibile del narcisismo

“Siamo tutti consapevoli della delicatezza dell’argomento in gioco, così come delle visioni diverse che spesso si confrontano, tanto da essere considerata – la vita umana – uno di quegli argomenti “divisivi” di cui è meglio non parlare, come se l’ordine sociale, basato sulla giustizia, potesse reggersi sull’ingiustizia che deriva dal non affrontare ciò che fondamentale, consapevoli che, storicamente, “se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo, non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza” (Cei, La Chiesa Italiana e le prospettive del Paese, 1981, n. 13).
Tutti ci rendiamo conto che siamo dentro ad una crisi internazionale che non risparmia nessuno, e che nessuno, nel mondo, può atteggiarsi da supponente maestro degli altri. I grandi problemi dell’economia e della finanza, del lavoro e della solidarietà, della pace e dell’uso sostenibile della natura, attanagliano pesantemente persone, famiglie e collettività, specialmente i giovani. Su questi versanti, che declinano la cosiddetta “etica sociale”, la sensibilità e la presenza della Chiesa sono da sempre sotto gli occhi di tutti. Fanno parte del messaggio cristiano come inderogabile conseguenza: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Giovanni, 4, 20). ? una rete che si avvale di risorse provvidenziali e di quell’amore gratuito che nessuna legge può garantire poiché l’amore viene dal cuore e dall’Alto.
Ma oggi dobbiamo puntare la nostra attenzione sulla vita umana nella sua nudità: è evidente che gli aspetti citati fanno parte dell’esistenza concreta di ogni persona, ma essi non devono oscurare la vita nei momenti della sua maggiore fragilità e quindi di più pericolosa esposizione. Per questo credo sia inevitabile allargare, seppur brevemente, l’orizzonte per poter meglio affrontare il tema della vita umana nella sua assoluta indisponibilità o, se si vuole, sacralità. Per poter parlare di qualcosa, infatti, bisogna innanzitutto chiederci se esiste qualcosa fuori di noi. E, se esiste, possiamo conoscerla? Oppure siamo dentro ad una realtà unicamente costruita dal soggetto pensante, siamo alle prese solo con le nostre opinioni individuali, senza una presa diretta sulla realtà oggettiva? È il problema antico ma non scontato della conoscenza. Come rispondere? Dando fiducia al mondo e all’uomo! La conoscenza, infatti, parte da un atto positivo, di fiducia: fa appello al senso comune, all’esperienza universale. È più naturale, logico, istintivo, porre questo atto di fiducia oppure sfiduciare l’universo? È dunque un atto di sintonia, di comunione preriflessa con il mondo il punto di partenza del nostro rapportarci con il mondo, non il rinchiuderci nel sospetto e nel dubbio metodico e universale che – forse con aria di profonda intelligenza – accusa di fanatismo chi affermi che la verità esiste ed è conoscibile. La storia umana della conoscenza – nonostante grovigli a volte sofferti – corre sostanzialmente su questo filo e testimonia che, ogni qualvolta lo scetticismo si è imposto, gli esiti personali e sociali non sono stati più felici.
Il figlio di questo atteggiamento è lo scetticismo che genera inevitabilmente quel nulla di significato e di valore, quello svuotamento della vita e del mondo che già Nietzsche aveva annunciato. In realtà egli lo fa derivare dalla dichiarata “morte di Dio”, ma quando la ragione viene cancellata dall’orizzonte, anche la fede si indebolisce: “Cerco Dio! cerco Dio! Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” (Nietzsche, La gaia scienza, Mondadori 1971, pagg. 125-126). Il nichilismo di senso e di valori nasce da una visione materialista dell’uomo e del mondo, e si alimenta allo spettro ridente del consumismo che porta a concepire l’esistenza come una spasmodica spremitura di soddisfazioni e godimenti fino all’estremo. Ma ben presto – lo vediamo nella cronaca – ne deriva una immane svalutazione della vita. Essa non è più custodita dal sigillo della sacralità e così quando non è più gradita o risulta faticosa la si vorrebbe eliminare.
Oggi si tende a pensare che, sul piano dell’etica, ognuno è costruttore di ciò che per lui, soggettivamente, ha importanza e significato; che il nostro compito è quello di comporre i diversi, a volte opposti, valori; che l’importante – quando va bene – è disturbare gli altri il meno possibile. Ma non esiste qualcosa a cui l’uomo possa rifarsi nella sua conoscenza e quindi adeguarsi raggiungendo così la verità? È fuori dubbio che non pochi di quelli che chiamiamo valori appartengono alla sfera della soggettività individuale e sociale. Ma è tutto solo così? Non esiste nulla di oggettivo in grado di essere metro della verità morale, che possa regolare, normare i miei comportamenti? Di solito, fino ad un certo punto di questo ragionare tutti si è concordi, ma quando entra in gioco la questione del “valido per tutti”, allora si accende una spia e sorge in noi una trincea difensiva quasi si sentisse in pericolo la propria libertà individuale, nervo sensibile dell’anima moderna.
Se l’uomo si realizza attraverso l’esercizio della propria libertà (in actu exercito), bisogna chiederci se qualunque forma di esercizio realizza la persona oppure no. A ben vedere, come qualunque agire non si qualifica da sé ma è qualificato da ciò verso cui tende – camminare per fare una passeggiata non è lo stesso che camminare per andare a fare una rapina – così la libertà, se per un verso è valore in se stesso in quanto è condizione di responsabilità, per altro verso non è la sorgente della bontà morale. Il fatto che un atto sia una mia scelta non qualifica l’agire come buono, vero, giusto.
Inoltre, non bisogna dimenticare che la bontà e il male morale non sono astrazioni lontane alle quali sacrificare gli uomini nei loro desideri individuali; il bene è tale perché mi fa crescere come persona mentre il male mi diminuisce nella mia umanità. Oggi la tendenza diffusa è rendere la libertà individuale un valore assoluto, sciolto non solo da vincoli e norme ma anche indipendente dalla verità di ciò che sceglie; in tale modo però essa si rivolta contro l’uomo e perde se stessa, diventa prigioniera di se stessa come ogni personalità narcisista. Ecco perché il Signore Gesù ricorda che la verità libera la libertà e rende libero l’uomo. Oggi vi è una certa allergia per ciò che si presenta come assoluto, cioè oggettivo, universale e definitivo: sembra di sentirsi come in una gabbia insopportabile. Ma, dobbiamo chiederci, qual è la vera prigione: l’assolutismo di una libertà individualista o l’assolutezza della verità?”.

(©L’Osservatore Romano 20 novembre 2011)

 

 

Il Card. Bagnasco a “Scienza & Vita”
Se la vita rimane miracolo indisponibile

“Dalla responsabilità e dai modi di affronto della vita nei suoi vari momenti si ha una prima e decisiva misura del livello umano della convivenza”. La Lectio Magistralis del Card. Angelo Bagnasco ha aperto venerdì 18 novembre a Roma l’ottavo Convegno nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.
Punto cruciale, ha ricordato il Presidente della CEI, è “se la libertà individuale abbia o non abbia qualcosa di più alto a cui riferirsi e a cui obbedire” e che ne fonda l’assoluta indisponibilità.

file attached 2011.11.18 Relazione Scienza e Vita.doc

 


Biblioteche ecclesiastiche in rete

Un patrimonio a portata di clic

Il Polo delle biblioteche ecclesiastiche (PBE) nasce nel 2007 e confluisce nel marzo 2010 nel Servizio bibliotecario nazionale. In questo primo anno di attività le nuove adesioni sono state costanti fino a raggiungere il significativo numero di 100 istituti, con già una decina di nuove biblioteche che stanno completando l’iter formativo per l’inserimento.
Ad oggi sono presenti 60 biblioteche diocesane, distribuite sul territorio nazionale con una lieve prevalenza di quelle collocate nel settentrione, mentre il patrimonio complessivo di copie custodite dal Polo sfiora quota 310.000, tutte catalogate secondo criteri riconosciuti a livello internazionale.
L’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici, che tiene le fila di questo imponente lavoro, ha preparato una dettagliata comunicazione per fare il punto dei diversi fronti che vedono impegnato il PBE, dando anche notizia della convenzione firmata lo scorso 15 novembre con l’ICCU, l’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche del Ministero per i beni e le attività culturali.
L’accordo riguarda la descrizione informatizzata dei documenti manoscritti ed accrescerà la sinergia tra le biblioteche ecclesiastiche del PBE e il sistema nazionale, attraverso l’utilizzo del sistema “Manus On-Line”. Al fine di programmare al meglio le attività, è stato predisposto un breve questionario che verrà distribuito nei prossimi giorni alle biblioteche del Polo per raccogliere on line le informazioni circa le collezioni manoscritte e il loro trattamento.

http://www.chiesacattolica.it/

Le competenze dei quindicenni europei

 

Verso Lisbona 2020: il punto su Matematica

 

Sono stati pubblicati nei giorni scorsi, a cura della Commissione europea, due rapporti che raccolgono gli esiti delle ultime rilevazioni internazionali relative alle competenze dei 15enni europei in scienze e in matematica.

Androulla Vassiliou, commissario europeo per l’istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù, nell’introduzione al volume dedicato alla matematica, sottolinea l’importanza strategica per i giovani di una solida cultura in questo campo, non solo per rispondere ad un interesse personale, ma anche per un utile impiego nel lavoro e nella vita quotidiana.

Il rapporto prende in considerazione l’impatto delle modalità di insegnamento della matematica nei diversi sistemi scolastici, anche con l’intenzione di suggerire una migliore diffusione di buone pratiche a sostegno dei percorsi di insegnamento.

L’Europa assiste ad una costante diminuzione di studenti nelle facoltà matematiche, scientifiche e tecnologiche, oltre al permanere di un annoso squilibrio nel numero di studenti e studentesse frequentanti questo tipo di facoltà.

L’attuale crisi finanziaria rafforza il convincimento che sia di cruciale importanza un’attenzione e una cura crescenti per l’istruzione scientifica e matematica che permetta alle giovani generazioni di affrontare le problematiche future con un sicuro bagaglio di conoscenze.

Il volume ricorda che le rilevazioni internazionali, fin dal 2009, hanno indicato per i 15enni europei scarse competenze matematiche e stabilito, per il 2020, una riduzione nel numero dei ragazzi insufficientemente preparati di almeno il 15%.


tuttoscuola.com venerdì 18 novembre 2011

 

 

Verso Lisbona 2020: il punto sulle Scienze

 

Tra le più recenti pubblicazioni della Commissione europea, va considerata quella che raccoglie in un complesso organico le rilevazioni sulle competenze in Scienze dei 15enni dei 31 Paesi europei solitamente coinvolti nelle rilevazioni internazionali.

L’insegnamento scientifico fa parte delle competenze chiave che debbono possedere i giovani cittadini europei, tuttavia lo studio evidenzia come solo 8 Paesi abbiano delle strategie didattiche nazionali complessive per la promozione di questa disciplina.

Pochi inoltre sono i Paesi che pongono in essere politiche specifiche per equilibrare la percentuale di studenti e studentesse coinvolti negli studi scientifici o per incoraggiarli ad abbracciare carriere scientifico – tecnologiche.

Di contro, si rileva che due terzi dei Paesi che hanno partecipato alle rilevazioni indicano vari soggetti specializzati a livello nazionale in grado di organizzare formazione, aggiornamento per insegnanti e iniziative dedicate agli studenti.

Per quanto riguarda la didattica, tutti i Paesi, Italia compresa, iniziano ad insegnare Scienze con un approccio integrato e multidisciplinare, salvo poi, durante la scuola secondaria di secondo grado declinare l’insegnamento scientifico per singole discipline come la chimica o la biologia.

Un approccio ancora forse troppo strettamente disciplinaristico è presente, in molti casi, anche all’università dove gli studenti hanno maggiore libertà nello scegliere i soggetti all’interno dei programmi di studi.

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tuttoscuola.com venerdì 18 novembre 2011

 

Da responsabili nella vita pubblica

Il Card. Bagnasco all’Università S. Croce


“Mantiene vivo nel mondo il senso della verità”; “svolge una funzione pedagogica rispetto alla coscienza”; “salvaguarda il carattere trascendente della persona umana”; “è araldo di quell’umanesimo personalista e relazionale di cui gode l’Europa e l’Occidente intero”: questi i quattro contributi che la Chiesa offre alla società e all’ordine politico in ordine al perseguimento del bene comune. Lo ha sottolineato il Presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, sabato 12 novembre intervenendo presso la Pontificia Università della Santa Croce, all’Atto accademico in occasione del 25º anniversario dell’Istituto superiore di scienze religiose all’Apollinare. Tema della prolusione del cardinale, “Magistero ecclesiastico e ordine politico: libertà e responsabilità dei fedeli laici nella vita pubblica”.
“La società complessa che viviamo e l’incrocio di culture, visioni etiche e antropologiche differenti e a volte opposte – ha detto – sfida l’impegno dei cristiani nella presenza nel mondo; impegno che, nei secoli, si è concretizzato in modo significativo anche nella partecipazione leale e attiva alla politica ricordando da una parte che essi ‘partecipano alla vita pubblica come cittadini’, e dall’altra che è loro preciso dovere animare cristianamente l’ordine temporale, rispettandone la natura e la legittima autonomia che è sempre in relazione a Dio creatore”. Di fronte al tentativo nel mondo occidentale di privatizzare la fede, il card. Bagnasco chiarisce: “Il credente non può mettere mai tra parentesi la sua fede, perché sarebbe mettere tra parentesi se stesso, vivere separato da sé. Proprio perché la fede è totalizzante, vale a dire salva tutto l’uomo – e l’uomo è un essere sociale aperto alle relazioni – la fede non può non ispirare ogni ambito e azione, privato o pubblico che sia. Chiedere o pretendere che i cristiani, che hanno responsabilità pubbliche, sospendano la loro coscienza cristiana quando esercitano i loro doveri, è non solo impossibile ma anche ingiusto”.

file attached Apollinare 12.11.2011.doc

L’ultima lettera di Alda Merini

Il 1° novembre di due anni fa si spegneva all’ospedale San Paolo di Milano Alda Merini. La notizia mi raggiunse a sera,  mentre rientravo da un viaggio in America Centrale, e a comunicarmela era un giornalista che naturalmente voleva  intervistarmi, riconoscendo la vicinanza che la poetessa aveva testimoniato a più riprese e in pubblico nei miei  confronti. Effettivamente l’amicizia era sorta quando io vivevo a Milano e si era manifestata da parte mia anche in tre  prefazioni che avevo scritto ad altrettanti suoi poemetti di forte intensità spirituale. Ma soprattutto il filo era tenuto  dalle sue interminabili telefonate che intrecciavano il suo affetto per me col libero sfarfallio della sua fantasia e con una  sorprendente caratteristica che la assimilava agli antichi rapsodi o aedi.
La Merini, infatti, creava spesso le sue poesie oralmente e spingeva il suo interlocutore a raccoglierle per scritto o  semplicemente – come nel mio caso – le affidava all’ascolto. Devo riconoscere di essermi pentito di non aver  cristallizzato quella voce nelle righe di un foglio, e d’essermi solo lasciato condurre dal flusso delle sue immagini, così  inquiete e cangianti, delle sue parole iridescenti come in un caleidoscopio, del balenare delle sue intuizioni spesso  folgoranti.
L’ultima telefonata fu da quel l’ospedale ove era ricoverata e ove veniva curata, credo, a fatica, dato il suo  temperamento insofferente di ogni continuità o regolarità, anche terapeutica.
Nello stesso timbro della voce intuivo la fatica che si univa a una sorta di «basso continuo» destinato esplicitamente a  me. Alda, infatti, non si era rassegnata alla mia partenza da Milano per Roma: la considerava come una fuga o un  tradimento nei confronti non solo suoi ma anche di una città che mi amava. Nella sua casa lungo i Navigli, immersa  nella confusione, persino nel degrado, lei mi aveva accolto la prima delle poche volte in cui la visitai, con una vera e  propria festa. Aveva costellato di mazzi di fiori il disordine estremo delle sue cose, aveva convocato un violinista e il  suo cantante preferito che metteva in musica i suoi versi e si era messa lei stessa al pianoforte, che suonava con  passione, per offrirmi un benvenuto caloroso secondo una sua tipica cifra simbolica, ossia l’eccesso nel donare.
Infatti, cercando spesso di rifiutare i suoi molteplici regali, io combattevo quella che chiamo la sua “autodepredazione”, che si manifestava nei confronti di tutti, attuando quel motto, che mi pare fosse di D’Annunzio,  secondo il quale «io ho solo ciò che ho donato». Ma, ritornando a quell’ultimo dialogo telefonico dall’ospedale, un  argomento era stato dominante. Di lì a poco io avrei presentato a Benedetto XVI, nella Cappella Sistina, quasi trecento  artisti provenienti da tutto il mondo, secondo ogni genere di arte. Naturalmente avevo invitato anche lei che  desiderava «dire alcune cose al Papa», come mi ripeteva. Già aveva pensato all’abito da indossare, mutando mille volte  parere e convincendosi alla fine che sarei stato io a trovarle quello adatto. Il 21 novembre 2009, data dell’incontro, si avvicinava e lei, dal letto dell’ospedale, percepiva l’impossibilità di quella sua enuta a Roma e ne  soffriva.
Mi confidò, allora, di essersi decisa a scrivere una lettera a Benedetto XVI che ammirava, pur essendo stata legata  idealmente e appassionatamente alla figura di Giovanni Paolo II.
Evidentemente ritenevo che fosse solo un sogno, nonostante l’ostinazione con cui mi ripeteva di farmi tramite per la  consegna. Lei confermava che l’avrebbe dettata ad alcuni suoi amici e amiche che l’assistevano e che aveva convinto a  preparare dipinti o foto o testi che accompagnassero la sua lettera. In verità, dopo la sua morte, preso com’ero dai  preparativi del l’incontro della Sistina, non pensai più a quel progetto di Alda, né ricevetti mai la lettera che avrei  dovuto presentare al Papa.
La sorpresa è stata forte quando alcuni mesi fa, per una semplice coincidenza – stavo preparando un altro incontro di  Benedetto XVI con gli artisti, in occasione dei suoi 60 anni di sacerdozio, evento che si è realizzato il 4 luglio scorso –  ebbi una fotocopia della lettera che effettivamente Alda Merini aveva dettato il 28 ottobre 2009, a tre giorni di  distanza dalla sua morte. Dattiloscritta su carta intestata dell’«Azienda Ospedaliera San Paolo Polo Universitario –  Ufficio Relazioni col Pubblico», lo scritto reca in finale la sua tipica firma-sigla e al suo interno custodisce tutta la trasparenza dell’umanità, della spiritualità, della storia sofferta della poetessa.
C’è il rimando ai suoi “allievi”, c’è la confessione delle colpe («io sono un guado pieno di errori»), c’è la dimensione  mistica della sua esperienza personale («ho incontrato faccia a faccia il Signore») e c’è anche il riferimento al suo  desiderio frustrato di incontrare nella Sistina il Papa: «Avrei voluto venire da lei ma me l’hanno proibito per la mia  salute e per riguardo ad Ella» (suggestivo questo segno di umiltà nella consapevolezza della sua “sregolatezza”). Ampio  è lo spazio riservato ai sentimenti materni che hanno tormentato tutta la sua esistenza. Le righe sono quasi intrise di lacrime e striate di amarezza e si fanno fin confuse attraverso il velo della sofferenza. Ritorna alla fine la sua confessione di colpa la fa equiparare alla Maddalena. E a suggello – al di là dell’invocazione di rito «per la malattia e la  guarigione di Alda Merini» – ecco un fulminante guizzo poetico: «Abbracci le donne, sono fredde come il ghiaccio».
Credo sia significativo – ora a distanza di anni – far conoscere questa testimonianza di una poetessa che è stata amata  da tanti lettori e lettrici e che è stata ascoltata con emozione da tanti giovani (ne sono stato spesso testimone) quando  in pubblico narrava senza pudore la sua esperienza drammatica nei manicomi, le sue lacerazioni, i suoi ardori, le sue  ascesi mistiche, la sua carnalità spirituale. È anche un modo per esprimerle gratitudine per un ascolto, una stima e un  affetto che mi aveva sempre riservato, giungendo fino al punto di dedicarmi a mia insaputa un’intera sua raccolta  poetica, La clinica dell’abbandono, pubblicata da Einaudi nel 2003.
A conclusione di questo ricordo molto personale mi tornano in mente alcuni versi di uno dei suoi scritti da lei  prediletti, il Magnificat dedicato a Maria la madre di Gesù, raffigurata nel gesto della “Pietà” michelangiolesca, ossia la  “deposizione” del corpo del Figlio, gesto che s’incrocia, però, con la memoria della maternità che accoglie il suo  bambino sulle ginocchia: «Miserere di me, che sono caduta a terra/come una pietra di sogno./Miserere di me, Signore,  che sono un grumo di lacrime./Miserere di me, che sono la tua pietà./Mio figlio,/grande quanto il cielo./Mio  figlio, che dorme sulle mie gambe…».

in “Il Sole 24 Ore” del 13 novembre 2011

Io sono come la Maddalena
di Alda Merini
Ospedale San Paolo
Milano, 28 ottobre 2009

Sua Santità Benedetto XVI
Santo Padre, mentre La ringrazio, La prego di tenere conto dei continui omaggi molto belli fatti da alcuni miei allievi,  fra i quali Giuliano, i quali, pur onorandoLa, sono assai lontani da Lei. Noi poveri peccatori cerchiamo di onorarLa con  disegni e preghiere, ma non vorremmo toccare l’ambito della superbia in cui è facile cadere. Grazie a Dio il  Cristianesimo trionfa ma attenti alle false meretrici e peccatrici perché Dio ama i peccatori come noi.
Io sono un guado pieno di errori che ho fatto e di cui mi pento.
Santo Padre ho sentito la Terra Santa perché ho incontrato faccia a faccia il Signore. Io sono vissuta nella sporcizia, ho  servito San Francesco e avrei voluto venire da Lei ma me lo hanno proibito per la mia salute e per riguardo ad Ella.  «Peccatore come sono» ma madre sicura che non meritava 4 figli. Sono belli ma non cattolici, alcuni di loro non sanno  di essere battezzati. Vanno a derubare la loro mamma ma sono sempre doni caro Santo Padre. Questi buoni ladroni  sono la mia consolazione e moriranno con me, con i miei dolori.
Hanno pianto, non avevano la mamma.
Ma la mamma è sempre stata con loro, non li ha mai abbandonati. Oh dolce è stato il mio destino al quale ho lasciato i  miei anni. Come è vera la storia di Maddalena, anche io come Maddalena.
Abbracci le donne sono fredde come il ghiaccio. Per la malattia e la guarigione di Alda Merini

L’Africa, grande speranza della Chiesa

18-20 novembre: viaggio del Papa in Benin. Per la seconda volta nel suo pontificato, Benedetto XVI si reca in Africa.

 

Segno dell’importanza che il papa, che viaggia poco, accorda a “quell’immenso polmone spirituale” rappresentato, ai suoi occhi, dall’Africa. Il continente, in cui la metà della popolazione ha meno di 25 anni, costituisce per Benedetto XVI  la grande speranza della Chiesa”.

Qual è l’obiettivo di questo viaggio?

È un viaggio lampo che chiude una sequenza aperta nel marzo 2009 in Camerun. La prima visita di Benedetto XVI sul  continente era stata contraddistinta dalle dichiarazioni sul preservativo, la cui distribuzione, aveva detto, “aumenta il  problema” dell’aids. Ma Benedetto XVI aveva anche consegnato ai vescovi un documento di lavoro preparatorio al  sinodo dedicato a “La Chiesa cattolica in Africa” nell’ottobre dello stesso anno.
Quel documento, che analizzava senza compiacimenti la situazione della Chiesa nel continente africano e si soffermava  a lungo sui mali di cui soffre l’Africa – povertà, corruzione, instabilità politica, tensioni religiose ed etniche, tribalismo  – è servito in questi due anni da ruolino di marcia per i vescovi.
Durante una messa a Cotonou in Benin, il 20 novembre, Benedetto XVI consegnerà loro l’“esortazione apostolica”  post-sinodale, che costituisce la conclusione di quei lavori e dei percorsi individuati per migliorare il ruolo della  Chiesa cattolica nelle società africane e per promuovervi, come desidera il Vaticano, “la riconciliazione, la giustizia e la  pace”.

Quali sono i paesi in cui vengono vissute vere tensioni interreligiose?

Somalia, Rwanda, Liberia, Congo… Sono paesi    devastati da guerre micidiali, quattro tragedie. Ma sono anche esempi che mostrano che “se in Africa ci sono violenze e  guerre, queste non si confondono nella maggior parte dei casi con guerre di religione”, afferma Christian Coulon,   professore emerito alla facoltà di Scienze Politiche dell’università di Bordeaux e specialista per l’Africa. I motivi di  questo sono molti. A parte poche eccezioni (Sudan, Mauritania, Comore e Jibuti), gli Stati africani si dichiarano in grande maggioranza laici. Del resto, “a differenza di quanto è avvenuto nel resto del mondo, il cristianesimo e l’islam in  Africa sono stati reinterpretati secondo gli idiomi e i precetti della cultura africana – che – li hanno pervasi di uno  spirito di tolleranza”, spiega Akintude Akinade, professore di teologia all’università di Georgetown (USA).
Perché allora tante violenze religiose in Nigeria e in Sudan, con milioni di morti nell’ultimo mezzo secolo? L’analisi dei  conflitti riguarda una realtà molto più complessa e non si riassume in scontri tra cristiani e musulmani. Per il caso della  igeria, Christian Coulon preferisce mettere in primo piano “la cultura della violenza che si è instaurata con  l’esplosione urbana, con la guerra del Biafra, con la corruzione della classe dirigente, in particolare con la mancanza di  regole politiche.
Cultura nutrita da una segmentazione territoriale che ha portato alla creazione di 36 stati federati, che cercano ognuno  i stabilire le proprie frontiere e di affermare la propria identità, in un contesto in cui prevale la pluralità  religiosa ed etnica, anche se certi gruppi esercitano una certa egemonia”.
“Le cause sono etniche e politiche, non hanno nulla a che vedere con la religione”, è l’analisi di Sulaiman Nyang,  specialiste dell’Africa e dell’islam all’università Howard, a Washington. Quanto al Sudan, non è un caso se la seconda  guerra civile (1983-2005) tra il Nord musulmano e il Sud cristiano ed animista sia esplosa poco tempo dopo la  scoperta di petrolio in quella parte meridionale del paese. Anche qui “le poste in gioco sembrano essere non tanto  religiose quanto politiche e territoriali”, osserva Christian Coulon.
Da quest’analisi non si può però giungere alla conclusione della neutralità del fattore religioso nei conflitti africani,  tanto più che tale fattore si inserisce in un contesto di sconvolgimenti sociali, economici e politici del continente.  Christian Coulon ricorda ad esempio che “il rinnovamento religioso in Africa e la comparsa di nuovi movimenti  religiosi (musulmani, cristiani profetici, o altri) portano delle mobilitazioni che, in certe situazioni, sono anche  suscettibili di creare rivalità e conflitti tra comunità.

Qual è lo sguardo della Chiesa sull’Africa?

I vescovi africani e il Vaticano non esitano a denunciare l’insieme dei mali di cui soffre il continente. Vi vedono in parte  elle cause interne legate alla cattiva governance e alla corruzione dei poteri costituiti, ma chiamano in causa  anche chiaramente “l’Occidente” per un certo numero di derive.
Nel loro documento del 2009, i vescovi africani denunciavano “le forze internazionali che fomentano guerre per  smerciare le loro armi” e accusavano l’Occidente di “sostenere poteri che non rispettano i diritti umani” o di “rapinare  le risorse naturali” del continente. Il papa stesso aveva denunciato il mondo occidentale che, nonostante la fine del  “colonialismo politico”, “continua ad esportare rifiuti tossici spirituali” sul continente. Agli occhi del papa, l’Africa è globalmente minacciata da due rischi importanti, “il materialismo e il fondamentalismo religioso”, allusione alle Chiese  vangelical e all’islam. La gerarchia cattolica si preoccupa anche di una “perdita dell’identità culturale africana  che porta al lassismo morale, alla corruzione e al materialismo”.

Qual è la situazione della Chiesa cattolica in Africa?

La Chiesa cattolica gode di una certa autorità nei paesi in cui opera stabilmente da lunga data. Presente nella gestione  degli ospedali e delle scuole, costituisce talvolta una delle rare istituzioni stabili e perenni in paesi attraversati da crisi  ricorrenti.
Anche se non frequenti, le prese di posizione di certi vescovi che criticano apertamente i poteri costituiti migliorano  l’immagine della Chiesa. In altri casi, il fatto che membri del clero si compromettano con i potentati locali mina in parte  a credibilità della Chiesa.
Per quanto riguarda l’aspetto religioso, la chiesa cattolica deve confrontarsi con le pratiche legate a credenze  ancestrali ancora molto vive: pratiche occulte, libagioni, culto degli avi, sacrifici offerti agli idoli e agli dei, stregoneria. L’istituzione denuncia quelle tradizioni, talvolta praticate perfino da membri del clero, come “incompatibili con il messaggio evangelico”.
Il clero africano gode di una giovinezza e di una vitalità che a volte i paesi europei gli invidiano. Ma il comportamento  dei suoi rappresentanti suscita delle critiche. Alcuni di loro gestiscono attività commerciali parallelamente al loro  ministero o non sfuggono alla corruzione diffusa. Rese fragili da una cattiva gestione, certe diocesi sono in fallimento.  Roma rimprovera loro anche di non rispettare sempre il celibato.
Preso dalla sua dottrina, il Vaticano sviluppa a volte analisi lontane dalla realtà dei paesi africani, in particolare in  materia di controllo delle nascite, di morale sessuale o di lotta contro l’aids. Inoltre, la denuncia ricorrente di  “edonismo” e di “materialismo”, che, secondo il Vaticano, riguarda anche l’Africa, può apparire lontana per  popolazioni che vivono al limite della povertà.

Quali sono le sfide con cui la Chiesa deve confrontarsi?

Come in altre regioni del mondo, la Chiesa cattolica in Africa si deve confrontare con la concorrenza di ciò che i  vescovi chiamano “la proliferazione cancerosa delle sette di tutti i tipi”, in altre parole le Chiese protestanti  evangelical, in pieno sviluppo. La lettura letterale della Bibbia o le promesse di guarigione e di ricchezza vantate dagli  evangelical riguardano gruppi di popolazione che la Chiesa cattolica non riesce necessariamente più a convincere.  Aggiunto alla sopravvivenza delle credenze tradizionali, questo fenomeno è una fonte potenziale di indebolimento  della Chiesa, per la quale il continente rimane comunque una potenziale terra di evangelizzazione.
Spesso presente in paesi a maggioranza musulmana, la Chiesa cattolica denuncia anche regolarmente il proselitismo  musulmano, la difficoltà per i credenti di esercitare la loro libertà di coscienza e di convertirsi al cristianesimo, oltre al  fondamentalismo, portatore “di intolleranza e di violenza”.
I religiosi africani si sforzano di lottare contro “il pensiero unico occidentale, che ha influenze nocive” sulla famiglia e  sulla morale sessuale. Infine, di fronte all’emigrazione, i vescovi auspicano di “suscitare negli africani subsahariani un  sussulto per una rinascita dell’uomo nero” e invitano i loro governanti a prendere in mano i destini dei loro popoli.

in “Le Monde – Géo & Politique” del 13 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

La ricetta europea sulla scuola italiana

 

Tra le 39 domande rivolte lo scorso 8 novembre dalla Commissione Europea al Governo italiano su come verranno “concretamente tradotti in pratica” (locuzione ripetutamente usata) gli impegni assunti dal presidente Berlusconi nella lettera inviata alle autorità comunitarie di Bruxelles, e in quella sede apprezzati, quattro riguardano il sistema di istruzione. Sono le domande numero 13, 14, 15 e 16, raggruppate sotto la voce Human Capital. Eccole.

13) Come verranno ristrutturate le singole scuole (individual schools) con risultati insoddisfacenti nelle prove INVALSI?

14) Come intende il governo italiano valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Che tipo di incentivi saranno utilizzati a tal scopo?

15) Con quali specifiche misure il governo intende incrementare l’autonomia e la competizione tra università? Che cosa comporta in pratica l’espressione “più spazio di manovra sui costi delle iscrizioni universitarie”?

16) Per quanto riguarda la riforma dell’università quali sono i provvedimenti attuativi che ancora devono essere adottati?

Ma la parte più interessante del questionario, per così dire, inviato al governo italiano è la premessa metodologica (General question), che vale la pena di riportare qui di seguito perché è con questo tipo di approccio e di linguaggio che l’Italia dovrà sempre più rapportarsi (la traduzione è nostra).

Si prega di fornire una versione commentata della lettera che indichi, per ciascuna misura o impegno:

1        se è già stato posto in opera, e – se lo è – con quale grado di implementazione;

2        se è stato già adottato dal governo ma non ancora approvato dal Parlamento: in tal caso, precisare i tempi dell’approvazione parlamentare e le modalità di attuazione;

3        se è un impegno nuovo, fornire un concreto piano operativo per la sua adozione e implementazione, compreso lo scadenzario e il tipo di strumenti giuridici che il governo intende utilizzare.

Si prega inoltre di indicare, se del caso, il costo preventivato (estimated budgetary impact) di ciascuna misura/impegno e le rispettive fonti di finanziamento.




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tuttoscuola.com lunedì 14 novembre 2011

 

Scuola: verso la revisione delle Indicazioni del 1° ciclo

 

Dopo l’informativa sindacale di una decina di giorni fa, anche in un altro recente incontro con i referenti degli Uffici scolastici regionali il Miur ha confermato che si va verso la possibile revisione delle Indicazioni per scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, assumendo a riferimento le Indicazioni per il curricolo varate dal ministro Fioroni.

Si tratta di una scelta molto chiara che, a quanto sembra, ha trovato il consenso del mondo sindacale e dovrebbe incontrare anche i favori degli insegnanti.

Per arrivare alla eventuale revisione delle Indicazioni, il ministero sta seguendo contestualmente varie piste di lavoro, la prima delle quali è il monitoraggio previsto dal regolamento per il primo ciclo (dpr 89/2009), affidato all’Ansas, che ha predisposto un apposito questionario (che le scuole potranno compilare entro il 30 novembre) in linea da una settimana.

Le prime valutazioni sul questionario sono sostanzialmente positive per il suo taglio “laico” rispetto alle riforme Gelmini. Potrebbe rappresentare effettivamente una opportunità per le scuole sia per una autovalutazione interna delle attività svolte in questo triennio sia per esprimere osservazioni e proposte utili per l’annunciata revisione delle Indicazioni.

Una cosa è certa: la scuola chiede, dopo anni di cambiamenti all’insegna della discontinuità, di mettere finalmente una parola ferma sulla definizione degli obiettivi di apprendimento e dei traguardi di competenza: una volta per tutte.

Per arrivare a quel traguardo il ministero è obbligato a tempi rapidi, ma ha fatto sapere che intende operare raccogliendo, oltre agli esiti del monitoraggio, anche documentazione di buone pratiche.

Se tutto andrà bene (sperando anche che vi sia ampia condivisione sulle scelte) le Indicazioni revisionate potrebbero essere pronte dal prossimo settembre (ma non significa che entreranno in vigore da quella data), avviando un processo di assestamento nelle scuole e di pianificazione delle produzione editoriali dei libri di testo.






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tuttoscuola.com lunedì 14 novembre 2011

 

Di fronte alle prospettive deflazionistiche: un nuovo modello di leadership

Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano.

 

Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul PIL per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.

Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.

A questo punto le soluzioni non sono più tante.

Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento.

È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari.

È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia.

Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.

I paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino.

Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.

Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.

Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli.

L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.

Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce.

Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al PIL. Nei paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del PIL, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.

La soluzione è in mano ai governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione.

Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica.

Ma soprattutto i governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una “governance” adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.

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Tra i numerosi interventi di Ettore Gotti Tedeschi sul crollo della natalità come causa ultima dell’attuale crisi economica mondiale, ecco una sintesi dell’articolo da lui pubblicato l’estate scorsa su “Atlantide”, rivista della Fondazione per la sussidiarietà, dell’area di Comunione e liberazione:

> Riprendiamo a fare figli e l’economia ripartirà

Su “L’Osservatore Romano” del 27 agosto 2011 Gotti Tedeschi si è pronunciato con ancor più energia contro la tassazione dei patrimoni privati, sostenuta da politici, sindacalisti, economisti, imprenditori e uomini d’affari di diversi paesi, oltre che da numerosi esponenti cattolici:

> L’orizzonte di Noè, per una vera soluzione della crisi

Gotti Tedeschi è inoltre fermamente contrario a una tassazione delle transazioni finanziarie in un paese come l’Italia, nel quale il risparmio delle famiglie è molto elevato. A suo giudizio questo risparmio privato, invece che punito con nuove tasse, dovrebbe essere indirizzato, con garanzie da parte dello Stato, a finanziare le imprese medie e piccole che sono l’ossatura dell’economia produttiva italiana.

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Una netta stroncatura del documento del pontificio consiglio della giustizia e della pace è venuta anche da un economista laico italiano di grande autorevolezza, il professor Francesco Forte, successore all’Università di Torino sulla cattedra che fu del grande economista liberale Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia e poi presidente della repubblica dal 1948 al 1955:

> Il professor Forte boccia il temino targato Bertone

In Francia un commento critico del documento è venuto dal professor Jean-Yves Naudet, dell’Université Paul Cézanne d’Aix-Marseille III, presidente dell’Associazione degli economisti cattolici:

> Un texte qui doit inviter à la réflexion

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Il documento del 24 ottobre 2011 del pontificio consiglio della giustizia e della pace:

> “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”

E la presentazione che ne hanno fatto il cardinale Turkson, monsignor Toso e l’economista Becchetti:

> Conferenza stampa del 24 ottobre 2011

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L’enciclica “sociale” di Benedetto XVI:

> “Caritas in veritate”

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