“Bombardare è sempre un atto immorale”


Il vescovo di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli si rivela una fonte inattesa di controversia internazionale.

 


Da più di un quarto di secolo, il pacato padre con un volto luminoso quasi beato e una certa qual somiglianza con papa Giovanni Paolo II è alla guida della chiesa cattolica romana di San Francesco d’Assisi.
Così il vescovo di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli ha fornito con discrezione la sua assistenza alla piccola comunità cattolica dal maestoso edificio di pietra bianca costruito al culmine del dominio coloniale italiano all’epoca di Benito Mussolini, coi suoi 100 metri di campanile che svetta in un orizzonte di minareti.
Ma dal momento che le bombe occidentali hanno cominciato a essere sganciate sulla Libia di Muammar Gheddafi, Martinelli, 69 anni, è diventato una fonte inattesa di controversia internazionale.
La sua critica persistente alla campagna guidata dalla NATO ha portato alcuni a considerarlo un pacificatore nei confronti di Gheddafi, e a suggerirgli che sarebbe stato meglio per lui il dedicarsi a questioni spirituali.
Martinelli, nato in Libia e figlio di colonizzatori italiani, respinge l’idea che si debba mettere a tacere la sua voce, usando la conoscenza da lui posseduta sia di questa nazione del Nord Africa che dell’Occidente per perorare la sua causa.
“Gheddafi è un beduino. Non si può fargli cambiare idea bombardandolo. Non è possibile annientare i beduini così”, ha dichiarato di recente il vescovo Martinelli nel patio ombreggiato di un albergo a cinque stelle a Tripoli, mentre detonazioni fragorose scuotevano la capitale, fatto che sembra accentuare il suo punto di vista.
“E’ un uomo orgoglioso. Provate a parlare con un beduino. Esiste una sorta di sublime nel beduino, l’uomo del deserto”, ha detto, scivolando dall’inglese alla sua lingua nativa, l’italiano.
Il vescovo, che ha incontrato Gheddafi e che ammette il suo “rispetto” per il leader, si posiziona come un sostenitore della pace e del negoziato.
“Bombardare è sempre un atto immorale”, ha detto all’agenzia ufficiale del Vaticano, Fides. “Io rispetto le Nazioni Unite, rispetto la NATO, ma devo anche dichiarare che la guerra è immorale. Se ci sono violazioni dei diritti umani, non posso utilizzare lo stesso metodo per fermarle”.
Papa Benedetto XVI ha invocato il dialogo e la diplomazia per porre fine al conflitto libico. Ma da molto tempo il vicario apostolico della Santa Sede a Tripoli è andato molto più in là, e a quanto pare con la benedizione del Vaticano.
Il vescovo è in contatto quotidiano con le agenzie cattoliche in Europa, e manda sempre lo stesso messaggio: i bombardamenti della NATO sembrano avranno il risultato di arrecare più vittime fra i civili che indurre la capitolazione del regime.
Mentre condanna in modo inequivocabile il bombardamento occidentale, Martinelli ha eluso le domande riguardo agli attacchi del regime contro i civili. Ha detto che aborrisce ogni forma di violenza, spostando il tema verso quello che lui chiama i risultati positivi di Gheddafi: un welfare sociale, la parità relativa per le donne e, più puntualmente, una libertà di culto in questo Paese a stragrande maggioranza musulmana.
La rivoluzione del 1969, guidata da un allora oscuro tenente dell’esercito di nome Gheddafi, ha portato alla espulsione della maggior parte degli italiani rimasti e la chiusura delle chiese, simbolo della colonizzazione brutale dell’Italia del XX secolo. Una ex cattedrale è diventata qui ora una moschea; la cattedrale, nella città dei ribelli di Bengasi, con le sue doppie cupole che si ergono davanti al porto, è avvolta da ponteggi e in cattivo stato di conservazione. Altre chiese sono state convertite in palestre e sale riunioni, e, in almeno un caso, persino in un caffè.
Ma Gheddafi, rivoluzionario laico, ha permesso ben presto ai cristiani di praticare liberamente la loro religione, restituendo la chiesa di San Francesco e quella del centro di Bengasi, in una strada ancora denominata Via Torino. Lo stato vieta però il proselitismo e limita le attività di beneficenza all’interno dei locali della chiesa, ma suore cattoliche sono all’interno degli ospedali, centri per disabili, orfani e anziani. Giovanni Paolo II aveva anche ripreso le relazioni diplomatiche con Tripoli nel momento in cui il regime era considerato un paria internazionale a motivo dei legami di Gheddafi con il terrorismo.
“Gheddafi ci ha concesso libertà come Chiesa”, ha detto il vescovo Martinelli, citando altri esempi nel mondo arabo, dove i cristiani subiscono invece severe restrizioni e, nel caso del post-Saddam Hussein anche in Iraq, per lui emblema di un massacro. “Guardate l’Iraq – ha detto – hanno distrutto Saddam Hussein, ma è ancora molto difficile organizzare la vita da quel momento”.
Non dimentica neppure l’attuale dispiegarsi della cosiddetta “Arab Spring” (Primavera araba) dove gli autocrati secolari della regione – Hussein, la dinastia Assad in Siria, Hosni Mubarak in Egitto – sono stati tolleranti nei confronti delle minoranze cristiane.
Nato durante la seconda guerra mondiale in una famiglia di agricoltori italiani a sud-est di Tripoli, Martinelli era andato in Italia da giovane e lì è stato ordinato sacerdote francescano a Salerno nel 1967. Poi è stato rinviato nel Maghreb per guidare una piccola residua comunità italiana in una regione dove era fiorita la chiesa primitiva, generando uno dei maggiori luminari intellettuali del cattolicesimo, Sant’Agostino di Ippona, nativo di quella che oggi è l’Algeria. Le invasioni arabe avevano cancellato il cristianesimo in Libia per secoli, fino a quando i commercianti italiani e i colonizzatori non vi hanno riportato la fede se pure in modo limitato.
Fin dall’inizio dei bombardamenti, Gheddafi ha cercato di invocare il periodo precedente al conflitto tra cristiani e musulmani, inquadrando la guerra come un’alleanza stile “crociata” di aggressori fanatici di Al Qaeda.
“Perché volete morire sotto la croce?”, così Gheddafi ha schernito i ribelli in un recente messaggio audio.
Il vescovo ammette che Gheddafi è lento a rispondere alle esigenze della popolazione e ha trascurato per troppo tempo la Libia orientale, dove è covata la ribellione. Molto prima che le proteste scoppiassero nel mese di febbraio, Martinelli sottolinea come fra i libici si avvertisse già la nostalgia per una maggiore libertà, maggiore giustizia e migliori opportunità economiche.
Gheddafi “non era in grado di ascoltare i giovani di Bengasi, non era in grado di capirli” – ha riconosciuto con un certo rammarico Martinelli, che ha prestato il suo servizio di sacerdote per una dozzina di anni a Bengasi – il che implica che la guerra avrebbe potuto essere evitata se il regime avesse destinato maggiori investimenti nella parte orientale del paese. La violenza è diventata quasi una malattia allergica a Bengasi”.
Il vescovo ha scelto con cura le sue parole che di solito sono conformi con la linea del governo: “Sì, Gheddafi ha commesso degli errori, ma il regime è ormai pronto a negoziare un cessate il fuoco e la transizione verso elezioni democratiche. I capi dei ribelli, e anche quelli dei governi occidentali, affermano però che questo non si può comprare, ma piuttosto che Gheddafi deve andarsene dopo più di quattro decenni al potere.
Martinelli, naturalmente, parla da una posizione precaria. Ogni straniero che critichi il regime rischia l’espulsione, o peggio, di finire alla mercé della polizia di Gheddafi. Dire la cosa sbagliata potrebbe avere conseguenze catastrofiche per un gregge estremamente vulnerabile e per di più notevolmente diminuito dopo i disordini scoppiati nel paese, da cui molti cristiani sono partiti con voli aerei, altri a bordo delle navi sgangherate per navigare l’imprevedibile mar Mediterraneo.
In questo angolo della capitale, la messa settimanale è una delle poche consolazioni dei suoi parrocchiani, una singolare fonte di conforto spirituale.
“Ci dà coraggio”, ha detto Alex Attisso, nativo del Togo che dirige un coro composto da persone provenienti dall’Africa occidentale, una serie di splendidi cantori che in un recente servizio liturgico hanno mostrato i loro abiti viola con berretti piatti carichi di fiocchi.
Tempo e difficoltà hanno trasformato l’antica fortezza spirituale dei maestri costruttori coloniali libici in qualcosa di diverso: un rifugio per immigrati in ansia, tra cui lavoratori dell’Africa subsahariana, operatori sanitari delle Filippine e artigiani dell’Asia del Sud, tutti attratti da posti di lavoro di un pese ricco di petrolio come la Libia.
I fedeli frequentano ancora perlopiù la domenica, anche se il giorno con la frequenza più massiccia ai servizi liturgici è il venerdì, giorno della preghiera musulmana, quando la maggior parte non deve recarsi al lavoro. Alla chiesa di San Francesco, uscieri africani indicano ai partecipanti i loro posti a sedere, danno loro in mano i fogli stampati per la preghiera e ricordano loro di spegnere i cellulari, prima di indirizzarli ai banchi.
In un recente venerdì, il vescovo stava accogliendo gli ospiti prima della Messa. Tra loro c’era una donna del Bangladesh che stava cercando di organizzare il battesimo della figlia. Una famiglia senza tetto dall’Eritrea che chiedeva rifugio. Un gruppo di filippini che comunicava tra le lacrime lapartenza.
“Vanno via dopo 25 anni”, ha detto il vescovo, con un tono malinconico in questi giorni tristi di distacco.
Nella parrocchia di San Francesco, l’inquietudine del momento ha accentuato la dimensione metaforica della Bibbia. Un passaggio, quello riguardo  all’uomo cieco che riacquista la vista, rappresenta un po’ “un simbolo di questa umanità, accecata dalla guerra, ma senza perdere mai la speranza che la luce della ragione venga riacquistata”, aveva confidato Martinelli ad un giornalista vaticano.
La chiesa in Libia, ha detto, deve essere “purificata” di nuovo, sopportando l’ultimo passaggio in un dramma millenario che l’ha vista lievitare a grandi altezze, scomparire dalla vista e poi di nuovo rinascere.
Il vescovo è fiducioso riguardo alla sopravvivenza della sua Chiesa qui in Libia, anche se il destino di questa nazione in frantumi rimane il vero punto interrogativo.

 

(McDonnell è stato recentemente in missione a Tripoli).


di Patrick J. McDonnell
in “Los Angeles Times” del 3 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)

La sobrietà che fa crescere

 

«Il P.I.L. misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Può dirci tutto sul nostro Paese, ma non se possiamo essere orgogliosi di esserne cittadini».


Mi viene spontaneo tornare al discorso che Robert Kennedy pronunciò all’Università del Kansas nel marzo 1968 – solo tre mesi prima di essere assassinato – ogni volta che sento parlare di manovre fiscali, crescita economica, sviluppo sostenibile, deficit pubblico… Sì, perché credo che siano argomenti che non riguardano solo politici ed economisti.
Ma argomenti che dovrebbero aprire la riflessione alla qualità della nostra vita quotidiana e della convivenza nella società civile. E tematiche di questo genere dovrebbero essere affrontate con uno sguardo più ampio, non limitato a facili contrapposizioni tra economia di mercato e stato sociale o improbabili alternative secche tra crescita dei consumi e povertà incombente.
In particolare, varrebbe la pena di riscoprire la valenza di uno stile di vita e un atteggiamento nei confronti dei beni materiali e del loro uso che – come ha osservato il cardinale Tettamanzi – è «segno di giustizia prima ancora che di virtù»: la sobrietà. Ben più di un semplice accontentarsi di quanto si ha o della capacità di non sprecare, la sobrietà ha una dimensione interiore, abbraccia un modo di vedere la realtà circostante che discerne i bisogni autentici, evita gli eccessi, sa dare il giusto peso alle cose e alle persone.
Sobrietà a livello personale significa riconoscimento e accettazione del limite, consapevolezza che non tutto ciò che ho la possibilità tecnica o economica di ottenere deve forzatamente entrare in mio possesso: la capacità di rinuncia volontaria a qualcosa in nome di un principio eticamente più alto obbliga a interrogarsi sulla scala di valori in base alla quale giudichiamo le nostre e le altrui azioni.
La moderazione non è la tiepidezza di chi è indifferente a ogni cosa e si crogiola in un preteso «giusto mezzo», ma la forza d’animo di chi sa subordinare alcuni desideri per valorizzarne altri, di chi sa riconoscere il valore di ogni cosa e non solo il suo prezzo, di chi orienta la propria esistenza verso prospettive non ossessionate da un incessante «di più», di chi sa dire con convinzione «non tutto, non subito, non sempre di più!». Sobrietà è la forza interiore di chi sa distogliere lo sguardo dal proprio interesse particolare e allarga il cuore e il respiro a una dimensione più ampia.
La «crisi» che viviamo dal 2008 in realtà era già operante da tempo: chi osservava la situazione ecologica, chi non era cieco di fronte alle crisi  alimentari,  poteva forse prevedere la crisi finanziaria, quindi monetaria ed economica. Ma chi aveva e ha occhi capaci di discernimento poteva però rilevare una «crisi» ben più profonda, una crisi spirituale, una crisi dell’umanizzazione, un avanzare della barbarie.
Dopo la caduta del muro di Berlino c’è stato un abbaglio, una fiducia smisurata nel mercato che sembrava garantire quello stile di vita consumistico cui ci eravamo abituati da qualche decennio…
Ora non si tratta di ritornare indietro, ma di tornare al centro sì, all’asse che permette alla politica di rendere possibile ciò che è giusto, ciò che è doveroso, ciò che è necessario al «ben-essere» autentico, di tornare all’asse su cui economia di mercato e solidarietà, competitività e coesione sociale possono interagire ed essere coerenti con la ricerca della qualità della vita umana e della convivenza sociale.
Solo tenendo conto di queste istanze si può uscire dall’attuale mancanza di visione sull’avvenire ed elaborare e realizzare un progetto di società a dimensione umana, altrimenti si continuerà a inoculare germi di sfiducia soprattutto nelle nuove generazioni, che intuiscono la necessità di non ridurre l’uomo a produttore-consumatore ma che tuttavia percepiscono la loro impotenza.
In questa ricerca, giustizia e solidarietà sono elementi che trovano nella sobrietà stimolo e sostegno.
E questo, se era vero in una società rurale e dotata di scarsi mezzi, lo è paradossalmente ancora di più in un mondo e in un’economia globalizzati. Infatti, la sobrietà non è solo misura nei propri comportamenti ma anche consapevolezza del nostro legame profondo e ineliminabile con le generazioni che ci hanno preceduto, con quelle che verranno dopo di noi e con quanti, nostri contemporanei, abitano assieme a noi il pianeta.
Nell’usare dei beni di cui dispongo e nell’ambire ad altri, non posso ignorare la necessità di un’equa distribuzione delle risorse: accaparrarsi beni, sfruttare il pianeta, disinteressarsi delle conseguenze immediate e future del proprio agire significa alimentare ingiustizie che, anche se non si ritorcessero contro chi le compie, sfigurano l’umanità e offendono il creato stesso.
Solo una sobrietà così concepita può tracciare un cammino sicuro per la solidarietà umana o, per usare una terminologia cristiana, per una «comunione universale». E questa solidarietà non è tanto il serrare le file da parte di un gruppo sociale per difendersi da un nemico comune o da un’avversità condivisa, non è solo la reazione spontanea e generosa davanti a una sciagura, ma è – a monte di queste cose – la percezione che nostri sodali nell’avventura umana sono quanti ci hanno preceduto e hanno lavorato e lottato per consegnarci condizioni di vita meno precarie, sono coloro che verranno dopo di noi e ai quali riconsegneremo un patrimonio eroso dallo sfruttamento e sono anche, ben più presenti ai nostri occhi, quanti oggi stesso vicini a noi o lontani, non dispongono di beni essenziali per una vita degna e anzi pagano sulla loro pelle i privilegi di cui noi godiamo e che pretendiamo  di accrescere continuamente.
Se non dimenticassimo questa solidarietà generazionale e mondiale, la sobrietà ci apparirebbe allora come l’unico stile di vita capace di restituire, a noi stessi per primi, dignità umana e senso dell’esistenza. In questo senso sobrietà e sviluppo non sono antitetici, se per sviluppo non intendiamo la crescita ininterrotta e l’accumulo incessante ma il pieno dispiegarsi delle potenzialità dell’essere umano, un fiorire delle risorse nascoste in ciascuno di noi che la stessa «decrescita» alimenta con la sua ricerca dell’essenziale. Davvero, la sobrietà ci fornisce gli strumenti per misurare noi stessi e il nostro rapporto con «ciò che rende la vita degna di essere vissuta».

 

in “La Stampa” del 3 luglio 2011

Altro che nemiche, fede e ragione devono collaborare

Il sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI il prossimo 29 giugno, sarà certo occasione di molteplici letture del contributo da lui dato alla Chiesa e alla società del nostro tempo. Vorrei limitarmi a offrire qui una sola chiave di interpretazione della sua opera di pensatore e di pastore, cogliendovi specialmente i tratti dell’uomo totalmente «al servizio della parola di Dio che cerca e si procura ascolti tra le mille parole degli uomini» (come egli stesso ebbe a scrivere di sé alcuni anni fa nella Prefazione al volume di Aidan Nichols, “Joseph Ratzinger”).
Chi cerca e si procura ascolti non ha nulla del presuntuoso possessore della verità che voglia imporla agli altri a colpi di clava: Ratzinger pone e accoglie domande vere e non offre mai risposte che non siano rigorosamente argomentate. Ne è prova tra tante il dialogo svoltosi nel gennaio 2004 a Monaco di Baviera fra lui e il filosofo Jürgen Habermas su “I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale”.

 

Se Habermas può essere considerato fra i più influenti pensatori tedeschi del momento, Ratzinger non è solo il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede divenuto oggi Papa Benedetto XVI, ma anche il fine intellettuale che – ad esempio – nel 1992 è stato accolto nell’Académie des Sciences Morales et Politiques dell'”Institut de France”, lui, uomo di Chiesa tedesco. Il dialogo fra i due – che fu tutt’altro che un dialogo fra sordi – mostra da solo quanto feconda possa essere l’attenzione a quanto il pensatore della fede e pastore universale propone oggi alla riflessione e alle scelte di ciascuno.
Joseph Ratzinger intende l’opera del pensiero e dell’impegno storico come semplice e puro servizio alla verità: ecco perché il vero idolo negativo è da lui identificato nel relativismo, in quella posizione cioè che affermando il pluralismo delle verità – più o meno legate all’arbitrio del soggetto – esclude l’idea della verità da servire e da amare, sostituendola con l’unica certezza che tutto sia relativo. A questo forte senso della verità Ratzinger giunge non in un’avventura individuale senza radici profonde, ma attingendo alla comunione della Chiesa di Dio come vero “uomo ecclesiale”, nel contesto della grande tradizione del pensiero occidentale: dagli studi sull’amatissimo Agostino e su Bonaventura, alla frequentazione dei maestri dell’eredità di Monaco di Baviera (Sailer, Görres, Bardenhewer, Grabmann e Schmaus, per fare solo qualche nome), al dialogo con la sapienza greca, soprattutto platonica, e con la filosofia moderna e contemporanea, il suo percorso si nutre di uno straordinario patrimonio culturale, che egli attualizza e rielabora al fine di dire in modo nuovo il messaggio antico della rivelazione cristiana per l’inquieta cultura del nostro tempo, segnato da cambiamenti tanto rapidi, quanto profondi.
Si può dire veramente che la sua teologia e la sua filosofia più che aristocratico “amore della sapienza”, sono espressione di un’umile e convinta “sapienza dell’amore”, da offrire con generosità agli altri, in ascolto e in dialogo con tutti.

 

Nell’analisi di Ratzinger credere «significa dare il proprio assenso a quel “senso” che non siamo in grado di fabbricarci da noi, ma solo di ricevere come un dono, sicché ci basta accoglierlo e abbandonarci ad esso» (Introduzione al cristianesimo, 41). La fede nasce, insomma, dall’incontro fra il movimento di autotrascendenza dell’uomo e l’offerta assolutamente gratuita e indeducibile della grazia di Dio. Quest’incontro è tutt’altro che scontato: esso va anzi vissuto in tutta la sua dimensione agonica, segnata dall’esperienza della reale alterità dell’Altro: «Il “Credo” cristiano riprende con le sue prime parole il “Credo” d’Israele, accollandosi però al contempo anche la lotta d’Israele, la sua esperienza della fede e la sua battaglia per Dio, che diventano così una dimensione interiore della fede cristiana, la quale non esisterebbe affatto senza tale lotta» (73).

 

La visione che Ratzinger ha della ragione e della fede, è tutt’altro che ingenua: vi sono patologie della religione e vi sono patologie della ragione, come quelle che hanno portato alla violenza dei totalitarismi e all’uso di terribili armi di distruzione. Questo rilievo, però, non esime la fede dal dovere del dialogo con la ragione e Ratzinger non esita a dichiarare che esiste una «necessaria correlazione tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una con l’altra».
La fede – lungi dall’essere sacrificio dell’intelligenza – ne è insomma straordinario stimolo e alimento. La ragione che voglia dare ragione di quanto esiste, esercitata fino in fondo, si apre allo stupore davanti al mistero, dove abita l’Altro, che chi crede riconosce come il Dio al tempo stesso sovrano e vicino…
L’unico Dio cui si affida chi crede è, dunque, il mistero del mondo, il senso ultimo della vita e della storia, la ragione inconfutabile per diffidare della miopia di tutto ciò che è penultimo, il fondamento in rapporto al quale si sperimenta «la tensione fra potenza assoluta ed amore assoluto, fra incommensurabile distanza e strettissima vicinanza» (109). È proprio il paradosso della compresenza di queste due caratteristiche che aiuta a  comprendere in che senso il Dio della fede sia il Dio vivente: non un morto oggetto, su cui esercitare il gioco dell’intelligenza, ma il Soggetto vivo e operante, cui corrispondere con la consapevolezza e la libertà dell’accettazione di un’alleanza d’amore. Non un Dio concorrente dell’uomo, ma il Dio umano, la cui gloria è l’uomo vivente!

 

Il compimento del desiderio umano nel Dio vivente è insieme il suo superamento a un livello che il desiderio stesso non avrebbe mai potuto raggiungere. «La vera umanità dell’uomo è l’umanità di Dio, la grazia, che riempie la natura» (154). Fede e ragione, lungi dall’essere nemiche, sono chiamate all’incontro e alla collaborazione: «È importante – afferma Ratzinger a conclusione del suo dialogo con Habermas – per le due grandi componenti della cultura occidentale farsi coinvolgere in una correlazione polifonica, in cui aprano se stesse alla complementarità essenziale tra loro, cosicché possa crescere un processo di purificazione universale, in cui in ultima istanza i valori e le norme essenziali in qualche modo conosciuti o presagiti da tutti gli uomini possano conseguire nuova forza d’illuminazione, cosicché possa ritornare ad avere forza operante quanto tiene unito il mondo».
La corrispondenza di Habermas a questa proposta mostra come essa – avanzata oggi dalla cattedra universale del Successore di Pietro – possa parlare veramente alla cultura del nostro tempo, in Occidente e non solo. Saranno gli uomini e le donne di pensiero così responsabili da corrispondere nel modo più serio a questo appello, al servizio della qualità della vita e del futuro di tutti?


L’augurio è che il servizio sacerdotale di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, per sua definizione rivolto a offrire agli uomini il sacro, trovi in pieno questa corrispondenza feconda.


*Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il Sole 24 Ore” del 26 giugno 2011

Dove sono finiti gli scrittori cristiani

 

 

intervista a Sylvie Germain, a cura di François Thuillier


Dove sono finiti gli scrittori cristiani, in questo periodo in cui la loro voce sembra più che mai necessaria? Dove sono finiti i loro appelli alla giustizia e all’indipendenza, o, più modestamente, alla bellezza e all’intelligenza?

Sicuramente, l’epoca di scrittori, romanzieri, poeti, filosofi come M. Barrès, C. Péguy, F. Mauriac, G. Bernanos, J. Green, P. Claudel, G. Marcel, M. Blondel, E. Gilson, J. Maritain, ecc. è superata.
Ma questo cambiamento nel modo di esprimere la fede, sia che essa venga affermata o interrogata, non significa una totale scomparsa.
In Francia ci sono grandi pensatori del cristianesimo, e anche grandi romanzieri, poeti, drammaturghi. Nessuno fa “opera confessionale”, ma, ognuno a suo modo (magari con una certa distanza, o in grande libertà, o in maniera a volte parodistica) mantiene un legame con il pensiero cristiano.
L’appello “alla giustizia e all’indipendenza, alla bellezza e all’intelligenza”, di cui comunque i cristiani non detengono l’esclusiva, certo non è più diretto come in Péguy, Bernanos o Claudel, ha perso quegli accenti forti, focosi, lirici che quegli scrittori sapevano far risuonare, ma tuttavia perdura. La voce della letteratura cambia nel corso del tempo. Il timbro, il colore, l’intensità si modificano incessantemente.
La voce della letteratura “cristiana” parla ora con toni molto più bassi, in maniera più indiretta e discreta. E se si mettesse di nuovo a parlare forte, con foga e combattività, non è certo che ci sarebbero orecchie per ascoltarla; c’è perfino il rischio che le orecchie dei nostri contemporanei si chiudano ulteriormente, tanto è cresciuta la diffidenza, l’avversione, verso qualsiasi discorso “religioso” espresso in maniera troppo ardente.
E poi, nel gran frastuono della nostra epoca, dove tanti clamori si scontrano, forse è più facile farsi sentire, almeno un po’, da qualcuno, parlando (scrivendo) in toni più pacati.

 

Questo pone il problema del nostro essere “presenti al mondo”, affrontato nel suo ultimo libro. Che cosa significa per lei essere “presente all’altro”?
Essere presente, significa “esserci, restare davanti”; restare attenti, nel mondo e davanti al mondo, e davanti all’altro, ad ogni altro. Significa considerare il mondo e gli altri. La dimensione spaziale del “qui” si accompagna alla dimensione temporale: adesso, in questo momento. Significa essere attenti
e vigilanti, qui e adesso.
Ma questa pienezza della presenza/coscienza/attenzione all’altro non deve farsi opaca e diventare ostacolo – per un eccesso di affermazione, per uno sviamento dell’attenzione in indagine, in impudicizia, per una tentazione di controllo e dominazione.
Questa pienezza deve essere una posizione di fronte all’altro, senza dominio su di lui. Anch’essa ha il suo doppio: di oblio – a sé; o piuttosto, è opportuno distinguere l’“io” cosciente, responsabile, che assume l’atto di presenza, e l’“io” centripeto che tende a ricondurre tutto a sé.

 

È veramente possibile, o è ancora solo un problema di credenza, di fede nel volto dell’altro?
Non c’è esclusione, per opposizione; aver “fede nel volto dell’altro” non è un’illusione che uno cerca di darsi per consolarsi dell’impossibilità di essere presente all’altro. Questa fede si fonda sull’intuizione profonda rielaborata per innalzarla a sapere, per quanto questo sapere possa restare incompleto e fluido. E l’intuizione dell’importanza vitale del volto dell’altro, che io devo riflettere, si presenta, in un unico movimento, nel bisogno vitale che io provo che anche l’altro mi rifletta.
I pensieri di odio, di disprezzo verso un’altra persona, hanno come finalità la sua perdita, in quanto tendono ad imprigionarla non nel suo vero volto, ma, all’opposto, in una caricatura di volto, in un rifiuto a riconoscergli la dimensione di volto, di alterità, di piena dignità di vivente. Tutto dipende dal modo di pensare l’altro, dalla qualità di questo pensiero: chiuso o aperto, malevolo o benevolo, mortifero o vivificante. Più si pensa l’altro liberamente, senza nulla “che pesi o immobilizzi”, su uno sfondo di un vuoto luminoso aperto a tutte le possibilità, e più questo pensiero si fa benefico. E questo non riguarda solo il nostro pensiero dei vivi, ma anche quello dei defunti, perché perfino nella morte l’altro deve essere pensato nell’apertura e nel movimento,  considerando l’immensa parte di ignoto che lo circonda, e di insospettato, forse, che lo abita.

 

Questa presenza non può prescindere dal corpo. E il corpo, questo “mezzo”, che è stato usato da Dio una volta per tutte, non è molto semplicemente il messaggio?
Nessuna religione ha attribuito al corpo tanto riconoscimento, dignità e valore quanto quella dell’Incarnazione. Purtroppo la Chiesa, nel corso della sua storia, ha spesso, e drammaticamente, perso di vista questo messaggio, distorcendolo, tradendolo, schernendolo. Il senso profondo dell’Incarnazione è stato salvaguardato nell’aspetto della cura, della cura per l’altro sofferente, affamato, nel bisogno… e questa dimensione di misericordia attiva, di fraternità operante, è fondamentale. Ma dal lato del godimento e della gioia, del corpo in festa, assurdamente, e scandalosamente, c’è stato il rifiuto, come se ogni piacere ed ogni gioia fossero subito confusi con la sregolatezza, l’oscenità, la depravazione.
No, non si può mai prescindere dal corpo; la meraviglia e la radicale singolarità della rivelazione cristiana risiedono nella piena accettazione del corpo, nella comprensione della sua complessità fatta di pesantezza e di grazia, di fragilità e di forza, della sua folle capacità sia di soffrire che di godere e gioire. E l’ascesi praticata da Cristo (digiuni, lunghe veglie di preghiera, frugalità del modo di vivere) non significa mai disprezzo e rifiuto del corpo, ma padronanza e disciplina del corpo in vista della partecipazione ad un fantastico movimento di liberazione di tutto ciò che ostacola e appesantisce gli uomini. L’uomo Gesù è stato sensibile ad ogni segno di ospitalità, di delicatezza, perfino di sensualità, che gli è stato prodigato. E incessantemente ha guarito i malati, che si trattasse di problemi fisici o psichici, ridando a ciascuno la sua integrità corporale e mentale.
Il corpo deve essere assunto e vissuto pienamente, ai suoi albori, nel suo pieno mezzogiorno, al suo crepuscolo, e fino all’estremo limite della sua notte. Così fu la Passione, un assoluto di tenebre penetrato nel corpo e nell’anima. Ma prima c’è stato lo splendore della Trasfigurazione, e dopo,
l’invisibile bagliore della Resurrezione.

 

Ecco, come sperimenta, una scrittrice come lei, la povertà e il buio? Nel rapporto con le parole o piuttosto nella vita quotidiana?
L’esperienza della povertà e del buio la si prova nel quotidiano, in maniera confusa, spesso, e a volte diventa acuta, in un certo istante, in un pensiero che si sfilaccia, che sbatte contro un ostacolo, che può essere di comprensione (di un’idea che ci sfugge, che ci eccede) o può sorgere mentre si parla con altre persone (dalle quali non si riesce a farsi capire e/o che non si riescono a capire).
Povertà dell’intelligenza, quindi; della capacità di comprensione del mondo, sia sul piano scientifico che su quello metafisico, che resta sempre limitata, per quanto possa essere vasta; della comprensione degli altri, per quanto essi siano intimi e per quanto profonda sia la nostra empatia, e anche di noi stessi (che abbiamo dentro tante ombre e chiaroscuri, segreti, bugie, ferite nascoste, paure inconfessate, desideri clandestini, cedimenti della volontà, ma anche begli imprevisti…).
Questa esperienza si intensifica quando si scrive. Bisogna incessantemente inseguire le parole, raggirarle, a volte litigarci. Le parole sono i nostri attrezzi, insieme sublimi e risibili, per andare incontro agli altri e incontro a noi stessi, per esplorare il tempo, per affrontare l’avventura della vita e l’ignoto della morte, per interrogare il mondo, senza fine, e per vegliare sulla soglia del mistero più estremo, quello di Dio. Soglia dove il linguaggio si esaurisce,  confina nel silenzio, e dove culmina l’esperienza della nostra povertà.


intervista a Sylvie Germain, a cura di François Thuillier
in “Témoignage chrétien” n° 3450 del 23 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Il Concilio Ecumenico Vaticano II: contrasti nella storia del concilio

Dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha fatto l’esperienza, nei paesi occidentali, di un profondo declino relativamente alla frequenza alla messa, alla decimazione degli ordini religiosi e alle vocazioni presbiterali, e di una seria crisi dell’autorità della Chiesa istituzionale, in seguito alla reazione alla Humanae Vitae.


Alcuni diedero la colpa di questo all’evidente rapporto del concilio con la modernità, che prima del concilio era stata chiaramente condannata. Un piccolo numero di questo gruppo alla fine promosse uno scisma, guidato dal defunto arcivescovo Lefebvre. Altri ritennero il collasso inevitabile, date le profonde correnti secolarizzatrici nelle culture occidentali. Altri ancora attribuirono il declino ad una mancata applicazione degli insegnamenti del concilio e all’azione dilatoria di “conservatori centralizzanti” che hanno bloccato la Chiesa ad una roccia premoderna, senza più credibilità né responsabilità.


Questo è solo un campione delle posizioni assunte sull’argomento, ma rende ampiamente evidente il fatto che l’interpretazione del Concilio Vaticano II (1963-1965) è ancora profondamente contestata.
I dibattiti sui lavori del concilio sono stati spesso dipinti come dibattiti tra “conservatori” e “liberal”, termini in un certo senso superati con cui sono stati definiti anche gruppi di studiosi impegnati nell’interpretazione del concilio. Agostino Marchetto, giustamente, deplora queste etichette, ma il suo libro può certamente essere letto come una seria critica “conservatrice”, storica e metodologica, di circa 20 anni di cultura “liberal” sul concilio.


Quando il cardinal Ruini presentò il libro dell’arcivescovo Marchetto ad un pranzo ufficiale a Roma, paragonò, come fa Marchetto, la recente storia del concilio scritta da vari autori ed edita da Giuseppe Alberigo, alla famosa storia del Concilio di Trento scritta da Paolo Sarpi. Nessuno disse che Sarpi era stato inserito nell’Indice dei Libri Proibiti – ma lo sapevano.

L’accusa fatta alla Scuola di Bologna, di cui Alberigo era un leader intellettuale, è che gli studiosi coinvolti nello studio della storia hanno letto i documenti e gli eventi vaticani del concilio con un atteggiamento di sistematica prevenzione.


La prevenzioni fondamentali erano: il fatto di non fidarsi soprattutto sui 62 volumi che presentano il modo di procedere dell’ambiente del concilio, e sui documenti stessi del concilio; il fatto di essere decisamente anti-curia; il fatto di sottolineare la novità e la differenza piuttosto che la continuità; il fatto di sminuire l’importanza dei documenti finali di tipo autoritario a favore del fatto di vedere il concilio come “evento” (ci sono diversi significati dati a questo termine, ma fondamentalmente sposta l’attenzione lontano dall’interpretazione testuale dei documenti conciliari, preferendo concentrarsi su diari privati, e teorie letterarie, storiche e sociologiche); il fatto di vedere una profonda separazione tra papa Giovanni XXIII, che aveva una visione positiva, e papa Paolo VI, che sempre più si allontanava dalla visione di papa Giovanni man mano che il concilio procedeva sotto la sua guida. A causa di queste prevenzioni, dichiara Marchetto, questa storia smisurata oscura gli insegnamenti del concilio.


Il libro di Marchetto è importante in quanto sviluppa la critica che papa Benedetto fa a varie interpretazioni del concilio. La maggior parte delle 723 pagine sono occupate nel passare in rassegna sotto vari titoli tematici le pubblicazione tra il 1992 e il 2003 che si occupano del concilio, della sua preparazione, delle sessioni effettive, delle storie alternative del concilio, dell’autorità episcopale e papale (trattate in uno dei precedenti libri di  Marchetto, uno dei suoi temi preferiti), una recensione di diari e fonti alternative e, alla fine, tre saggi che riassumono l’argomento base del libro.
Secondo Marchetto, che cosa costituisce una corretta interpretazione? Innanzitutto, l’accettazione della continuità della dottrina: riforma e cambiamento avvengono solo all’interno di quella continuità dottrinale. Marchetto cita spesso Newman, ma non sviluppa nei dettagli la visione di Newman rispetto allo sviluppo dottrinale. Né c’è discussione su ciò che costituisce una dottrina riformabile o una dottrina irriformabile, su quello che sono opinioni teologiche probabili o certe, talvolta viste come dottrine. In secondo luogo, la lettura dei testi del concilio e dei documenti ufficiali del modo di procedere nell’ambiente del concilio, così come dei commenti ufficiali ai testi, oltre ai documenti ufficiali emanati, come le lettere di papa Paolo durante il concilio. Questi sono i “fatti” che dovrebbero formare la base per la nostra comprensione del concilio, non gli eventi prima, durante e dopo, come costruiti da altre fonti.


Marchetto ha ragione nell’ammonire che abbiamo appena cominciato ad interpretare il concilio, d ato che i 62 volumi editi da Vincenzo Carbone sono stati conclusi solo recentemente. Ma questo ammonimento dovrebbe ugualmente essere applicato alla lettura di Marchetto dei documenti e del c ontesto del concilio, il che richiederebbe maggiore argomentazione di quella che egli talvolta presenta. Parla spesso di giudizi non equilibrati e di espressioni eccessive, presumendo che il lettore condivida questo modo di vedere. Anche se, per essere giusti, recensendo più libri, come scrive spesso Marchetto, si deve spesso rimanere entro limitazioni.


Alla fine, Marchetto indica alcuni segnali positivi di letture alternative rispetto alla tradizione dominante che ha criticato in alcuni punti. Indica Leo Scheffczyk, Annibale Zamberi, Vincenzo Carbone, il lavoro dell’Istituto Paolo VI di Brescia, J.-M. R. Tillard, Massimo Faggioli, Giovanni Turbanti e, in parte, Hermann J. Pottmeyer. Si potrebbero aggiungere i bei saggi editi da Matthew Levering e Matthew Lamb per l’ambito di lingua inglese.


È un libro importante in un dibattito che è appena iniziato. Il futuro della Chiesa cattolica sarà nutrito dal concilio solo se esso sarà correttamente interpretato.



in “The Tablet” del 9 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Scuola: come cambia con Lim e e-book

Lavagne elettroniche e libri digitali. Il futuro è già fra i banchi e sta cambiando rapidamente le modalità di insegnamento.

 

 

È la riflessione che compare sul sito dell’Ansas, Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, principale promotrice, per conto del ministero, delle aule 2.0 e dell’innovazione digitale a scuola. In un approfondimento che compare sul sito dell’Agenzia (e ripreso dall’agenzia di stampa Dire) si affronta la seguente domanda: Lim (Lavagne interattive multimediali) ed e-book, perché portarli in classe?

Innanzitutto, si spiega nell’articolo di approfondimento, gli ambienti digitali in classe sono qualcosa di più semplice rispetto a quanto viene evocato dall’immaginario collettivo quando se ne parla. Niente realtà virtuale o scene da Second life, insomma. L’aula digitale è costituita da un insieme di strumenti digitali che vengono utilizzati, anziché in solitudine, da una comunità di persone. Ma grazie alle tecnologie la scuola si ‘dilata’, supera i propri confini e tocca il mondo portandolo fra le sue pareti. Tuttavia, perché la scuola digitale funzioni “è necessaria un’adeguata cultura dei media, ovvero un approccio che consenta al docente di appropriarsi della tecnologia, dei linguaggi multimediali, per farli propri e individuarne il valore aggiunto“.

Occorre prevedere nuovi modi d’uso – è l’auspicio dell’Ansas –, consapevoli delle potenzialità e specificità del singolo medium per non incorrere nella tentazione di utilizzare, ad esempio, la Lim come la lavagna d’ardesia sprecando tempo e vanificando l’investimento“. La Lim (lavagna interattiva multimediale), infatti, “può rappresentare oggi una svolta per l’insegnamento. Entra in classe, va al cuore del sistema di apprendimento e della pratica didattica quotidiana, rompe la configurazione tradizionale dell’ambiente“.

La classe, estesa e potenziata, può accedere a diversi aspetti della realtà esterna, estrapolarne particolari e dettagli, analizzare, scomporre, manipolare informazioni e contenuti, con il supporto di efficaci applicazioni software appositamente progettate e sviluppate. Di fronte alla tecnologia il docente e lo studente possono essere “passivi consumatori” o, a loro volta, produttori. E questa è la differenza fra un buono e un cattivo uso delle tecnologie in aula. Quanto al libro digitale, Alberto Manzi, storico maestro che negli anni del dopoguerra commosse l’Italia con il suo carisma e la dolcezza con cui insegnava agli adulti analfabeti a scrivere nel famoso programma televisivo ‘Non è mai troppo tardi’, sosteneva che “per il ragazzo il libro deve essere qualcosa di piacevole, dove si può non solo leggere, ma colorare, trasformare, fare, disfare, ampliare, ridere, inventare, riflettere. Il libro si trasforma così in qualcosa di personale, perciò vivo“.

Queste affermazioni sono oggi più che mai attuali e potranno forse trovare un alleato nella tecnologia digitale. E se, di fatto, l’e-book non nasce per il target scuola, in essa trova applicazione e naturale collocazione.


tuttoscuola.com

Intervista ad Asia Bibi

“Io cristiana in carcere per la fede salvatemi, sto morendo ogni giorno”

 

 

“Sto male. Mi sento soffocare fra queste quattro mura in ogni momento. Ogni minuto che passa mi sembra essere l’ultimo. Mi sveglio tutte le mattine pensando che quello sarà il mio ultimo giorno”. È un grido disperato quello Asia Bibi lancia dalla cella di isolamento del carcere di Sheikpura, nel Punjab pachistano, dove è rinchiusa, condannata a morte per blasfemia, nella prima intervista concessa dall’inizio della sua vicenda.
La donna, madre di 5 figli, è stata arrestata nel 2009 e condannata nel 2010: la sua colpa, secondo le vicine di casa, sarebbe quella di aver insultato Maometto e di essersi rifiutata di convertirsi all’Islam. Il caso si è trasformato in una questione internazionale quando la proposta di modificare la legge sulla blasfemia sull’onda della sua vicenda, ha generato un’ondata di violenze in Pakistan: una rabbia culminata negli assassinii, a gennaio e marzo, del governatore del Punjab Salmaar Tasmeer e del ministro delle Minoranze religiose Shahbaz Bhatti, che si erano battuti per la
modifica.

Dopo queste morti, il cerchio intorno ad Asia Bibi si è stretto ulteriormente. Oggi vive in isolamento: non può uscire dalla cella neanche per prendere aria, perché c’è il timore che venga assassinata. Familiari e legali sono minacciati. È malata, e chi la conosce è preoccupato per la sua salute, fisica e mentale. Questa preoccupazione è uno dei motivi che spiega la scelta di rompere il silenzio, parlando per la prima volta con un giornale. Asia Bibi risponde alle domande tramite il marito, Ashiq, l’unica persona insieme ai suoi legali autorizzata ad incontrarla, e alla sede londinese della Masihi Foundation, che si occupa della sua difesa.

 

Signora Bibi, per prima cosa vuole raccontarci come sta?
“Prima di rispondere alla sua domanda, voglio mandare i miei ringraziamenti a tutti quelli che sono preoccupati per me e che stanno pregando per me. Io sto molto male. La notizia della morte di Shahbaz Bhatti mi ha devastato e non riesco a riprendermi. Mi sento soffocare in queste quattro mura in ogni momento. Ogni minuto che passa mi sembra essere l’ultimo. Mi sveglio ogni mattina pensando che forse quello sarà il mio ultimo giorno: e allora piango. Piango per i miei figli e per mio marito”.

 

Ci racconti come vive…
“Le mie condizioni di vita in carcere non sono semplici. Sono in isolamento e non posso parlare con nessuno a parte il personale della prigione, con il quale però non mi sento di parlare. Sono in una situazione davvero difficile, nessuno può capire quello che sto vivendo: mi hanno condannato a morte e sono innocente. Non ho commesso nessun crimine eppure ogni persona in questa prigione mi fissa come se io fossi la persona più terribile che vive al mondo”.

 

Ha paura?

“Sì. Ho paura, sono terrorizzata: per la mia vita, per quella dei miei figli e di mio marito. Non ce la faccio più e non penso che ad uscire da questo luogo miserabile. La cosa che mi preoccupa di più sono le mie figlie, che stanno soffrendo con me: mi sento come se la mia intera famiglia fosse stata condannata. Questo mi rende triste e mi fa sentire come se fossi responsabile, come se fossi stata io a fallire in qualcosa. Le donne in questo mondo sono chiamate a costruire una casa, un futuro, insieme alle loro famiglie: ma io? Che futuro posso promettere io alla mia famiglia, alle mie figlie, se sono bloccata qui dentro? Vorrei offrire loro una vita più sicura in un altro posto: in un posto qualunque che non sia il Pakistan. Ma so che forse non vivrò per arrivare a vedere questo futuro. Sarei felice se solo sapessi che la mia famiglia è al sicuro. Ma so per certo che se anche io uscissi di prigione, se anche la corte decidesse che sono innocente, qui non sopravviverei: né io né la mia famiglia. Gli estremisti non ci lasceranno mai in pace: sono una donna segnata. Ma la mia fede è forte e credo che Dio misericordioso risponderà alla mie preghiere”.

 

È consapevole che il suo è diventato un caso internazionale? Che in Pakistan e in moltissimi altri Paesi intorno alla sua vicenda si sono accesi dibattiti e polemiche? Se queste notizie Le sono arrivate come giudica tanto interesse? Si sta rivelando utile per il suo caso?
“Il mio mondo è chiuso dentro a queste quattro mura. Ho sentito molte cose su questi dibattiti, me le hanno raccontate: ma tanto rumore non ha portato a nessuno cambiamento nelle mie condizioni di vita. Due delle persone che mi hanno più appoggiato in Pakistan, che hanno fatto sentire la loro voce per me, sono morte. Sono terrorizzata per chiunque lì fuori sta rischiando la sua vita per me e per le tante altre persone che stanno soffrendo per me. Ho paura non solo per la mia famiglia, ma anche per i miei legali e per la Masihi foundation, che con tanta generosità sta aiutando la mia famiglia. Prego Dio ogni giorno perché alle persone che sono dalla mia parte non accada nulla”.

 

 

Cosa ha pensato quando ha saputo invece che due delle persone che si erano battute per lei erano state assassinate, una dietro l’altra? E che molte persone, in Pakistan, hanno gioito per quelle morti?
“Ho sentito un dolore terribile quando ho saputo della morte di Salman Taseer prima e di Shahbaz Bhatti poi: sono rimasta senza parole, sotto choc. Poi mi sono infuriata, non volevo crederci: il mio cuore è con le loro famiglie e con tutte le persone che li amavano. Hanno dato la vita per una causa importante, vorrei che l’intero mondo riconoscesse la loro lotta e il loro sacrificio, che sono stati fatti in nome dell’umanità intera. Da allora passo molte notti senza dormire. Sono frustrata e penso che la mia vita sia ad un punto morto. Sto disperatamente aspettando di uscire da questa prigione e voglio chiedere aiuto a tutti perché facciano qualcosa per risolvere questo caso. La gente qui in Pakistan usa la legge sulla blasfemia per risolvere le proprie questioni personali: questa legge dovrebbe solo essere abolita, perché fa male a tutti, siano essi cristiani o musulmani. Nessuno sarà mai al sicuro in Pakistan fino a quando questa legge continuerà ad esistere. Io sono per certo di essere una vittima innocente di questa legge; soffro e l’intero mondo deve sapere che sto soffrendo senza aver commesso nessun crimine”.

 

 

Parliamo di futuro, signora Bibi: cosa sogna di fare quando uscirà? Quale sarà il suo primo gesto?
“Ringrazierò Dio per essersi preso cura di me e della mia famiglia. Abbraccerò forte ogni singolo membro della mia famiglia e poi farò con loro una grande cena per celebrare. Poi ringrazierò le persone che non conosco di persona ma che tanto stanno facendo per me, come Haroon Masih della Masihi foundation, di cui ho sentito così tanto parlare. Ma il mio sogno più grande è quello di incontrare Papa Benedetto. Haroon mi ha fatto arrivare la notizia che il Santo Padre ha parlato di me: questo mi ha dato moltissima speranza, mi ha spinto a continuare a vivere, mi ha fatto sentire amata e come se l’intero mondo fosse con me. Mi sono sentita onorata: è un privilegio sapere che ha
parlato per me, che ha pronunciato il mio nome, che segue il mio caso personalmente. Vorrei vivere abbastanza per vedere il giorno in cui potrò incontrarlo e ringraziarlo di persona.

in “la Repubblica” del 27 marzo 2011

Enzo Bianchi: Una vita da priore

La campana a Bose suona alle 5.30. Prima un tocco, sospeso nel vuoto. E poi altri, con le campane
che diventano due, a rincorrersi, veloci. È tempo di svegliarsi. I monaci svegli lo sono già, da un’ora.

 

 

Accendono la lampada alle 4.30 e cominciano la giornata con una lectio divina: leggono, meditano, pregano, scrivono, studiano, ridono o piangono nel segreto delle loro celle. «Dall’aurora io ti cerco», dice un verso di un salmo che cantano assieme all’alba nella chiesa al centro del monastero. Nei loro abiti bianchi i monaci siedono nella navata sinistra della chiesa. Le monache con gli stessi abiti e il cappuccio sul capo siedono dall’altro lato. Sono un’ottantina. Al centro c’è un leggio con una bibbia aperta. In fondo il crocifisso e il tabernacolo. Sopra, dalle  finestre, si intravedono nel buio i contorni innevati dei monti del biellese: Mucrone, Mars, Camino.
Bose è un gruppo di case di campagna, un tempo abbandonate, sulle colline piemontesi, tra campi chiazzati, filari di larici, betulle, un bosco di abeti e di cipressi. L’unico rumore, in questi giorni, è quello della neve che si scioglie, l’acqua scorre nelle gronde e nei canali. Alle 8 del mattino, dopo la fine di quello che qui chiamano il Grande silenzio – inizia la sera prima alle 20 dopo la cena – ognuno comincia la propria attività. Tutti hanno un lavoro da svolgere. E lo fanno con cura, con un ordine che sembra prestabilito. Nessuna cosa viene imposta. C’è un senso di libertà e di quiete. «Se vai in capo il mondo, trovi le tracce di Dio. Se scendi nel tuo profondo, trovi lo stesso Dio» è scritto nel foglio del monastero che accoglie gli ospiti.
Enzo Bianchi, 68 anni, per tutti qui “il priore”, ha uno sguardo profondo, la barba lunga bianca su un corpo di quercia. «Sono un figlio della cultura contadina» del Monferrato e delle Langhe. Il suo ultimo libro Ogni cosa alla sua stagione (Einaudi,130 pagine 17 euro) ha venduto in poche settimane oltre 130mila copie. Parla di ricordi, di terra, di spiritualità nascosta nelle persone semplici, di vecchiaia, di vita monastica e di ascesi. Successo editoriale curioso, in un paese come l’Italia dove si legge poco e il volume in cima alle classifiche di vendita è un manuale di ricette di cucina. «Ha stupito anche me questo successo. C’è un forte bisogno di profondità, di cose vere».
Il suo rapporto con la scrittura è strettamente legato alla vita monastica. «La mia scrittura nasce dal silenzio. Ho una cella nel bosco dove regna un grande silenzio e questo mi aiuta molto a dosare le parole, a discernere e a capire… Se non avessi ore e ore di silenzio sarei incapace di parlare e di scrivere».
Quando ha cominciato la vita a Bose, nel 1965, l’anno della fine del Concilio Vaticano II, era solo.
Studente di economia e commercio all’Università di Torino, aveva formato un gruppo di preghiera «ecumenico, prima ancora del concilio» con altri giovani cattolici, valdesi, ortodossi. «Sentivamo il bisogno di far coincidere la spiritualità cristiana e l’umanità». La svolta avviene nel 1965 quando trascorre tre mesi in Francia a fianco dell’Abbé Pierre. «Vivevamo in una catapecchia vicino al fiume, alla periferia di Rouen: io, l’Abbé Pierre, Dominique, un fratello laico, assieme a clochard, ex legionari, ex carcerati. Svuotavamo cantine, raccoglievamo stracci e li  vendevamo». Tornato a Torino non era più lo stesso. «Volevo continuare a vivere così: una vita cristiana radicale». All’inizio erano in quattro, ma rimase subito solo: uno dei compagni perse la fede, due ragazze decisero di sposarsi.
«Mio padre diceva che ero pazzo». Pazzo di Dio.
Nella prima casupola di Bose non c’era l’elettricità, né riscaldamento o acqua calda. Solo una stufa a legna durante i lunghi inverni, l’orto, le traduzioni dal francese per mantenersi e la vita monastica, in solitudine. Per tre anni. «In quel periodo ho toccato con mano quanto sia difficile l’arte di abitare con se stessi. La mia vita era come è adesso, con la liturgia delle ore, il silenzio e il lavoro. Durante l’inverno restavo lunghi mesi da solo senza vedere nessuno. Il sabato e la domenica, nella bella stagione, qualcuno veniva su a trovarmi. Le giornate erano lunghe ma piene. Avevo trovato una ragione per spendere la vita. Non desideravo altro… Quando ci ripenso ho nostalgia di quel tempo».

L’esperienza di Bose, per niente mondana, ha un qualche successo, lo dimostrano le vendite del suo
libro e le 18mila persone che ogni anno vengono a visitare questo luogo sperduto nella campagna
piemontese. È una storia vera, di identità, di cristianesimo vissuto. «Tanta gente arriva qui, anche non
credenti. Facciamo una vita semplice. Io ho sempre cercato di creare rapporti veri, di comunicazione
sincera».
Rimpianti? No, non ci sono, ricordi piuttosto. «Adesso, con l’età che avanza, si comincia a guardare indietro, sempre più spesso. Quando sono nella solitudine della mia cella, alla sera, ripenso alle persone fondamentali nella mia vita: l’Abbé Pierre, Roger Schutz, Atenagora, ma anche ad alcune persone semplici che sono state importanti nel mio cammino». Nel libro racconta la storia di Teresina del Muchèt. Una donna che viveva sola sul pianoro ai bordi del paese natio, con la compagnia dei suoi animali «ed emanava un odore acre, un misto di stalla, di pecora, di sudore».
Parlava poco Teresina ma quando lo faceva era piena di sapienza, «poche frasi che coglievano sempre nel segno». Tra le pagine scorre anche la storia di Cocco ed Etta, la postina e la maestra del paese. Due donne non sposate, che vivevano insieme dandosi del lei, e che dopo h morte della madre lo hanno cresciuto alla vita, trasmettendogli valori e tolleranza.
«Ho avuto la grazia di trovare chi credeva in me. Avere qualcuno che crede in noi è decisivo  affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare senso nella vita».
Se oggi dovesse lasciare questa terra e le si chiedesse una parola, l’ultima, da lasciare ai suoi, un testamento racchiuso in una parola, cosa direbbe?: «Direi questo: ascoltate. Imparate ad ascoltare.
Per me è la cosa più importante. L’unica cosa che vorrei che si dicesse di me quando non ci sarò più è: “Era un uomo che ascoltava”».

 

in “Il Sole-24 Ore” del 27 marzo 2011

Parlare con gli atei

 

“Ritroviamo il coraggio di parlare con gli atei”
intervista a Gianfranco Ravasi

 

Cattolici e atei, credenti e agnostici: faccia a faccia nella Parigi dei Lumi per un vertice inedito promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura vaticano. Partner del dialogo, che si svolgerà tra il 24 e il 25 marzo, sono l’Unesco, la Sorbona, l’Institut de France, il “parlamento dei sapienti” che riunisce le cinque grandi accademie francesi. È una pagina nuova nella storia della Chiesa, il tentativo di affrontare il Terzo millennio smettendola di considerare atei ed agnostici come nemici o handicappati spirituali.“Anticlericalismo e Clericalismo” vanno superati, è l’opinione del porporato. Perché “chiudersi nel proprio recinto è una malattia sia per le religioni che per il mondo laico e per una scienza che pretenda di dare le risposte a tutte le domande”.  L’iniziativa è sorta per impulso di Benedetto XVI, che nel 2009 affermò a Praga che andava stimolato il confronto con i non-credenti e indicò nel Cortile dei Gentili dell’antico Tempio di Gerusalemme lo spazio, dove gli aderenti ad altre religioni potevano accostarsi al Dio Sconosciuto.
Sul sagrato di Notre Dame, dove si terrà uno spettacolo per i giovani, arriverà un videomessaggio del Papa.

 

 

Cardinale Ravasi, partite dalla Francia, l’Anticristo dell’Illuminismo.
Sì, ho voluto scegliere Parigi proprio perché è un vessillo di laicità, ma devo dire subito che ho trovato un mondo laico interessato a un confronto vero sui grandi temi.

 

Voglia di convertire?
Non è questo lo scopo. Non parliamo di evangelizzazione. L’obiettivo è il dia-logo. Il confronto fra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza. Quando mi trovo di fronte a un ateo come Nietzsche o al discorso marxista o scientista, io ascolto, rispetto, valuto. Le religioni e i sistemi ideologici sono letture del reale e del cosmo ed è bene che si confrontino.


Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anitra zoppa?

Il credente e l’ateo sono ciascuno portatori di un messaggio, che è ‘performativo’ poiché coinvolge l’esistenza. Sono contento di avere come interlocutori a Parigi personalità come Julia Kristeva, semiologa e psicanalista agnostica o il genetista Axel Kahn.

Su cosa ragionare?
All’Unesco si discuterà tra credenti e laici sul ruolo della cultura ma anche delle donne nella società moderna, sull’impegno per la pace e la ricerca di senso in un mondo che è contemporaneamente secolarizzato e religioso. Alla Sorbona il tema è emblematico: Lumi, religioni, ragione comune.
All’Institut de France il dibattito sarà su economia, diritto, arte.

Sperando di trovare punti di incontro?
Non interessano incontri o scontri generici né di accordarsi su una vaga spiritualità. E non si tratta  nemmeno di un asettico convegno di matematica. Ciò che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative, ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali.
Lei ha detto recentemente che la Chiesa deve imparare ad abbattere i propri muri.
Spesso abbiamo un linguaggio eccessivamente connotato ed escludente. Dobbiamo riconoscere che esistono visioni diverse della realtà e che dal mondo laico ci vengono rivolte domande profonde rispetto alle quali non possiamo essere evasivi.

Quali questioni considera capitali?
Le domande sul senso dell’esistenza, sull’oltre-vita, sulla morte. E ancora, la domanda sulla categoria di verità.

C’è già nel processo a Gesù: cos’è la verità?
È qualcosa che ci precede, che è ‘in sé’? Oppure, come affermano i moderni, è l’elaborazione del soggetto secondo i differenti contesti?

Immagina Parigi come tappa di una ricerca sull’etica universale, quel Weltethos che il teologo Hans Kueng espose a Benedetto XVI a Castegandolfo dopo la sua elezione?
Penso piuttosto che si possa aprire il discorso, senza sincretismi, su ciò che significa Natura e legge naturale.
Vale la pena di indagare sulle radici ultime, che precedono le ragioni delle religioni e delle ideologie. Porre a confronto le differenti concezioni di essere ed esistere significa mettersi autenticamente a ricercare, senza pretendere di sapere a priori.
Troppe volte si è diffusa la sensazione che con l’arrivo del pensiero scientifico moderno sia stato segnato un anno zero, che annulli le elaborazioni della cultura precedente, specie quella greca e cristiana.

Invece?
Trovo tanti scienziati aperti a riflettere sulle categorie filosofiche dell’esistenza.

C’è un tema su cui si dovrebbe riflettere di più nella civiltà contemporanea?
La potenza del male. Bisogna esserne consapevoli. Gli atteggiamenti susseguenti possono essere diversi. Per Albert Camus, nell’assenza di Dio, la risposta finale è il suicidio. Per George Bernanos, al di là di tutte le difficoltà e fragilità, la presenza divina non abbandona mai l’umano.

La Chiesa è pronta a fare i conti con la decristianizzazione in atto nel continente europeo?
Le categorie statistiche sono insufficienti per misurare il reale. Serve un metodo qualitativo per misurare dall’interno i comportamenti sociali e personali. Harvey Cox, che aveva scritto la ‘Città secolare’, ora sostiene di  essersi sbagliato. Assistiamo ad un ritorno del Sacro e a una nostalgia del Religioso, che però non trova una risposta nel istituzioni religiose. Così si manifesta in varie espressioni: movimenti, New Age, devozionalismo, spiritualismo.

Qual via d’uscita propone?
Il cristianesimo deve tornare alle sue grandi risposte. Riuscendo a guarire il palato della società, deformato da una secolarizzazione che cerca spiritualità a basso profilo.

Non pensa che vi sia nella Chiesa ancora troppa paura della modernità?
Io nutro rispetto per la modernità, ma rivendico la legittimità di criticare una modernità superficiale, inodore, incolore, nemmeno immorale bensì a-morale. Come dice Goethe nel Faust: abbiamo dimenticato il Grande Maligno, sono rimasti i Piccoli Mascalzoni.

in “il Fatto Quotidiano” del 20 marzo 2011

 

 

Parlare con gli atei


 

di Paolo Flores d’Arcais

 

Stimato cardinal Ravasi, ho letto con crescente interesse l’intervista – impegnata e soprattutto impegnativa – che ha concesso a Marco Politi per questo giornale. Le sue parole mi hanno colpito, tra l’altro, per un tono appassionato di autenticità che non sempre si avverte in altri uomini di Chiesa del suo altissimo livello gerarchico. Lei enuncia come obiettivo delle sue iniziative “il dialogo” con gli atei, dunque un parlarsi-fra che non aggiri la controversia, anzi, visto che lo intende come “il confronto tra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte
dell’esistenza”. E perché non ci siano dubbi che tali “Logoi” debbano essere anche quelli più radicalmente conflittuali con la fede cattolica, esemplifica con gli ateismi di stampo nicciano, marxista, scientista: insomma tutto il “vade retro” del moderno relativismo (condannato dagli ultimi due Pontefici come incubatore di nichilismo). Ateismi radicali che, aggiunge, “io ascolto, rispetto, valuto”.

 

DI PIÙ

Marco Politi molto opportunamente insiste: “Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anatra zoppa?”. Bella metafora, in effetti, per stigmatizzare l’atteggiamento paternalistico che spinge ancora troppo spesso la Chiesa a scegliere come interlocutori solo quei “gentili” (“Cortile dei gentili” si intitola la sua iniziativa) che sembrano soffrire la condizione della mancanza di fede come un’amputazione ontologica o esistenziale. “Atei” sì, ma “alla ricerca di Dio”. Sembra proprio che invece lei questa volta voglia promuovere il confronto con l’intera costellazione dell’ateismo hard: “non interessano incontri o scontri generici, né di accordarsi su una vaga spiritualità” perché “quel che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative” smettendola di “essere evasivi” rispetto alle “profonde domande che ci vengono rivolte dal mondo laico”. Apprezzo “toto corde”. Del resto dirigo da un quarto di secolo una rivista di adamantina laicità (tanto che viene spesso tacciata di “laicismo” proprio perché non è laicità “rispettosa”, da anatre zoppe) che del confronto senza diplomatismi con uomini di fede, anche della Chiesa gerarchica, si è fatta un punto d’onore. Praticandolo.
Spero perciò sinceramente che alle sue parole seguano i fatti. Non solo a Parigi, anche in Italia.
Negli ultimi anni l’atteggiamento è stato però di segno opposto. Il dia-logo con l’ateismo è stato sistematicamente rifiutato dalla Chiesa gerarchica e anche da lei personalmente. Si tratta di una verità inoppugnabile, di cui purtroppo posso dare testimonianza diretta. Quando nell’anno del giubileo MicroMega pubblicò un almanacco di filosofia dedicato a Dio, con saggi in maggioranza di ispirazione atea, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina  della fede, cardinal Ratzinger, non solo accettò di collaborare con un suo testo, ma anche di presentare il numero in una controversia pubblica con me al teatro Quirino di Roma, gremito all’inverosimile e con duemila persone che seguirono il dibattito sulla strada attraverso altoparlanti di fortuna. Se guardo ai due o tre anni successivi, posso constatare che accettarono pubbliche controversie i cardinali Schönborn, Tettamanzi, Piovanelli, Caffarra, Herranz e infine nel 2007, presso la Scuola normale superiore di Pisa, il patriarca di Venezia Angelo Scola.
Da allora l’atteggiamento della Chiesa gerarchica si è rovesciato. MicroMega ha proseguito nella volontà di un confronto franco, “ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali”, secondo quanto lei dice di auspicare. Ma ci siamo trovati di fronte al muro di un sistematico rifiuto. Sia chiaro, un Principe della Chiesa ha tutto il diritto di rifiutare il confronto se non ritiene l’interlocutore all’altezza, senza con ciò smentire la sua volontà di dia-logo. Pretende solo atei più autorevoli. Ma visti i precedenti fin troppo lusinghieri in fatto di porporati che hanno accettato la discussione con Micro-Mega e con me, non è certo questo il motivo del rifiuto.


SUL QUALE

non provo neppure ad avanzare ipotesi. Mi interessa il futuro. Vorrei prenderla in parola, nella sua volontà di “dia-logo”, e organizzare con lei occasioni di confronto proprio con il metodo e sui temi che lei illustra nell’intervista. Discutere tra atei-atei e Chiesa gerarchica per “ricercare senza pretendere di sapere a priori”, su questioni che spaziano dal “senso dell’esistenza” alla “oltrevita, la morte, la categoria della verità” o “su ciò che significa Natura e legge naturale”, visto che da qui nascono le questioni eticamente sensibili che sempre più affollano l’agenda politica non solo italiana.
Si tratta, del resto, di temi previsti nel confronto con il cardinal Ratzinger, che non fu possibile affrontare per mancanza di tempo (vi era anche quello del Gesù storico, che certamente a lei, biblista di fama, interesserà). La invito dunque alle “Giornate della laicità” che si svolgeranno a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile, a cui hanno rifiutato di partecipare i quindici cardinali che abbiamo invitato, e nelle quali potrà discutere con atei non “anatre zoppe” come Savater, Hack, Odifreddi, Giorello, Pievani, Luzzatto, e buon ultimo il sottoscritto. Se poi la sua agenda non le
consentisse di accogliere questo invito, le propongo di organizzare insieme, lei ed io, una serie di confronti nei tempi e luoghi che riterrà opportuni. Devo però dirle, in tutta franchezza, che non riesco a liberarmi dalla sensazione – negli ultimi anni empiricamente suffragata – che il “dia-logo” che lei teorizza voglia invece eludere il confronto proprio con l’ateismo italiano più conseguente.

Con la speranza che i fatti mi smentiscano e che lei possa accettare la mia proposta, le invio intanto i miei più sinceri auguri di buon lavoro.

in “il Fatto Quotidiano” del 22 marzo 2011

 

 

La Chiesa in dialogo

 

di Jacques Noyer

 

La Chiesa cattolica vuole entrare in dialogo tanto nel cammino ecumenico quanto negli incontri interreligiosi. Vuole perfino aprire il dialogo con gli atei. Non si può che essere contenti di queste iniziative, totalmente in armonia con quel Dio di dialogo di cui Gesù ci ha rivelato il volto. La Trinità è dialogo. La Rivelazione è dialogo. L’evangelizzazione è dialogo.
Ma il dialogo presuppone che gli interlocutori accettino tra loro una certa uguaglianza e riconoscano in sé una certa fragilità. Ci si ritrova sotto lo sguardo di una ragione, di uno spirito di cui si accetta l’arbitraggio e si rinuncia così a conoscere in anticipo l’ultima parola verso cui ci si mette in cammino. Ma non si capisce bene come le istituzioni possano dialogare. Nazioni, partiti, organizzazioni diverse possono avere negoziati di pace, trattative d’alleanza, complicità d’azione.
Ma non possono dialogare. Se un rappresentante fosse colpito dalle argomentazioni dell’altro, non potrebbe più rappresentare la sua organizzazione. Si è condannati ad avere solo dei dialoghi tra sordi. Questo non significa che questi dibattiti non possano condurre, in seguito, nelle istituzioni, ad un’evoluzione del loro punto di vista, ma per niente al mondo accetteranno di dire che il cambiamento è avvenuto ascoltando l’altro: sarebbe ammissione di debolezza!
Le Chiese e le religioni possono dialogare ancor meno di altre istituzioni poiché le loro convinzioni sono presentate come sacre e quindi intangibili. Bloccate nelle loro certezze, possono al massimo cercare insieme delle formule sottili che nascondano le differenze. La stagnazione dell’ecumenismo, il blocco del dialogo teologico interreligioso ne sono la prova. Ugualmente, è proprio l’impossibilità del dialogo tra l’islam e l’ebraismo a rendere impossibile la pace in Israele. Le religioni sono più atte a fare la guerra, o almeno ad incoraggiarla, che a vivere il dialogo della comunità fraterna.
Se le religioni non possono dialogare, invece lo possono fare gli uomini, credenti o non credenti.
Ed è proprio quello che accade in tutti i quartieri in cui vivono credenti di diverse religioni o semplicemente in tutti  gli incontri amichevoli che accompagnano la vita sociale quotidiana. Sono molteplici le testimonianze sull’esistenza  e sulla fecondità di questi luoghi informali di parola.
Quando vediamo le folle dei paesi arabi sollevarsi in nome dei diritti umani per esigere un po’ più di democrazia, come non ammirare la forza del dialogo condiviso nell’ambito della mondializzazione o della laicità? Dio mi guardi dal vedervi il risultato di una certa evangelizzazione! Sarebbe un recupero odioso. Ma nessuno può negare di potervi  vedere il lavoro dello Spirito, e il Dio in cui credo certo ne è felice!
Sì, la Chiesa, questo popolo in cui vive lo Spirito, perché è fatta di uomini e di donne immersi nel mondo, può  dialogare col mondo. E lo fa da venti secoli. Lo fa oggi come ieri. Ma se la Chiesa è quell’istituzione gerarchica dalla  dottrina intangibile e dalla Verità Posseduta, allora non può farlo.
Se l’istituzione organizzasse il dialogo invece di averne paura, se essa stessa fosse dialogo tra i suoi membri, se la Chiesa si assumesse il rischio di desacralizzare il suo discorso di ieri e i suoi orpelli storici per cercare, oggi, adesso, la Verità con tutte le nazioni, essa potrebbe essere, come la sua Vocazione le chiede, il dialogo in cui lo Spirito fa nuove tutte le cose.

in “Témoignage chrétien” n° 3436 del 17 marzo 2011 (traduzione: finesettimana.org)

 

 

RASSEGNA  STAMPA

 

25 marzo 2011

“Per i cristiani, la Verità ci precede, nella persona di Cristo. Mentre agli occhi della cultura contemporanea, ciascuno di noi la costruisce. Da questa differenza derivano concezioni diverse del bene e del male, della libertà, della giustizia”
“L’esigenza di razionalità – che è essenziale – non fa scomparire quelle dimensioni del vissuto che sono il sacro, l’immaginario, l’istintivo o anche l’affettivo e evidentemente la credenza… (che non ha un significato univoco, perché mescola rappresentazioni più o meno razionali, credenze affettive, fede, fiducia, nel senso della fides latina)”
“«’L’incontro è differente e più profondo del dialogo. Questo è uno scambio che si situa al livello delle idee e della visione del mondo. L’incontro riguarda la nostra umanità nel suo cuore più profondo, la realtà della nostra persona con tutto quello che essa ha di debole e bello»”
“il dialogo costringe ciascuno ad essere méthorios, … cioè «colui che sta sulla frontiera», ben radicato nel suo territorio, ma con lo sguardo che si protende oltre il confine e l’orecchio che ascolta le ragioni dell’altro

 

“La circostanza non va giù a un gruppo di fedeli… «Le parole e gli atti di Gentilini sono incompatibili con il messaggio evangelico»… E lo sceriffo padano [discusso esponente leghista, noto per le sue pesanti esternazioni contro immigrati e omosessuali]? Non si scompone: «Dicano quello che vogliono… sono un cattolico praticante io, mica un comunista»”
“Il Cortile dei Gentili è cominciato ieri alle 15 nella sala XI dell’Unesco, a Parigi… si succedono autorità… ambasciatori… Getachew Engida… Gianfranco Ravasi… Giuliano Amato, protagonista di un intervento che fa pensare [che] evidenzia lo spostamento dei confini del bene e del male che è in atto… Fabrice Hadjadjj, filosofo e scrittore, che [invita] a cercare l’uomo non nell’efficienza ma «nell’epifania del suo volto»”
“«Mi interessa l’umanesimo, la differenza tra l’umanesimo cristiano e quello dei Lumi, e come quest’ultimo può rispondere alle questioni della nostra epoca… Non si tratta di distruggere la religione, come hanno tentato di fare i totalitarismi, ma neanche di accettarla: serve un lavoro di rivalutazione della memoria»”

 

“Il Gesù di cui parla Joseph Ratzinger nel suo libro appena uscito (Gesù di Nazaret – Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, che segue il primo volume pubblicato nel 2007) non è invece Gesù, bensì il Cristo dogmatizzato dai Concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), dominati e decisi dagli imperatori di Roma, che con il Gesù della storia nulla ha a che fare e anzi contraddice e nega sotto ogni aspetto essenziale.” (ndr.: diversità non vuol dire per forza di cose opposizione. Certamente permane il problema di come far interagire l’ermeneutica storica con l’ermeneutica della fede)

 

24 marzo 2011

  • Ragione comune di Dominique Greiner in La Croix del 24 marzo 2011 (nostra traduzione)
“coloro che non credono, coloro che si dicono senza Dio non sono necessariamente indifferenti. Capaci di mobilitarsi per la promozione di valori universali, possono anche essere interessati a sentir parlare di Dio. Allo stesso tempo, il loro impegno può anche essere stimolante per quello dei cristiani”
“Fino agli anni ’70 del secolo scorso coloro che rifiutavano Dio lo facevano in maniera argomentata, proponendo un sistema costruito in parallelo – o in opposizione – al cristianesimo. Quindi c’era una base comune a partire dalla quale era possibile il dialogo. “Oggi le giovani generazione non conoscono veramente il termine Dio. Non esiste nella loro cultura””

 

“Dopo l’annuncio avvenuto a Roma nel dicembre del 2009 da parte di Benedetto XVI, il Cortile dei gentili… prende il via ufficialmente a Parigi, giovedì 24 e venerdì 25 marzo… Una scommessa in società fortemente secolarizzate… Per il cardinale Gianfranco Ravasi… questo dialogo è tuttavia possibile… malgrado la persistenza di forti sospetti tra i due mondi

 

 

“L’idea del Cortile dei Gentili corrisponde sicuramente ad un bisogno autentico sentito dai credenti illuminati e dalle persone di buon senso in ricerca. Benedetto XVI lo situa accanto al dialogo con le religioni.”

 

In Libia una guerra giusta?

 

Il dibattito sull’intervento militare in Libia coinvolge vari piani: politico,  economico, filosofico, morale, religioso, ecc.

 

Vogliamo qui presentare una documentazione del dibattito così come appare sugli organi di comunicazione ufficiali per aiutare una personale  riflessione:

 

 

 

Un orizzonte di pace per la Libia   dall’Osservatore romano  

A ll’Angelus Benedetto XVI chiede che siano garantiti  l’incolumità dei cittadini e l’accesso ai soccorsi umanitari


| Le parole del cardinale Bagnasco | Le voci del mondo cattolico

 


Oltre la logica del gendarme di Andrea Lavazza



– La “campagna” francese in Italia di Giancarlo Galli

 


Guerra o giusta ingerenza umanitaria? La Chiesa divisa sull’attacco alla Libia di Roberto Monteforte in l’Unitàdel 27 marzo 2011

“Si è fatto tutto il possibile prima di arrivare all’uso delle armi? Quali sono le responsabilità dell’Occidente verso questi regimi? Il popolo della pace si interroga e si divide. Come la Chiesa. Stretta tra le esigenze diplomatiche, la tutela dei cristiani in zone difficili e la difesa della vita e della dignità della persona, della giustizia e della libertà.”

 

Cattolici divisi anche sulla Libia? di Angelo Bertani in Europa del 25 marzo 2011

“Di fronte alle tragedie in Giappone e in Libia sembra naturale attendersi uno sforzo globale. Noi siamo caduti così in basso anche perché abbiamo accettato per troppo tempo una politica egoista, dominata dalla banalità e dalla menzogna.”
“Nei silenzi e nei tormenti della chiesa cattolica romana e dei cattolici di fronte alla guerra in Libia c’è di più dell’imbarazzo di fronte ad una guerra in bilico tra intervento umanitario ed eliminazione del dittatore libico. C’è anche un imbarazzo intellettuale e teologico di fronte alla questione della democrazia nel mondo occidentale e non”

 

 

“Altra è la questione dell’uso della forza per impedire genocidi e altre nefandezze o minacce alla pace, previsto dal capitolo VII della Carta dell’ONU. Esso è legittimo non per il semplice fatto che l’ONU lo decida e lo affidi all’esecuzione di questa o quella potenza, ma per il fatto che non abbia altre finalità che quelle ammesse dalla Carta (e non ad esempio rovesciamento di regimi o assassinio dei loro capi) e che in nessun modo sia assimilabile alla guerra.”
“un grappolo di problemi di coscienza, sufficienti per togliere convinzione all’azione di sbarramento militare contro il ritorno del leader libico al potere pieno e dittatoriale; ma anche per consentire che la guerra metta radici sotto le finestre di casa nostra senza che ce ne rendiamo pienamente conto”
“Il copione dei pacifisti e degli interventisti si replica come le sedie di Ionesco. Si può davvero dubitare del dovere di aiutare, o chiamare aiuto, quando il crimine si compie sotto i nostri occhi?” … “Ci sono state guerre inevitabili e giustificate, come contro il nazifascismo. “Umanitarie” no.” … “A volte c’è una sola via. La sera di Bengasi, la mattina di Srebrenica. Lì non si può dire “Né… né…”, né con i ribelli né con Gheddafi…Si deve stare con qualcuno e contro qualcun altro. Con l’aggredito contro chi lo aggredisce, in una infame sproporzione di forze.”
“Proprio perché i faticosi passi del nuovo Egitto verso un sistema democratico vanno incoraggiati, è bene non tenere basso l’allarme che merita una denuncia di Amnesty International su «test di verginità» ai quali sarebbero state sottoposte donne scese in piazza… il 9 marzo scorso”

 

“Non è mai cosa semplice giustificare una guerra… Frasi del tipo… nessuna guerra va chiamata guerra… Il governo italiano è specialista di quest’ultima menzogna… equivoco è il ritardo con cui l’Onu interviene… Nel mondo arabo… una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo… Pensando all’Italia, ho avuto l’impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare… Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, i capipopolo…”
“stavolta, si dirà, si interviene in difesa dei principi, non degli interessi. Ne siamo proprio sicuri?… Il colonnello Gheddafi massacra la sua gente: non sarebbe giusto rallegrarsi di poterglielo impedire?… L’inconveniente sta però nel fatto che la guerra è un mezzo tanto potente da far dimenticare il proprio obiettivo… I massacri commessi in nome della democrazia non addolciscono la vita più di quelli perpetrati per fedeltà a Dio o ad Allah, alla Guida o al Partito…”


– DOSSIER Le domande chiave di un conflitto dalle mille incognite di V.E.Parsi


– Lega araba a denti stretti, al Palazzo di vetro crescono i pentiti


“Mentre parlano solo le armi, si resta senza parole. Ammutoliti, sconcertati. Anche noi di Pax Christi, come tante altre persone di buona volontà….”

 

“L’essenziale è quel principio della «responsabilità di proteggere» che Benedetto XVI evocò nel discorso all’Onu del 18 aprile 2008. Bisogna partire da qui, fanno notare Oltretevere, per capire le parole che il Papa ha pronunciato ieri all’Angelus sulla Libia”

 

“tutti rilanciano sul «Gheddafi tiranno che va fermato», ma molti appuntano… che «i vertici del Pd dovrebbero lasciare libertà di coscienza ai parlamentari… Follini: «Che ci possano essere obiezioni di coscienza, questo è nello stato delle cose, ma la scelta fatta sino ad oggi mi pare fosse obbligata»… D’Alema: «La comunità internazionale è intervenuta per proteggere la popolazione civile, non per sconfiggere Gheddafi. Ora si lavori… per una transizione pacifica».”

 

La chiesa prende posizione a favore dell’azione in Libia ma emergono freddezze e distinguo.

 

“le ragioni e le obiezioni hanno la stessa età dell’uomo… Monsignor Paglia: «Ogni guerra è una sconfitta… Nel caso libico, e non solo, non possiamo non esaminare i comportamenti scorretti del passato che hanno indebolito la ragione: c’è quindi bisogno di un serio esame di coscienza. Non si doveva forse intervenire prima?»”

«È una guerra che si appoggia su un’insurrezione nascente, aiuta i libici a liberare la Libia». Il filosofo, che ha spinto Sarkozy, spiega le ragioni del conflitto Bernard-Henri Lévy