Un terreno comune per teologi e vescovi

L’articolo riprodotto qui di seguito. È uscito su “America”, il settimanale dei gesuiti di New York che è un’espressione di punta del pensiero cattolico americano “liberal”.
L’autore, Robert P. Imbelli, è sacerdote dell’arcidiocesi di New York, insegna teologia al Boston College, è stato membro del direttivo dell’associazione dei teologi cattolici americani ed stato tra i fondatori della Catholic Common Ground Initiative promossa dal cardinale Joseph Bernardin, faro del cattolicesimo progressista americano negli anni Novanta.
Scrive inoltre su “dotCommonweal”, il blog della rivista di New York che ha tra i suoi scrittori più in vista padre Joseph A. Komonchak, storico e teologo, curatore dell’edizione in inglese della storia del Concilio Vaticano II prodotta dalla “scuola di Bologna” fondata da don Giuseppe Dossetti.

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UN TERRENO COMUNE PER TEOLOGI E VESCOVI


Il 24 marzo la commissione dottrinale della conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti ha emesso una dichiarazione critica concernente il libro “La ricerca del Dio vivente”, di suor Elizabeth A. Johnson CSJ, già presidente dell’associazione dei teologi cattolici americani. Poco tempo dopo, l’8 aprile, il direttivo di questa associazione ha risposto con una propria dichiarazione, lamentando tra le altre cose le carenze del processo attraverso il quale la commissione era arrivata a quel giudizio. Ciò a sua volta ha dato spunto, dieci giorni dopo, a una lettera del cardinale Donald Wuerl di Washington, presidente della commissione dottrinale dei vescovi. La lettera, “Il vescovo come maestro”, parla delle particolari responsabilità dei vescovi in materia di dottrina, e dei rispettivi ruoli e responsabilità dei vescovi e dei teologi nella Chiesa.

Ma a dispetto dell’apparente disaccordo, chiaramente esistono [tra vescovi e teologi] visioni e impegni condivisi. La dichiarazione dell’associazione dei teologi cattolici americani dice: “Siamo consapevoli delle vocazioni complementari ma distinte dei teologi e del magistero e siamo aperti a ulteriori dialoghi con la commissione dottrinale circa la comprensione del nostro compito teologico”. Da parte sua, il cardinale Wuerl, pur riconoscendo la presenza di inevitabili tensioni, insiste: “Nonostante tutto, quando la buona volontà c’è da ambo le parti, e quando entrambi, vescovi e teologi, sono tesi alla verità rivelata in Gesù Cristo, le loro relazioni possono essere di profonda comunione nell’esplorare insieme nuove implicazioni del deposito della fede”.

 

TRE PUNTI PER UN DIALOGO


Nello sforzo di favorire questo necessario colloquio indico tre punti che meritano la forte attenzione dei vescovi e dei teologi e che richiedono esercizio di giudizio e di dialogo.

Il primo è una rinnovata affermazione che la teologia è una disciplina ecclesiale e che la vocazione del teologo è anch’essa squisitamente ecclesiale. Il primo posto della teologia cattolica è nel cuore della comunità ecclesiale. Alla luce delle parole dei vescovi e dei teologi sopra citate, ciò dovrebbe essere evidente di per sé. Ma (per usare le parole del beato John Henry Newman) una cosa è affermarlo “speculativamente” e un’altra è “realizzare” in pienezza la sua sostanza e le sue implicazioni.

Un fattore cruciale che complica questa realizzazione è che la collocazione sociale della teologia negli Stati Uniti si è visibilmente spostata, a partire dal Concilio Vaticano II, dai seminari alle università. Pur avendo prodotto indubbi benefici, questo spostamento ha anche comportato paralleli svantaggi. Penso in particolare alla perdita di un contesto liturgico condiviso, nel far teologia.

Una iniziativa creativa potrebbe essere, per i vescovi e i teologi del luogo, incontrarsi almeno una volta all’anno nel contesto sia di una celebrazione liturgica, sia di un dialogo teologico. Un elemento distintivo della Catholic Common Ground Initiative lanciata dallo scomparso cardinale Joseph Bernardin fu il suo insistere a svolgere discussioni dentro lo spazio comune di una celebrazione liturgica.

Un secondo punto potenzialmente fruttuoso per vescovi e teologi  potrebbe essere il legame essenziale fra tre dimensioni cruciali della missione della Chiesa: il kerigma, la catechesi e la teologia. Dopo il Vaticano II il ritornello è stato spesso: “Facciamo teologia, non catechismo”. Come appello a rispettare l’originalità del compito teologico, può essere comprensibile. Ma soffre di un doppio distacco dalla realtà ecclesiale. Può insinuare un divorzio tra la teologia e la proclamazione del Vangelo. Se la teologia, come molti accettano, é “fede che cerca intelligenza”, allora essa può difficilmente prescindere dal contenuto di questa fede. Nella prima lettera di Pietro, spesso citata da papa Benedetto, leggiamo: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi”. Questa ragione è sempre fondata sulla speranza che è in Cristo Gesù, anzi, che “è” Cristo Gesù.

Inoltre, il divorzio tra la catechesi e la teologia sembra essere nella presente realtà ecclesiale disperatamente astratto. Un ampio arco di commentatori, dai “tradizionalisti” ai “progressisti”, contribuiscono a questa terribile situazione di analfabetismo biblico e teologico che affligge i giovani cattolici. Il bene comune della comunità certamente richiede una rinnovata collaborazione tra i vescovi e i teologi per affrontare questa crisi. Un coro di lamenti o, peggio, una assolutoria assegnazione ad altri delle colpe sono ben lontani da una risposta promettente.

Un terzo punto, il più cruciale, deriva dai primi due. Gli importanti teologi che collaborarono con i vescovi nel produrre i meravigliosi documenti del Vaticano II affermarono a una voce sola l’unica rivelazione di Dio alla quale la Bibbia rende testimonianza. Quindi, il Concilio afferma che “lo studio delle Sacre Scritture” dovrebbe essere “l’anima di ogni teologia”. E sebbene il riferimento diretto sia alla formazione al sacerdozio, la nuova collocazione sociale della teologia, sopra richiamata, dà un’ancor maggiore rilevanza a quest’altra affermazione del Concilio: “Le discipline teologiche, alla luce della fede e sotto la guida del magistero della Chiesa siano insegnate in maniera che gli alunni possano attingere accuratamente la dottrina cattolica dalla divina Rivelazione, la penetrino profondamente, la rendano alimento della propria vita spirituale” (Optatam Totius, 16).

Il richiamo del Concilio a porre lo studio della Scrittura nel cuore del compito teologico è compromesso, tuttavia, se lo studio della Bibbia cessa di fatto di aver a che fare con la Scrittura come testimonianza privilegiata della divina rivelazione. Sfortunatamente, si osserva la tendenza in alcune cerchie degli studi biblici a che diventino il sezionamento di un affascinante e influente testo antico che non è più “sacra pagina” ma piuttosto “pagina ordinaria”. In una situazione come questa la teologia inevitabilmente si trasforma in studi religiosi e sui pochi corsi di teologia sistematica si accumulano pesi che essi sono incapaci di sopportare.

Per spingere la questione più a fondo: questa tendenza minaccia la sostanza cristologica della fede che cerca una più piena intelligenza: intelligenza, non relativizzazione, né tanto meno sostituzione.

L’eminente studioso del Nuovo Testamento Luke Timothy Johnson non si trattiene dal mettere in guardia da un “collasso cristologico” nel cattolicesimo contemporaneo. Egli ha fatto appello sia ai vescovi sia ai teologi perché rendano ragione i primi della loro negligenza pastorale, i secondi della loro capitolazione culturale. Chiaramente ciò non significa lanciare un’accusa indiscriminata. È piuttosto un “grido del cuore” che entrambi i gruppi farebbero bene ad ascoltare (Vedi il saggio di Johnson “On Taking the Creed Seriously”, in “Handing on the Faith: The Church’s Mission and Challenge”, a cura di Robert P. Imbelli, 2006).

Johnson lancia una importante raccomandazione. Insiste: “I teologi devono leggere le Scritture in altri modi, non solo dal punto di vista storico” (suppongo che tra i teologi includa i docenti cattolici di Sacre Scritture). Questo appello assomiglia alla volontà di papa Benedetto XVI nei suoi due volumi su “Gesù di Nazaret” di promuovere una “ermeneutica cristologica”. L’obiettivo e le implicazioni di tale ermeneutica – leggere tutto nelle Sacre Scritture alla luce del loro compimento nel Cristo risorto – potrebbero servire come un primo punto di giudizio, in un incontro tra vescovi e teologi.


OLTRE LA POLARIZZAZIONE


Verso la fine della sua dichiarazione, il direttivo della associazione dei teologi cattolici americani fa una persuasiva citazione della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Vaticano II. Il passaggio dice tra l’altro: “È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta” (Gaudium et spes, 44).

È un passo che esprime bene il compito comune e insieme differenziato dei vescovi e dei teologi. Ma la costituzione conciliare prosegue nel paragrafo immediatamente successivo, che fa da conclusione e sommario dell’intera sua prima parte, col dare una precisa specificazione cristologica di questa “parola di Dio” e “verità rivelata”: “Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale” (n. 45). Questa sublime visione ed impegno possono veramente unire vescovi e teologi “in medio ecclesiae”, in quanto meditano e cercano di capire più in pienezza il contenuto della loro fede comune.

La recente beatificazione di John Henry Newman può spronare a un provvidenziale rinnovamento di un serio incontro tra i vescovi e teologi. Tre aspetti del programma teologico-pastorale di Newman sono proprizi, a questo riguardo. Il primo è il suo grande rispetto per l’ufficio episcopale. Chi conosce gli scritti di Newman sa che tale rispetto non deriva da acritica adulazione, ma da convincimento teologico.

Il secondo è l’apprezzamento di Newman per il posto indispensabile della teologia nel complesso e creativo triangolo di tensioni che costituisce l’unica Chiesa di Cristo. Le dimensioni devozionale, intellettuale e istituzionale della Chiesa invariabilmente si sostengono, sfidano e integrano l’una l’altra. Ciascuna, se diventa egemonica, non può che sminuire il mistero della Chiesa.

Infine, dal momento della sua iniziale conversione alla fede all’età di 15 anni fino al termine della sua lunga vita, Newman ha insistito sul primato del “principio dogmatico” nella vita della Chiesa, non in quanto proposizione ma in quanto persona. Egli scrive: “È l’incarnazione del Figlio di Dio più che ogni dottrina tratta da una visuale parziale della Scrittura (per quanto vera e importante possa essere) l’articolo di fede su cui la Chiesa sta o cade”. Per Newman, come per il Vaticano II del quale egli è stato un precursore ed ispiratore, questa affermazione sull’identità centrata su Cristo della fede è la condizione dell’autentica integralità cattolica.

Quindici anni fa, consapevole di una crescente e debilitante polarizzazione nella Chiesa negli Stati Uniti, il cardinale Joseph Bernardin inaugurò la Catholic Common Ground Initiative. Il documento di fondazione dell’Initiative, “Chiamati a essere cattolici: la Chiesa in un tempo di pericolo”, analizzava a fondo la situazione pastorale e offriva principi e linee guida pieni di speranza per andare avanti. Il principale tra essi era il seguente: “Gesù Cristo, presente nella Scrittura e nei sacramenti, è al centro di tutto ciò che facciamo; egli deve sempre essere la misura e non il misurato”. Gesù Cristo rimane sempre l’unico fondamento sul quale sia i teologi che i vescovi possono poggiare sicuri.


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Il settimanale dei gesuiti di New York su cui è uscito l’articolo di Robert P. Imbelli, nel numero del 30 maggio 2011:

> America

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tratto da:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1348630

Ave Mary

Michela Murgia, Ave Mary.  E la Chiesa inventò la donna, Einaudi, Torino, 2011. € 16.00

 

 


Presentazione

La chiesa è ancora oggi, in Italia, il fattore decisivo nella costruzione dell’immagine della donna. Partendo sempre da casi concreti, citando parabole del Vangelo e pubblicità televisive, icone sacre e icone fashion, encicliche e titoli di giornali femminili, questo libro dimostra che la formazione cattolica di base continua a legittimare la gerarchia tra i sessi, anche in ambiti apparentemente distanti dalla matrice religiosa. Anche tra chi credente non è. Con la consapevolezza delle antiche ferite femminili e la competenza della persona di fede, ma senza mai pretendere di dare facili risposte, Michela Murgia riesce nell’impresa di svelare la trama invisibile che ci lega, credenti e non credenti, nella stessa mistificazione dei rapporti tra uomo e donna.

 

Da tempo si attendeva l’opera terza di Michela Murgia, dopo l’ottimo successo del suo “Acabadora” (Einaudi), caso editoriale e buona operazione di marketing che hanno ben funzionato insieme, perché, di fatto, si tratta di un bel romanzo ben promosso, e la scrittrice sarda stupisce tutti dando alle stampe un saggio: “Ave Mary” (Einaudi 16 euro) che, recita la quarta di copertina, “non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre, sulle mie amiche e le loro figlie”. Un bel libro, davvero; scritto bene, con un linguaggio moderno, pop, che fa eco al new journalism americano. Il volume, insomma, si inserisce a buon titolo nel filone dei saggi redatti da scrittori attenti e impegnati (engagé come dicono i francese) che vanta nomi importanti quali Moravia, Vargas, Steinbeck, Ben Jelloun, Vargas Llosa e altri ancora. Il libro tratta del ruolo della donna nella dottrina cristiana e, soprattutto, della rappresentazione simbolica del femminile in ambito religioso. Non è un saggio femminista e la Murgia non smette di ripetere e sbandierare la sua appartenenza al mondo cattolico (è membra, da sempre, di Azione Cattolica). Si tratta di uno scritto che analizza, dal punto di vista di una credente ortodossa, ma critica in quanto donna, come la cultura cristiana e cattolica abbiano imposto a Dio di essere “solo e sempre a immagine dell’uomo, del maschio”. Il libro scorre via con uno stile mai pesante e pedante, con una struttura giornalistica d’inchiesta che è lontana dallo stile tipico del saggio teologico. Molto interessante l’ultimo capitolo dedicato al sacramento del matrimonio e a ciò che ne viene della donna al momento del fatidico si: il modello non è Adamo/Eva, neppure Giuseppe/Maria, ma Cristo/Chiesa, con tutto quello che ne consegue da un punto di vista sociale, civile e religioso. Sono pagine  da leggere, che fanno pensare. Una lettura per tutti, laici e soprattutto religiosi.  Buona lettura.

“All’Azione Cattolica col biondo Nemecsek”
intervista a Michela Murgia, a cura di Mirella Serri
in “La Stampa” del 16 luglio 2011

 

«Regalare libri è come attivare una bomba a orologeria che magari non deflagra subito ma si accende anche molto tempo dopo». Il pacco dono che ha innescato la miccia di Ave Mary polemico
saggio Einaudi di Michela Murgia su Maria di Nazareth, approdato velocemente nelle classifiche – è stato un gentile omaggio di più di dieci anni fa del teologo Lucio Casula. «Si trattava di In memoria di lei, fondamentale ricerca di Elisabeth Schüssler Fiorenza che è rimasta stampigliata nella mia memoria dando origine all’avventura di Ave Mary poiché mi ha aperto gli occhi sul rapporto tra donne e Chiesa», commenta la scrittrice che ha esordito con Il mondo deve sapere (Isbn edizioni), la prima eclatante denuncia dello sfruttamento dei lavoratori dei call center. Da cui  Paolo Virzì ha tratto il film Tutta la vita davanti .

L’anno scorso si è conquistata il Campiello con Accabadora (Einaudi) e ora è entrata nella schiera degli scrittori che – da Piergiorgio Odifreddi a Giulio Mozzi, autore con Valter Binaghi di 10 buoni motivi per essere cattolici (Laurana editore) – si cimentano con temi religiosi («Mozzi l’ho apprezzato, ma Odifreddi, che si dichiara ateo, è meglio che non si occupi di temi che possono essere di pertinenza di un cristiano critico»). Cumula successi letterari ma ha alle spalle una vita di precariato – venditrice di multiproprietà, operatore fiscale, dirigente amministrativo, portiere di notte -, una lunga militanza nell’Azione cattolica, studi di teologia all’istituto di Scienze religiose.
La narratrice di Cabras è, insomma, proprio una tipa tosta e dura al pari di quei cristalli di quarzo bianco e rosa che danno luce alle bellissime spiagge dove è vissuta e cresciuta.

 

La sua carriera di lettrice ha preso avvio tra sapori di mare e anche profumi di fritti delristorante paterno.
«Specialità pesce. Io viaggiavo con un piatto in mano e in tasca Erno Nemecsek, biondo, delicato e magro protagonista dei Ragazzi della via Paal , destinato a morire di polmonite. Nessun libro è innocente, lascia sempre un’impronta indelebile. Erno è il primo morto che incontro nella mia vita, un ragazzino che come me giocava per strada. Un trauma. A farmi compagnia c’era anche Mark Twain con Le avventure di Tom Sawyer, meraviglioso per l’invenzione linguistica. Poi è arrivata la serie degli Harmony che ha avuto un’influenza positiva. Mi identificavo con quelle giovani  donne, protagoniste semplici e sognanti che ambivano a una casa, un giardinetto, tanti bambini ma che trovavano tanti ostacoli sulla loro strada. Oggi circolano molti snobismi. Credo che non si debba disprezzare la letteratura di genere. Federico Moccia, per esempio, dà vita a cliché in cui i giovani si riconoscono, riprende la storia di Giulietta e Romeo e la cala nel presente. Tutto questo invoglia alla lettura».

In famiglia si leggeva?
«Mia madre soprattutto, e mi ha contagiato. Un virus che non sempre ha dato buoni frutti».


Cos’è successo?

«Avevamo un piccolo negozio in cui si vendevano oggetti di artigianato locale ma anche qualche manufatto di valore. E io anche lì davo una mano. Ero tutta immersa in Stephen King che mi teneva con il fiato sospeso quando, nella stanza a fianco alla mia, arrivano i ladri: così concentrata non li sento e loro si portano via un plateau di gioielli».

Un libro cambia la vita, direbbe Marzullo. Qualche volta in peggio.
«Quella della mia famiglia non c’è dubbio. Mi assolsero dalle mie colpe, ma poi arrivò anche un altro libro a mutare il corso della mia esistenza. Mi dedicavo interamente, con grande trasporto, al volontariato nell’Azione cattolica. All’epoca il mio autore preferito era Erri De Luca che mi travolgeva con lo stile semplice e per la grande profondità della riflessione. A seguire i miei corsi di religione a scuola, su Gesù, San Pietro o gli apostoli, c’erano anche allievi che non erano credenti.
Per coinvolgerli mettevo a confronto cinema, musica, arte, letteratura, mostrando le differenze tra i dissacratori Black Sabbath, gruppo heavy metal britannico, e il più tradizionale Jesus Christ Superstar ; oppure tra il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Mi cimentai anche nel confronto tra Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori e L’ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis, assai discusso per il suo impegno nel dimostrare che il figlio di Dio, pur privo di peccato, era comunque oggetto di ogni forma di tentazione».


Fu galeotto di sventura?

«Venni chiamata in Curia, io che ero vicepresidente diocesano dell’Azione cattolica di Oristano. Il vescovo mi dice: “Carissima, ti seguo con stima e affetto, ma di Kazantzakis non ne devi parlare”.
L’ho vissuto come un affronto. Giro pagina e cerco altri sbocchi professionali, cominciando ad acquistare competenze come direttore del personale in una centrale termoelettrica».

Altre letture che l’hanno segnata?
«Leggevo grandi russi e grandi italiani. Passavo da Dostoevskij a Salvatore Satta, da Tolstoj a Giuseppe Dessì. Poi è arrivato Kafka e poi c’è stato il periodo della letteratura latinoamericana, da García Márquez a Isabel Allende a Borges. Gli inglesi e gli americani non me li sono mai fatti mancare: dal Grande Gatsby di Fitzgerald a Graham Greene al meraviglioso Cronin de Le chiavi del  regno , racconto delle vicende di padre Francis Chisholm, missionario in Cina. A questi si aggiunge la scoperta di italiani, Moravia, in particolare La noia , Calvino, Primo Levi e poi degli story teller Ken Follett e Wilbur Smith e anche degli ebrei americani, da Philip Roth a Paul Auster».


E’ capitato che altri libri regalati segnassero il corso della sua vita? In campo sentimentale?

«Un coetaneo che pensavo mi corteggiasse mi porta un dono: Stefano Benni Il bar sotto il mare , raccolta di racconti dove il bar è un luogo fantastico, si incontrano misteriosi avventori. Però poi la nostra storia non ha decollato: voleva un rapporto intellettuale. Alle ragazze con cui si desiderava avere un flirt si offrivano cd».


Quando lavorava come portiere di notte leggeva?

«Antropologia, sociologia, psicologia mi accompagnavano fino alle prime luci del mattino. Mi ricordo Filippo D’Arino, Manuale di sparizione , che spiega come in un momento in cui la nostra identità è al centro di reti di controllo telematiche sempre più intrusive e anche di relazioni personali sempre più vincolanti e soffocanti, forse non si vuole altro che sparire. Alternavo il Simposio di Platone e Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo che mette in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista».

Ultimi lidi su cui è sbarcata?
«Sorella di Marco Lodoli mi ha riconciliato con la narrativa. Ho alzato il telefono e anche se non lo conoscevo l’ho chiamato per dirgli quanto mi è piaciuto l’incontro tra la suora Amaranta e “il bambino speciale”, un ragazzino afflitto da una forma di autismo, raccontato con una scrittura agile, piacevole, intensa. Poi c’è Elisa Ruotolo, Ho rubato la pioggia , con il suo affresco di una  provincia campana superstiziosa, terra dove si fanno mestieri inverosimili da tempi immemorabili. E perché si smetta di utilizzare il corpo femminile come luogo simbolico, sia nel bene che nel male, mi piace ricordare il video di Lorella Zanardo dedicato al Corpo delle donne. Meditate gente davanti a certe immagini, mi viene da dire».

Segnali di impegno tra i cattolici

 

 

Una voglia di responsabilità politica

 


Gli anni Novanta hanno trasmesso ai politici del nuovo secolo una certezza: la definitiva scomparsa del partito cattolico. Giuseppe Dossetti affermava nel 1994: «Non ci sarà una generazione di
cattolici al potere; una seconda chance non ci sarà… la Democrazia cristiana non ha più senso». La Dc allora appariva delegittimata (anche se vale ricordare che alle elezioni del 1992 aveva preso il
29,7%dei voti, peraltro suo minimo storico). Sembrava rappresentare il vecchio, il corrotto, la commistione tra politica e vita religiosa. «Democristiano» era divenuta un’espressione dalla valenza negativa. Il nuovo era altrove. I cattolici si divisero, confluendo con Berlusconi (che raccolse buona parte dell’elettorato ex democristiano) o cominciando un viaggio con la sinistra. Presidiare il centro, anche per il sistema elettorale bipolare, è stata impresa difficile. Avvenne la diaspora politica dei cattolici. Scomparve la Repubblica dei partiti (per dirla con Pietro Scoppola), quella anomalia italiana, caratterizzata dalla centralità della Dc e dall’opposizione del partito comunista. L’Italia stava diventando un Paese «normale»? Così è sembrato a tanti, finché negli ultimi tempi è cresciuta la coscienza, ormai diffusa, che la Seconda Repubblica non sia mai veramente nata. Siamo ancora in una lunga transizione, di cui non si vede la fine.

Ultimamente anche il giudizio sui cinquantadue anni di storia della Dc si è trasformato. Non si tratta di occasionali riabilitazioni. Quella vicenda è stata rivisitata da storici come Agostino Giovagnoli, che hanno mostrato come la Dc sia stata il «partito dell’Italia» e della costruzione della democrazia. Anche a livello quotidiano, nelle conversazioni tra la gente si nota un cambiamento semantico: «democristiano» non è più termine negativo, anzi in genere esprime apprezzamento per la professionalità dei politici di quella scuola. A ben vedere il partito cattolico non è stato una meteora politica. Da quando le masse entrarono sulla scena elettorale, dopo la legge sul suffragio universale del 1912, si aprì il problema della rappresentanza cattolica. Ci fu, dal 1919 il popolarismo di Sturzo fino al 1926; poi venne dal 1942 la Dc, per iniziativa di De Gasperi e mons. Montini. Per più di mezzo secolo, l’Italia ha avuto un partito cattolico al centro del sistema. E con esso, due classi dirigenti cattoliche, intrecciate ma distinte: i vescovi e i politici. In alcuni periodi (prima di don Sturzo, durante il fascismo e dopo il 1994) non c’è stata una classe politica cattolica laica. In ogni caso, la Chiesa ha fatto sentire la sua voce in pubblico, impastata com’è con la storia italiana e con gli italiani. Oggi si riparla di una nuova volontà di presenza dei cattolici in politica. Ma dagli anni Novanta la realtà è la diaspora dei politici e degli elettori cattolici. Benedetto XVI ha ripetutamente invitato i cattolici (specie i giovani) a considerare una rinnovata partecipazione alla politica. Negli ultimi decenni però tante energie cattoliche si sono concentrate su vari mondi sociali, evitando la politica, che appariva poco praticabile.

Del resto il cattolicesimo italiano, nel suo aspetto multiforme, rappresenta la più importante rete sociale del Paese, alle cui spalle esiste una tradizione e una rinnovata elaborazione di pensiero e di valori. È un patrimonio non trascurabile in un Paese in cui si sono consumate tante risorse sociali e morali. D’altra parte il mondo dei cattolici vive in presa diretta con le difficoltà e le povertà degli italiani nella crisi economica e si sente poco rappresentato dalla politica. Il card. Bagnasco, come presidente della Cei, ha sottolineato spesso la valenza sociale e il radicamento del cattolicesimo italiano. Siamo allora di fronte alla gestazione di un nuovo partito cattolico? Forse è un fantasma che, da una parte, inquieta e rimette in discussione il centrodestra e, dall’altra, constata la crisi del contagio tra le culture del cattolicesimo democratico e della sinistra all’origine del Pd.

Certo c’è un malessere diffuso tra i cattolici, che si accompagna alla consapevolezza di avere valori, idee e esperienze. È diffusa l’aspirazione a una visione che dia speranza in un tempo di sacrifici  e che ricollochi internazionalmente un Paese ripiegato su se stesso, come ha affermato Lucio Caracciolo su Avvenire. Malessere, aspirazioni, senso di responsabilità hanno messo in movimento da anni un processo tra cattolici: questi stanno riflettendo sulla crisi, raccogliendo stimoli dal contatto quotidiano con i problemi degli italiani (attraverso una fitta rete sociale e pastorale), ma anche riprendendo un patrimonio di riflessione e di etica. I cattolici italiani sono una realtà articolata, in cui i diversi ambienti e organizzazioni, un tempo più autoreferenziali, sono in dialogo maggiormente serrato. Pochi se ne sono accorti. Se il nuovo partito cattolico sembra una notizia d’estate, bisogna però constatare una diffusa voglia di responsabilità di questi ambienti. La Dc non rinasce, ma è in corso — e non da oggi — un processo di condensazione di pensieri e volontà tra i cattolici. Non è facile classificarlo con le attuali categorie della scena politica. Certamente esprime la coscienza che non si può fare politica senza idee, valori, contatto con la gente. Questo processo è forse uno stimolo a che la transizione di questi anni non sia infinita.

 

in “Corriere della Sera” del 15 luglio 2011

 

La difficile rinascita della “cosa bianca”
di Agostino Giovagnoli
in “la Repubblica” del 19 luglio 2011
Torna la Dc? Così sembrerebbe, sentendo le voci che si sono intrecciate, all’interno del mondo cattolico, nelle ultime settimane. L’improvvisa scoperta che la frana del berlusconismo è più rapida
del previsto ha spinto ad immaginare nuove iniziative politiche evocando l’ormai lontana esperienza democristiana. Ma molte circostanze storiche, presenti alle origini della Dc o nel corso della  sua storia, oggi non ci sono più. La Democrazia cristiana è nata nel contesto di un disastro nazionale di enormi proporzioni, la Seconda guerra mondiale, che ha portato lo Stato italiano quasi alla dissoluzione. In altre condizioni, la Santa Sede non avrebbe accolto le pressanti richieste degli Alleati perché la Chiesa si impegnasse a fondo nella ricostruzione italiana, anche sul piano politico.

Nel dopoguerra, inoltre, era ancora vivo tra i cattolici il desiderio di superare definitivamente una estraneità alla vita politica nazionale cominciata con il Risorgimento. I modelli sociali e  politici del secolo breve, poi, li spinsero a formare anch’essi un grande partito di massa e l’aspirazione ad uscire da una secolare condizione di miseria, diffusa nell’Italia del dopoguerra, ha  orientato la Dc verso una politica economicamente interclassista e politicamente inclusiva.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma già questi elementi evidenziano un punto cruciale: nella Dc l’unità politica dei cattolici si è saldata ad un progetto storico strettamente legato alla  ituazione e alle esigenze del tempo. Non a caso, pur con il determinante sostegno della Chiesa, l’iniziativa fu presa e condotta da laici, anzitutto da De Gasperi e dal gruppo degli ex popolari, e in  seguito, con la seconda generazione di La Pira e Dossetti, Fanfani e Moro, l’influenza dei leader democristiani sul mondo cattolico si è ulteriormente accresciuta. Nella Dc, infatti, l’unità dei  cattolici ha svolto – singolarmente – una funzione laica a sostegno dello Stato e proprio tale duplice natura spiega le molte peculiarità di questo partito che è sempre stato al governo e mai  all’opposizione, che non si è mai diviso malgrado le molte tendenze presenti al suo interno, eccetera.

Tutto ciò è stato riassunto dall’espressione “centralità democristiana”. Centralità è altra cosa da centro. La Dc non è stata (solo) un partito di centro, è stata (soprattutto) un partito centrale nel sistema politico e nella società italiana. È stata, insomma, il “partito italiano”. Rifare la Dc oggi non significa solo realizzare nuovamente l’unità politica dei cattolici (impresa già in sé piuttosto difficile), ma perseguire anche un progetto politico “nazionale” (opera ancora più impegnativa) e saldare efficacemente tra loro queste due cose (sfida addirittura eccezionale perché legata a condizioni storiche particolari). Nei molti incontri, dibattiti e interventi di queste settimane è emersa tra i cattolici l’esigenza di interrogarsi sui riflessi politici di una comune sensibilità su temi etici o sociali. In questo senso, si può parlare di una spinta unitaria più forte rispetto ad un passato recente, caratterizzato prevalentemente dalla tendenza alla diaspora. Istituzione  ecclesiastica e associazionismo cattolico, infine, possono favorire ulteriormente tale unità. Ma per rifare la Dc sarebbe anzitutto necessaria una classe politica laica, capace di un disegno di grande respiro storico.

Al momento – tra i cattolici, come pure altrove – appare invece ancora embrionale una riflessione storica e politica adeguata alle sfide dell’ora. L’impressione è che, al di là delle intenzioni, anche  ora chi parla di “rifare la Dc” possa prevalere di fatto il più limitato obiettivo di creare un partito di centro, vicino all’istituzione ecclesiastica, facilmente minoritario o di dimensioni limitate, impegnato su specifiche battaglie etiche, oscillante fra governo e opposizione, ecc. Si tratta di altra cosa rispetto ad un partito centrale, a vocazione nazionale e con un progetto politico laico, “condannato”, per così dire, a guidare il Paese per un lungo periodo, prima del lungo declino e del tracollo finale.

Non tutti i cattolici, peraltro, pensano ad un partito che esprima prioritariamente le loro posizioni.
C’è, infatti, chi guarda piuttosto ad un acquisire maggiore peso nei diversi schieramenti, favorendo convergenze su questioni specifiche. Ci si propone di far nascere un’area di centro, divisa tra  partiti diversi ma unita da una visione cattolica del bene comune e animata da cattolici provenienti dal mondo associativo, economico e sindacale. In questo caso, la distanza dalla Dc è evidenziata soprattutto dalla rinuncia ad un progetto politico forte e dal rischio della subalternità a gruppi di potere, politici od economici, che ricorda il clerico-moderatismo di inizio novecento. La Dc,  invece, ambiva a mostrare, attraverso il confronto con gli altri e la prova dei fatti, la validità dei valori espressi dalla cultura politica dei cattolici. Rifare oggi la Democrazia cristiana, insomma,  è tutt’altro che facile.

 

 

Altri contributi  sul tema:

 

“tra le «condizioni» per formare la «nuova generazione di politici cattolici» auspicata dal Papa, c’è «il superamento dell’ideologia della diaspora»… c’è «l’instaurazione di nuove relazioni tra mondo politico, ecclesiale e civile». Una frase che consegna alla storia la stagione ruiniana dei «rapporti» tra «vertici»… «occorre pensare a un reale protagonismo del laicato»… andare verso un nuovo «codice di Camaldoli»”
Don Pino De Masi è vicario generale della Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi “«’Libera’ è impegnata da anni nella difficile battaglia per il riutilizzo dei beni confiscati. Con i sequestri e le acquisizioni si ottengono due risultati: si ridimensiona il potenziale economico delle cosche e si mette in moto una vera e propria rivoluzione culturale… centinaia di giovani non emigrano più, fedeli alla consegna che si sono dati: che a lasciare la Calabria debbano essere le ‘ndrine, e non loro».”
“L’imponente spostamento di voti dalla Lega e dal Pdl alle posizioni opposte, è spiegabile solo col mutato atteggiamento dei cattolici praticanti,”
“non di un nuovo partito si sente il bisogno, ma in generale di un nuovo modo di fare politica, il che in primo luogo vuol dire nuove modalità di selezione della classe dirigente e garanzia, per i cittadini, di un’effettiva possibilità di scelta dei propri rappresentanti.”
“Anche nellaChiesa sta montando il disagio. L’accoglienza di quelle voci che rifiutano di essere considerate contestatrici è già ravvisata anche qui – guarda caso – nelle Costituzioni del Concilio Vaticano II. Perché allora non ci poniamo tutti la domanda: “Se non ora quando?”.

 

 

Vita di un uomo a servizio degli altri

 

 

Virginio Colmegna, Non per me solo. Vita di un uomo a servizio degli altri, Il Saggiatore, 2011, pp.208, Euro 10,46

 

 

Descrizione

Gennaio 1960. Un ragazzo cammina per strada. È uscito da scuola. A casa, ad aspettarlo, la madre operaia, il padre invalido. La povertà e la dignità nella luce di una fede semplice e pura. Il ragazzo non torna a casa, va all’oratorio. Virginio ha scoperto la vocazione. Autunno 1962. In seminario, lo studio, i giochi. La vitalità dell’adolescenza stride col rigore delle regole. La forza della fede vince su tutto. Giugno 1969. Prete, il primo incarico, in Bovisa, quartiere operaio nella periferia di Milano, disagio sociale e voglia di riscatto. Voglia di protestare e di abbattere le porte dell’indifferenza. Don Virginio è in prima fila. Aprile 1981. Tre giorni in un monastero a fianco del cardinale Martini, immerso nel suo sguardo colmo di attesa e di fiducia. La nuova spinta, a partire ancora una volta dagli ultimi. Poi la direzione della Caritas ambrosiana. Infine la realizzazione di Casa della carità. “Non per me solo” offre al lettore l’esperienza di vita di un sacerdote che ha fatto una scelta, che rinnova ogni giorno. Mettersi a servizio degli altri. Disabili, donne maltrattate, senza tetto, rom, migranti. Questo libro dà voce a tutti gli esclusi dalla società a cui la vita di don Virginio si è intimamente legata, fino all’ultimo approdo in Casa della carità, la casa di accoglienza voluta da Carlo Maria Martini e presto diventata faro di umanità solidale nella nebbia della metropoli milanese.


L’ambrosiana via alla carità
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 16 luglio 2011

 

Nel patrimonio spirituale di cui il nuovo arcivescovo di Milano assumerà nei prossimi mesi la custodia e la guida vi è un tesoro nascosto che raramente attira l’attenzione dei media ma che ben esprime il cuore della «diocesi più grande del mondo»: è la sollecitudine per i poveri, che la chiesa ambrosiana ha sempre considerato tra le eredità evangeliche più preziose lasciate da sant’Ambrogio.

Non che a Milano le ingiustizie sociali e la sproporzione tra i molti beni in mano a pochi e le difficoltà economiche di molti siano minori che altrove, ma sembra quasi che la chiesa abbia in sé degli anticorpi che le consentono di reagire con inventiva e alacrità in nome del Vangelo. Anche lì risuona quanto mai attuale il monito di Gesù: «I poveri li avrete sempre con voi», ma lungi dall’essere una maledizione, questo richiamo è «un’incredibile restituzione di senso alla vita: i poveri sono coloro che portano al cuore dei problemi, agli snodi dell’esistenza».
Chi parla così è un prete milanese che di poveri se ne intende: don Virginio Colmegna nel suo Non per me solo. Vita di un uomo al servizio degli altri (Il Saggiatore, pp. 210, 15) ripercorre «quel  cammino di felicità che è la sua vita», dall’infanzia in una famiglia di condizioni modeste fino all’attuale incarico di presidente della «Casa della carità», luogo di accoglienza e sollecitudine nel cuore di Milano, voluta dal cardinal Martini come ultima iniziativa prima di lasciare il governo della diocesi.

 

Sono pagine autobiografiche in cui don Virginio parla certo di se stesso, ma l’unica cosa di cui appare protagonista è la gratitudine verso tutti quelli che l’hanno aiutato nel cammino di uomo, di prete e di testimone della carità. La sua attività più importante – prima della «Casa della carità» era stato direttore della Caritas ambrosiana, prima ancora parroco e presenza instancabile in un quartiere ricco di povertà di ogni genere sembra essere quella di riconoscere il bene ricevuto dagli altri, dai poveri e dagli emarginati in primo luogo, ma anche dai suoi vescovi che lo hanno capito e incoraggiato, dai preti più anziani che lo hanno consigliato e sostenuto, dall’umile e discreta presenza dei suoi genitori.

 

Nel corso della sua vita questa gratitudine don Colmegna non l’ha espressa innanzitutto a parole, ma con azioni molto concrete, a volte perfino «eccessive», e con un’attenzione particolare a quel gesto umano e cristiano per eccellenza che è l’accoglienza dell’altro, povero, malato, straniero: non a caso egli arriva a rileggere l’episodio dei tre uomini accolti da Abramo al querceto di Mamre come «Dio che si presenta a noi chiedendo ospitalità e quindi già schierato dalla parte di chi esprime un bisogno, e poi immerso nella misteriosa dinamica della relazione».

 

Sono pagine da cui emergono sì volti e nomi precisi della chiesa e della città di Milano, ma questi in realtà divengono volti e persone di respiro universale, perché là dove si raggiunge in verità il cuore di un solo essere umano, là si entra in contatto con l’umanità intera.
«Se il tesoro più prezioso è la disponibilità ad accogliere – osserva don Virginio – allora i poveri possono avere una ricchezza inestimabile!». Di questa ricchezza è testimonianza il semplice racconto della «vita di un uomo al servizio degli altri» .

Il territorio della fede



Il problema della Chiesa in ambito rurale (recentemente affrontato da La Croix) non è solo di oggi.

 

Da trent’anni, la maggior parte delle diocesi francesi ha effettuato cambiamenti territoriali, spesso raggruppando le parrocchie attorno ad una centrale, che avrebbe dovuto diventare il centro delle attività pastorali. In questo ambito si ricorda frequentemente il lavoro del canonico Boulard negli anni ’60 in tutto il Paese. Ne derivò la creazione di équipe di preti, di consigli di laici per  suddividere i compiti. Poi venne il Concilio, le équipe di animazione pastorale con il frequente ricorso al canone 517 § 2, mentre l’Azione cattolica specializzata, le iniziative missionarie continuavano il loro cammino.


Avendo partecipato alla pastorale d’insieme secondo padre Boulard, devo riconoscere che i nostri criteri di analisi rientravano fondamentalmente nella pastorale cultuale e catechetica. Si trattava, sessant’anni fa, di una ruralità tradizionale che stava “decollando” sul piano economico con l’industrializzazione del materiale e delle produzioni agricole, ma anche con la formazione scolastica e universitaria dei giovani rurali, che, per questo, lasciavano il territorio d’origine. Il passaggio dalla Jeunesse agricole catholique (JAC) al Mouvement rural de la jeunesse chrétienne (MRJC) ne è la traduzione più evidente. Ma noi avevamo ancora l’immagine ideale di un insieme stabile attorno alla messa domenicale, all’interno del movimento globale della società.


Oggi, lo spazio rurale è segnato dalla mobilità e dalla fluidità della popolazione che lo abita e di cui una parte importante non lavora sul posto. Siamo ben lontani dalla comunità tradizionale, dove la Chiesa offriva un luogo di incontro e di attività del tempo libero, un luogo di riferimento per la vita morale e spirituale – quello che si definiva una pastorale di inquadramento con riti e punti di riferimento. Secondo quel contesto immaginario, la diminuzione dei preti, dei religiosi, delle religiose diventa una svolta critica.


Ora, il territorio parrocchiale stesso è un luogo di passaggio, in cui, eccetto un nucleo di responsabili che svolgono attività funzionali, ci si incontra in modo irregolare. È la cultura del passaggio, dell’effimero, del mirato. Voler continuare a mantenere delle presenze di preti per svolgervi gli stessi servizi di un tempo è impossibile. Ma soprattutto, tale forma di presenza si rivela inadatta a questa situazione di mobilità.


Se il ministero apostolico del prete svolge un ruolo essenziale nella vita delle comunità fin dalla Chiesa primitiva, quest’ultima è per natura sottomessa a Cristo nella sua totalità e nella sua opera di comunione. Il cardinal Ratzinger, all’inizio degli anni ’80, rifiutando un centralismo episcopale della Chiesa universale, scriveva: “La finalità ecclesiologica essenziale del collegio (episcopale) non è di formare un governo centrale della Chiesa, ma, al contrario, di contribuire ad edificare la Chiesa come un organismo vivente che cresce ed è unità in tutte le sue cellule viventi” (1). La vita della Chiesa non si riduce ad una istituzione da far funzionare a qualsiasi costo, ed in maniera efficiente, se non redditizia. Non ha a che fare con la razionalità amministrativa dei servizi pubblici della società, della gestione del personale o del funzionamento di strutture, essa è presenza in termini di gratuità e di dono. Rientra nell’ordine del significato sacramentale, della messa al mondo e della nascita di un corpo. Per questo bisogna che ci interroghiamo su certe nostre parrocchie nuove centrate più su una forma di servizio da far funzionare che sulla nascita e la crescita di cellule  locali. Voler raggruppare la pastorale sul centro città o su dei capoluoghi di cantone comporta il rischio di legare la nostra presenza agli anziani in pensione, a coloro che hanno buoni salari, ai militanti degli anni ’70. La centralizzazione provoca, che lo si voglia o no, un impoverimento. La vita emerge spesso alla periferia, ai giorni nostri.


L’anno scorso, la conferenza episcopale francese aveva preso in considerazione una sessantina di iniziative che annunciavano forme nuove di presenza in queste terre di mobilità e di fluidità di relazioni: più mirate, più legate ad eventi. Raduni, pellegrinaggi, comunità di giovani responsabili di vita ecclesiale, cresime festive di Pentecoste, ecc., fanno emergere forme di “ecclesialità” diverse da quelle di ieri. Questi germi di tessuto ecclesiale sono la testimonianza di una Chiesa sacramento di salvezza per tutti. Perché la comunità ecclesiale è qualcosa di meglio di un “agglomerato” di individui credenti, di un servizio pubblico della religione come consumo cultuale, è un corpo vivo le cui cellule sono in collegamento nel tessuto di una società in trasformazione culturale permanente.


La coscienza di essere cristiani non può ridursi ad un’appartenenza ideologica, neppure a delle convinzioni legate a dei valori. È fonte di relazioni, porta in germe una vita fraterna e responsabile.
La pastorale è al servizio di tali relazioni, richiede un decentramento dei nostri interessi, secondo una logica di accompagnamento delle persone e non di regolamentazione o di standardizzazione delle pratiche. Paolo non ha imposto alla comunità di Corinto alcuna dipendenza rispetto a Gerusalemme, ma delle relazioni di comunione e di solidarietà. Le Chiese locali sono luoghi dello Spirito, secondo l’Apocalisse, perché lo Spirito si stabilisce in una comunità di radici umane, quelle in cui prende vita la fede.


(1) Cardinal Ratzinger, Église, oecuménisme et politique, Fayard, 1987, p. 74


in “La Croix” del 17 luglio 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

 

Bibbia e Corano, i tabù da superare


Oggi, nel mondo musulmano, il Corano non è oggetto di confronto, non viene assolutamente rimesso in discussione.


Alcuni ricercatori musulmani, il più delle volte formati o residenti in Occidente, azzardano qualche interrogativo sulla redazione del Corano, ma incorrono immediatamente nella condanna delle autorità religiose. Il problema dello spirito critico è un problema reale. Tutto quanto riguarda la religione è ancora tabù: è vietato discuterne e lo è ancora di più se si tratta del Corano o della tradizione maomettana; Maometto, la sua vita, ciò che ha fatto e ciò che ha detto, sono tuttora tabù.

Quindi i musulmani non possono parlare delle guerre condotte da Maometto se non in maniera apologetica, per affermare che il suo unico scopo era quello di difendersi dai persecutori. Eppure a leggere le opere delle prime generazioni di musulmani, si rimane colpiti dall’atmosfera più libera che vi si respira. Gli autori esprimevano con molta semplicità il loro punto di vista, positivo o negativo che fosse, per così dire senza complessi.

Lo stesso vale per i rapporti umani di Maometto con altri gruppi, come gli ebrei, i cristiani e soprattutto con i politeisti della città natale e di tutta l’Arabia, nonché per le relazioni con le donne: tutti questi argomenti non sono mai affrontati in modo critico, ma sempre elogiativo e agiografico (dal greco hagios = santo). È lo stile tipico della tradizione cattolica che si adoperava in passato per raccontare la vita dei santi: sono sempre persone straordinarie, che hanno pregato, digiunato e altro ancora sin dall’infanzia. Tuttavia, il lettore sa che quel genere di racconto non vuole essere una descrizione storica dettagliata, ha bensì il solo scopo di incitarlo a imitare le virtù del santo di cui narra la vita.

Ahimè, ancora oggi la vita di Maometto viene raccontata in modo puramente agiografico, si espongono i suoi intrighi come fatti storici realmente accaduti, i racconti abbondano di dettagli presunti, che si amplificano man mano che ci si allontana nel tempo dalla persona del fondatore dell’islam. Sebbene nel Corano non vi sia il seppur minimo accenno ad alcun miracolo compiuto da Maometto, nonostante le richieste avanzate dagli arabi di farne, fosse pure uno solo, a esempio di Mosè e di Gesù, i biografi posteriori ne aggiungono a piacimento. E più passano gli anni, più i biografi scoprono nuovi miracoli, come ha ben dimostrato padre Focà.

Oggi il problema dell’interpretazione del Corano è sicuramente la questione principale sia nella religione musulmana sia nella vita dei musulmani. Molti intellettuali musulmani ne sono consapevoli e sono migliaia coloro che cercano di proporre nuove interpretazioni del Corano, un compito estremamente arduo dal momento che questi studiosi devono scontrarsi con una lunga tradizione e spesso vengono accusati di lasciarsi guidare dall’Occidente e dai non musulmani. Accusa suprema!

In che cosa consiste il problema dell’interpretazione del Corano? Il Corano è presentato come «disceso» dal cielo su Maometto, il quale lo ha proclamato ai suoi contemporanei. Alcuni di essi lo hanno memorizzato nel proprio «petto» (sudur) e dopo qualche decennio lo hanno dettato a degli scribi. In un’ultima fase, i fedeli hanno raccolto tutte queste pagine sparse, scritte su svariati supporti (palme, ossa, ostraca, carta, eccetera), per farne un libro. La stessa parola utilizzata per «libro», mus-haf, non è di origine araba, è bensì un termine etiopico che stava a indicare la Bibbia. Tutte queste osservazioni di carattere filologico sono importanti in quanto permettono di vedere come l’islam nascente abbia integrato elementi provenienti dalla cultura cristiana o dalla cultura giudaica (per le questioni di ordine rituale e giuridico).

Il Corano si presenta quindi come il risultato di questo insieme di procedure. La discesa su Maometto, la declamazione di Maometto, la deposizione di tale declamazione nei «petti» di coloro che l’hanno memorizzata, la recitazione della deposizione ad alcuni scribi, la collazione dei fogli sparsi in un libro che è il Corano. Tutto questo è solo la prima fase.

Il passo successivo venne con l’unificazione del Corano e l’eliminazione di tutte le varianti; si passò poi, con l’inizio dell’VIII secolo, a distinguere le consonanti mediante l’indicazione dei punti. Per finire, nel IX secolo, sotto la pressione dei sapienti furono aggiunte le vocali. Un lungo processo, durato due secoli, che ha portato a un testo: il Corano.

Un testo che i musulmani hanno provveduto a sfrondare di tutte le modalità con cui è stato trasmesso per poter infine affermare che viene direttamente da Dio, che è la parola di Dio trascritta fedelmente e alla lettera, senza possibilità di errore. Tutti i libri musulmani che citano il Corano insistono sulla fedeltà della sua trasmissione in contrasto con la supposta infedeltà della trasmissione dei Vangeli.

A tale scopo, essi fanno riferimento alle teorie più liberali dell’esegesi cristiana, affermando che parecchie generazioni separano il momento in cui il testo dei Vangeli fu stabilito definitivamente, alla fine del I secolo o all’inizio del II secolo, e la morte di Cristo intorno al 30 d.C. Cosa che, al contrario, non succede per il Corano, che è stato trascritto fedelmente senza ombra di errore, poiché, come tutti sanno, i memorizzatori (hafiz, huffaz) e i trasmettitori avevano una memoria da elefanti e Dio ne garantiva l’infallibilità! Si vede dunque come il fenomeno sia stato mitizzato. In virtù di questa mitizzazione del testo coranico, si è giunti ad affermare che il testo oggi in nostro possesso è il dettato letterale fatto da Dio a Maometto, trascritto fedelmente.

Si dice, in termini concreti, che Dio «ha aperto il petto del profeta» e l’arcangelo Gabriele vi ha depositato il Corano. In seguito Maometto non ha dovuto far altro che attingere, per così dire, da questo deposito per recitare i versetti utili in ogni circostanza. Si può quindi concludere che non vi siano intermediari. In questo modo di pensare non possono esserci interpretazioni: l’interpretazione consiste unicamente nell’accertarsi del senso esatto delle parole.

In realtà le prime generazioni di musulmani non hanno mai seguito questa linea di pensiero. Al contrario hanno tentato di comprendere ciascun versetto spiegando il contesto nel quale la frase era stata pronunciata da Maometto. Esistono interi libri, decine di libri (spesso di svariate migliaia di pagine) nella letteratura arabo-islamica che parlano di quelle che vengono definite le circostanze della «discesa» (asbab al-tanzil, che altri chiamano asbab al-nuzul) nel senso di «rivelazione».

Quindi ciascun versetto sarà spiegato in funzione delle circostanze presunte nelle quali Maometto avrebbe trasmesso la parola di Dio. Si tratta di un fatto importantissimo, eppure oggi questo contesto viene completamente ignorato.

 

 

Samir Khalil Samir

Sì all’abbronzatura finta, no a interventi al naso

 

 

Un teologo morale inglese spiega perché si dovrebbe riflettere attentamente prima di chiedere interventi di chirurgia estetica.



Ornare il proprio corpo è una cosa antica quasi quanto l’umanità stessa. Essere come Dio ti ha fatto, storicamente parlando, non è stato mai abbastanza per la maggior parte delle culture del pianeta.
Invece di accontentarsi di star bene così, la gente da tempo immemorabile si è abituata a perforare, tatuare, rimuovere chirurgicamente certe estremità, anche tutte, si presume nella convinzione che queste azioni potessero migliorare il proprio corpo.


Molto prima che si giungesse all’età moderna con la sua capacità di trasformare le fattezze umane mediante la chirurgia plastica ed estetica, le culture primitive stavano già facendo questo. Ötzi, l’Uomo rinvenuto dal ghiaccio in Tirolo, il cui cadavere risale al Neolitico, ha dei tatuaggi, così come molte mummie dell’antico Egitto, risalenti a circa 2.000 anni fa. Anche in questo caso, ci sono prove che le mutilazioni genitali femminili (come si chiamano ora) risalgano ad almeno due millenni fa, e la circoncisione maschile deve essere ancora più antica. E non si sa chi fu il primo a bucare il lobo dell’orecchio per indossare gli orecchini. Queste sono solo alcune comuni modifiche del corpo, diffuse ancora oggi da noi: per fortuna l’idea di indossare anelli al collo per allungarlo non è andata diffondendosi oltre la cosiddetta “donna giraffa” della regione del Paudang in Myanmar.


Ma è nella nostra epoca che l’ornamento del corpo decolla sul serio. Con la chirurgia moderna poi si può fare molto di più. Lifting, miglioramenti al seno, riduzione del seno, interventi al naso, tutti questi sono diventati non solo possibili, ma vengono considerati persino di routine. E sappiamo tutti di chi ha intrapreso queste procedure troppo lontano nel tempo. Basta andare a vedere su Google le immagini di Michael Jackson da giovane per constatare gli interventi chirurgici cui è andato incontro, producendo quell’aspetto che i giornalisti amavano definire “bizzarre”. Lo stesso vale per quella signora chiamata “la sposa di Wildenstein”, una donna che si è letteralmente rovinata il volto con il ripetersi di procedure cosmetiche.


Prima di soccombere di fronte all’orrore di tutto questo – e questi esempi estremi sono davvero agghiaccianti – è importante sottolineare la differenza tra la chirurgia plastica e chirurgia estetica. La chirurgia plastica si occupa del recupero di forma e funzione di alcune parti del corpo. Molto di tutto questo è davvero essenziale – il trattamento delle vittime di ustioni e la ricostruzione, per esempio, di volo e mani dopo un incidente. Gli interventi di chirurgia cosmetica – alle volte chiamati chirurgia estetica – sono invece interventi chirurgici volti a migliorare l’aspetto di una persona. Questo a volte può anche essere lodevole: se qualcuno ha una deformità che deteriora gravemente la qualità della propria vita, è perfettamente accettabile: se il rischio di un intervento chirurgico è proporzionato al beneficio che si otterrà, per correggere la deformità, è positivo.


L’idea di proporzionalità costi/benefici è uno strumento importante dal punto di vista morale nel considerare se tali operazioni debbano andare avanti. Qualcuno la cui vita è stata resa difficile per via di un naso troppo grande potrebbe giudicare l’intervento chirurgico un piccolo prezzo da pagare,
nel caso che la rinoplastica possa migliorare in qualche modo la socializzazione. Qui, un chirurgo e uno psicologo avrebbero bisogno di consultare il paziente circa la strada migliore da intraprendere.
Ma cosa accade quando qualcuno vuole soltanto ottenere un aspetto esteticamente migliore, e pensa che il modo migliore per ottenerlo sia un naso più piccolo o un seno più prosperoso? Si può dire che il problema della chirurgia sia giustificato dalle ragioni avanzate sopra?


Come regola generale, la chirurgia non deve essere mai intrapresa senza un motivo serio. I motivi psicologici possono anche essere anche di grave entità, ma il desiderio di un aspetto migliore è immediatamente da ritenersi sospetto. Le apparenze sono per loro natura molto superficiali.
Cambiamo i nostri vestiti regolarmente, e alteriamo il nostro “look” – questo è un fatto che riguarda la moda in sé – ma possiamo davvero, ritenerci nel giusto se consideriamo il desiderio di cambiare, anche di molto, la nostra stessa carne ? Questa sembrerebbe essere non solo una misura estrema, ma fondamentalmente sbagliata. Il modo con cui si guarda a questioni di natura fisica – sarebbe sciocco negarlo – non dovrebbe importare più di tanto. Guardiamo a quanti mezzi abbiamo per indossare il make-up o sfoggiare un’abbronzatura, anche finta, ma risparmiamo il bisturi su noi stessi.
Indossare il make-up, anche andare dal parrucchiere, è un po’ come arrendersi alla pressione sociale per un aspetto più attraente, ma il ridurre chirurgicamente il proprio naso per apparire migliori davvero alla lunga ha il sapore di una resa. A questo punto potrebbe essere utile ricordare le parole
del grande Ann Widdecombe: “Ho trentadue denti, mi sento losca, brutta, sovrappeso, una zitella: che diavolo?”. Eppure lei era come Dio l’ha fatta, e noi siamo tutti quanti nelle sue stesse condizioni.


Ora il desiderio di modificare il proprio aspetto di per sé non è sbagliato, ma occorre valutarne anche la proporzionalità, vale a dire ci sono alcune altre considerazioni morali da valutare. Prima di tutto, si vuole davvero operare un cambiamento? Questo desiderio è il frutto di una decisione matura e deliberata? O in questo si è solo costretti dalla pressione esterna? A volte questo tipo di pressione è fin troppo facile da riconoscere (come nei casi di ragazze forzatamente sottoposte a mutilazioni genitali femminili), a volte, come in Occidente, è molto più sottile, ma comunque reale.
In secondo luogo, alcune procedure chirurgiche sono semplicemente sbagliate. Le mutilazioni genitali femminili costituiscono un buon esempio di questo: si tratta di un comportamento intrinsecamente negativo, sbagliato in sé, a prescindere dalle circostanze. Il motivo è che tale procedura non può mai essere per il bene della persona che viene “tagliata” in questo modo. Dal punto di vista medico può portare a complicazioni future, in modalità diverse: è impossibile pertanto vedere questo come qualcosa che sia un bene per la ragazza che lo riceve, ma piuttosto è qualcosa che la ragazza si vede imporre dalla società per un suo presunto bene. La circoncisione maschile, che può anche avere benefici per la salute, non è sbagliata di per sé, e può essere anche  giusta, a patto però che si svolga nelle condizioni adatte. Alcune procedure cosmetiche sono banali, nel senso che sono facilmente reversibili – come il taglio dei capelli, o la rasatura. Altre sono gravi, e se non ci sono motivi seri che le giustifichino, sono da ritenersi sbagliate.


Le donne (perché accade quasi sempre alle donne) devono resistere alla pressione a conformarsi a una forma particolare del corpo, di solito una forma del corpo che esse stesse, se fossero lasciate loro a decidere di loro stesse, non si sarebbero mai sognate di scegliere. Pensate alla figura della clessidra, così popolare nel XIX secolo. Alcune donne hanno una figura a clessidra naturale, ma altre hanno fatto interventi innaturali per ottenerne l’aspetto, come l’ingestione di tenie o la rimozione chirurgica di alcune costole. Questo non solo è contrario alla virtù della prudenza, ma rappresenta anche uno sforzo sproporzionato e, a guardare bene, rappresenta una pericolosa forma di ossessione del sé, del proprio aspetto fisico.


Francamente, il nostro modo di presentarci non è poi così determinante. La bellezza è solo una cosa esteriore e, come dice San Paolo: “Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma come si conviene a donne che onorano Dio con opere buone” (1 Tim 2,9-10). Questo dell’Apostolo non è il pensiero di un musone o un guastafeste, ma di uno che parla con buon senso. E’ il come sei dentro, ciò che conta veramente. Così che l’eccessiva enfasi sull’apparenza rappresenta quasi una forma di idolatria.


La maggior parte delle persone che leggono questo articolo probabilmente hanno dedicato anche oggi parte del loro tempo al proprio aspetto: anch’io ho spazzolato i capelli e mi sono lavato i denti, questa mattina, non solo per il mio bene, ma anche per quanti mi stanno intorno. Non sto sostenendo l’idea di vestire in maniera spartana, come messo in mostra dalla defunta moglie di Mao. Sto solo dicendo che abbiamo bisogno di mantenere una proporzione nelle cose, e che questo potrebbe riguardare soprattutto quanti si sentono sotto pressione per cercare di rispondere a diverse “presunte” necessità dettate dal costume sociale.

 


Padre Alexander Lucie-Smith è un teologo morale e autore di Narrative Theology and Moral
Theology (Ashgate, 2007).


in “Catholic Herald” del 4 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)

Geografia dell’Italia cattolica

 

 

Cartocci Roberto, Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino, Bologna 2011, EAN 9788815150608, pp. 200 , Euro 15,00.

 

Descrizione

 

 

Secondo un’opinione diffusa il cattolicesimo è un tratto unificante degli italiani, con una tradizionale frattura tra Lombardo-Veneto “bianco” e regioni “rosse”. Ma quanto c’è ancora di vero in questa geografia? Quanti sono i cattolici praticanti e in quali aree del paese sono più numerosi? Da alcuni interessanti indicatori (frequenza alla messa, otto per mille, insegnamento della religione, matrimoni civili, nascite fuori dal matrimonio) risulta che i praticanti sono una minoranza del 30-40% concentrata nelle regioni del Sud, la vera zona “bianca”. Per un verso, dunque, il cattolicesimo si accompagna a una sindrome meridionale fatta di minore ricchezza, inefficienza delle istituzioni e carenza di capitale sociale; per un altro, nella generale crisi della partecipazione sociale e politica, i movimenti ecclesiali costituiscono una risorsa tale da fornire alla Chiesa-istituzione un forte potere di veto.

 

 

Il Dio personale degli italiani. Al Sud la messa non è finita
di Michele Smargiassi
in “la Repubblica” del 7 luglio 2011


A Verona si celebrano più matrimoni civili che a Modena. A Belluno nascono più bambini da coppie non sposate che a Lucca. I goriziani negano il loro otto per mille alla Chiesa più dei pisani. A Venezia la quota di studenti che “non si avvalgono” dell’ora di religione cattolica è identica a quella di Ravenna. Ma dove sono finite le “regioni bianche”, il Triveneto devoto, il Nord-Est cattolico, fabbrica di papi e serbatoio di voti democristiani? Certo, i veneti vanno ancora a messa (uno su tre) molto più dei toscani (uno su cinque); ma lontano dal sagrato, nelle scelte individuali, intime, familiari, private, l’etica dell’Italia che per decenni fornì un modello di modernità credente, antagonista di quello scristianizzato ed edonista delle “regioni rosse”, ormai appare definitivamente omologata al resto del Nord. Dove al massimo si declina il comportamento religioso su modelli personali. La pratica più intensa della fede è colata giù, lungo i meridiani, di parecchie centinaia di chilometri. Basta una sola occhiata ai colori stesi da Roberto Cartocci, docente di Scienze politiche
a Bologna, sulla mappa che riassume la sua Geografia dell’Italia cattolica, per rendersi conto che negli ultimi anni è avvenuto, silenziosamente, un terremoto nei costumi religiosi nazionali. Un travaso di coscienze, una decantazione, un’elettrolisi che hanno spezzato in due il paese: al Nord la secolarizzazione, al Sud la devozione.


Lo studio che Cartocci e la sua équipe hanno realizzato per l’Istituto Cattaneo di Bologna (e pubblicato in volume da Il Mulino) mettendo a confronto tutti gli sparsi indicatori dei comportamenti in qualche modo legati alla morale cristiana, a prima vista non offre sorprese particolari. Tutti i trend che ci si potrebbe attendere dall’avanzata della società del disincanto sono rispettati: calano pian piano i matrimoni all’altare, si spopolano via via le navate, soprattutto di adulti in età attiva (25-44 anni), le coppie di fatto salgono in dieci anni dal 3,5% al 5,5%, e tutto questo avviene specialmente nelle grandi città, tra le classi più istruite e ricche, tra i maschi adulti, eccetera. Un lento processo in corso da almeno mezzo secolo, che erode però soltanto quello che i
sociologi chiamano “cattolicesimo di maggioranza”, quella massa di italiani pari grosso modo al cinquanta per cento della popolazione che si limita a rispettare i precetti più generali, a far capolino in chiesa a Natale e Pasqua. Resiste invece, almeno da un ventennio, attorno al trenta per cento, il “cattolicesimo di minoranza” di chi va a messa tutte le domeniche, al cui interno si rafforza addirittura, ed è un’eredità della spinta di Wojtyla, un dieci per cento di “cattolicesimo militante” fatto di animatori di parrocchia e di membri attivi dei movimenti ecclesiali.


Sulla base di questi indicatori è difficile dare una risposta univoca alla domanda fondamentale: gli italiani sono ancora cattolici? Ma certo, è quel che mostrano di essere nei loro comportamenti maggioritari: sei coppie su dieci si sposano all’altare, otto bambini su dieci nascono dopo le nozze, nove contribuenti su dieci regalano l’otto per mille alla Cei (e quindi lo fa anche la metà di quel venti per cento che non mette mai piede in chiesa), e nove ragazzi su dieci frequentano l’ora di religione a scuola. Ma questi parametri definiscono la fede o il conformismo sociale? Se è cattolico chi obbedisce almeno al precetto di santificare le feste (lo fa il 32,5%), bisognerà ammettere che in Italia i credenti sono solo una robusta minoranza, poco più di 18 milioni di persone, bambini compresi. E tuttavia «sono l’unica minoranza attiva e coesa che sia sopravvissuta alla crisi delle grandi ideologie», precisa Cartocci: dall’altra parte infatti non c’è un’organizzata, crescente e nuova moralità laica, ma solo un patchwork frutto della somma tra agnosticismo più o meno ideologico, materialismo distratto e consumista e religioni importate, dove i non-praticanti per convinta scelta non aumentano: sono il 15% da dieci anni.


Messo nel conto il disincanto generale della modernità, le cifre assolute di questa ricerca non dovrebbero dunque allarmare troppo i vescovi italiani. Le quantità, no. Ma la distribuzione territoriale invece sì, e parecchio. Perché il processo di secolarizzazione se non è travolgente, non è affatto omogeneo. Una polarizzazione fortissima è emersa: un confine antico che ricalca quello del regno borbonico, tagliando lo Stivale a metà. La più “laica” delle province meridionali, Latina, nella graduatoria dell’indice generale di secolarizzazione messo a punto dall’inchiesta, non raggiunge il punteggio della più “clericale” di quelle settentrionali, Vicenza.
Una delle spiegazioni è interna alla logica della statistica: il Nord-Est non si è affatto “sconvertito” in massa, piuttosto la base di credenti praticanti si è trovata diluita dall’arrivo di una popolazione non indifferente di immigrati di altre fedi. È probabilmente per effetto di questa redistribuzione demografica che in Friuli i non praticanti hanno sorpassato di recente i praticanti regolari. Ma gli immigrati ci sono anche nel Meridione. Dove  evidentemente è intervenuta una compensazione di altro genere. A sud di Roma la secolarizzazione ha rallentato, in molti casi si è arrestata (in Campania il record di frequenza alla messa domenicale, 42,8%, a Palermo quello delle nozze religiose, 76,1%), a volte si è ribaltata di segno, come nel caso clamoroso di Napoli, che fino al 1961 era la metropoli italiana col il numero più alto di matrimoni civili (17,7% nel ’51, quando a Milano erano il 5,4%), e che dagli anni Ottanta è passata in coda, scavalcata dall’irruenza laicista delle altre metropoli, anche meridionali (ora le nozze civili sono il 26,3 a Napoli contro il 57,6% di Milano e il 32,2% di Catania). Una “conversione” strepitosa che attende ancora una spiegazione, che però data dagli anni del dopo-terremoto e corre parallela al sorgere dell’impero di Gomorra: e le mafie sono sempre molto affezionate al rispetto delle tradizioni.
Devono essere allora contenti i vescovi della risorgenza al Sud dell’Italia “bianca” ormai estinta al Nord? Niente affatto, sostengono i ricercatori. Il Veneto cattolico aveva costruito una società ad alto “capitale sociale”, fondata su una rete di parrocchie che erano la trama vivificante del territorio, nuclei di partecipazione non solo religiosa ma anche civile e politica e verosimilmente non estranei al miracolo economico territoriale del Nord-Est oggi sofferente. La mappa della nuova Italia cattolica è invece sovrapponibile a quella dell’Italia del sottosviluppo economico, dell’inefficienza pubblica e del degrado civile. «Coincidenza non significa rapporto di causa ed effetto», è la cautela dello studioso, ma una coincidenza così perfetta invoca una richiesta urgente di spiegazioni. È un fatto, dimostrato dati alla mano nel volume: si prega di più dove c’è meno raccolta differenziata dei rifiuti, si va più a messa dove si emigra di più verso gli ospedali del Nord. La devozione meridionale tradizionale convive con una socialità disgregata, incapace di produrre più di un coinvolgimento puramente formale e rituale dei parrocchiani, di contrastare la corruzione delle istituzioni, il dilagare dell’illegalità, il degrado del senso di comunità, il deficit di Stato. Solo quando e dove la Chiesa si ribella a tutto questo, di colpo diventa incompatibile: è nel Meridione devoto, non riesce a non ricordare Cartocci spogliandosi dei panni dell’analista, che sono stati ammazzati due preti scomodi, don Pino Puglisi e don Peppino Diana. I vescovi questo lo sanno: e negli ultimi anni sfornano documenti sulla “questione meridionale” come mai prima. La “borbonizzazione” della pratica religiosa inquieta i pastori di un pezzo di Paese in cui risuona ancora, senza risposte, il furente grido di Giovanni Paolo II a Palermo: “Convertitevi!”.

«Caro Odifreddi, è un errore dividere matematica e fede»


«Caro Piergiorgio,


è l’alba e ho appena finito la tua “lettera” al Papa e devo dirti che la trovo una delle tue cose più belle (inclusa anche la Classical Recursion Theory). Tra l’altro mi sembra più profonda e riflessiva, e talora meno polemica di altre tue cose sul tema. Soprattutto ci intravedo la percezione della complessità del “fatto” religioso e credo che partendo di qui la distanza tra credenti e atei non sia poi tanto vasta.
Per un caso del destino ho finito di leggerla all’indomani del referendum, nel successo del quale pochi hanno osservato il ruolo svolto dal mondo cattolico, dai Francescani allo stesso Papa. In realtà la contrapposizione tra laici e cattolici è sempre stata nel XX secolo la fortuna della destra, e di questo era acutamente consapevole Enrico Berlinguer, il più grande leader della sinistra italiana nel secolo scorso, quando propose il “compromesso storico”, una proposta purtroppo presto svanita nella sinistra, nella nefasta opinione che il sostantivo, “compromesso”, derubricasse l’aggettivo, “storico”.

 

contrasti evidenti?


Ovviamente il tema mi ha sempre affascinato, in quanto matematico, cristiano e “di sinistra” (anche se, su tutti e tre i fronti, scarso a fede ed estraneo alle gerarchie). E ovviamente ci ho riflettuto sopra e mi sono chiesto perché tra religione e pensiero scientifico e laico io non trovo i contrasti evidenziati nelle tue parole (e anche in quelle del Papa): per me credere in Cristo e nel contempo esaltare la ragione laico-scientifica è, se non facile, sicuramente possibile, ed è per giunta un’avventura del pensiero tra le più affascinanti. Credo che questo accada anche perché ho un’idea della matematica (e della scienza) diversa da quella su cui mi sembra che voi due, papa reale e aspirante papa pentito, finiate col concordare: fate della matematica/logica lo strumento linguistico/ideologico e lo scheletro formale della scienza, fisica soprattutto. Il che per te è sinonimo di razionalità, per il Papa di scientismo freddo e formalista. Questa tesi storicamente si è consolidata parallelamente in campo teologico e in filosofia della scienza soprattutto in due periodi.

 


il tomismo


Nella media scolastica: il tomismo ha definito il rapporto tra teologia e scienza nei termini di fede e osservazione empirica connesse metafisicamente, i mertoniani hanno usato la metafora geometrica per descrivere gli osservabili fisici. E poi nel passaggio tra ottocento e novecento: il neotomismo ha visto il male nascere dalle filosofie moderniste (il materialismo, il relativismo, il socialismo, etc.), e positivismo e neopositivismo hanno ridotto la matematica/ logica ad aspetto linguistico di una scienza empirista.
In mezzo il concilio di Trento e il divorzio tra la cultura cristiana e la sua “figlia prediletta”, la scienza. E subito dopo Galileo, la sua scienza e il suo processo. Così oggi i teologi accettano la scienza come osservazione del Creato ma la rigettano nella sua forma razionale totalizzante, i
filosofi della scienza considerano la scienza come impresa sostanzialmente empirica, cui la matematica deve adeguarsi come linguaggio per esprimerne i risultati. Certo tu noti giustamente che la matematica non è solo esprit de geometrie, ma mi sembra che nella polemica tu a quello finisci col ridurla per difendere un’idea di verità di stampo tutto sommato positivista. Ti propongo invece un’idea che acquista sempre più peso nei miei corsi di storia: la complessità del “fatto” matematico.

 

la più antica disciplina


La matematica è la più antica delle discipline, individuata e caratterizzata da almeno quattromila anni. Al punto che uno scriba babilonese disibernato oggi potrebbe fare un ottimo corso di matematica alle elementari, e un matematico ellenistico arrivare anche alle medie inferiori. Potrebbe qualcuno fondare sull’Enuma Elish sumerico o sulla mitologia greca la formazione di un fisico o di uno psicologo o di un filosofo o di un teologo? Questo fatto può avere due spiegazioni: o la matematica è la più banale delle tecniche o è la più profonda delle antropologie. Io credo che la seconda sia quella giusta. Anche perché così diventa più chiara la profonda interconnessione tra matematica e religione che possiamo riscontrare sin dalla notte dei tempi, dai Babilonesi e Induisti sino a Cantor.
La connessione moderna tra matematica e fisica risale invece al massimo alla fine del Medioevo, mentre prima appariva indiscutibile l’osservazione aristotelica: come può la matematica che è scienza dell’essere applicarsi alla physis, e cioè al divenire? La fisica-matematica è ovviamente una delle più grandi creazioni dello spirito umano, ma questo non vuol dire che caratterizzi la natura dell’opera matematica. E la riduzione della matematica a strumento linguistico della scienza mi sembra una delle peggiori turpitudini moderne. E stupide le “difese” della matematica basate sulla sua utilità o sulla sua bellezza: la matematica è ben più che uno strumento più o meno “utile” e “bello” della scienza, è invece la più radicale delle antropologie. Anzi io staccherei i dipartimenti di Matematica dalla facoltà di Scienze.
Credo allora che il contrasto tra pensiero matematico e religione (non filosofica) sia dovuto solo al dogmatismo filosofico che caratterizza tanto i teologi quanto gli atei: svanito questo, svanisce anche quello. In realtà io sono abbastanza d’accordo con i tuoi argomenti (ad esempio sulla mania teologica per il verbo “essere”). E credo da cristiano che tu alla lunga potresti fare tanto bene alla Chiesa (più o meno quanto le denunce dei preti pedofili) da essere quasi beatificabile (anche se credo che spesso tu faccia polemica per puro amore della polemica e per difendere la tua “immagine”).
È quando riduci i tuoi argomenti a una presupposizione positivista che non concordo più: mi sembra una delle tante filosofie della scienza incompatibili con la storia della scienza. Credo che abbia ragione il Papa a considerare incompleta la ragione scientifica, ed abbia ragione tu a considerare incompleta la ragione teologica. Ma non potete dialogare poiché entrambi cercate nella filosofia la completabilità della vostra ragione. A Bari, terra di cinici, diremmo ’o policlin’k ’uè la salut’? (“al policlinico cerchi la salute?”). In realtà non sembra neanche un dibattito, ha più i caratteri di una sorta di “antinomia della ragion pura”. In verità, per quanto io ami la filosofia, divento sempre più intollerante del dogmatismo dei filosofi “con le idee chiare”, e sogno invece una filosofia rapsodica, una piantina insicura, umile e timida, cresciuta all’ombra della storia. Sono le filosofie “pesanti”, tanto analitiche che continentali, che vogliono essere coerenti e riempire tutti i buchi, ad affaticarmi
tanto in teologia quanto in filosofia della scienza. E a questo proposito potrei ammonire, come l’Amleto di Shakespeare, “there are more things in mathematics and religion, Horatio, than are dreamt in your philosophy!”.


Ti abbraccio gb


in “l’Unità” del 5 luglio 2011


Il libro

Odifreddi Piergiorgio, Caro Papa, ti scrivo, Mondadori,  Milano 2011, ISBN: 8804610077, pp. 196

Descrizione

Nell’autunno del 1959 Piergiorgio Odifreddi varcò la soglia del Seminario di Cuneo. La sua intenzione era quella di diventare un giorno papa, e benedire da una finestra di Piazza San Pietro la folla estasiata. Ma presto imparò che «il cammino che porta al soglio pontificio è più accidentato e tortuoso di quanto un bambino avesse ingenuamente potuto immaginare». E, soprattutto, che «per poter un giorno comandare bisognava iniziare subito a obbedire» e a essere rispettosi: cosa che già allora non gli piaceva particolarmente. Cinquant’anni dopo, il matematico impertinente ricorda quei tempi e, contenendo per una volta il suo abituale tono urticante e provocatorio, scrive con grande rispetto e sincerità a chi papa lo è diventato per davvero. Anche se, da scienziato, non abiura al dovere intellettuale di rimanere saldamente ancorato ai fatti della realtà fisica, storica e biologica. Ed è dunque costretto a confutare punto per punto il teologo Joseph Ratzinger, che crede invece in ciò che va «oltre » la realtà e sconfina nella metafisica, nella metastoria e nella metabiologia. In questa lettera si confrontano così due metodi, due atteggiamenti, due visioni del mondo. Da un lato il «comprendere per credere», che accetta prudentemente di dar credito soltanto a ciò che si capisce e si conosce. E dall’altro il «credere per comprendere», che si azzarda a scommettere su ciò che ancora non si capisce o non si conosce, nella speranza che tutto poi si chiarificherà o giustificherà. Ma, soprattutto, in questa lettera si contrappongono due Credi. Da un lato, il Credo canonico dei fedeli, commentato da Ratzinger nella sua memorabile Introduzione al cristianesimo. E dall’altro il Credo apocrifo dei razionalisti, enunciato da Odifreddi in una lettera che si presenta come un’altrettanto memorabile introduzione all’ateismo.