Il Natale nella storia del cinema

Il cinema di Natale inizia con il suo Babbo.
Guarda soprattutto a lui, dedicandogli in un secolo di vita, oltre duecento titoli, a partire dal 1897.
Il fascino del costume, della casetta polare, della fabbrica di balocchi, della slitta e del volo nella notte magica, la vigilia del 25 dicembre, è rimasto intatto, diventando un elemento costante della produzione cinematografica natalizia.
Così, a soli due anni dalla sua nascita, il cinema si appropria subito di Babbo Natale con ben due film, uno dedicato alla discesa dal camino e alla confezione delle calze piene di regali e uno alla festa preparata per lui sotto il classico albero.  Da lì a poco, questa icona natalizia fa capolino in un primo muto del 1912 e in un secondo del 1925, quest’ultimo girato realmente al Polo Nord.
Poi arriva un classico, Miracolo nella 34ª strada diretto da George Seaton nel 1947 con John Payne che rimprovera la cinica Maureen O’Hara, distratta dalla carriera e dai consumi.
Lei non crede che Kris Kringle sia davvero Santa Claus, ma “Doris – la redarguisce l’avvocato Fred Gailey – un giorno scoprirai che il tuo modo realistico di affrontare le cose di questo mondo semplicemente non funziona.
E quando ciò accadrà, non lasciarti sfuggire il fascino delle cose incomprensibili.
Scoprirai che sono le uniche cose che meritano veramente di essere prese in considerazione”.
In fondo il cinema, con questa arringa, difende anche il suo stesso fascino e produce ben due rifacimenti, uno televisivo del 1973 e uno nel 1994 col grande Richard Attenborough nel ruolo di Kringle-Santa Claus.
Curiosando, ecco nel 1959 un Santa Claus messicano che ha assoldato bambini di tutte le etnie per costruire i regali e che deve combattere, con l’aiuto di Mago Merlino, un diavoletto dispettoso e cattivo.
Come si vede, dagli anni Sessanta le tradizioni narrative cominciano a contaminarsi e il più delle volte portano a veri e propri pasticci cinematografici che di natalizio perdono tutto, pure lo spirito.
Appaiono a frotte creature nordiche e leggendarie, come gli elfi, in molte versioni tra cui una diretta addirittura da  Rossano Brazzi nel 1966 (The Christmas that Almost Wasn’t) nella quale appaiono Mr.
& Mrs.
Claus a difendere il Natale che rischia di essere cancellato.
Ma la coppia natalizia ritorna anche nel 1985 in Santa Claus, di Jeannot Szwarc.
Troviamo, però, in questa ricca filmografia, anche Babbi Natale mortali e gaudenti, oppure al circo, rapiti dai marziani, in versione giapponese, alcolisti e violenti, addirittura serial killer, fino alla computerizzazione fantasmagorica in The Polar Express di Robert Zemeckis, del 2004, che sperimenta per  la  prima volta la tecnica adottata  anche in A Christmas Carol e vede il sempre bravo Tom Hanks nei panni di Babbo Natale alle prese con un bambino che dubita della sua esistenza.
E nel 2005 è interessante il tentativo multiculturale e multietnico messo in atto da Steve Grey e Ton Knight che, nella loro opera prima di animazione, Santa Camel’s, immaginano un Babbo Natale costretto a utilizzare quattro cammelli al posto delle renne per portare doni ai bambini sofferenti del Medio Oriente.
Il Natale è sempre stato una festa che supera ogni confine e differenza, perché agisce sui buoni sentimenti, comuni a tutta l’umanità.
Carità e giustizia sono temi universali e natalizi, che si ritrovano, diversamente declinati, in due principali filoni, quello romanzesco e quello propriamente evangelico.
All’inizio, il cinema pesca molto nella narrativa secondo uno schema assai semplice:  il Natale porta, miracolosamente, al riscatto di vite dissipate e il cuore chiuso e cinico si apre alla carità.
Due sono gli esempi più famosi:  in Miracle on Main Street, del 1939, una peccatrice trova, la sera della vigilia, un bambino abbandonato proprio nel presepe di una chiesa.
La piccola creatura le salverà la vita e l’anima.
Un classico della riconciliazione, questa volta con intervento esterno degli angeli, è The Preacher’s Wife del 1947, con remake nel 1996:  nel primo la coppia era formata da Cary Grant e Loretta Young, nel secondo il ruolo della moglie è stato affidato a Whitney Houston.
Ma il miracolo dei miracoli è l’intramontabile La vita è meravigliosa, diretto da Frank Capra nel 1964, vero inno alla vita buona e ben vissuta.
Mentre vite piuttosto sprecate e superficiali, ma seguitissime da un certo pubblico natalizio, sono quelle raccontate nei cosiddetti “cinepanettoni” italiani che, prendendo a pretesto il Natale solo come momento di divertimento, seguono per le città più famose del mondo le disavventure comiche di coppie male assortite.
Il racconto della Natività rimane, invece, pudicamente ai margini del cinema.
Troviamo piuttosto segmenti di storia evangelica rappresentati nelle superproduzioni hollywoodiane epico-cristologiche.
È lì che il Natale fa capolino con ricostruzioni di veri presepi viventi e un’approssimativa verosimiglianza storica.
Ci sono, però, tre splendide Natività cinematografiche, dissimili e pregne di stupore e di senso del mistero, che vale la pena ricordare e rivedere.
Nel Christus di Giulio Antamoro, film del 1916 modellato sulla grande tradizione pittorica italiana, il Salvatore nasce in una capanna pudicamente osservata dall’esterno e in lontananza, ma dalla quale irradia una luce soprannaturale di inusitato vigore.
Esattamente sessant’anni più tardi, è Franco Zeffirelli a girare, nel suo Gesù di Nazareth, il più commovente e poetico parto verginale di Maria:  Olivia Hussey diventa un’icona del cinema natalizio.
Infine, trent’anni dopo, per Nativity di Catherine Hardwicke è stata organizzata, il 26 novembre 2006, una prima assoluta in Aula Paolo VI:  indimenticabile l’applauso scrosciante dei 7.000 spettatori al primo vagito di Gesù Bambino tra le braccia di Maria.
(©L’Osservatore Romano – 12 dicembre 2009)

“2012”

Il sole inquieto, qualche anno prima del 2012, comincia a sfornare neutrini che surriscaldano e smuovono il centro molle della Terra.
Sarà la causa della nostra estinzione.
Piace in questi anni l’apocalisse al cinema, anche se abbiamo già sorpassato indenni il fatidico millennio.
Nel recente Knowing di Alex Proyas la terra brucia completamente e spetterà a due bambini, in un tripudio di fiori e messaggi new-age, ricominciare la successione delle generazioni dopo essere stati trasportati in un pianeta nuovo di zecca scelto da creature aliene buone e intelligenti.
C’è poi 9, prodotto da Tim Burton, già uscito in gran parte del mondo ma non in Italia, che sembra essere il primo cartone animato apocalittico in cui sulla Terra del tutto abbandonata dall’umanità rimangono soltanto nove creature viventi e senza nome impegnate a combattere le macchine assassine che hanno preso il sopravvento.
Venature spirituali si troveranno, forse, ne Il libro di Eli, in sala dal prossimo gennaio:  qui un eroe solitario – il suo nome è ricavato da tre lettere del verbo inglese to believe (“credere”) – protegge a tutti i costi, in un mondo devastato e violento, un libro che ha una croce impressa sulla copertina e sembra essere decisivo per il futuro dell’umanità.
Ora, molto semplicemente, archeologia e storia si alleano per suscitare nuove paure e manipolarne di antiche.
Il pretesto iniziale è fornito dal calendario dell’antica ed evoluta civiltà Maya:  lì il computo del tempo, con il termine dell’ultimo ciclo, arriva al 20 dicembre del 2012 (20-12-2012), poi si interrompe.
Fine del mondo e dell’umanità? Cieli nuovi e Terra nuova? Rigenerazione o annientamento totale? Dopo aver messo in catalogo la nostra distruzione (e risicata salvezza) prima con formidabile attacco alieno (Independence Day), poi con spaventosa glaciazione (L’alba del giorno dopo), il regista tedesco Roland Emmerich, di stanza ormai a Hollywood e specializzato in film di enormi proporzioni, chiude la sua “trilogia della catastrofe” con la più terribile e spettacolare di tutte:  in 2012, che esce venerdì 13 in Italia, città intere scompaiono, terremoti sfaldano la crosta terrestre, vulcani enormi eruttano vere e proprie bombe incendiarie, onde di oltre 1.500 metri devastano continenti e l’Himalaya, la Casa Bianca viene schiacciata da una portaerei, crolla il Cristo di Rio de Janeiro, si sbriciolano la Sistina e San Pietro travolgendo cardinali e fedeli in preghiera nella piazza.
Povero pianeta e povera umanità.
Uno spettacolo senza freni e senza misure, costato la cifra enorme di 260 milioni di dollari, con uno schema semplicissimo e accattivante:  pochi sanno della fine imminente, il segreto non deve trapelare per tutelare così l’ordine sociale – accadeva, però, anche in Deep impact, mentre si attendeva il meteorite definitivo – pochissimi potranno salvarsi pagando un contributo ingentissimo che serve alla costruzione di mastodontiche “arche”.
Un eroe sfiduciato e depresso (l’attore John Cusack) s’intromette nel piano dei malvagi egoisti, salva la famiglia divisa e la sua anima buona disturba i progetti senza scrupoli dei potenti che almeno cercano, prima della fine, di redimersi dalle loro ipocrisie.
È questa la coscienza dell’umanità di fronte al disastro imminente? Emmerich, oltre che bravo nel gestire distruzioni ed effetti speciali, combina furbescamente aspetti di natura mitologica, tormenti millenaristici, attualità politica, disagio sociale, senso dell’avventura e prodezze della tecnologia, seminando la più terribile delle inquietudini:  davanti alla fine dell’umanità, spogliata completamente del trascendente e del soprannaturale, non è vero che tutti siamo uguali, perché riesce a sopravvivere soltanto chi la salvezza non se l’è guadagnata con la fede e le buone opere, ma letteralmente comprata a carissimo prezzo disponendo di mezzi economici ingenti.
Dunque, milionari americani, oligarchi russi e principi arabi in prima fila.
Come spesso è accaduto nel cinema americano di fantascienza e fantasy, anche questa volta fanno sommessamente capolino le teorie di Joseph Campbell, filosofo e storico americano di miti e religioni comparate, morto nel 1987, regolarmente saccheggiato da sceneggiatori e registi che a lui hanno confessato di ispirarsi più o meno apertamente.
Tra questi, emblematico fu il caso di George Lucas per le sue Guerre stellari.
La Bibbia – che per Campbell non ha nulla di sacro e di divinamente ispirato, ma è una mera antologia di racconti mitologici che dimostrano quello che lui chiama sanctified chauvinism (“sciovinismo santificato”) – è il testo che offre lo schema archetipico più suggestivo e facilmente declinabile dal cinema:  quello dell’eroe salvifico dalla paternità complicata.
Caso spudorato fu la trilogia cinematografica di Matrix nella quale Neo era completamente assimilato alla figura di Cristo, ma in un contesto risibile.
Le variazioni, poi, sul sacrificio non sono mancate:  dal Re leone a Braveheart, da Batman al Signore degli anelli.
Con Emmerich inizia una nuova era per Hollywood:  si va più indietro, dal Nuovo al Vecchio Testamento e addirittura a Noè, il diluvio, l’arca e l’Ararat, che nel film si è trasferito, causa movimenti tellurici sproporzionati, addirittura in Africa, dove approderà quel briciolo di umanità, ancora con tutti i suoi peccati, costretta a ricominciare.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2009)

Guglielmo Massaja. e Abuna Messias

Ago e filo, si rattoppa da solo lo zucchetto.
È ospite alla corte del ribelle e ambizioso Menelik, nell’Etiopia lontanissima e sconosciuta.
In mezzo a tanto lusso indigeno, spicca la sua bella croce pettorale.
È vescovo.
Ma prima di tutto, è cappuccino e indomito missionario.
Scrive, infatti, nelle sue memorie: “Sono un povero cappuccino, un missionario di Gesù Cristo.
Qualunque altra dignità e supposto merito non sono per me che maggiori debiti presso Dio e presso gli uomini”.
Guglielmo Massaja, ovvero Abuna Messias: nel 1939 forse pochi lo ricordano, ugualmente oggi.
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e settanta da quando Goffredo Alessandrini realizzò questo kolossal del cosiddetto cinema coloniale italiano, vincendo l’1 settembre di quell’anno la Coppa Mussolini come miglior film alla vii Esposizione d’Arte Cinematografica di Venezia.
Si celebrava, indirettamente, la fragile Africa Orientale Italiana, proprio nel giorno in cui la Germania nazista invadeva la Polonia, la guerra iniziava e l’Impero italiano ipotecava definitivamente il suo crollo.
Al Lido, proiettarono più volte Abuna Messias nel corso della giornata vittoriosa e terribile.
Argomenti per stupire e commuovere ce n’erano assai: costato oltre cinque milioni di lire dell’epoca (circa venti milioni di euro attuali), con 250.000 comparse, 500 metri cubi di legname per le costruzioni, 50.000 metri di negativo di pellicola impressionata, interni nella nascente Cinecittà romana ed esterni tra le montagne del Ch’erch’er e a K’obo, nella regione dell’Amhara, attraversate in modo piuttosto fantasioso da miriadi di cavalieri, sacerdoti, schiavi e contadini, con grande sfarzo di costumi, copricapi, armi e chincaglie.
Si trattava di una storia di ispirazione “cattolica” inserita, però, nella propaganda di regime che vedeva necessaria la giustificazione della missione civilizzatrice italiana in terre povere dedite a schiavitù, scorribande, superstizioni e stregoneria, rafforzata da curiosità anche “antropologica” ed etnica per gli usi e i costumi di quella gente e i riti della chiesa copta, ricostruiti da Alessandrini con fedeltà, come ad esempio l’ordinazione sacerdotale presieduta dal metropolita copto Abuna Attanasio, acerrimo nemico di Messias, o il vivace concilio della medesima Chiesa in lingua locale.
C’era anche il peso della nuova società di produzione, la Romana Editrice Film, fondata un anno prima, braccio operativo del progetto della Società San Paolo e di don Alberione, di entrare direttamente nel mondo del cinema producendo film di chiara matrice cattolica: “deporre le forbici della censura e prendere in mano la macchina da presa” era la finalità di tale impegno, che in Abuna Messias riponeva altissime attese.
Ma il film non ebbe lunga vita, i problemi erano ben altri in quel frangente storico, tali da offuscare il successo iniziale (riapparve curiosamente in Francia nell’agosto 1948 con il titolo L’apôtre du désert) e quello del protagonista, il bravo e longevo Carmine Pilotto, già attore di lavori ben noti firmati, durante il fascismo, da Carmine Gallone, Aldo Vergano, Enrico Guazzoni e, dopo il conflitto, da Fernando Cerchio, Luigi Chiarini e Raffaello Materazzo.
Quest’anno le celebrazioni del bicentenario del vescovo missionario, con interessi nella medicina (il suo secondo soprannome era “Padre del Fantatà”, ossia “Signore del vaiolo”, per le migliaia di vaccinazioni somministrate, una delle sequenze più autentiche e commoventi del film), nell’ingegneria e nella politica, stimato da Leone xiii e creato cardinale nel 1884, hanno giustamente coinvolto la Cineteca Nazionale di Roma che ha portato a termine, grazie al coordinamento di Sergio Toffetti, suo Conservatore fino allo scorso mese di settembre, il delicato restauro della pellicola, della quale ora si possono apprezzare la qualità e l’audio, con una stravagante e solenne colonna sonora composta per l’occasione da Mauro Gaudiosi e don Licinio Refice (anche se quest’ultimo non compare nei crediti).
Il nome di Goffredo Alessandrini non era nuovo a operazioni di cinema gradite al regime e applaudite dal pubblico: nel 1934 aveva già vinto a Venezia un Premio speciale per Seconda B, nel 1938 la sua prima Coppa Mussolini (ex-aequo con Olympia di Leni Riefenstahl, miglior film straniero) per uno dei titoli più importanti e ricordati del cinema di quegli anni, Luciano Serra pilota interpretato dalla star di casa Amedeo Nazzari; infine nel 1942, ancora alla Biennale, un ultimo riconoscimento con Noi vivi.
Il filone del cinema coloniale italiano, pur contando su un elenco assai esiguo di titoli, non più di una decina, rappresenta però uno spaccato importante della cultura e dell’arte cinematografica dell’epoca, sospesa tra esigenze di mercato e obblighi di partito, e Abuna Messias rispecchia perfettamente queste tensioni, nelle quali la glorificazione della potenza e della civilizzazione italiana in Africa si accompagna a un curioso approccio etnico-antropologico che non dimentica le necessità e le logiche narrative del cinema.
Prima di tutto, avventura e mistero: l’esempio più bello, anche sul piano figurativo, è Lo squadrone bianco di Augusto Genina (Coppa Mussolini a Venezia nel 1936) con Fosco Giachetti, che riprende lo stile del cinema coloniale francese.
Qui meharisti coi bianchi burnus scorazzano sulla cresta delle dune, capeggiati da un comandante duro, ma giusto.
Cinema obbligatoriamente anche “ideologico”, che presenta la conquista italiana come fonte di civiltà per popolazioni oppresse da primitive leggi e consuetudini.
Abuna Messias, però, non rientra in alcuna di queste categorie e in questo risiede tutto il suo fascino e il suo interesse.
Non manca certo la volontà di assecondare gli obblighi della propaganda, coniugandoli a quelli del buon cristiano.
Nel film la prima azione di Massaja, proprio all’inizio della sua ultima missione etiopica iniziata nel 1868 e che si concluderà con l’esilio decretato dall’imperatore Johannes iv nel 1879 (in tutto, il missionario trascorse trentacinque anni di vita in Africa), è quella di liberare uno schiavo che poi diverrà sacerdote e al quale lascerà il compito di evangelizzare quelle terre e di creare, in prospettiva, un clero cattolico indigeno.
Ma non mancano dialoghi dichiaratamente piegati alle esigenze “esterne”.
Ecco quello che segue un banchetto di Menelik.
Il re: “Lasciamo il posto ai poveri, servite la carne cruda.
Vedi, senza l’aiuto della vostra civiltà non potrò mai arrivare a farne degli uomini.
Io ho bisogno della vostra civiltà: che intenzione ha l’Italia nei miei riguardi?”.
La risposta del missionario: “Cavour intuì, come sempre del resto, l’utilità di questo intervento, ma governare in parlamento fra partiti diversi non è facile.
Se dipendesse da lui la cosa sarebbe già avvenuta, ma la spedizione Antinori è già in viaggio per conoscere la situazione geografica del paese e chissà, da cosa può nascere cosa”.
Massaja, però, aggiunge in modo coerente alla sua fede: “Ti devo ringraziare di una cosa: tu hai visto poco fa quella folla di infelici, la mia vita è fra di loro, nessuna altra cosa ha importanza per me”.
Per quella folla Abuna Messias – che nel film, incarnando il puro spirito francescano di affidamento alla provvidenza divina, non cerca la difesa dei potenti perché, confessa allo stesso Menelik, toccandosi la croce che ha sul petto, “per difendermi mi basta questa” – spenderà davvero la sua vita e consumerà le sue forze, provate da interminabili viaggi: otto traversate del Mediterraneo, dodici del Mar Rosso, quattro pellegrinaggi in Terra Santa, quattro esili, innumerevoli prigionie, rischi di morte e malattie.
Il film di Alessandrini coglie qualche risvolto di questa vita avventurosa, lo fa con il minor peso di retorica possibile, anche se la recitazione degli attori italiani è piuttosto statica rispetto agli americani coevi.
E meno legata alle esigenze di veridicità: tutti, anche gli etiopi, sono italiani opportunamente truccati, tranne la bella principessa Alem, il capo indigeno Abd-el-Uad e il giovane schiavo Morka al quale, prima dell’ordinazione, Massaja insegnerà a non odiare il nemico, anche se è la cosa più difficile che bisogna imporsi per essere un bravo missionario.
Mario Ferrari, poi, nel ruolo dell’Abuna Attanasio, cerca di scolpire un mefistofelico avversario del Massaja che aizza il popolo con toni roboanti, molto simili a quelli che in Italia stavano infiammando le piazze.
Il vecchio e sapiente francescano nel film di Alessandrini sta in equilibrio tra esigenze missionarie e imposizioni politiche.
“Mi guardano, desidero capirli, entrare nella loro cultura, rispettare le loro origini, la loro storia.
Un missionario non può dimenticarlo” scrive di suo pugno a proposito dei popoli etiopi con i quali entra in contatto per portare a termine la sua missione evangelizzatrice.
Rifiutando la logica della contrapposizione e dell’imposizione, sensibile alle molteplici identità e culture africane, rispettoso dei costumi e degli usi che non deturpano la morale cattolica e difendono l’uomo nella sua totalità, cercando con tutti un dialogo, Massaja diventa così l’antieroe coloniale che i gerarchi d’allora mai avrebbero voluto assoldare e vedere raccontato in un film da loro ispirato, profeta di un mondo giusto, equo, libero, in pace.
Per quei tempi, quasi un’utopia.
(©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009) L’antieroe coloniale che il fascismo mal sopportava In occasione dei duecento anni dalla nascita del cardinale Guglielmo Massaja, il 10 novembre vengono presentati al Museo del cinema di Torino la copia restaurata dalla Cineteca Nazionale del film Abuna Messias di Goffredo Alessandrini (1939) e il nuovo documentario Guglielmo Massaja.
Un illustre conosciuto del regista Paolo Damosso, realizzato dalla Nova-t della Provincia dei frati cappuccini di Torino.

A single man

E’ notizia recente che  Barack Obama ha annunciato la fine della politica del “non chiedere, non dire”, che permetteva ai gay di arruolarsi nelle forze armate soltanto a patto di non dichiarare il proprio orientamento sessuale, come è di pochi giorni fa la manifestazione svoltasi a Roma per il giorno degli “Uguali” che fa riferimento all’articolo 3 della Costituzione che recita: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Purtroppo, i casi di razzismo contro gli omosessuali si verificano troppo spesso e neppure lo struggente film di Tom Ford “A single Man”( 66.
ma Mostra di Venezia) che ha meritato la Coppa Volpi all’elegante Colin Firth per la sua interpretazione di George, il protagonista, farà cambiare idea agli incalliti persecutori che sempre a Roma hanno picchiato a sangue due gay portando in giro uno striscione con questa scritta: Il Colosseo ai Gay? Con i leoni dentro (Cfr.La Stampa, 12 ottobre 2009 ed altri quotidiani nazionali).
Naturalmente si parla di diritti, non di differenze di genere che esistono e si vedono: una donna è donna e un uomo è un uomo e il matrimonio tra un uomo ed una donna non è paragonabile a quello tra due omosex, per le molte ragioni di ordine scientifico, sociali, religiose che qui è inutile elencare, perché ci interessa il sentimento universale: l’amore che può nascere e legare i cuori  di due persone senza troppo badare al genere.
E allora, diciamo che A single Man avrebbe meritato il Leone d’oro per la bellezza  di ogni inquadratura, la misurata e toccante recitazione degli interpreti, specie quella di Colin Firth cui, come abbiamo già scritto- è stata assegnata la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.
Questo film ha ricevuto così tanti applausi come nessun altro.
Ma la Giuria- prudente- ha ritenuto opportuno attribuire un premio, ma non il maggiore per non suscitare altri vespai, critiche, grida di “aiuto, adesso ratificano con il Leone d’oro il rapporto omosex”! E qui in Italia è pericolosissimo, per via di tanti scalmanati ignoranti che sono omofobi a tutto spiano, senza rendersi conto che –in questo modo diventano razzisti e vanno contro la Costituzione.
E non chiamiamo in causa il Vaticano che pure in questo campo avrebbe molto da farsi “perdonare” per la strenua difesa dei preti pedofili e così via.
Parlare di omosessualità è stato difficile sin dal tempo della Bibbia e non è diventato più facile discuterne nel nostro tempo(basti attenersi alla confusione creatisi in Parlamento per l’approvazione della legge contro l’omofobia).
A noi interessa- ora- presentare il film, da vedere assolutamente.
.La sua uscita dovrebbe essere il prossimo 22 gennaio 2010.
Il film – vincitore del Queer Lion 2009 e della Coppa Volpi a Colin Firth – sarà distribuito dall’Archibald Film di Vania Taxler( Cfr.: www.queerblog.it).
Il romanzo A single Man di Christopher Isherwood(cfr.: Wikipedia, l’enciclopedia libera).Vai a: Navigazione, cerca Christopher William Bradshaw-Isherwood (Wybersley Hall, 26 agosto 1904Santa Monica, 4 gennaio 1986) è stato uno scrittore inglese.
Era nato a Wybersley Hall, High Lane, nel nordovest dell’Inghilterra, figlio di proprietari terrieri.
Suo padre, ufficiale dell’esercito, era stato ucciso nella prima guerra mondiale.
A scuola incontrò Wystan Hugh Auden, che divenne inizialmente suo amante, e poi il suo amico più caro per tutto il resto della sua vita.
Studiò successivamente al Corpus Christi College di Cambridge, e alla University of Cambridge, dove incontrò Stephen Spender, che era alla Oxford University con Auden. Rifiutando le sue origini sociali e attratto dai ragazzi delle classi sociali più basse, Isherwood si trasferì a Berlino, capitale della giovane Repubblica di Weimar, attrattovi dalla sua meritata reputazione di libertà sessuale (e omosessuale).
Qui lavorò come insegnante privato mentre scriveva il romanzo Mr.
Norris se ne va
e una serie di racconti editi sotto il titolo Addio a Berlino, che avrebbero fornito l’ispirazione per la commedia I Am a Camera e al musical, che ne fu tratto, Cabaret.
Nel settembre 1931 il poeta William Plomer gli presentò lo scrittore Edward Morgan Forster; divennero intimi amici e Forster fece da mentore al giovane scrittore.
Auden e Isherwood viaggiarono prima in Cina nel 1938, poi emigrarono negli Usa nel 1939.
Isherwood si stabilì in California, dove si convertì all’Induismo.
Assieme a Swami Prabhavananda produsse diverse traduzioni scritturali induiste, saggi sui Vedānta, la biografia Ramakrishna and his Followers, e romanzi, opere teatrali e sceneggiature, tutte farcite di temi e personaggi del Vedānta, karma, reincarnazione e ricercaUpanishadica.
Arrivando a Hollywood nel 1939, egli incontrò Gerald Heard, il mistico-storico che fondò un suo proprio monastero a Trabuco Canyon che infine donò alla Vedānta Society.
Attraverso Heard, che fu il primo a scoprire Swami Prabhavananda e il Vedānta, Isherwood si unì ad uno straordinario gruppo di esploratori mistici che comprendeva Aldous Huxley, Bertrand Russell, Chris Wood, John Yale e J.
Krishnamurti
.
Tramite Huxley, Isherwood strinse amicizia con il compositore russo Igor Stravinsky.
Egli ottenne la cittadinanza statunitense nel 1946.
Nel 1964 pubblica il romanzo A single man (edito in Italia da Guanda con il titolo Un uomo solo), dedicandolo all’amico Gore Vidal.
Il romanzo rievoca la giornata qualsiasi di un anziano professore californiano, alle prese con se stesso, i suoi studenti, e l’entusiasmo per una notte passata assieme a un giovane universitario incontrato per caso durante la giornata.
Dal 1953 fino alla morte, Isherwood ha vissuto col suo compagno, il pittore e ritrattista Don Bachardy.
Bibliografia Norman Page, Auden and Isherwood: the Berlin years (2000) Peter Parker, “Isherwood: the biography” (2004) Dennis Altman, Omosessuale, oppressione e liberazione, Arcana, Roma 1974.
“La bellezza salverà il mondo”, scriveva Fyodor Dostoyevsky.
E il film di Tom Ford, “A Single Man”, dimostra la verità di questa affermazione.
Una pellicola attesa dato che uno dei creatori di moda più geniali e importanti del mondo ha diretto una storia tanto personale quanto universale.
Liberamente adattato dal toccante romanzo di Christopher Isherwood, “A Single Man” è una storia d’amore, segnata da un lutto e da un uomo che, nonostante abbia tutto nella vita, non trova più le ragioni per continuare.
Fino a quando, grazie ad una vecchia amicizia con una donna e ad un giovane ragazzo attratto da lui, capirà che le piccole cose sono importanti.
E che la bellezza che ci circonda ci può riconciliare anche con la fine.
La morte fa parte della vita, ed è l’unico aspetto che accomuna l’esistenza di ogni essere umano.
Ambientato a Los Angeles nel 1962 durante la crisi dei missili successiva all’invasione USA a Cuba, “A Single Man” è la storia di George Falconer, un professore inglese di 52 anni che cerca di dare un senso alla propria vita dopo la morte del suo compagno Jim.
Egli indugia nel passato e non riesce a immaginarsi un futuro, ma una serie di eventi e di incontri lo porteranno a decidere se ci sia o no un significato nel vivere senza Jim.
George viene confortato da una cara amica, Charley, una bella donna di 48 anni a sua volta assalita da dubbi sul futuro.
Kenny, un giovane studente di George alla ricerca di una ragione che giustifichi la sua natura omosessuale, perseguita il professore identificandolo come anima gemella.
A Single Man Titolo originale:          A Single Man Nazione:         U.S.A.
Anno: 2009 Genere:           Drammatico Durata:            99′ Regia: Tom Ford Cast:    Colin Firth, Julianne Moore, Matthew Goode, Ginnifer Goodwin, Nicholas Hoult, Paulette Lamori, Lee Pace, Keri Lynn Pratt, Ryan Simpkins, Teddy Sears, Ridge Canipe Produzione:    Artina Films, Depth of Field, Fade to Black Productions Distribuzione: – Archibald Film di Vania Taxler, nel gennaio 2010 Data di uscita:            Venezia 2009 Nei cinema: gennaio 2010 Colin Firth, divenuto famoso grazie al film “Il Diario di Bridget Jones”, è nato il 10 Settembre 1960 a Grayshott, Hampshire, in Inghilterra.
I genitori sono entrambi insegnanti, i nonni, invece, erano missionari metodisti.
Colin ha una sorella, Kate, che insegna canto, ed un fratello Jonathan, anche lui attore, (“Luther”).
Dopo aver trascorso i primi cinque anni della sua vita in Nigeria torna in Inghilterra per frequentare le scuole a Winchester.
A causa degli impegni di lavoro del padre per un anno si trasferisce in America, a St.
Louis, nel Missouri, dove è soprannominato dai suoi compagni l’inglese.
Poi, quando torna in Inghilterra, i suoi amici inglesi lo chiamano lo yankee.
La sua passione per la recitazione nasce fin dalle elementari, quando interpreta Jack Frost in una recita di Natale.
All’età di 14 anni decide di diventare un attore, e si iscrive al Drama Centre a Chalk Farm, a Londra.
Qui viene notato il suo talento, ed è grazie alla sua interpretazione di Amleto nella rappresentazione scolastica di fine anno, che decolla la sua carriera.
Notato nello spettacolo, infatti, Colin viene chiamato per interpretare il ruolo del protagonista, Guy Bennett, nel dramma teatrale “Another Country”, rappresentato al West End.
Curiosamente il suo debutto cinematografico, nel 1984, è nella trasposizione cinematografica della stessa opera, dove, questa volta, veste i panni di Tommy Judd, l’amico del protagonista, che invece è interpretato da Rupert Everett.
Nonostante la confidenza trasmessa sul grande schermo, tra i due non c’è molta simpatia, anche se, a detta dello stesso Colin, pare che con gli anni, i due siano riusciti ad appianare le divergenze, tanto da riuscire a divertirsi quando si ritrovano sul set di “L’importanza di chiamarsi Ernesto” nel 2002.
Durante le riprese del film “Valmont” di Milos Forman, 1989, incontra Meg Tilly, e dal loro amore, nel 1990, nasce il loro primo figlio, William.
Dopo cinque anni, però, la loro relazione finisce.
I rapporti rimangono comunque amichevoli anche per via del piccolo Will, che attualmente vive negli Stati Uniti con la mamma.
Il 21 Giugno del 1997 sposa Livia Giuggioli, produttrice italiana, conosciuta durante le riprese di “Nostromo”.
La coppia ha due figli, Luca e Matteo, nati rispettivamente nel 2001 e 2003.
La famigliola passa il suo tempo tra Londra e Roma, dove i coniugi Firth hanno comprato una casa.
L’attore ama molto l’Italia e durante un’intervista ha espresso il desiderio di recitare sotto la regia di Gabriele Muccino.
Filmografia  (2009) A Single Man – George (2009) Dorian Gray – Lord Henry Wotton (2009) A Christmas Carol – Fred (voce) (2008) Genova – Joe (2008) Un matrimonio all’inglese – Jim Whittaker (2007) St.
Trinian’s
– Geoffrey Thwaites (2008) Un marito di troppo – Richard Bratton (2008) Mamma Mia! – Harry Bright (2007) Quando tutto cambia – Frank (2007) And When Did You Last See Your Father? – Blake Morrison (2007) L’ultima legione – Aurelio (2005) Nanny McPhee (Tata Matilda) – Mr.
Brown (2005) False verità – Where the truth lies – Vince Collins (2004) Che pasticcio, Bridget Jones – Mark Darcy…… 

Lebanon

Il regista israeliano ha  descritto con assoluta precisione l’orrore della guerra, raffigurando in modo sconvolgente la paura., facendo emergere sentimenti, angosce, amarezze, tensioni di quattro  giovani attori in uno spazio ristrettissimo, quello di un carro armato Lebanon è un’opera estremamente dolorosa, densa di una devastante inquietudine, come raramente si può vedere nel cinema contemporaneo.
Le vicende narrate da Maoz evocano palesemente le disavventure militari vissute dallo stesso regista durante la prima Guerra del Libano nel 1982.
Egli era un carrista israeliano e a 20 anni si trovò al centro di una battaglia sanguinosa durante la quale gli capitò anche di uccidere.
Questo evento ha segnato la sua vita e solo dopo due decenni dai fatti ha trovato la forza di scrivere la sceneggiatura e di girare il film.
Ma a parte le questioni contenutistiche, l’elemento che fornisce grande forza a questo lungometraggio è il concept registico/espressivo che si trova alla base della sua realizzazione.
Maoz ha infatti ricostruito in studio l’abitacolo di un carro armato.
I quattro interpreti si muovo sempre in questo spazio microscopico, buio e sporco.
Olio che cola dalle pareti, acqua per terra, sangue sulle mani e sugli strumenti, rumori fortissimi, vibrazioni terribili, fumo.
Questo luogo minuscolo comprime e fa scontrare le psicologie dei personaggi, i quali esplodono in crisi di rabbia, di pianto, di angoscia.
L’unico contatto con l’esterno è rappresentato da un “mirino” che permette di rimanere in relazione con la realtà, una realtà fatta di devastazione e morte.
Il regista si concentra soprattutto sull’uso del primo e del primissimo piano e insiste per gran parte del film nell’utilizzazione di, un occhio impazzito che scruta il mondo alla ricerca della salvezza.
L’autore elabora una struttura visiva claustrofobica, opprimente e tragicamente intollerabile.
La macchina da presa isola gli occhi spiritati dei soldati israeliani, i quali non vengono dipinti come mostri cattivi ma come ragazzi giovanissimi impauriti, gettati in maniera irresponsabile nella mischia agghiacciante della guerra.
Lebanon è allo stesso tempo un film catartico, una seduta di psicoanalisi pubblica/privata e un’opera di denuncia.
Il regista  si è liberato evidentemente dai suoi personali ed opprimenti ricordi  e ha raccontato al mondo le atrocità della guerra da un punto di vista che pochi erano stati in grado di mostrare in precedenza.
Il film non risparmia accuse al sistema militare israeliano, mostrando addirittura l’uso di armi illegali.
C’è da dire  che tra gli enti promotori del film c’è l’Israel Film Fund, cioè  l’istituzione che gestisce i soldi pubblici destinati al sostegno del cinema israeliano che non ha rifiutato i fondi  ad un’opera che non mette di certo in buona luce Israele e questo è una seria lezione di democrazia impartita a quei paesi occidentali/europei che spesso sentenziano sul conflitto israelo/palestinese senza conoscere nulla né della società israeliana né di quella palestinese.
        DOMANDE & RISPOSTE Affiancato dal produttore David Silber e dall’attore protagonista Michael Moshonov, il regista Maoz Shmulik  ha presentato alla stampa “Lebanon”, suo primo film di finzione, realizzato a nove anni dal documentario “Total eclipse”.
Questo film è nato dal suo ricordo del primo giorno di guerra in Libano?  Mi sono reso conto del fatto che, per raccontare una storia attraverso una struttura cinematografica classica, occorreva dare al pubblico una sensazione di sperimentazione, in modo che potesse capire nella maniera migliore cosa intendevo dire.
  Che fase sta attraversando oggi il cinema israeliano? Israele è un paese democratico e non crea alcun problema ai suoi cineasti.
Quindi, come un po’ in tutti i paesi, dal punto di vista finanziario è difficile fare un film, ma non dal punto di vista della censura.
  Come mai ha impiegato così tanto tempo per realizzare il film? Perché avevo bisogno di prendere le distanze dagli eventi reali, di fare il film come regista, non come qualcuno che sapeva.
  La visione dei soldati israeliani riportata dal film è quella di persone che sembrano pensare tutt’altro che alla guerra… Ho posto gli attori in un determinato stato mentale, in modo da rendere la realtà della situazione raccontata.
Gli attori si sono preparati moltissimo, in modo che formassero un insieme con i  cameraman e la  troupe.
Lei ha un ricordo spaventoso di quel conflitto, vero? Ho combattuto in quella guerra, ed ho ancora  ricordi sensoriali, come l’odore di carne bruciata dalle bombe al fosforo, e dell’anima, come quello del 6 giugno alle 6.15 del mattino, quando allora 20enne uccisi un uomo, per la prima volta nella mia vita.
 La realtà è che in ogni conflitto devi sopravvivere di fronte alla tua stessa morte: la tua anima è lacerata dal dissidio tra l’istinto di sopravvivenza e la morale.
Lei ha girato Lebanon dopo vent’anni, perché? Per  prendere la giusta distanza dagli eventi.
La sequenza delle scene, l’abbinamento tra immagini iperrealistiche e scorci surreali sono stati frutto di un processo lungo e calcolato, per portare il pubblico ad un viaggio consapevole.
Chi venderà il suo film? La francese Celluloid Dreams venderà il film sul mercato internazionale.
L’inglese Metrodome in partenariato con Rialto Distribution ha già acquisito i diritti del film per il Regno Unito, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda ed intende distribuirlo nella primavera 2010.
E per finire, desideriamo informare che fra le molte  storie di confine che il cinema odierno ci narra, quella del film  “Le cerf-volant” (L’aquilone) della libanese Randa Chahal Sabbag, ebbe Il Leone d’argento per il Gran Premio della Giuria a Venezia 60.
  Alla regista chiedemmo: Crede nel  processo di pace in Medio Oriente? Mi spiace dirlo, ma penso che non ci sia nessun processo di pace.
Gli animi di tutti sono sempre inquinati da un modo di comportarsi ideologico che vuole la guerra, la violenza, la separazione.
Israele rifiuta  uno stato ai palestinesi e questi rispondono con i kamikaze.
Ma la cosa più preoccupante è che in questo momento tutto il mondo è posseduto da un’ideologia guerresca.
Mai parole furono più profetiche.
Trama: Prima guerra del Libano, giugno 1982.
Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile bombardata dall’aviazione israeliana.
Ma i militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale.
Quando scende la notte i soldati feriti restano rinchiusi nel centro della città, senza poter comunicare con il comando centrale e circondati dalle truppe d’assalto siriane che avanzano da ogni lato.
Gli eroi del film sono una squadra di carristi – Shmulik, l’artigliere, Assi, il comandante, Herzl, l’addetto al caricamento dei fucili, e Yigal, l’autista – quattro ragazzi di vent’anni che azionano una macchina assassina.
Non sono coraggiosi eroi di guerra ansiosi di combattere e di sacrificarsi.
Il carro armato è una macchina di morte e di distruzione la cui natura corazzata protegge chi è all’interno dagli attacchi dal mondo esterno.
Questo mezzo potente è però dotato di un occhio non indifferente che scruta la realtà che lo circonda, uno sguardo che osserva, ma non a senso unico.
La guerra, con la sua crudeltà, scruta nel profondo dell’animo dei carristi, offrendo loro scenari di morte, violenza e desolazione.
Spesso le vittime del carro armato sembrano osservare direttamente i loro carnefici.
E’ un illusione naturalmente, eppure la forza di penetrazione di quello sguardo così lontano e così apparentemente innocuo ha effetti devastanti in cui si rifugia nella falsa protezione di quel ventre di metallo.
Grazie a un montaggio sonoro di rara potenza, che da allo spettatore la sensazione di trovarsi davvero nel carro armato, nell’assordante sferragliare di meccanismi, fuoco e vapore, la pellicola di Maoz diventa, nella sua claustrofobia soffocante, una sorta di esperienza totale.
Lebanon è anche un impressionante spaccato dei risvolti psicologici che caratterizzano la violenza imperante da decenni in medio oriente.
Un film duro, nelle immagini, nei dialoghi e nei suoni, tecnicamente inesorabile ed estremamente scorrevole, pur nel suo orrore.
Il film Lebanon Titolo originale:          Lebanon Nazione:Israele Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 92′ Regia: Maoz Shmulik Cast:    Oshri Cohen, Zohar Shtrauss, Michael Moshonov, Itay Tiran, Yoav Donat, Reymond Amsalem, Dudu Tassa Sceneggiatura: Samuel Maoz  Fotografia: Giora Bejach  Montaggio: Arik Lahav-Leibovich  Scenografia: Ariel Roshko / Musica: Nicolas Becker Produzione: United King Films, Metro Comunications, Paralite Films, Ariel Films, Arsam International / Israele, 2009  Durata 93 minuti Data di uscita:            Venezia 2009 Lebanon, il film di Samuel Maoz ,è Leone d’Oro della 66a Mostra del Cinema di Venezia Il film di Maoz è ambientato, appunto, nella prima guerra del Libano, nel giugno 1982.
Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile bombardata dall’aviazione israeliana ma i militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale.
Gli eroi sono quattro ragazzi di vent’anni ansiosi di combattere e sacrificarsi.
E’ una storia che il regista ha vissuto anche nella realtà: arruolato ventenne, Maoz fu tra i primi soldati israeliani a varcare la frontiera con il Libano nel giugno del 1982.
Coinvolto nei primi scontri, ferito superficialmente a una gamba, il futuro regista avrebbe rimosso quell’episodio fino a quando, due anni fa, non si sarebbe risolto ad affrontare di petto la sua memoria personale e quella collettiva della sua generazione.
Maoz, ritirando il premio, ha detto di voler dedicare la sua vittoria «alle migliaia di persone nel mondo che tornano dalla guerra come me sani e salvi», persone che «si sposano, hanno figli, ma dentro i ricordi rimangono stampati nel cuore».

Women Without Men

Women Without Men Titolo originale: Zanan-e Bedun-e Mardan Nazione: Germania Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 95′ Regia: Shirin Neshat Sito ufficiale: www.bimfilm.com Cast: Pegah Feridon, Shabnam Tolouei, Orsi Tóth, Arita Shahrzad Produzione: Essential Filmproduktion Distribuzione: BimDistribuzione Data di uscita: Venezia 2009 DOMANDE & RISPOSTE “Women Without a Men”, la parola a Shirin Neshat L’artista iraniana esprime tutta la necessità di libertà e democrazia, tuttora assenti nel suo Paese, attraverso il suo primo film, presentato in concorso a Venezia 66.
Come è riuscita ad adattare un romanzo così complesso e delicato come “Women Without a Men”, scritto da Shahrnush Parsipur? Stiamo parlando di una figura di spicco della letteratura iraniana, che è stata costretta ad anni di carcere per le sue idee e che attualmente vive in esilio.
Appena uscito, il suo libro è stato bandito, e per me è un grande privilegio aver potuto rapportarmi alle sue pagine.
Leggo i suoi libri da quando sono piccola e ne sono sempre rimasta affascinata anche per il suo singolare stile visionario, che ho sempre pensato potesse adattarsi ad immagini di grande impatto.
Libertà e democrazia sono gli elementi portanti di una storia che si basa sulla forza delle tre protagoniste… Sono i temi centrali del film, ma anche della mia stessa vita.
Purtroppo si tratta di elementi assenti nella società iraniana di oggi.
Ne ho voluto parlare, a prescindere dalla contestualizzazione storica, che però dimostra come, in tanti anni, non si sia fatto alcun passo avanti da questo punto di vista.
I tre personaggi femminili del film provengono da classi sociali completamente diverse, ma sono tutte unite dagli stessi ideali di libertà e democrazia, appunto.
Anzi, la violenza sulle donne che lei racconta è estremamente attuale… Purtroppo, sì.
Sembra incredibile quanti elementi in comune ci siano tra le manifestazioni di protesta e gli scontri che racconto nel film e quelle avvenute pochi mesi fa nel nostro Paese.
La gente è cambiata in questi ultimi cinquant’anni, così come le ideologie, ma la lotta No.
Io ho voluto dare un chiaro messaggio: nessuno si deve arrendere anche se la vittoria sembra lontana, perché prima o poi arriverà.
Perché ha voluto a lavorare con lei il compositore musicale Ryuichi Sakamoto? Ho incontrato il maestro Sakamoto a New York e gli ho chiesto di lavorare alla partitura musicale del mio film perché volevo che gli conferisse un respiro internazionale come aveva già fatto in passato per grandi autori come Bertolucci.
Ero convinta che l’incontro della sua cultura con quella iraniana avrebbe dato dei risultati sorprendenti.
Così è stato.
A quale Cinema fa riferimento la sua espressione artistica? Ho amato molto il film “Persepolis” e la regista è una mia amica anche se il suo approccio autobiografico è differente rispetto al mio.
Ognuna delle mie tre protagoniste porta con sé una parte di me e dei miei dilemmi, come accade anche nel romanzo dove i tre personaggi principali sono il frutto dei desideri della signora Parsipur.
Perché, da artista affermata in un altro campo, ha sentito la necessità di fare Cinema? Per mettermi alla prova e verificare se le mie capacità espressive hanno valore anche in un campo differente.
Inoltre, il Cinema mi concede molte più potenzialità espressive di qualsiasi altra arte visiva, perché è la più completa.
».
La mezzaluna di miele, il sigheh.
L’Iran naviga tra crisi nucleare e minacce di sanzioni economiche, crisi interne e internazionali.
Eppure sulle prime pagine dei giornali di recente ha tenuto banco l’hojatoleslam Mostafa Pour Mohammadi, ministro dell’interno, quando ha dichiarato che il matrimonio temporaneo è la miglior soluzione per ridurre i problemi sociali.
«L’innalzamento dell’età del matrimonio ha creato numerosi problemi nella nostra società», ha spiegato il ministro durante un forum sul hejab (il copricapo femminile prescritto dall’islam) a Qom, la città delle maggiori scuole teologiche sciite dell’Iran.
«Può l’Islam restare indifferente verso la passione erotica che dio ha concesso a un ragazzo di 15 anni? Non si può ignorare le esigenze sessuali dei giovani.
Il matrimonio temporaneo è la soluzione».
Non è difficile comprendere perché il ministro si rivolga ai giovani: il 60% dei 70 milioni di iraniani ha meno di 30 anni.
Anche se fa un curioso effetto sentire parole simili, proprio mentre è in corso l’operazione di polizia più severa da anni contro le ragazze che si mostrano in pubblico con abiti «non-islamici», o i ragazzi vestiti in modo «disordinato»…
Il «matrimonio temporaneo» (in farsi sigheh) è una pratica propria dell’islam sciita duodecimano, benché non sia contemplata dal Corano (che anzi sembra escluderlo, ad esempio dove condanna il concubinaggio).
E’ un contratto di matrimonio di cui i contraenti definiscono la durata («da un minuto a 99 anni»).
Oggi gran parte dei saggi (mufti) sunniti lo vieta, mentre il clero sciita iraniano lo considera legittimo; afferma che è stato praticato sotto il profeta Maometto prima di essere vietato da Omar, il secondo califfo.
Alcuni citano Moussa Kazem, settimo Imam degli sciiti, che autorizzava il matrimonio temporaneo per celibi o uomini sposati lontani dalle loro spose…
Certo è che il matrimonio temporaneo era praticato in Iran anche prima della Rivoluzione islamica e oggi è previsto dal codice civile: un uomo ha diritto di stipulare fino a quattro matrimoni permanenti simultanei e un numero infinito di matrimoni temporanei successivi.
In un matrimonio temporaneo gli sposi devono accordarsi per non avere figli; se un figlio nasce però avrà tutti i diritti di un bambino nato da un matrimonio permanente, almeno in teoria.
Gli incontri sul web Non esistono statistiche precise sul matrimonio temporaneo oggi.
Non c’è dubbio però che sia diffuso, e l’uso di siti web per trovare partners lo testimonia.
Può capitare di trovare annunci come quello di Mina, 41 anni, rimasta vedova: si dichiara disponibile a un matrimonio temporaneo e invita l’interessato a prendere contatto via e-mail precisando le richieste, la dote (che secondo la sharia è un obbligo dello sposo) e la durata desiderata.
In un altro annuncio Mohsen, un ragazzo di diciotto anni, vorrebbe sperimentare un matrimonio temporaneo, vuole una moglie religiosa ed è pronto a offrirle in dote una moneta d’oro al mese.
Lo spazio virtuale è il luogo migliore per incontrare le offerte; i siti di matrimoni temporanei più frequentati hanno più di 1000 utenti al giorno.
Il discorso del ministro Pour Mohammadi ha scatenato polemiche (secondo il portavoce del governo però parlava «nella sua qualità di chierico ed esperto religioso, ma la questione non interessa l’esecutivo»).
Resta da chiedersi cosa significhi il matrimonio temporaneo nella società iraniana oggi, e perché un ministro trovi necessario incoraggiarlo.
Sembra che l’establishment iraniano veda nell’unione «a tempo determinato» un modo per rincorrere una società che cambia.
Il primo leader della repubblica islamica a parlarne pubblicamente in questi termini è stato Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, allora presidente della Repubblica, negli anni ’80: per lui era una soluzione sanzionata dalla sharia per proteggere la società dall’«inquinamento morale».
Riprendeva le argomentazioni dall’ayatollah Mottahari, uno dei «padri» ideologici della Rivoluzione islamica del ’79, defunto discepolo di Khomeini, il quale considerava il matrimonio temporaneo utile per evitare l’adulterio: «Oggi i giovani, maschi e femmine, raramente si sposano in giovane età.
Nei tempi moderni, il divario tra la pubertà naturale e la pubertà sociale non cessa di allargarsi.
Siccome l’istinto sessuale esiste, che fare? Proporre a ragazzi e ragazze di astenersi? Permettere loro di avere relazioni sessuali illegali? Il matrimonio temporaneo è una risposta».
E’ proprio il ragionamento del ministro Pour Mohammadi.
Assume tutt’altro aspetto, il matrimonio temporaneo, se si pensa che nel 1994 il governo aveva pensato di creare delle «Istituzioni di Castità», case dove contrarre un matrimonio temporaneo anche per poche ore: case chiuse con legittimazione islamica? Il progetto è stato archiviato tra le polemiche, ma era andato molto vicino a essere messo in pratica.
Forse mostrava il vero volto del matrimonio temporaneo.
Nella società reale infatti c’è un forte discriminazione culturale e di classe: in quelle medie e istruite il matrimonio temporaneo non esiste.
E’ praticato invece dai ceti più bassi, ultrareligiosi e tradizionalisti: da chi non può permettersi un matrimonio vero per ragioni economiche, ma non oserebbe una relazione libera per convinzioni religiose (o controllo sociale).
A volte poi maschera la prostituzione vera e propria: le formalità del contratto sono minime, tempo e compenso («dote») sono pattuiti in anticipo, una relazione commerciale con un’ipocrita copertura religiosa.
Una paradossale scappatoia Certo, negli anni cupi della rivoluzione, quando i Pasdaran arrestavano le coppie non sposate che si mostravano in pubblico, il matrimonio temporaneo è stato praticato anche da persone che non ci credono, per legittimare una relazione con un documento ufficiale che dà molti vantaggi pratici, tra cui poter viaggiare insieme: una coppia iraniana non può prendere una camera in nessun albergo in Iran senza un certificato di matrimonio.
Mercimonio, scappatoia, o valvola di sfogo degli impulsi sessuali giovanili con una copertura di legittimità: in ogni caso il matrimonio temporaneo suscita critiche molto dure tra i sostenitori dei diritti delle donne.
La giurista Shirin Ebadi, Nobel per la pace, si è sempre espressa in modo contrario.
La sociologa Fatemeh Sadeghi sottolinea quanto sia contraddittoria l’ideologia che sostiene il matrimonio part-time: «La struttura religiosa “santifica” la famiglia, ma poi predica il matrimonio temporaneo che in pratica indebolisce l’istituzione della famiglia».
Un religioso riformista, l’hojatoleslam Yousefi Ashkevari, fa notare che il matrimonio temporaneo «svaluta» la donna: in una società tradizionalista, dove la verginità della sposa è considerata indispensabile, una ragazza che sia stata sposata in via temporanea difficilmente troverà un matrimonio «vero».
E i giovani, obiettivo dichiarato del ministro Pour Mohammadi? Molti di loro respingono il matrimonio temporaneo, soluzione tradizionale che non risponde all’aspirazione più comune: frequentarsi liberamente e senza doversi sposare.
Ragazze e ragazzi non possono incontrarsi nei luoghi pubblici se non con molte limitazioni: e così il regime islamico li spinge (soprattutto nelle classi medie e occidentalizzate) a incontrarsi più spesso nella sfera privata, ormai l’unico spazio di libertà.
Paradossi di un sistema che impedisce ai giovani di frequentarsi e avere libere relazioni amicali e affettive: poi però offre loro un matrimonio part-time per sfogare le «esigenze sessuali».
Farian Sabati scrive : Può sembrare strano, ma a contrarre più facilmente il sigheh(il matrimonio temporaneo) sono sempre più spesso le giovani benestanti: non hanno voglia di impegnarsi in un’unione definitiva, coinvolgendo le famiglie.
E non considerano più la verginità fondamentale e in ogni caso hanno denaro a sufficienza per farsi ricucire l’imene in una clinica privata pagando l’equivalente di poche centinaia di euro.
Per loro il matrimonio temporaneo, contratto davanti a un mullah per avere un pezzo di carta da mostrare alla polizia religiosa, è un modo per andare a fare il fine settimana tranquilli.
Il sigheh è quindi diventato un business….
Il matrimonio in Iran L’età legale nella quale le ragazze possono sposarsi è di 9 anni lunari (8 anni e 9 mesi sul calendario solare).
La poligamia è legale: gli uomini possono avere fino a 4 mogli.
La Repubblica Islamica dell’Iran, un tempo conosciuta come Persia, è un paese mediorientale, situato nel sud-ovest asiatico.
La lingua ufficiale è il persiano (farsi) e la religione quella musulmana, di indirizzo sciita.
La forte religiosità è la caratteristica culturale che emerge maggiormente fra tutte e pervade tutti gli aspetti della vita quotidiana.
L’Iran è una teocrazia basata sulla teoria dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini di una dittatura religiosa chiamata velayat-e faqih, essa dà al Leader Supremo il ruolo di tutore della nazione, ed è stato stabilito che questo regime religioso debba prendere il posto di tutte le leggi religiose minori.
Secondo la concezione teocratica fondamentalista della natura della donna e dell’uomo e dei loro ruoli nella società, la donna è considerata fisicamente, intellettualmente e moralmente inferiore all’uomo.
E il risultato è che le donne non possono partecipare alla pari in nessun campo di azione sociale o politica.
L’età legale nella quale le ragazze possono sposarsi è di 9 anni lunari (8 anni e 9 mesi sul calendario solare).
La poligamia è legale: gli uomini possono avere fino a 4 mogli.
Gli uomini hanno il potere di prendere tutte le decisioni riguardanti la famiglia, inclusa la libertà di movimento delle donne e la custodia dei figli.
Nella maggior parte dei casi in Iran il matrimonio è combinato, infatti le madri scelgono le spose per i propri figli maschi: seguendo l’esempio della tradizione antica in alcuni casi si prediligeva cercare la futura sposa tra le bambine nate in famiglie di amici e parenti, in altri ci si recava nei bagni pubblici o alle feste.
Quando il ragazzo arriva all’età giusta per il matrimonio allora la famiglia del futuro sposo si reca a casa della fidanzata prescelta, portando con sé dolci e fiori.
In questa fase, detta “khastegari”, sono i padri dei futuri sposi che discutono sul matrimonio, se manca la figura maschile all’interno della famiglia, viene chiamato lo zio più anziano.
Questa stadio comprende anche il “mehrie” che è un regalo tradizionale che il ragazzo deve offrire alla donna e che comprende sempre il corano, il nabat (cristalli di zucchero che si sciolgono nel té) e le monete d’oro (o soldi, che vengono dati in caso di divorzio come risarcimento); e viene inoltre stabilita la data in cui avverrà il matrimonio.Due o tre giorni prima del vero e proprio fidanzamento viene celebrata attraverso una semplice festa a casa della sposa l’”hanabandun”, rituale durante il quale si balla, si mangia e gli sposi si prendono per le mani, le quali precedentemente sono state spalmate con la henna (un tipo di colorante spesso usato anche in India).
Questo gesto segna la definitiva e perenne unione dei due amanti.
Un altra usanza, però ormai desueta, che veniva svolta in questa festa è la depilazione del viso della futura sposa, che fino ad allora non era stata fatta.Successivamente si giunge al momento del fidanzamento ufficiale in cui vi è nuovamente una festa e i due ragazzi si scambiano gli anelli davanti ai parenti.
Nel frattempo la futura sposa porta la propria dote nella casa in cui andranno ad abitare dopo la celebrazione del matrimonio.
La fase del fidanzamento può durare un paio di mesi ma anche diversi anni.
In Iran il matrimonio si celebra davanti al mullah, il quale secondo la religione islamica è un notaio che fa parte del clero ed è il responsabile dei matrimoni e dei divorzi.
Si giunge quindi all’ “aghakonun”, che è il vero e proprio matrimonio: i ragazzi sono seduti di fronte ad uno specchio, con delle candele e il libro sacro islamico, il Corano.
La sposa, come nella tradizione occidentale, è vestita di bianco.
Durante questa fase il mullah recita per tre volte una preghiera, poi domanda una volta allo sposo se vuole prendere in moglie la ragazza, dopo il suo consenso chiede per tre volte alla donna, inserendo nella domanda tutte le condizioni stabilite precedentemente durante il “khastegari”, se acconsente al matrimonio.
Dopo l’assenso della sposa l’unione dei due ragazzi è ufficiale e consacrata.
La sera stessa si continua con festeggiamenti, in cui si mangia e soprattutto si balla.
Viene anche annunciato il giorno in cui i novelli sposi accoglieranno in casa gli amici e i parenti per ricevere i regali.
A Shahrnush Parsipur, autrice di: Women Without Men, è stato chiesto come vede l’attuale situazione delle donne Ha così risposto: “In Iran vi è l’assoluta mancanza di rispetto per i diritti umani.
Come negli anni Ottanta.
Oggi il popolo iraniano è ostaggio del governo”.
– Come vede la condizione attuale delle donne? «Le donne possono andare a scuola, prendere un dottorato di ricerca, ma poi magari devono subire il matrimonio combinato, un classico.
Conosco il caso di una donna vittima dei soprusi del marito, che veniva picchiata.
Ma quando si è rivolta ai giudici per ottenere il divorzio, le hanno risposto che questo accadeva perché non si comportava secondo i canoni.
Solo dopo molti anni, corrompendo i funzionari, è riuscita a ottenere il divorzio.
Se una ragazza viene violentata, la prima cosa che si dice è: qual è stato il tuo comportamento, cosa hai fatto per provocare l’uomo? Alla fine dunque la colpa è sempre della donna».
– Il suo libro è stato pubblicato in Iran? «Non ufficialmente, ma lo si trova nella cosiddetta borsa nera della letteratura ed esiste una versione in persiano Iran, 1953: sullo sfondo tumultuoso del colpo di stato, tramato dalla CIA, i destini di quattro donne convergono in un bellissimo giardino di orchidee dove troveranno indipendenza, conforto e amicizia.
La regista mostra un’incisiva riflessione di un momento cruciale della storia che ebbe come conseguenza la Rivoluzione islamica e che portò l’Iran a essere come oggi la conosciamo.
La regista iraniana Shirin Neshat, Leone d’argento per la migliore regia a Venezia ’66, sfilando sul red carpet, ha indossato la sciarpa verde del movimento a sostegno di Mussavi e ha dichiarato: ”Il mio Paese un giorno sarà libero.
Women Without Men, parla dei giorni cruciali del ’53 .
Vuole essere un messaggio per tutti gli iraniani che credono di perdere la speranza.
Non sentiamoci sconfitti, un giorno ce la faremo”.
Speriamo.
Intanto la violenza contro le donne non solo in Iran, dove sarà difficilissimo estirpare, ma anche in altre parti del mondo è diventata endemica.
Chi è Shirin Neshat Nata il 26 marzo 1957 a Qazvin, Iran, è un artista di arte visiva contemporanea, conosciuta soprattutto per il suo lavoro nei video, nella fotografia e nel cinema Vive attualmente tra il suo paese di origine e New York.
Attraverso il suo lavoro analizza le difficili condizioni sociali all’interno della cultura islamica,con particolare attenzione al ruolo della donna.
Il suo lavoro esplora il significato sociale, politico e psicologico dell’essere donna nelle società islamiche contemporanee.
Non ama le rappresentazioni stereotipate dell’ Islam, i suoi obiettivi artistici non sono esplicitamente polemici.
Piuttosto, il suo compito riconosce le forze intellettuali e religiose complesse che modellano l’identità delle donne musulmane nel mondo intero.
Come fotografa e video-artista, Shirin Neshat è famosa per i suoi ritratti di corpi di donne interamenti ricoperti da scritte in calligrafia persiana.
Inoltre ha diretto parecchi video, tra cui Anchorage (1996), proiettato su due pareti opposte: Shadow under the Web (1997), Turbulent (1998), Rapture (1999) e Soliloquy (1999) Nelle sue fotografie e nei suoi video ci mostra attraverso immagini piene di tensione dei corpi velati, dei martiri (uomini o donne), persone sottomesse, che ogni giorno devono fare i conti con la violenza ed il terrorismo.
Ha partecipato anche alla Biennale d’arte nel 1999, ricevendo un lusinghiero successo di critica.
Ora ha deciso fortissimamente, di esplorare il campo cinematografico.
E non si può dire che le sia andata male, visto il successo che ha riscosso il suo primo lungometraggio, così dolente e così simbolico.
Proprio come è l’Iran in questi tempi.
Non è da trascurare che la sua famiglia è benestante, segue uno stile di vita occidentale, il padre fisico e la madre casalinga hanno una ammirazione per lo Scia di Persia.
E’ cresciuta in un clima filo-occidentale ed educata in una scuola cattolica e poi a Los Angeles per completare gli studi.
Mentre è a Los Angeles avviene il colpo di stato in Iran e la situazione cambia radicalmente.
Si sposta a San Francisco e poi a New York dove lavora per un’organizzazione no profit.
Nel 1990 torna in Iran spinta anche dalla ricerca delle proprie origini, trova un paese completamente cambiato rispetto a quello che aveva lasciato.
Qui matura l’idea della serie di Women of Allah.
Tornando in Iran Shirin Neshat ha cercato di leggere profondamente dentro la cultura islamica e di andare oltre lo stereotipo della donna in secondo piano, per mostrare la forza, la personalità e il carattere delle donne.
Ecco come descrive il suo viaggio in Iran in un’intervista al TIME: Neshat: “Durante il regime dello Scia c’era un ambiente molto aperto.
C’era una specie di diluizione tra Occidente e Oriente – nel modo di vedere e nel modo di vivere.
Quando tornai ogni cosa sembrava cambiata.
Sembrava che ci fossero pochi colori.
Tutto era bianco o nero.
Tutte le donne indossavano il nero chador.
Fu uno shock immediato.
Il nome delle strade era cambiato dal vecchio nome persiano nel nuovo nome arabo islamico.
Questo slittamento dall’identità persiana verso una più islamica creò una sorta di crisi.
Penso che ora tutto ciò sia accompagnato da un grande senso di vuoto”.
Attualmente vive a New York e i suoi lavori recenti risentono della sofferenza per la separazione coatta dal suo paese di origine.
Nella stessa intervista, spiega chiaramente la sua situazione e il significato di Women of Allah.
I passaggi più interessanti sono: il contrasto tra il senso di indipendenza che sente in America e il senso di isolamento e la perdita di punti di riferimento: “Non posso chiamare casa nessun luogo”.
Il contrasto tra l’individualismo americano e l’appartenenza a una collettività.
Il suo lavoro rappresenta il desiderio di riconciliazione con il suo passato e la sua cultura.
Alla domanda sulla fascinazione dell’Islam in Occidente, risponde che guardare una cultura così diversa pone degli interrogativi e che la realtà non è quella che ci si immagina.
L’Islam è visto come una minaccia come lo era l’Unione Sovietica.
L’Islam non rientra nella mentalità razionale dell’Occidente.
La sua intenzione come artista è quella di cercare il dialogo e di sovvertire uno stereotipo.
La donna è sì vittima e sottomessa, ma anche forte e consapevole.
Le scritte sulle mani e sulla bocca sono il pensiero non detto di queste donne, che non possono parlare ma hanno un loro pensiero.
Alla domanda perché nelle sue fotografie le donne hanno le pistole, risponde perché non si può separare l’idea della religione dalla politica e dalla violenza.
In pratica cerca di rappresentare il paradosso del martirio.
Il martire è al confine tra l’amore per Dio, la fede e la devozione, e il crimine e la crudeltà dall’altro.
La storia dell’Islam è caratterizzata dall’ossessione della morte e dal rifiuto del mondo materiale così la morte è vista come premio.
Le ultime parole dell’intervista sono molto commoventi : “Mi piacciono le opere che mi tolgono il fiato o che mi fanno piangere quasi come un’esperienza mistico religiosa.
Sto creando una piccola esperienza per la gente in modo che la possa tenere con se non come una pesante liquidazione politica, ma come qualcosa che tocchi al massimo livello di emozione”( Neshat,TIME Aprile 2004, http://www.eruditiononline.com/04.04/shirin_neshat_interview.htm) Woman Without Men è un film intenso e dal carattere fortemente rivoluzionario.
Le immagini, nitide e piene di particolari, omaggiano l’arte pittorica, richiamano antiche iconografie, diventano simboliche.
Lo spettatore si ritrova davanti a un vero e proprio affresco eseguito con tanta luce e tante ombre.
Il tutto, inserito nel contesto storico del 1953, anno in cui il golpe ordito da Stati Uniti e Gran Bretagna riuscì a deporre il governo democratico di Mossadegh per restaurare il potere dello Scià.
Le donne ne sono protagoniste:c’è Fakhri, moglie insoddisfatta che riesce a scappare e a comprare una tenuta in cui rifugiarsi.
Poi Munis, interessata alle vicende politiche.
E infine Faezeh, incastrata dal rapporto col fratello.
Le tre donne si conosceranno e finiranno per imparare l’amarezza della vita.
Film storico, diviso tra sogno e realtà , con le musiche di Ryuichi Sakamoto si vivono i conflitti interiori e le ansie scatenate da una voglia di libertà che nessun governo può mettere a tacere.
Incredibili, poi, i momenti in cui assistiamo ai soprusi di una società maschilista e chiusa.
Ottusa e cieca.
Ossessivamente rinchiusa in ambiti culturali soffocanti.
Le donne, in questo universo stretto, devono nascondersi, sono obbligate ad abbassare lo sguardo, sono impossibilitate dal muoversi.
Le uniche ancore di salvezza sono la cultura, tenuta segreta come un peccato, e la propria immaginazione.
Un film che fa riflettere e sembra mostri l’attuale situazione di tante donne musulmane, l’ultima – in ordine di tempo- quella povera ragazza diciottenne, Sanaa, trucidata dal padre perché osteggiava il suo legame con un cattolico.
E poi parlataci dell’integrazione!

Baarìa

DOMANDE & RISPOSTE   Giuseppe Tornatore non ama particolarmente il termine kolossal per la sua nuova pellicola(ma lo è), Baarìa che ha aperto la 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il  film è imponente e si percepisce dietro ogni scena l’immenso lavoro, lo sforzo duro che c’è stato nel realizzarlo.
Si ride molto, ci si commuove, dramma e comicità si alternano.
Perché come dice il regista: “Questo è un film dove ho messo tutto quello che ho imparato crescendo a Bagheria.
E uno degli insegnamenti principali è stato proprio quello che si può ridere di tutto nella vita”.
  Qui a Venezia abbiamo avuto la fortuna di vederlo in stretto dialetto baarìota, sottotitolato in italiano, quando il film uscirà nelle sale il 25 settembre distribuito da Medusa, avrà una doppia versione: quella dialettale e quella doppiata in un italiano con inflessioni sicule.
Baarìa che ha un prologo ambientato negli anni ’10 per terminare con un epilogo ai giorni nostri è incentrato negli anni dai ’30 agli ’80.
Impossibile raccontare la trama se non che la storia gira intorno a Peppino (Francesco Scianna, un attore bravissimo) e Mannina (Margareth Madè, splendida modella al suo esordio nel cinema), del loro grande amore che dura tutta la vita e di tutto un paese che gli ruota intorno.
“Se vuoi raccontare il mondo, racconta il tuo paese”, affermava Stendhal e questo ha fatto Tornatore.
Cosa c’è nel film, Tornatore? C’è la passione per la politica intesa come strumento per migliorare la propria esistenza, gli ideali, la lotta alla mafia, alla miseria, il duro lavoro, l’amore per il cinema, per il teatro, la magia, la fede, il comunismo, le illusioni, le delusioni.Tre anni ci sono voluti per realizzare Baarìa –quindi tutte le mie intenzioni le avete viste nel film, ci ho messo l’anima.
E’ stato il mio lavoro più duro e difficile ma ne sono fiero”.( 25 milioni di euro di budget, e 500 copie in arrivo.
La Medusa di Berliusconi si è “sprecata” alla grande).
Tornatore nel film Peppino alla fine dice “Vogliamo abbracciare il mondo ma abbiamo le braccia troppo corte per farlo”.
Si riferisce a qualcosa in particolare o è un suo modo di vedere la vita? E’ una frase che amo moltissimo perché solo una persona onesta la può dire.
Perché è ammettere i propri limiti, è quello che vorremmo fare ma che forse non siamo riusciti a fare.
E’ la consapevolezza anche della nostra superbia.
Ha una marea di significati, però positivi, non è una frase su una sconfitta.
Cosa ha significato per lei raccontare il microcosmo di Bagheria che diventa metafora del mondo? Tutti quelli che vivono in provincia vedono il loro paese come il centro del mondo.
E io penso che in parte sia giusto e vero perché un mondo ridotto ai minimi termini ti aiuta meglio a capire le cose, le rende più chiare.
I sogni e il vederli svanire, il bene e il male, le sorprese che ti riserva continuamente la vita… tutto si può raccontare attraverso le esistenze delle persone cresciute in piccolo paesello della Sicilia.
Nel film ci sono molte scene drammatiche, dovute soprattutto alla povertà, allo sfruttamento, alla violenza e alla durezza della vita ma si ride anche tanto… Fin dall’inizio, dalla stesura della sceneggiatura ho sempre pensato che l’ironia che a volte sfocia proprio nella comicità dovesse essere mischiata al dramma.
Un tempo i produttori dicevano:-Se vuoi che un film riesca bene devi sapere fare ridere e piangere-.
Ora, io non ho voluto applicare alla lettera questa massima ma l’ho trovata da sempre adatta alla storia che volevo raccontare.
Lo stile è quello, la filosofia è quella: per riuscire a superare, a sopravvivere alle ingiustizie e alla durezza dell’esistenza occorre essere capaci di riderci sopra.
Altrimenti è finita.
Peppino è un personaggio umile, di estrazione povera ma ha una eleganza nel vestire e nel portamento che lo identifica e lo distingue dagli altri.
E’ il simbolo della sua dignità come uomo? Assolutamente sì.
Per una persona con pochi mezzi, povera, la dignità arriva anche attraverso la sua eleganza, il suo amor proprio.
Peppino è una figura bellissima.
Un comunista che crede nella politica e nei suoi ideali, che viene deluso da questi, strapazzato dalla vita ma che continuerà come suo padre e il padre di suo padre a comportarsi da persona onesta.
Onestà nell’amore e in quello in cui si crede.
Ecco sotto questo aspetto il film è molto nostalgico perché oggigiorno è difficile trovare persone così limpide e la politica non rappresenta più un ideale, un modo per cambiare la propria vita.
E’ vista in tutt’altro modo e non c’è bisogno che ve lo spieghi io.
Alcune ore fa il  Presidente Silvio Berlusconi  ha definito il suo film un capolavoro.
Sottolineando il fatto che gli è piaciuto molto il momento in cui questo comunista va nell’allora Unione Sovietica e ne torna disgustato… Come commenta tutto ciò? Non sapevo che Berlusconi fosse anche un critico cinematografico… scherzi a parte, non ho letto queste dichiarazioni anche se mi sono state riportate.
Non nego che ogni volta che vengono fatti degli apprezzamenti al mio lavoro ne sono lusingato, quindi anche in questo caso.
Il film non è la storia di un comunista che va in URSS e torna deluso è molto di più, e tutto è molto più complicato di una lettura del genere.
Detto questo ho anche da ridire sul fatto che alcuni giornali abbiano insinuato che Berlusconi ha parlato bene del film perché è il mio produttore.
Non l’ho mai visto, mai incontrato in vita mia, quindi se è il produttore del film è un produttore davvero anomalo.
A cominciare dal fatto che raramente, davvero raramente i produttori parlano bene del film che hanno prodotto.(Ahi, ahi, Peppuccio, guidato da un ufficio stampa che è cresciuto sugli scandali cinematografici , non è che possiamo crederti molto!!!).
 Chi è  Regista famoso nel mondo, si è caratterizzato per il suo impegno civile e per alcune pellicole assai poetiche che hanno anche avuto notevole successo di pubblico.
Nato nel 1956 a Bagheria, un paesello nei pressi di Palermo, Tornatore si è sempre dimostrato attratto dalla recitazione e dalla regia.
All’età di soli sedici anni, cura la messa in scena, a teatro, di opere di giganti come Pirandello e De Filippo.
Si accosta invece al cinema, diversi anni dopo, attraverso alcune esperienze nell’ambito della produzione documentaristica e televisiva.
In questi campo ha esordito con opere assai significative.
Il suo documentario “Le minoranze etniche in Sicilia”, fra l’altro, ha vinto un premio al Festival di Salerno, mentre per la Rai ha realizzato una produzione importante come “Diario di Guttuso”.
A lui si devono inoltre, sempre per la Rai, programmi come “Ritratto di un rapinatore – Incontro con Francesco Rosi” o esplorazioni impegnate delle diverse realtà narrative italiane come “Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia”.
Nel 1984 collabora con Giuseppe Ferrara nella realizzazione di “Cento giorni a Palermo”, assumendosi anche i costi e responsabilità della produzione.
Infatti è presidente della cooperativa che produce il film nonché co- sceneggiatore e regista della seconda unità.
Due anni dopo debutta con  “Il camorrista”, in cui viene tratteggiata la losca figura di un della malavita napoletana (liberamente ispirata alla vita di Cutolo).
Il successo, sia di pubblico che di critica, è incoraggiante.
Il film si aggiudica oltretutto il Nastro d’Argento per la categoria regista esordiente.
Sulla sua strada capita Franco Cristaldi, il famoso produttore, che decide di affidargli la regia di un film a sua scelta.
Nasce in questo modo “Nuovo cinema Paradiso”, un clamoroso successo che proietterà Tornatore nello star system internazionale, tanto che gli verrà attribuito un premio a Cannes e l’Oscar per il miglior film straniero.
Inoltre, diventa il film estero più visto sul mercato americano degli ultimi anni.
Nel 1990 è quindi la volta di un’altro commovente lungometraggio quel “Stanno tutti bene” (viaggio di un padre siciliano alla volta dei suoi figli sparsi per la penisola), interpretato da un Mastroianni in una delle sue ultime interpretazioni.
L’anno successivo, invece, prende parte al film collettivo “La domenica specialmente”, per il quale gira l’episodio “Il cane blu”.
Del 1995 è “L’uomo delle stelle”, forse il film che maggiormente è stato apprezzato tra i suoi lavori.
Sergio Castellitto interpreta un singolare “ladro di sogni” mentre il film vince il David di Donatello per la regia ed il Nastro d’Argento per la stessa categoria.
Dopo questi successi, è la volta di una altro titolo da botteghino.
“La leggenda del pianista sull’oceano”.
Il protagonista è l’attore americano Tim Roth mentre come sempre Ennio Morricone compone delle bellissime musiche per la colonna sonora.
Una produzione che sfiora la dimensione del kolossal….
Anche questo titolo fa incetta di premi vincendo il Ciak d’Oro per la regia, il David di Donatello per la regia e due Nastri d’Argento uno per la regia ed uno per la sceneggiatura.
Esattamente dell’anno 2000 è invece la sua opera più recente “Maléna”, una coproduzione italo-americana con Monica Bellucci protagonista.
Nel 2000 ha anche prodotto un film del regista Roberto Andò dal titolo “Il manoscritto del principe”.
Filmografia essenziale: Camorrista, Il (1986) Nuovo cinema Paradiso (1987) Stanno tutti bene (1990) Domenica specialmente, La (1991) Pura formalità, Una (1994) Uomo delle stelle, L’ (1995) Leggenda del pianista sull’oceano, La (1998) Malèna (2000) La sconosciuta (2006)   Aforismi di Giuseppe Tornatore «I film che facciamo risentono del nostro percorso di formazione.» «Oggi deleghiamo tutto agli altri, anche la gestione degli affetti.» «Tra regista e attore protagonista, quando si cerca di dare il massimo, sono normali i momenti di confronto.
Questo nel gran cortile della comunicazione, della stampa, viene talvolta ingigantito.
Così nasce la leggenda dei rapporti difficili.» Una storia, divertente e malinconica, di grandi passioni e travolgenti utopie.
Una leggenda affollata di eroi…
Una famiglia siciliana raccontata attraverso tre generazioni: da Cicco al figlio Peppino al nipote Pietro…
Sfiorando le vicende private di questi personaggi e dei loro familiari, il film evoca gli amori, i sogni, le delusioni di un’intera comunità vissuta tra gli anni trenta e gli anni ottanta del secolo scorso nella provincia di Palermo.
Negli anni del fascismo Cicco è un modesto pecoraio che trova, però, il tempo di dedicarsi al proprio mito: i libri, i poemi cavallereschi, i grandi romanzi popolari.
Nelle stagioni della fame e della seconda guerra mondiale, suo figlio Peppino s’imbatte nell’ingiustizia e scopre la passione per la politica.
E poi… Il film “Baarìa” del  regista Giuseppe Tornatore è il nome siciliano di Bagheria, cittadina della provincia di Palermo, ha subito diviso la critica così come il pubblico per il tipo di struttura narrativa in cui la linea del tempo sembra improvvisamente piegarsi per cui il presente e il futuro si confondono fra loro attraverso la dimensione onirica e fantastica.
Ecco che ciò che era presente diviene futuro e il futuro diventa passato, un passato ricco di emozioni, sentimenti, sensazioni e, soprattutto, cambiamenti sociali.
Grazie ad un budget piuttosto elevato e alla possibilità di disporre a piacimento di circa 150 minuti il cineasta riesce a dar vita, anima e respiro ad un’epopea italiana in cui mescola immagini di fantasia con quelle di repertorio e autobiografiche che rendono la pellicola suggestiva e realistica.
“Baarìa” è come l’enciclopedia della storia della Sicilia e dell’Italia e, quindi, dello stesso autore che riversa nel film tutto l’amore per la sua terra natia, assolata, calda, spazzata dal vento i cui abitanti sono ancora oggi molto legati alla tradizione.
E’ un piccolo mondo fatto di speranze, sogni, disillusioni, ideali, è la vita stessa con la sua bellezza e la sua bruttura rappresentata dal regista con ridondanza ed arte.
Quello che colpisce fin da subito è la tecnica del cineasta che mostra la sua abilità e capacità di colpire lo spettatore/trice e di accompagnarlo/a attraverso la storia d’Italia utilizzando come punto di riferimento una famiglia di Bagheria.
La ricostruzione storica è perfetta nonostante le difficoltà legate al dover rappresentare un periodo così complesso costellato di grandi eventi e cambiamenti.
La cittadina di “Baarìa” lentamente si trasforma e cambia così come i suoi abitanti che vivono i grandi eventi della storia italiana.
Sono narrate le vicende di tre generazioni di una famiglia di Bagheria: l’occhio indiscreto della telecamera segue la vita di Peppino, interpretato da Francesco Scianna al suo esordio come attore, dalla sua infanzia fino al matrimonio con Mannina (l’esordiente Margareth Madé), e il suo impegno politico oltre che il rapporto con i figli.
Attraverso la vita del protagonista il regista cerca di raccontare quasi un secolo di storia italiana dalle due Guerre Mondiali, allo sbarco degli alleati, quindi il Fascismo che lascia il posto al Comunismo, alla Democrazia Cristiana e al Socialismo”Tutto scorre”(Eraclito, filosofo greco presocratico), è l’idea motrice del film che racconta e descrive, che cerca di guidare lo spettatore a rivivere quel periodo, le emozioni e la vita di quegli uomini e quelle donne.
 E’ un film corale che tocca diversi temi ed elementi: dal rapporto con i genitori, la morte, il lavoro, l’amore, la passione politica, la mafia, la corruzione ed altri sentimenti.
Titolo originale: Baarìa Nazione: Italia, Francia   Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 1.50 Regia: Giuseppe Tornatore Cast:  Monica Bellucci( che fa la solita bellona di passaggio), Raoul Bova, Ángela Molina, Enrico Lo Verso, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti, Nicole Grimaudo, Nino Frassica, Aldo, Leo Gullotta, Beppe Fiorello, Vincenzo Salemme, Lina Sastri, Giorgio Faletti, Nino Frassica, Salvatore Ficarra, Valentino Picone Produzione: Medusa Film, Quinta Communications, Ministero per i Beni e le Attività Culturali Distribuzione: Medusa Data di uscita: Venezia 2009 25 Settembre 2009 (cinema)

«Guerra alla guerra»

Il mondo è lacerato.
Le ferite sembrano insanabili.
La speranza è crollata sotto i bombardamenti, che non hanno risparmiato nazioni, persone e cose.
La ricostruzione latita.
Un tale orrore non deve ripetersi.
Ora è necessario iniziare una nuova guerra che faccia guerra a se stessa, perché troppo fragile è l’animo umano, troppo volubile il suo cuore.
Nel clima di propaganda, all’indomani della fine dei combattimenti, il cinema si inserisce come uno degli strumenti meno vulnerabili e capaci di penetrare maggiormente una società in bilico, spaesata, avvilita.
Riconoscono questa grande opportunità anche i cattolici, soprattutto la riconosce Pio XII.
Nasce in questo contesto, nel 1948, uno dei documenti cinematografici più interessanti nella storia del Novecento e certamente meno visti dal pubblico di ieri e di oggi:  Guerra alla guerra.
Prodotto dalla Orbis con il sostegno del Centro Cattolico Cinematografico, diretto da due registi italiani piuttosto sconosciuti, Romolo Marcellini – già autore del precedente e più famoso Pastor Angelicus girato nel 1942 – e Giorgio Simonelli, il film è stato proiettato a Venezia per la sezione “Questi Fantasmi” curata da Sergio Toffetti.
“Di Guerra alla guerra si è parlato tanto – precisa il curatore – ma quasi nessuno ebbe la possibilità di vederlo perché la sua distribuzione fu quasi inesistente.
Si è deciso il restauro, in collaborazione con la Filmoteca Vaticana, lavorando sul positivo e sul controtipo conservati nell’archivio della Cineteca Nazionale, cercando di recuperare quei materiali in grado di farci ottenere la copia migliore possibile”.
La sceneggiatura si deve a Diego Fabbri, Turi Vasile e Cesare Zavattini.
“Fabbri e Vasile furono le teste pensanti alla base della fondazione della casa di produzione Orbis.
Era un tentativo di competere nell’ambito del cinema d’autore, del cinema di regia, con gli altri nascenti poli cinematografici italiani, facendo sì che il cattolicesimo potesse avere in questo settore della comunicazione e dell’arte una sua voce di riferimento, un suo strumento.
In questo clima e con queste finalità nasce Guerra alla guerra, che indirettamente ebbe l’approvazione di Papa Pacelli”.
Il film è costruito incastrando abilmente documenti visivi dell’epoca entro una narrazione molto chiara, appositamente girata e dal sapore neorealista.
Una famiglia felice soffre la perdita di un figlio a causa di un bombardamento, che distrugge completamente anche la loro casa.
Le scene di guerra, quelle di morte, violenza, orrore sono, invece, tutte reali e più che mai esplicite e impressionanti per l’epoca, quando la guerra forse la si voleva dimenticare più che rivedere sullo schermo. La fase bellica è preparata contrapponendo alla natura pacifica e idilliaca nella quale l’uomo lavora quotidianamente per la sua necessaria sussistenza, la realtà delle fabbriche nelle quali, come fucine di morte, si costruiscono armi.
In questo modo si degrada, si snatura il lavoro umano che cambia la sua finalità, che crea morte anziché vita.
“In qualche modo direi che il film è animato da un pensiero fichtiano – precisa Toffetti.
Come all'”io” si contrappone un “non-io”, così nel film l’uomo crea manufatti e oggetti che servono alla sua vita quotidiana e per il bene, ma anche strumenti per la sua morte e per il male.
Inoltre, siamo in quella particolare stagione della storia italiana in cui il Paese, uscito dalla guerra, sta per passare da un’economia prevalentemente agricola a una industriale e proprio l’industria deve convertirsi definitivamente al bene dell’umanità, contrapponendosi alla stagione precedente in cui era dedita alla distruzione”.
Nel film, chiunque tiene in mano un’arma o manovri una macchina da guerra o sganci una bomba sulla popolazione innocente e inerme – vediamo anche l’esplosione dell’atomica – è additato come nemico dell’umanità.
Per questo non ci sono divise ed eserciti identificabili, non si fa distinzione tra Paesi, né tra vincitori e vinti.
Nel moltiplicarsi delle distruzioni e degli orrori, mentre nel film ci si domanda:  “mansueti e pacifici, dove sono?”, si leva una voce che assomiglia a quella di colui che “grida nel deserto”.
È la voce di Pio XII, che vediamo ripreso in momenti famosi – l’arrivo al quartiere di San Lorenzo a Roma dopo il bombardamento, quando il Papa è descritto come “la bianca colomba che vola per portare a termine la sua opera di carità” – e in atteggiamenti pastorali meno noti.
L’invocazione alla pace, a mano a mano che le atrocità crescono, si fa più insistente:  “Venga la pace”, “Servire la pace” e Pio XII diventa il protagonista.
Lo scorgiamo in profonda preghiera, mentre conforta e benedice.
Quando la logica delle armi prevale sulla ragione, quando il “veleno” circola ovunque e la stessa Roma è in pericolo, la voce fuori campo esclama:  “Vogliono far tacere Cristo”.
Ma il Padre – così è chiamato il Papa – non tace:  riceve in udienza i potenti del mondo, quelli che ne detengono le sorti prima e dopo la guerra; organizza l’allestimento dei campi di raccolta e di soccorso, ordina di aprire la residenza di Castel Gandolfo e i conventi di Roma per dare rifugio ai dispersi; accoglie, benedice, esorta alla pace e al perdono.
“Non sappiamo se Pio XII sia stato direttamente coinvolto nella produzione e fino a che punto l’abbia sostenuta personalmente – spiega Toffetti – ma l’aver concesso l’uso copioso della sua immagine è un implicito avallo del film”.
“Per questo motivo era importante acquisire la pellicola – aggiunge Claudia Di Giovanni, direttore della Filmoteca Vaticana – e la collaborazione con la Cineteca Nazionale l’ha reso possibile.
Ora è nostro desiderio organizzare una speciale proiezione da offrire alla Curia romana, per l’importanza che nel film occupa la figura di Papa Pacelli, per come sono descritti i suoi sforzi per la pace”.
La proiezione veneziana è stata introdotta dal breve I figli delle macerie commissionato ad Amedeo Castellazzi, sempre nel 1948, dall’Associazione nazionale combattenti e reduci, squarcio intenso di vita nel quale la voce di una mamma morta invoca la protezione del suo bambino rimasto orfano e abbandonato.
Molti dei suoi piccoli compagni abbrutiti e soli si aggirano nei paesi distrutti mentre le bambine sono fortunatamente accolte nei madrinati provinciali gestiti da alcune Congregazioni di religiose.
La speranza rinasce da qui e il cinema se ne fa interprete.
(©L’Osservatore Romano – 7-8 settembre 2009)

Katyn

Quanti vedranno la pellicola, sappiano che quelle che li dividono dall’Agnus Dei composto da Krzysztof Penderecki – sconvolgente chiusura, su schermo nero, del film – sono poco meno di due ore di grande cinema.
E non è per un modo di dire.
«Meditate che questo è stato»: davanti all’opera di Wajda viene alla mente un passo dell’epigrafe che apre Se questo è un uomo di Primo Levi, anche perché questo racconto per immagini emerge – letteralmente – dalla nebbia, che non è solo quella dei libri di Storia.
Eppure, nonostante la palese bestialità, atrocità della vicenda che sta alla sua base, Katyn non è il prodotto partorito con spirito vendicativo o astio ideologico dal figlio di una delle vittime.
È tutt’altro, è sorprendentemente tutt’altro: Katyn è un’opera corale sull’accadere, sul porsi di un fatto, sulla verità di questo fatto e sul rapporto di ciascuno (e della sua libertà) con la verità di questo fatto.
Verità che durante il film vedremo negata, distorta o sminuita dal Potere, Potere inteso come affermazione di un’idea sulla realtà, cioè su quel che è accaduto.
Come ogni forma d’arte che valga questo nome, la pellicola è una forma di incontro: dietro quei 113 minuti c’è – ultimamente – qualcuno che chiede la nostra attenzione, la nostra pazienza.
Meglio, la carità della nostra attenzione e della nostra pazienza.
Per stare ad ascoltare quello che ha da dire, per stare a vedere quello che ha da mostrare.
E, come sempre, c’è più di un modo di “entrare” nel racconto: l’immedesimazione con uno dei personaggi, l’emozione per una certa sequenza, il moto d’animo per una delle figure di contorno…
Va detto che – almeno come esposizione temporale, cronologica dei fatti – il film è costruito in modo non immediato: Katyn abbraccia più storie personali e più personaggi lungo un periodo di circa sei anni che va dal settembre/novembre 1939 al 1945.
Non ci si faccia dunque spaventare dalle frequenti didascalie che lo scandiscono (17 settembre 1939, novembre 1939, primavera 1940, 13 aprile 1943, 1945, …) così come dalla presenza dei non pochi personaggi che lo animano (il capitano, il sott’ufficiale, il generale, l’ingegnere che progetta aerei, la moglie del capitano, la moglie e la figlia del generale, la sorella – anzi le sorelle – dell’ingegnere, …).
Nel fare presente questo eventuale elemento di fatica, invitiamo quanti vorranno accostarsi alla visione del film a chiedere innanzitutto per sé la libertà, il coraggio di lasciarsi sfidare dal suo contenuto, il coraggio di lasciar emergere una domanda – anzi la domanda – sull’origine, sull’identità, sulla consistenza della speranza che anima i personaggi – donne e uomini; mogli, mariti e figli; fratelli e sorelle; civili e soldati (già, i “soldati”…) – che vedranno raccontati sul grande schermo.
Pensiamo soprattutto ai quindici minuti finali, chiusi dall’Agnus Dei di cui già si diceva.
Fosse solo per il balenare, l’emergere dei contorni di questa domanda, avremmo già di che ringraziare l’ottantatreenne regista.
E nel provare a rispondere, “meditiamo che questo è stato”.
Buona visione.
(Leonardo Locatelli) Katyn – Basati sul romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, i rigorosi, potenti, “magistrali” 113 minuti di Katyn (2007) sono stati realizzati dal prolifico sceneggiatore e regista polacco Andrzej Wajda (classe 1926, premio Oscar 2000 e Orso d’Oro 2006, entrambi alla carriera) attingendo a diari, lettere, confessioni e analizzando anche i documenti ufficiali conservati negli archivi polacchi, statunitensi, inglesi e relativi a quello che in patria è tutt’ora considerato il più tragico lutto nazionale.
Non stupiscano quindi la lucidità e la pulizia non solo formali che caratterizzano questo film, nel quale è la Storia a fare capolino.
La pellicola ruota infatti attorno al massacro – avvenuto nella primavera del 1940 nel tentativo di cancellare l’intellighenzia di un intero Paese – di oltre 22.000 ufficiali, riservisti, medici, avvocati, professori e guardie di confine polacchi (tra i quali anche Jakub Wajda, il padre di Andrzej) fatti prigionieri dall’Armata Rossa al momento dell’invasione russa della Polonia, scattata sedici giorni dopo quella della Wehrmacht.
Decine di migliaia di persone eliminate con un colpo alla nuca per mano degli uomini della NKVD, la polizia politica di Stalin guidata da Lavrentij Berija, e sepolti in fosse comuni nelle foreste di Katyn (una collina coperta di abeti che domina il fiume Dnepr, nei pressi di Smolensk), Tver, Char’kov e Bykownia.

Vacanze Romane

Per amore si può anche rinunciare a uno scoop giornalistico.
E se il cuore batte per la principessa Audrey Hepburn – simbolo di grazia, classe e femminilità – si può ben capire quanto sia dolorosa la successiva, forzata rinuncia a questo amore, sacrificato all’altare della ragion di Stato.
Gregory Peck, nei panni del reporter statunitense Joe Bradley, incarna in Roman Holiday il dramma di un amore impossibile a causa della differenza di ceto.
Del film, diretto da William Wyler nel 1953, e vincitore di tre Oscar (Hepburn quale miglior attrice, soggetto, costumi bianco e nero), generalmente si ricordano solo le scene più leggere e spensierate, come per esempio la mano dei due protagonisti nella Bocca della Verità, il radicale taglio di capelli della principessa Anna durante il suo allegro vagabondare – anche a bordo di una Vespa – per le vie di una Roma popolare e sorridente.
Ma c’è molto di più, e di più profondo nel film, comunicato con tocco leggiadro.
Vacanze Romane fa parte di quella ristretta élite di pellicole che, riviste più volte, si apprezzano ancora meglio, perché – parafrasando Italo Calvino a proposito dei capolavori letterari – non finiscono mai di dire quello che hanno da dire.
E più si rivede Vacanze Romane più ci si accorge di dettagli e sfumature che, a una prima pur attenta visione, potrebbero sfuggire.
Girato in un periodo in cui si stavano sempre più affermando pellicole sentimentali molto “parlate”, quello tra Audrey Hepburn e Gregory Peck è un amore fatto soprattutto di sguardi, di silenzi, di frasi solo accennate, ma quanto mai eloquenti.
Una lezione di cinema sempre valida dunque, considerando la mai domata tensione, nel mondo della celluloide, alla verbosità e al didascalico, alla quale, in questo film, si sottraggono anche le figure dei coprotagonisti, delineate con sapiente misura.
Dal film di Wyler si trae poi una lezione di discrezione.
Difficile infatti immaginare un rapporto più casto tra i due protagonisti: eppure che intensità e che ardore in quegli abbracci, a indicare un sentimento che nasce e a sancire l’addio a questo amore.
La fuga dalla realtà della principessa Anna, insofferente delle pastoie del protocollo, è destinata a fallire sin dall’inizio; come pure non ha scampo il sogno del giornalista americano di strappare, dal suo mondo, una testa coronata.
Lungo il solco di questo incolmabile divario si dipana il film, che sa unire sorriso e lacrima, spensieratezza e amara riflessione sui capricci della sorte.
Ai dignitari che le fanno notare che, con la fuga, era venuta meno ai suoi doveri, la principessa risponde, con esemplare fermezza, che se fosse stato veramente così, non sarebbe più tornata – “né ora, né mai” – al ruolo che il destino le aveva riservato.
E quando alla fine del film – durante l’incontro con la stampa estera – Anna capisce, tutto in un attimo, la nobile verità sul giornalista da lei amato, la sensazione è che questo colpo di scena già pone il film nel novero dei capolavori.
E la sensazione diventa certezza quando, dopo aver visto per l’ultima volta la principessa, il giornalista, tornando sui suoi passi, soffoca il suo grande amore in un tormentato singhiozzo: il gozzo di Gregory Peck, che impercettibilmente, ma quanto mai significativamente, va, per una frazione di secondo, su e giù, è tra le scene più semplici e rivelatrici della storia del cinema.
(©L’Osservatore Romano – 31 luglio 2009)