L’intervista Come vive l’accumularsi, da qualche settimana, di rivelazioni su casi di preti pedofili? Come un ascesso che bisognava far scoppiare.
È una buona cosa che tutto ciò possa alla fine venire a galla, perché per le vittime si tratta di una ferita gravissima.
Finalmente riescono ad esprimere quella sofferenza, ad uscire dalla prigione interiore nella quale erano rinchiuse.
È un primo passo verso la libertà.
Anche per la Chiesa era necessario far scoppiare l’ascesso, e altri ambiti della società avviano decisamente lo stesso percorso.
Se questo potesse permettere di mostrare la verità sul disastro della pedofilia, sarebbe una buona cosa per tutti.
Questo fenomeno è intollerabile e le sue conseguenze sono molto più profonde e durature di quanto si immaginava.
È terribile pensare che le vittime abbiano tenuto così a lungo questo dramma nel cuore.
Se le cose fossero state dette prima, quelle persone avrebbero potuto costruire una vita coniugale, affettiva e familiare tranquilla ed equilibrata.
Quanto ai colpevoli, è bene anche per loro che le cose vengano alla luce.
Guardi che cosa è successo ad uno degli ultimi preti accusati: la sua reazione, dopo aver riconosciuto i fatti, è stata di dire quanto tale ammissione fosse stata per lui un sollievo.
Lo stesso per il vescovo di Bruges.
Il peso della colpa diventava insopportabile e minava tutta la loro vita.
Lei ha la sensazione che la Chiesa sia perseguitata dai media, in questa faccenda? No, credo piuttosto che sia umiliata sotto lo choc.
Le persone sono veramente scandalizzate quando i pedofili sono dei preti, e hanno ragione! Tali atti sono sempre ripugnanti, che siano commessi in famiglia, a scuola o nell’ambiente dello sport…, ma lo sono doppiamente quando i colpevoli sono dei preti, la cui missione è di annunciare Cristo e la gioia del Vangelo.
Certo, per il peccatore ci sarà sempre una porta di misericordia, ma prete e pedofilo sono due parole incompatibili.
La Chiesa è “umiliata”, lei dice.
È una grave crisi? Ripensi alla frase usata da Benedetto XVI nella Lettera ai cattolici irlandesi: parla di quei casi di pedofilia che “hanno oscurato la luce del Vangelo ad un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione”.
È eloquente…
ed effettivamente, è spaventoso; eppure ce ne sono stati, di tradimenti e di contro-testimonianze, nella Chiesa, in venti secoli di storia! Ma si percepisce quanto il papa sia colpito, vive questi avvenimenti come una prova terribile.
A Lione, parlando durante un consiglio episcopale, uno di noi faceva notare che è peggio della serie di crisi che si sono succedute lo scorso anno, dove comunque eravamo già notevolmente sconvolti.
Perché? Perché, questa volta, viene introdotto un sospetto profondo sulla totalità del corpo sacerdotale: i genitori pensano ai loro figli, evidentemente, e certi hanno perso la fiducia nella Chiesa.
Eppure, constato che ciò non cambia niente sul territorio: quando vado in visita pastorale, le persone mi dicono quanto amino il loro parroco, come siano contenti di ricevere il vescovo, perché la Chiesa è veramente per loro una famiglia.
Lei ricorda di aver già conosciuto personalmente dei periodi così bui per la Chiesa? Nella mia storia, mi sembra che la crisi degli anni ’70, in cui un numero notevole di preti se ne sono andati, è stata anch’essa molto dolorosa.
Non si osa ancora parlarne, perché si tratta di una ferita profonda.
In Francia c’erano circa 40 000 preti e, in dieci anni, tra gli 8000 e i 10000 hanno lasciato il ministero.
Un salasso incredibile! Io sono stato ordinato prete in quel periodo e avevo la sensazione che certi mi guardassero chiedendosi: “E quello lì, resisterà o no?” Che cosa dice ai preti che incontra oggi, su questi temi? Dobbiamo ritrovare una parola di verità nella fraternità dei preti e con i seminaristi.
Chi può vantarsi di avere una sessualità perfetta? Come il denaro e il potere, anche la sessualità è un luogo di vita fondamentale, ma anche un campo fragile e spesso incasinato.
Ora, la perversione della pedofilia risveglia tutto ciò che non è chiaro in noi.
E, improvvisamente, abbiamo paura.
Penso che si debba parlare con semplicità e in verità.
Sta a noi considerare in maniera nuova, alla luce del Vangelo, il rapporto con il nostro corpo e con il corpo degli altri, e di darci dei punti di riferimento concreti.
Quando si vive un grosso choc, tutti i problemi di fondo vengono a galla; è una cosa destabilizzante, ma sarà proficua.
Per noi preti, che collaboriamo e viviamo in una grande prossimità con uomini, donne e giovani, è essenziale essere realisti sul coinvolgimento affettivo di tutti questi contatti.
Siamo lucidi sui tumulti della nostra sessualità, e prudenti con noi stessi? Ritrovare le parole per parlare “del coraggio della castità” – è il titolo di un libro recente – , è un bel cantiere di riflessione e di preghiera.
Non pensa che i preti siano troppo soli? Il Vangelo chiama alla solitudine.
Ma questo non ha nulla a che vedere con l’isolamento, le cui conseguenze sono spesso nefaste.
Attenzione a non confondere le cose.
Sì, bisogna proporre ai preti di vivere in gruppi di fraternità per combattere l’isolamento.
Ma quando si parla di pedofilia, si sa purtroppo che i colpevoli vivono sia soli che con altri, ad esempio in famiglia.
Coloro che stavano con loro ogni giorno non sospettavano quello che vivevano né i crimini che commettevano.
Il vero perverso inganna le persone del suo ambiente…
Se si vede quello che è successo con padre Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo, è inimmaginabile! Come hanno potuto le persone a lui vicine essere ingannate a quel punto e non vedere niente? Eppure, è così; era venerato come “un santo padre fondatore”! Come possiamo comprendere il silenzio di cui spesso si è resa colpevole la Chiesa per questi casi di preti pedofili? Non pensa che tutta la società si trovava in questa situazione? I vari corpi sociali hanno reagito in maniera diversa su queste faccende? Oggi, tutti si svegliano, ma solo qualche decennio fa, non si aveva idea del disastro che questo provocava per le vittime.
Sono ferite fin dall’infanzia e per tutta una vita; è la radice profonda del loro essere che è stata colpita.
Tutto ciò veniva coperto con un gran velo di silenzio, accontentandosi di fare degli spostamenti di qui o di là.
Nella Chiesa francese, questo tabù è caduto dieci anni fa, quando la Conferenza episcopale ha affrontato il problema a Lourdes, nel novembre del 2000.
È là che ho capito che non era un peccato come gli altri, che questi atti lasciavano poi un disgusto di se stessi, una ferita incredibilmente intima e duratura.
In questa occasione è stato nuovamente posto il problema del celibato dei preti.
Non bisogna collegare celibato e pedofilia.
Trovo indecenti che certi si servano di certi drammi per rimettere di nuovo in discussione il celibato dei preti.
Tutti sanno che l’immensa maggioranza dei casi di pedofilia avviene all’interno delle famiglie.
È molto doloroso, ma non per questo si sopprimeranno il matrimonio e la famiglia! Quanto al celibato – e il cardinal Bertone lo ha ridetto alcuni giorni fa a Barcellona – il problema può essere posto.
Del resto lo è stato, fin dal primo Sinodo presieduto da Benedetto XVI, nel 2005.
Se la Chiesa riterrà opportuno cambiare la disciplina attuale, non sarà per la pressione sociale o mediatica.
Categoria: Al cinema
The Road (La Strada)
Un futuro da paura Per uno strano caso, il film impressionante e deprimente come pochi: The Road di John Hillcoat, presentato alla 66.ma Mostra di Venezia, accolto con applausi s John Hillcoat,croscianti da chi ha avuto la fortuna di vederlo, ma subito sparito non essendo una pellicola che lascia speranze, grazie alla VIDEA-C.D.E, è uscito nei cinema il 28 maggio 2010, quasi in contemporanea con il disastro ambientale americano, contro cui stanno combattendo la Louisiana, il Mississippi,la Florida e l’Alabama, non escludendo il Golfo del Messico dove vivono più di mille delfini.
La pressione degli ambientalisti sta diventando sempre più forte presso tutti i governi e le previsioni degli scienziati che non danno al nostro pianeta più di 80 anni di vita, non sono più qualcosa di fantascientifico di cui non tenerne alcun conto.
La terra è destinata a scomparire: non si sa come avverrà l’apocalissi, ma avverrà.
Ed ecco che un film come The Road di John Hillcoat, vuole preparare la gente al peggio.
Anche se molti preferiscono tordirsi con gli infimi spettacoli televisivi..
Maria & Elisa Marotta L’intervista
Cella 211
Il carcere non solo non è un luogo di redenzione ma può imbarbarire persino persone lontane da una mentalità criminale.
Lo scoprirà tragicamente il protagonista di Cella 211 del regista spagnolo Daniel Monzón.
Campione d’incassi in patria e vincitore di otto premi Goya (i maggiori riconoscimenti del cinema iberico), il film racconta una vicenda ad alta tensione, dura, che non risparmia nulla quanto a crudezza sia d’immagini che di linguaggio.
Il genere carcerario, esplorato da diverse angolature dal cinema statunitense, diventa dunque terreno di riflessione anche per produzioni europee, che si propongono al pubblico con un buon livello qualitativo, mostrando peraltro una notevole originalità stilistica e narrativa.
Così, dopo l’apprezzato Il profeta del francese Jacques Audiard – storia di un fragile diciottenne che nel carcere compirà il suo cammino di formazione criminale – arriva sugli schermi italiani un altro film sull’universo carcerario, che ne ricalca il concetto di fondo: il recupero di un uomo condannato difficilmente passa dalla cella di una prigione.
Al suo primo incarico come secondino in un penitenziario di massima sicurezza, per fare buona impressione su colleghi e superiori, Juan Olivier si presenta al lavoro il giorno precedente l’ingresso in servizio.
Mentre è in visita al braccio con i detenuti più pericolosi, rimane vittima di un incidente: un pezzo di intonaco staccatosi dal soffitto in ristrutturazione lo colpisce alla testa.
Nel tentativo di rianimarlo, i due colleghi che lo accompagnano usano la brandina della cella 211, al momento vuota.
Ma proprio in quel momento esplode una rivolta e i due secondini lo abbandonano lì per mettersi in salvo.
Una volta ripresosi, Juan, si trova inghiottito dagli accadimenti.
Ha la prontezza di farsi credere un detenuto e di accattivarsi le simpatie del violento boss Malamadre, superbamente interpretato da Luis Tosar, promotore della ribellione.
In un imprevisto capovolgimento di ruolo, la giovane guardia proverà a fare il doppio gioco nel tentativo di salvarsi e riabbracciare la moglie incinta.
Ma gli eventi prenderanno una piega diversa, il suo destino seguirà un’altra strada.
E Juan si ritroverà suo malgrado dall’altra parte, persino a lottare con impensabile ferocia per una causa che solo poche ore prima non poteva apparirgli più distante.
Raccontando la vicenda di Juan, Cella 211, tratto dall’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul, affronta argomenti sociali rilevanti – denuncia le precarie condizioni di vita nelle carceri, la violenza delle istituzioni – e, nel caso specifico, la difficile gestione di questioni politico legate al terrorismo dell’Eta.
Tutto ciò viene mostrato senza alcuna indulgenza, accentuando le debolezze del sistema.
Tuttavia non sono questi gli aspetti più intriganti del film, che ha i suoi punti di forza nella carica drammatica della narrazione e nello sviluppo delle dinamiche relazionali dei protagonisti.
Monzón – cui va dato atto di aver impresso una cifra stilistica originale alla pellicola, superando i cliché di genere – ha definito la storia una tragedia.
Una tragedia legata al fato, ovvero a quel qualcosa di imprevedibile e improvviso che può cambiare e sconvolgere per sempre la vita di ciascuno.
Quel fato che beffardamente fa incrociare le strade di uomini diversi per indole, estrazione e comportamenti come Juan (certo non idealista) e Malamadre, e che li porta a condividere un’esperienza terribilmente nuova per il primo, replicata ma con implicazioni inattese per il secondo.
Ne nascerà un’improbabile amicizia, ambigua quanto breve.
A colpire è il cambiamento interiore cui è costretto Juan, travolto da eventi che si era illuso di poter in qualche modo controllare nonostante tutto, e che si troverà suo malgrado a camminare lungo il confine improvvisamente impalpabile tra ciò che riteneva giusto e ciò che non gli appare più tale.
Compiere una scelta di campo diverrà più semplice di quanto avesse presupposto.
Da aspirante servitore della legge si troverà, con le mani sporche di sangue, a combattere per una giustizia diversa.
E in questo viaggio verso l’abisso – che lascia però intravedere bagliori di verità – non si riesce a non provare un po’ di empatia verso quest’uomo ferito al quale il destino nega persino l’unica drammatica via d’uscita per non precipitare nell’abisso.
Si prova compassione forse perché in lui in qualche modo si riconosce la fragilità umana che si evidenzia nei momenti più terribili e di inattesa sofferenza.
Quando, in una situazione estrema, il dolore rischia di trasformarsi in odio, l’odio in vendetta e la vendetta in cieca violenza.
di Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 17 aprile 2010)
Sotto il cielo di Roma
“Il Pontefice della mia giovinezza”, il pastor angelicus che “ha presieduto alla carità nel difficile tempo del Secondo Conflitto Mondiale”.
Benedetto XVI ha ricordato così la figura e l’opera del predecessore Pio XII, dopo aver assistito a Castel Gandolfo, venerdì pomeriggio, 9 aprile, a una sintesi della miniserie televisiva Sotto il cielo di Roma.
Il Papa, che si trova nella cittadina laziale dal pomeriggio della domenica di Pasqua, ha espresso apprezzamento per l’opera incentrata sull’azione di Eugenio Pacelli – l’ultimo romano a salire sul soglio di Pietro (dal 1939 al 1958) – nell’impedire che la Città eterna fosse distrutta dalla guerra e nel proteggere gli ebrei all’interno di conventi e istituti religiosi, resi zona extraterritoriale per sua volontà.
La ricostruzione degli avvenimenti e l’ambientazione riguardano i drammatici giorni vissuti dall’Urbe nel periodo che va dalla seconda metà del 1943 ai primi sei mesi del 1944: dal bombardamento di San Lorenzo del 19 luglio all’armistizio dell’8 settembre, dal rastrellamento nel ghetto del 16 ottobre all’attentato di via Rasella del 23 marzo, con l’immediata rappresaglia nazista del giorno seguente alle Fosse ardeatine, fino all’ingresso delle truppe alleate, il 4 giugno.
Due puntate, di novanta minuti l’una, dirette da Christian Duguay – lo stesso regista della serie su sant’Agostino – che sceneggiano, oltre la storia di due giovani ebrei, anche un episodio storico poco noto: il piano nazista per rapire Pio XII, l’unica autorità rimasta nel territorio italiano spezzato in due.
L’ordine viene direttamente da Hitler, ma il Papa si rifiuta con tenacia di abbandonare il Vaticano e i romani al loro destino.
Eugenio Pacelli è interpretato dall’americano James Cromwell, che in carriera ha vestito per diverse volte i panni di presidente degli Stati Uniti.
Nelle scene appare sempre affiancato da Cesare Bocci, nel ruolo di monsignor Montini, il futuro Paolo vi, all’epoca sostituto della Segreteria di Stato.
La società di produzione Lux Vide e gli sceneggiatori hanno lavorato su una documentazione notoriamente vastissima e soprattutto su una bibliografia ormai imponente.
Un’iniziativa – spiegano i produttori – “volta a fornire una conoscenza accessibile a tutti per superare pregiudizi e critiche malevoli”.
Prima della proiezione il presidente dell’ente radiotelevisivo Paolo Garimberti, nel saluto rivolto a Benedetto XVI ha messo in luce come “la grande tradizione di servizio pubblico della Rai” sia caratterizzata “dall’impegno a realizzare produzioni di grande valore culturale e popolare, con l’ambizione di offrire ai telespettatori un contributo allo sviluppo di un dialogo su temi di attualità, volgendo lo sguardo alle radici della nostra storia”.
Quindi ha aggiunto che la Rai è orgogliosa dell’opera presentata.
“Nel corso degli anni – ha detto – il Pontefice che ebbe il difficile compito di condurre la Chiesa durante la seconda guerra mondiale è divenuto oggetto di un dibattito che ancora oggi continua e tocca argomenti di grande sensibilità”.
La sfida è dunque – ha argomentato – “di raccontare al grande pubblico la storia di un Papa e del suo Pontificato, incoraggiando una riflessione su uno dei momenti più drammatici del Novecento”.
Nella sala degli Svizzeri del Palazzo Pontificio, hanno assistito alla trasmissione del film il cardinale Giovanni Battista Re, gli arcivescovi Filoni, sostituto della Segreteria di Stato, Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, e Harvey, prefetto della Casa Pontificia, il vescovo di Albano, Semeraro, i monsignori Wells, assessore, Balestrero, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati, Karcher, del Protocollo della Segreteria di Stato, Gänswein, segretario particolare di Benedetto XVI, e Xuereb, della segreteria particolare, con alcuni Cerimonieri pontifici.
Tra le personalità, il direttore delle Ville Pontificie Petrillo, il medico personale del Papa, Polisca, e il nostro direttore.
Con il presidente Rai Garimberti, erano il direttore generale Masi, membri del consiglio d’amministrazione e alcuni direttori.
La Lux Vide era rappresentata dalla famiglia Bernabei.
Erano anche presenti i coproduttori tedeschi della Eos entertainment e rappresentanti della Bayerischer Rundfunk e della Tellux Film.
Con gli sceneggiatori Arlanch e Bettelli, gli attori Alessandra Mastronardi e Marco Foschi, interpreti di due giovani ebrei che trovano rifugio in uno dei conventi che il salvatoriano Pancrazio Pfeiffer aveva trasformato in luoghi di protezione con l’avallo di Papa Pacelli.
Il religioso tedesco ebbe un ruolo di primo piano nella mediazione tra gli occupanti nazisti e la Santa Sede.
La serie sarà distribuita anche sul mercato internazionale con il titolo Pius xii.
Under the Roman Sky.
“Pensate per il grande pubblico – ha detto il Pontefice commentando le immagini – queste opere rivestono particolare valore soprattutto per le nuove generazioni”.
Il genere della fiction è infatti secondo Benedetto XVI utile a far “conoscere un periodo che non è affatto lontano, ma che le vicende della storia recente e una cultura frammentata possono far obliare”.
di Gianluca Biccini (©L’Osservatore Romano – 11 aprile 2010) Ratzinger: Pio XII padre di tutti Salvò Roma e tanti perseguitati di Paolo Conti in “Corriere della Sera” del 10 aprile 2010 «Mi preme sottolineare particolarmente come Pio XII sia stato il Papa che come padre di tutti ha presieduto alla carità a Roma e nel mondo soprattutto nel difficile tempo del secondo conflitto mondiale…
Questo film racconta il ruolo fondamentale di Pio XII nella salvezza di Roma e di tanti perseguitati dal 1943 e 1944».
Benedetto XVI non cita la questione ebraica ma le espressioni «padre di tutti» e «tanti perseguitati» sono eloquenti, soprattutto dopo aver visto un film sulle tragiche ore di Eugenio Pacelli che assiste dal Vaticano al rastrellamento degli ebrei romani il 16 ottobre 1943.
Un racconto che sottolinea continuamente il ruolo di un Pontefice impegnato a spalancare le porte di monasteri e conventi per salvare gli israeliti romani scampati all’inumana razzìa voluta da Hitler.
E ancora: «Pio XII è stato il Pontefice della mia giovinezza.
Col suo ricco insegnamento ha saputo parlare agli uomini del suo tempo indicando la strada della verità e con la sua grande saggezza ha saputo orientare la Chiesa verso l’orizzonte del terzo millennio».
Ore 18.40 di ieri, secondo piano della villa Pontificia di Castel Gandolfo.
Saletta cinematografica tra gli stucchi, strepitoso affaccio sul lago.
Sullo schermo è stata appena proiettata la copia di prova di «Sotto il cielo di Roma», fiction in due puntate da cento minuti ciascuna, destinata a Raiuno (data ancora da decidere) e prodotta dalla Lux Vide creata da Ettore Bernabei che ora la pilota con i figli Matilde e Luca, tutti seduti dietro al Papa.
Ci sono i vertici Rai schierati al completo: il presidente Paolo Garimberti, il direttore generale Mauro Masi, il direttore di Raiuno Mauro Mazza, il direttore di Rai Fiction Fabrizio del Noce, il consigliere Alessio Gorla e moltissimi altri.
E mezza curia romana.
Stavolta la scommessa per la Lux Vide (e per i suoi partner internazionali, a partire da Rai Fiction) è veramente colossale, destinata a far discutere mezzo mondo: una fiction su Pio XII raccontato nelle ore atroci dell’occupazione nazista di Roma e soprattutto della persecuzione degli ebrei, del rastrellamento nell’Antico Ghetto.
La regia è di Christian Duguay, Pio XII è James Cromwell, solido volto hollywoodiano.
Monsignor Montini, futuro Paolo VI, è Cesare Bocci.
Suor Pascalina è Christine Neubauer.
Benedetto XVI parla dopo 65 minuti di proiezione.
Il film gli è piaciuto, e si vede dal sincero sorriso con cui applaude alla fine.
Ma soprattutto coglie l’occasione per difendere il suo predecessore dal mare delle recenti polemiche: «Pio XII è stato un grande maestro di fede, di speranza e di carità».
Poi saluta, distribuisce rosari, benedice.
La proiezione comincia alle 17.30 spaccate con una puntualità davvero teutonica (ore 17.30, si leggeva sugli inviti, ma a Roma sarebbe di solito un’opinione) papa Benedetto XVI entra nella saletta a passi brevi ma rapidissimi.
Sorride con affabilità a tutti, prima di sedersi si ferma a salutare Andrea Riccardi della Comunità di Sant’Egidio e Gian Maria Vian, direttore de «L’Osservatore romano».
In tutto non più di un’ottantina di persone.
Il film piace al Papa perché narra, proprio nelle ore in cui la figura di Pacelli — sotto processo di beatificazione — è messa in profonda discussione nel mondo ebraico italiano e internazionale, un uomo tormentato ma deciso a fare di tutto pur di salvare il maggior numero di ebrei.
Le note degli sceneggiatori Fabrizio Bettelli e Francesco Arlanch non lasciano spazio a dubbi: «Abbiamo lavorato documentandoci e lasciando maturare in noi stessi non una convinzione quanto un’impressione…
subito ci è parsa destituita di ogni fondamento la cosiddetta leggenda nera di Pio XII, una delle vulgate più diffuse sul suo operato, che lo vede complice dei nazisti e indifferente allo svolgersi del dramma degli ebrei…».
Più in là: «Solo avendo chiaro, in modo non rituale, il significato umano della razzìa degli ebrei si può iniziare a discutere, o anche solo a rappresentare, gli episodi legati ai mesi dell’occupazione nazista a Roma…
e allo stesso tempo, con la stessa forza, dalla stessa radice di orrore si impone un altro elemento, quello dei salvati…
I libri di storia specificano, in una narrazione nella quale i numeri hanno la loro parte, che più di mille ebrei di Roma furono deportati sotto gli occhi del Papa ma che migliaia si salvarono per suo volere.
E oggi ha il sapore di una distinzione capziosa dire che Pio XII ebbe parte passiva in quell’intervento, o non l’ebbe affatto».
Il film (gli autori hanno lavorato sugli atti della beatificazione e mettono a disposizione una bibliografia molto corposa in cui appaiono saggi di Fausto Coen, Enzo Forcella, Giovanni Miccoli accanto ad Andrea Riccardi e Gian Maria Vian, materiali da cui sono stati tratti con dichiarata attenzione dialoghi, documenti e situazioni) affonda le radici in quelle note e racconta di conseguenza.
Per esempio: Pio XII riceve il rappresentante della comunità ebraica che gli chiede un aiuto per raccogliere l’oro destinato all’odioso (e poi inutile) ricatto nazista.
Pacelli lo guarda e cita l’Antico Testamento: «Abramo, io sono il tuo scudo, la tua ricompensa sarà grande».
E il capo della comunità, commosso, prosegue: «Tante quante sono le stelle in cielo, questa sarà la tua discendenza».
L’ambasciatore tedesco Weizsacker mette in guardia il Pontefice: «Se il Papa protesterà per gli ebrei romani, il ricorso alla deportazione a Roma sarà radicale».
L’ambasciatore polacco chiede con urgenza un’udienza, gli chiede di protestare contro la Germania.
E Pio XII: «Sono il Vicario di Cristo, non posso schierarmi con un popolo conto un altro».
Soprattutto gran parte del film-tv è dedicata agli sforzi compiuti da Pacelli per aprire chiese, conventi, monasteri anche di clausura agli ebrei fuggiaschi, persino contro il volere di parte della Curia.
Nel film Pio XII sembra attendere sereno l’arresto, o il martirio («Fate di me ciò che volete», dice al generale nazista Wolff).
Consegna a Montini e a Suor Pascalina una lettera in cui si autodichiara decaduto in caso di deportazione.
Il dubbio però lo perseguita fino alla fine, nelle ore della Liberazione.
Monsignor Montini lo rassicura: «Santità, lei ha fatto tutto il possibile».
E Pio XII: «Solo il Signore potrà dirmelo».
La fine vede Pacelli che passeggia in piazza San Pietro, con Roma appena liberata, e benedice.
Così come all’inizio camminava tra le macerie del bombardamento di San Lorenzo, e benediceva piangendo.
La materia narrativa è tanta, incandescente.
L’appuntamento col dibattito è nelle mani del palinsesto Rai.
The Secrets of Kells
Il regista, Tomm Moore, trentatreenne illustratore e disegnatore di fumetti, ha parlato della genesi e del significato di The Secrets of Kells durante un’intervista concessa al nostro giornale.
Il film ha richiesto una vasta ricerca che ha ovviamente incluso anche lo studio del vero Libro di Kells, un manoscritto miniato dei quattro vangeli che è considerato il più raffinato manufatto culturale irlandese; oggi è esposto al Trinity College di Dublino, ma, originariamente, era custodito nel monastero fondato da san Columba, l’abbazia di Kells, appunto, dove è ambientata la storia.
Combinando storia, fantasia e mito lo staff di Moore ha voluto dimostrare l’importanza di conservare una tradizione preziosa; il risultato è un viaggio onirico che parla di sacrificio, di forza ottenuta tramite la sofferenza, la riconciliazione e la speranza.
Temi che emergono quando la frase chiave del film, “trasformare l’oscurità in luce” si intreccia con la storia: “Abbiamo tratto quest’espressione da una poesia che un monaco scrisse sul suo gatto Pangur Bán e si tratta di una traduzione dall’antico gaelico.
La scrisse in un angolo del Vangelo che stava miniando.
Diceva che come il suo gatto cercava i topi, lui cercava le parole; entrambi lavoravano per tutta la notte per trasformare l’oscurità in luce”.
Le avventure che Brendan vive lo portano ad affrontare l’oscurità che scopre fuori, ma anche dentro di sé.
Mentre il ragazzo è combattuto fra il restare nella foresta e il lasciarla, Aidan lo rassicura sull’importanza e la necessità di conoscere il mondo esterno: “Ho perso tanti fratelli, ora ho solo il Libro a ricordarmeli, ma se i miei fratelli fossero qui ora ti direbbero che imparerai di più nella foresta che in qualsiasi altro luogo.
Assisterai a miracoli”.
Nella foresta, il nemico di Brendan assume la forma di Crom Cruach, leggendaria divinità irlandese pre-cristiana alla quale i pagani offrivano sacrifici umani nella speranza di ottenere buoni raccolti.
Nel film, Crom è una sorta di serpente che si morde la coda, un Uroboro.
“Un simbolo – spiega Moore -, che si trova molto spesso nel Libro di Kells indicava la vita eterna ed era utilizzato spesso in Irlanda nel periodo di transizione dalla fede pagana a quella cristiana.
Abbiamo deciso di rendere Crom molto astratto per far capire che Brendan lotta più contro le sue stesse paure che contro una divinità pagana.
Si tratta del viaggio di Brendan nel proprio subconscio; dove deve lottare con le proprie paure per uscirne alla fine trionfante e con un’altra visione delle cose”.
Brendan che sconfigge la creatura misteriosa ricorda san Patrizio che, si diceva, aveva sconfitto Crom Cruach, ponendo fine al paganesimo nel Paese.
Se Brendan può essere accostato a san Patrizio allora forse gli illustratori del film si possono paragonare ai miniatori del Vangelo.
“Mentre studiavamo il Libro di Kells – continua Moore – molti sottolineavano il fatto che la sua creazione deve aver richiesto una notevole capacità di meditazione.
I monaci dovevano essere completamente calmi e concentrati, perché è quasi impossibile immaginare come abbiano potuto creare certi dettagli con gli strumenti rudimentali di cui disponevano a quel tempo”.
Ugualmente meticolosa è stata la creazione di un film animato in 2d come questo, disegnato per il 95 per cento a mano e prodotto “senza costosa attrezzatura informatica.
La gente sta dimenticando quanto sia magico il fatto che si può dare vita a qualcosa solo con una matita e un foglio di carta”.
Il regista ha spiegato che ogni secondo di animazione ha richiesto circa una dozzina di disegni per personaggio e sfondi estremamente elaborati (per un’idea dello stile grafico del film, si veda il sito www.thesegretofkells.com).
“Abbiamo impiegato quattro anni, lavorando a tempo pieno per la produzione del film, ma, prima ancora, ne abbiamo impiegati sei per sviluppare l’idea e il soggetto”.
I disegnatori hanno incluso monaci diversi – italiani, africani e mediorientali – non a caso; la scelta dei personaggi deriva direttamente dallo studio del Libro di Kells, decorato anche da disegni orientali.
Gli autori hanno immaginato che monaci provenienti da tutto il mondo avessero lavorato al Libro.
“Secondo molti studiosi, l’Irlanda dell’epoca era una sorta di rifugio e la biblioteca di Kells uno dei pochi ripari esistenti in quel difficile momento storico.
L’Irlanda divenne famosa come terra di santi e studiosi; durante quel periodo, infatti, molte persone vi giunsero per studiare e lavorare perché restare sul continente era troppo pericoloso”.
Il personaggio preferito di Moore è Aisling, una ragazzina che sembra un folletto; in lei c’è tutta l’energia della giovinezza unita a una saggezza senza tempo, una mescolanza di letteratura e vita reale.
“Quello di Aisling è un personaggio che si ritrova spesso nella produzione poetica irlandese del diciottesimo secolo, dove l’Irlanda è rappresentata da una bella donna, molto serena, che appare al poeta in sogno.
Infatti, in gaelico aisling significa “sogno”.
Abbiamo deciso di modificare la tradizione e di fare di Aisling una ragazzina birichina piuttosto che una sobria figura matriarcale”.
Moore ha basato il rapporto fra Brendan e Aisling su quello fra lui e sua sorella: “Le assomiglia anche un po’, solo che Aisling ha i capelli bianchi!”.
Mentre il film comincia ad attirare folle da record negli Stati Uniti, il “segreto” viene esplicitamente svelato dal personaggio del vecchio miniatore: “Il Libro – dice padre Aidan a Brendan, destinato a divenire abate di Kells -: non è stato scritto per essere tenuto nascosto dietro delle mura, lontano dal mondo che ha ispirato la sua creazione devi far conoscere il Libro alle persone cosicché possano sperare.
Permetti alla luce di illuminare questi giorni bui!”. di Tania Mann (©L’Osservatore Romano – 24 marzo 2010) ”Ho visto il dolore nell’oscurità, ma ho anche visto la bellezza prosperare nei luoghi più fragili.
Ho visto il Libro, il Libro che ha trasformato l’oscurità in luce”; The Secret of Kells si apre con queste parole sussurrate.
Il film indipendente prodotto a Kilkenny, in Irlanda, è stato una delle sorprese delle nomination all’Oscar di quest’anno.
È stato candidato come miglior film di animazione contro campioni di incasso come Up della Disney-Pixar e Fantastic Mr.
Fox di Wes Anderson.
La trama del film è ambientata nell’Irlanda del ix secolo e si incentra sulla figura del dodicenne Brendan, un orfano irlandese che vive in una comunità di monaci dediti alla miniatura, ovvero all’arte di illustrare e abbellire i testi evangelici.
Le avventure di Brendan cominciano quando un anziano miniatore un po’ strambo di nome Aidan arriva con il suo gatto Pangur Bán.
Il monaco è noto per la sua opera su un famoso manoscritto greco del leggendario san Columcille (san Columba); viene a cercare riparo dopo essere sfuggito alle incursioni vichinghe che hanno distrutto il suo convento a Iona.
Brendan, spinto dalle richieste di Aidan, parte alla ricerca di bacche per inchiostro e si avventura oltre le mura fortificate del villaggio contro la volontà del severo zio, l’abate di Kells.
Nella foresta incontra Aisling, la briosa e chiassosa ragazzina che lo accompagnerà nel suo viaggio
Invictus
Accade a volte che un evento sportivo assuma significati che vanno oltre l’aspetto agonistico.
Così se per la maggior parte della gente la finale della Coppa del mondo di rugby del 1995 disputata all’Ellis Park Stadium di Johannesburg fu solo un’avvincente partita, peraltro con un risultato sorprendente, per il Sud Africa rappresentò un momento cruciale della storia nazionale.
Grazie alla lungimiranza di un uomo, Nelson Mandela, primo presidente di colore nel Paese, quell’evento divenne esperienza comune di un popolo fino ad allora diviso tra bianchi – pochi ma detentori del potere e della ricchezza – e neri, poveri ed emarginati.
Quell’impensabile convergenza del tifo su una squadra, gli Springboks, sostenuta solo dagli afrikaaners e odiata dai nativi per i colori verde e oro divenuti simbolo della segregazione, aiutò in parte a sanare le ferite del passato e a infondere speranza in un futuro pieno di incognite dopo la vergogna dell’apartheid.
Scegliendo di raccontare questa storia in Invictus, Clint Eastwood, alle soglie degli ottant’anni, prosegue con bravura e sensibilità il suo percorso di regista impegnato a esplorare l’uomo e la società.
E sulla scia di Gran Torino (inno alla non violenza ma anche invito alla tolleranza razziale, contro ogni pregiudizio) affronta i delicati temi del perdono e della riconciliazione.
“Il perdono – fa dire al suo Mandela – libera l’anima, cancella la paura.
Per questo è un’arma tanto potente”.
Probabilmente dietro a queste parole non si cela solo un imperativo morale, ma anche un più pragmatico calcolo politico, segno di una lucida visione della realtà, che però non sminuisce il senso di una scelta coraggiosa.
Nelle sale italiane dal 26 febbraio, Invictus non è, dunque, un film sullo sport in senso stretto, né la biografia di un uomo.
Tuttavia, l’accorta regia di Eastwood e la sceneggiatura di Anthony Peckham tratta dal libro Ama il tuo nemico di John Carlin (Sperling & Kupfer) danno un tono quasi epico alle scene agonistiche caricandole di un pathos che richiama i classici del genere, come Fuga per la vittoria o Momenti di gloria. Così come il fulcro della vicenda sembra perfetto per analizzare i tratti essenziali del carisma politico di Mandela.
Lungi dal voler dipingere un santino del leader dell’African national congress (Anc), che ha trascorso in carcere 27 anni prima di diventare presidente del Paese e un simbolo planetario della lotta per i diritti civili e per la libertà contro ogni oppressione, Eastwood, grazie all’ottima interpretazione di un Morgan Freeman perfetto nel ruolo del protagonista, ne condensa in efficaci quadri la personalità complessa, segnata da un’esistenza durissima.
Emerge così la figura di un uomo intelligente e realista.
“È una domanda lecita” risponde spiazzante ai fedelissimi risentiti per l’astio che si cela dietro il titolo di un giornale l’indomani del voto: “Ha vinto le elezioni ma sarà in grado di governare?”.
Efficace e convincente nel far passare le sue idee, per quanto apparentemente contraddittorie con la sua storia e con quella dei suoi fratelli neri, capace di vedere oltre la limitata prospettiva dei suoi collaboratori più stretti che lo sconsigliano di occuparsi del rugby e di quella squadra amata soltanto dai bianchi, Mandela comprende invece quanto quel campionato del mondo sia importante.
Il Paese sta vivendo un momento cruciale, l’ombra dell’apartheid ancora incombe nei rapporti tra le persone ed egli sa che occorre fare appello all’orgoglio nazionale; per questo punta sull’unica cosa che in qualche modo può unire la sua gente.
Contro tutti, a costo di apparire persino un traditore della causa per la quale ha pagato in prima persona un altissimo prezzo, Mandela riesce a dissuadere i dirigenti dell’Anc dall’abolire la squadra degli Springboks e dal cancellarne gli odiati colori: “Il passato è passato.
Guardiamo al futuro adesso”.
E gioca la sua carta più efficace: portare dalla sua parte il carismatico capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un convincente Matt Damon, e attraverso lui tutti i giocatori.
Lo fa citando una poesia di epoca vittoriana che era stata la sua fonte di ispirazione durante gli anni trascorsi in prigione, Invictus, di William Ernest Henley.
Pienaar, sportivo improvvisamente al centro di una questione politica, comprende che la posta in gioco è ben più alta persino di una coppa del mondo; si appassiona al progetto e controbatte alla diffidenza e alle resistenze dei compagni, uno solo dei quali nero, che convince persino a cantare il nuovo inno nazionale, Nkosi Sikelei i Afrika, cioè “Dio benedica l’Africa” nella lingua dei sudafricani neri: “Che ci piaccia o no – dice ai suoi – siamo più di una squadra di rugby.
I tempi cambiano.
Anche noi dobbiamo cambiare”.
La missione che Mandela affida a quei ragazzi è vincere la coppa del mondo che verrà disputata proprio in Sud Africa, ma il vero obiettivo è la pacificazione nazionale sintetizzata nel motto “una squadra, un Paese”.
L’occasione è unica, irripetibile.
Ma anche sportivamente è un’impresa al limite del possibile.
Tuttavia nulla è impossibile se si persegue l’obiettivo con tenacia e convinzione.
“Sentite? Ascoltate il vostro Paese.
È questo.
Questo è il nostro destino”, urla il capitano ai compagni nel momento più difficile della partita della vita, invitandoli a udire il portentoso incitamento degli oltre sessantamila tifosi sugli spalti e di altri 42 milioni di sudafricani bianchi e neri, per la prima volta uniti, incollati davanti alla tv e alla radio.
Pur non essendo allo stesso livello di Gran Torino, di Mystic River o di Letters from Iwo Jima, Invictus è comunque un ottimo film, senza quella retorica che pure sarebbe stata comprensibile visto il tema, che racconta una scommessa rischiosa ma vinta e, soprattutto, una vicenda realmente accaduta.
Una bella lezione della storia, dunque, portata intelligentemente al cinema da un grande regista a beneficio di un più vasto pubblico.
di Gaetano Vallini
“Shutter Island”
Con Shutter Island Martin Scorsese firma uno psyco-thriller ad alta tensione.
E lo fa con la solita maestria, magari con qualche incongruenza narrativa, confezionando un film gotico, cupo, enigmatico, a tratti claustrofobico, ricco di suspense e di colpi di scena; una pellicola che sicuramente rispecchia bene l’idea di film che il regista si era fatto dopo aver letto l’omonimo romanzo di Dennis Lehane, già autore di Mistic River, portato sugli schermi da Clint Eastwood e premiato con un Oscar: un puzzle in cui i pezzi si incastrano non seguendo un ordine preciso e che resta incomprensibile fino a quando l’ultimo tassello non viene messo al suo posto. Scorsese voleva fare un film sulla follia, senza però limitarsi a questo.
Infatti Shutter Island – presentato sabato in anteprima mondiale al festival di Berlino, nelle sale americane il 19 febbraio e in quelle italiane il 5 marzo – è soprattutto un viaggio nelle paure interiori, le più nascoste e inconfessabili.
Quelle che accompagnano, nell’autunno del 1954, l’agente federale Teddy Daniels (un credibile Leonardo Di Caprio) sull’inaccessibile e sorvegliatissima isola Shutter, al largo di Boston, sede dell’ospedale psichiatrico di Ashecliffe nel quale sono detenuti pericolosi criminali psicopatici.
Il suo incarico, e quello del collega Chuck Aule (il sempre più apprezzato Mark Ruffalo), è di trovare Rachel Solando, rinchiusa per aver ucciso i suoi tre figli, misteriosamente scomparsa.
Mentre compiono la loro indagine – di cui il mondo esterno sembra non sapere nulla e che pian piano stringe gli investigatori in una morsa di inquietudine, di paura e di confusa irrazionalità – sull’isola si abbatte una tempesta di eccezionale violenza che rende tutto più tetro.
Sospetti e misteri si moltiplicano, in un crescente vortice di tensione in cui si fanno strada ipotesi di sordidi complotti – siamo negli anni segnati dalla paranoia della guerra fredda e dal maccartismo – e di disumani esperimenti sui pazienti cui gli enigmatici medici (i bravi Ben Kingsley e Max von Sydow) sembrano avere parte.
Teddy in particolare accusa il peso di quanto avviene, costretto com’è a entrare in un mondo in cui la psiche umana ha perso totalmente il controllo e nel quale vengono alla luce segreti sconvolgenti, così come verità orribili che sembravano sepolte per sempre.
Fedele al romanzo, la sceneggiatura di Laeta Kalogridis intreccia realtà e fantasia, verità e illusione, proponendo numerosi flashback che riportano alla mente di Teddy le agghiaccianti immagini della liberazione del campo di concentramento di Dachau, in cui è stato come soldato, e le allucinazioni sulla giovane moglie morta nell’incendio della casa.
E proprio quest’ultimo evento lega l’agente a quell’ospedale psichiatrico: egli non è lì per caso; sa che in quel luogo si trova il responsabile di quel rogo.
La creatività di Scorsese in Shutter Island sembra segnare il passo, sottomessa alla rigidità del soggetto scelto.
Tuttavia ogni cosa appare credibile nella narrazione di Scorsese, grazie anche alla realistica ricostruzione dell’atmosfera e della vita degli ospedali psichiatrici americani del tempo firmata da Dante Ferretti e soprattutto alla plumbea, penetrante fotografia di Robert Richardson.
Tutto collima e il racconto sembra seguire una sua logica, per quanto complessa.
Solo alla fine, guardando all’indietro, si possono notare, come già accennato, possibili incongruenze, situazioni non proprio lineari.
Ma il risultato filmico è notevole, pur non essendo di fronte a un’opera memorabile.
Del resto se è vero che in un thriller ciò che conta è restare incollati alla poltrona fino alla fine in attesa che il mistero venga svelato, ebbene Scorsese – che da cinefilo appassionato conosce alla perfezione i meccanismi della visione – riesce con bravura nell’intento, raccontando una storia in cui la realtà cambia in continuazione e i piani si confondo.
Un film sulla follia e sulla paura, dunque, ma anche sulle radici della violenza, che percorre questa pellicola trasversalmente.
Per sua stessa ammissione, Scorsese considera la violenza il cuore del suo cinema, dove centrale appaiono i tentativi dell’uomo di controllarla.
Chi non ci riesce o impazzisce o vive nella finzione, attraverso compromessi, come ha già raccontato agli inizi in Mean street e ultimamente in The departed.
E come in queste pellicole, anche in Shutter Island viene offerta la possibilità di redenzione dal male.
L’ancora di salvezza qui risiede nella scienza; una scienza non proprio ortodossa, persino disumana, ma a suo modo rozzamente efficace.
Il protagonista della storia, Teddy, ne è consapevole, per questo ne diffida; del resto ha vissuto situazioni di grande sofferenza, di orrore addirittura inimmaginabile alle quali la scienza non è stata del tutto estranea.
Fortunatamente alla maggior parte della gente ciò è risparmiato, ma Scorsese sembra dirci che tutti in qualche misura nascondiamo nel profondo una Shutter Island che contiene i semi di violenza, nonché le paure, i segreti inconfessabili, le cose che si vorrebbero cancellare dalla memoria.
Ma invita altresì a prendere coscienza che solo accettando la nostra natura umana, con le sue debolezze ma anche con le sue infinite risorse, è possibile costruire un futuro di speranza.
“Siamo noi a decidere come vivere – ha detto di recente – e la via del riscatto è la consapevolezza”.
Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 15-16 febbraio 2010)
Soul Kitchen: La cucina dell’anima
Domande & Risposte Fatih Akin, regista elegante, si era assicurato una buona fama tra le giurie internazionali, però voleva “provarci” con la commedia, magari anche triviale, il cui menu prevede finezze estetiche e risate irrefrenabili, battutacce, tripli sensi e sciabolate politicamente ed etnicamente perfette.
Da sentirsi appagati.
Fatih, come l’ha impegnata la scrittura di questo film? E’ stato davvero molto difficile.
Mettere in fila ogni elemento perché tornasse è stato complicatissimo.
Abbiamo lavorato alla sceneggiatura per mesi se non per anni, l’abbiamo rivista innumerevoli volte.
Scrivere in maniera umoristica è molto più difficile rispetto alla scrittura drammatica.
Inoltre scrivere secondo determinate convenzioni è più difficile di quando comunemente si immagini.
Il protagonista soffre di ernia al disco…
Come mai ha scelto proprio l’ernia? Il protagonista secondo la mia visione porta il peso del mondo, quindi la sua infermità è dovuta anche a una dimensione psichica.
E’ un po’ il simbolo del personaggio.
Tra l’altro il sistema “traumatico” che viene usato per curare il personaggio è davvero adoperato, ad esempio in Turchia, e offre autentici benefici.
Posso garantirlo! Come mai è passato alla commedia dopo tanti film d’autore? Avevo l’esigenza di fare un film completamente diverso.
Avevo l’impressione di dover fare un sacrificio per andare oltre, e lo spunto mi è stato dato da un momento doloroso, la morte di un mio caro amico che è stato anche mio produttore.
Lui voleva fortemente che io facessi questo film, ma io resistevo, avevo paura di fare cose che non fossero serissime.
Ma dopo questo triste evento ho capito che dovevo sperimentare.
Del resto mi annoiano i registi che hanno sempre lo stesso stile.
Poi ho capito un’altra cosa, che ridere è parte della vita e non è una cosa da respingere.
Com’è nato il personaggio del cuoco? Questo personaggio è stato ampliato da Birol Uenel, all’inizio non aveva tutta questa importante.
Birol durante le riprese veniva sul set citando Rimbaud, un suo libro che aveva sempre con sè.
E parlava del concetto di svendersi.
Dopo 40-50 volte che ho sentito citazioni di questo genere ho capito che Birol stava parlando del film, del concetto di svendere, svendere cibo, svendere vite.
E ho capito che il cuoco era una specie di Don Chisciotte che combatteva per un mondo migliore.
Com’è stato lavorare con Bousdoukos(l’interprete principale)? E’ l’uomo più forte che conosco: lui è davvero in grado di sollevare il mondo e di giocarci, come Charlot.
La colonna sonora del film Soul Kitchen ,è coinvolgente, come l’avete scelta? Volevamo che la macchina da presa fosse musicale: sul set ascoltavamo sempre le canzoni della colonna sonora, in modo da sentire l’atmosfera giusta per i movimenti di macchina e da sperimentare con essa.
La colonna sonora è composta da molti brani strumentali soul degli anni ’70, come quelli di Quincy Jones e di Kool & The Gang, che danno trasparenza a ogni cosa.
Mi piace usare le canzoni come commento, per inserire un secondo o terzo livello di lettura.
Alla fine del film, quando, durante la vendita all’asta del Soul Kitchen, il concorrente di Zinos si strozza con un bottone, si sente in sottofondo “The Creator Has A Master Plan” di Louis Armstrong.
È una scena comica, ma ha anche qualcosa di divino.
Io credo in questo, credo in un’energia che rende possibili cose di questo genere.
Punti molto sul dialogo e l’incontro, anche tra le culture, cosa possono generare? Uno dei temi principali è proprio quello della comunicazione.
Tutti ne parlano , ma non ce n’è molta.
Quello della comunicazione è davvero un problema in questo mondo globalizzato.
Per questo ho usato tre lingue nel film.
Le tensioni spesso, anche in Turchia, nascono proprio da problemi di comunicazione e io come artista ho cercato solo di usare gli strumenti a mia disposizione per rappresentare il mondo come vorrei.
È nato il 25/08/1973 ad Amburgo.
Ha studiato Comunicazione Visiva al College of Fine Arts di Amburgo.
I suoi genitori sono emigrati dalla Turchia in Germania nel 1960.
Sposato con Monique, hanno un figlio.
Membro della giuria del Festival del Film Internazionale a Berlino nel 2001, e nel 2005 del Festival di Cannes.
A volte fa il DJ come Superdjango.
Tedesco di seconda generazione, Fatih Akin esprime nelle sue pellicole un mondo delicato, poetico e al tempo stesso ironico e crudo.
Racconta conflitti culturali, identità violate, vite on the road, aspri drammi quotidiani.
Il suo non è solo cinema d’emigrazione, sebbene nelle sue opere il distacco tra la patria d’accoglienza e quella d’origine sia sempre un tema forte e sentito.
Nelle strade affollate della Germania, nei vicoli bui, nei silenzi e nei rumori sconfinati, sembrano rivivere le bellezze e le contraddizioni della Turchia.
Con uno stile che poggia su tregue temporali, stabili impalcature narrative, improvvise esplosioni passionali, spunti satirici al limite del grottesco, frammentazioni dei punti di vista, il regista si impone sin da subito come moderno cantore di tradizioni e differenze, conflitti e integrazioni.
Il primo corto Sensin – Du bist es! (Sensin – You’re the One!, 1995) vince il premio del pubblico al Hamburg International Short Film Festival.
L’esordio nel lungometraggio arriva nel 1997 con Kurz und schmerzlos (Short Sharp Shock), un puzzle denso e colorato sulle vite di tre immigrati (un turco, un serbo e un greco) ad Amburgo.
Il film ottiene il Pardo di Bronzo al Festival di Locarno e il premio come miglior esordiente ai Bavarian Awards di Monaco.
Im Juli (In July, 2000) è un road movie che vede protagonista un professore in viaggio nell’Europa dell’Est, con meta ultima Istanbul.
Obiettivo agognato per riscoprire le proprie origini, porsi uno scopo, ritrovare la coscienza delle radici.
Un filo rosso che unisce tanti emigrati di seconda generazione.
Una rincorsa verso l’identità d’origine che torna prepotente nella terza regia Wir haben vergessen zurückzukehren (I Think About Germany: “We Forgot to Go Back” , 2001), un progetto molto intimo, documentario sul ritorno dei genitori del regista dalla Germania alla Turchia, che diventa pretesto per esplorare sentimenti comuni a tutte le persone lontane dalla propria casa, non necessariamente quella d’origine.
Solino (2002) è un’altra storia di immigrazione, questa volta di una famiglia pugliese trasferitasi a Duisburg negli anni 60.
La Germania vive un profondo cambiamento, è il cinema stesso a guidare i sogni e le aspirazioni dei due fratelli protagonisti.
Conflitti e incomprensioni non potranno scalfire la vita condotta insieme, quando il ritorno al paese natale serve da sguardo e ricognizione verso il passato comune.
Nel 2003 il regista fonda con l’amico Klaus Maek una piccola casa di produzione, la Corazón International.
La società realizza i suoi film ed è il preludio al successo internazionale che Akin ottiene nel 2003: La sposa turca (Gegen die wand, Head-On) vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino.
La completezza formale è raggiunta, nella vicenda di Cahit e Sibel emerge un duro realismo, un sentito mal di vivere, una tensione crescente.
Un dramma interetnico che si muove tra la difficoltà di rimanere fedele alle tradizioni e la voglia di abbracciare il nuovo.
Il tutto è sottolineato dagli intervalli musicali di una immobile banda che suona sulle rive del Bosforo.
Ed è proprio la musica al centro del successivo Crossing the Bridge – The Sound of Istanbul (2004), documentario presentato a Cannes, flusso sonoro sulla scena rock, hip hop e folk della grande città turca.
Il ponte da attraversare è quello tra le due culture che si intrecciano, Oriente e Occidente.
A guidare l’occhio della macchina da presa tra club, dance hall, bar fumosi, periferie e balere, Alexandre Hacke, già autore delle musiche di La sposa turca e membro della industrial band tedesca Einststürzende Neubauten.
Il ritorno alla fiction è del 2007 con Ai confini del Paradiso (Auf der anderei Seite, The Edge of Heaven), seconda parte della trilogia su Amore, Morte & il Diavolo e premiato per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes.
Sei personaggi che si incrociano, ognuno alla ricerca di qualcosa.
Tra Amburgo, Brema, Istanbul, Trabzon, sradicamento, confusione esistenziale, solitudine, compongono un dedalo, una ragnatela di relazioni che ammalia e frastorna, donando soltanto allo spettatore la chiave per ricostruire drammi privati e attrazioni/repulsioni politiche.
Perché si può restare separati dai propri ideali, così come superarli e poi arrivare “dall’altra parte”.
E poi è arrivato: Soul Kitchen , Premio della Giuria internazionale di Venezia’66 L’eccentrico chef di Soul Kitchen, Shayn Weiss, apre le porte della sua cucina e svela i segreti che rendono i suoi piatti così appetitosi: si inizia con il gaspacho andaluso per passare agli gnocchetti di tofu, alle sardine fritte e ai fagottini con salsa allo yogurt.
Per gli amanti della carne non manca l’agnello con ratatouille, mentre chi è goloso di dolci non potrà resistere alla delicatezza della “schiuma di Venere”.
Nonostante si tratti di ricette particolari, Shayn ci dimostra che con gli ingredienti giusti e un pizzico di pazienza anche noi possiamo ricreare un elegante menu soul.
Volete provarci??? (Tutte le ricette del film) 1)Papillon di gaspacho andaluso alla maniera di Shayn Soul-ingredienti 4 fette di pane bianco 600 g di pomodori maturi 2 peperoni 1 cetriolo 3-4 spicchi d’aglio 150 ml di olio d’oliva Sale Pepe macinato fresco 2-3 cucchiai da minestra di aceto di Sherry 2 uova sode 2 scalogni Preparazione Tagliate via la crosta dalle due fette di pane e sbriciolatele grossolanamente, imbevetele d’acqua e lasciate inumidire.
Nel frattempo pelate i pomodori.
Privateli dei semi e tagliateli in piccoli pezzi uniformi.
Fate lo stesso con i peperoni e il cetriolo.
Sbucciate l’aglio e tagliatelo grossolanamente.
Conservate in due piccole ciotole una parte dei pomodori e dei peperoni: vi serviranno più tardi come guarnizione.
Prendete il cetriolo, i pomodori e i peperoni restanti e passateli assieme all’aglio nel mixer.
Aggiungete il pane e 125 ml d’olio, mischiate ulteriormente e passate dunque al setaccio.
Versatevi ora abbastanza acqua (o brodo) fino a ottenere la consistenza desiderata.
Aggiustate di sale e pepe e fate raffreddare per due ore in frigorifero.
Con il pane restante tagliate dei dadini e fateli abbrustolire nell’olio.
Sminuzzate lo scalogno e le uova sode e conservate il pane abbrustolito, lo scalogno e le uova in tre ciotoline separate.
Servite la zuppa molto fredda.
Come accompagnamento porterete in tavola le ciotoline con le verdure e il pane bruscato, così come quelle con le uova e lo scalogno.
Ogni commensale ne aggiungerà a suo piacimento alla zuppa.
Zuppa del maestro dell’agopuntura Soul-ingredienti Per la minestra: 90 g di burro 30 g di scalogno 250 g di rape rosse 6 dl di brodo chiarificato di pollo o vegetale 1 dl di panna Il succo di mezzo limone Sale, pepe, noce moscata, zucchero Per gli gnocchetti: 130 g di tofu 35 g di burro 45 g di pane bianco grattugiato 3 rossi d’uovo Sale, pepe, limone Erba cipollina fresca per “agopunturizzare” gli gnocchetti Grattugiate il tofu.
Mescolate il burro ed il rosso d’uovo fino ad ottenere una spuma.
Aggiungete il pane bianco e amalgamate il tofu.
Condite con sale, pepe e limone.
Mettete in freddo.
Tritate finemente lo scalogno.
Lessate le rape rosse pelate e tagliate in piccoli pezzi.
In un pentolino portate ad ebollizione dell’acqua leggermente salata.
Scaldate in una pentola 50 g di burro per poi soffriggere dolcemente lo scalogno.
Aggiungete le rape rosse, fate soffriggere brevemente e stemperate infine versando il brodo nella pentola.
Lasciate cuocere per tre minuti.
Con le mani impastate dei piccoli gnocchetti di tofu che farete cuocere nell’acqua per 5 minuti.
Tagliate l’erba cipollina uniformemente, in “aghi d’agopuntura” delle dimensioni di un fiammifero.
Frullate la zuppa, aggiungetevi la panna, lasciate poi riposare vicino al fornello.
Una volta cotti gli gnocchetti, “agopunturizzateli” con gli steli d’erba cipollina.
Riportate brevemente ad ebollizione la zuppa e, aggiungendo un po’ di burro, rendetela spumosa mescolando.
Servite in un piatto tenuto caldo, adagiando con attenzione nella zuppa gli gnocchetti “agopunturizzati”.
Sardine fritte “dell’agente immobiliare” su letto di lattuga romana Soul-ingredienti 1 kg di sardine fresche 100 g di farina di mais fina 1 cucchiaino da tè di Pul Biber (fiocchi di paprika macinati grossolanamente) Sale Il succo di un limone Olio di mais per friggere 2 cespi di lattuga romana Un ciuffo di prezzemolo 3 porri 2 scalogni 2 piccoli lime 3 cucchiai da minestra d’olio d’oliva Desquamate (se necessario) le sardine e lavatele in acqua fredda.
Asportate ad ogni pesciolino la testa e praticate un’incisione all’altezza della pancia per ripulire le interiora.
Lasciate i pesci per circa un’ora sotto acqua corrente fredda.
Asciugateli poi su carta da cucina, salate e versatevi sopra alcune gocce di succo di limone.
Spianate su di un piatto la farina di mais, un po’ di sale e il Pul Biber.
Scaldate olio di mais a sufficienza in una padella.
Impanate con cautela i pesci e friggeteli dorati da entrambi i lati.
Assorbite l’unto in eccesso con della carta da cucina.
Lavate i cespi d’insalata in acqua fredda.
Scolate le foglie e tagliatele in piccoli pezzi.
Fate lo stesso con il prezzemolo.
Sbucciate lo scalogno e tagliatelo ad anelli sottili insieme al porro.
Mischiate tutti gli ingredienti in un’insalatiera.
Condite poi con olio d’oliva ed il succo dei lime.
Servite le sardine in un vassoio assieme all’insalata e decorate con il prezzemolo e qualche spicchio di limone.
Accompagnate con del pane.
Fagottini dello “spaccaossa” con salsa allo yogurt Soul-ingredienti Per l’impasto: 400 g di farina 1 uovo ca.
200 ml di acqua 1 cucchiaino da tè di sale Farina per la lavorazione Per il ripieno: 150 g di macinato magro di agnello 1 cipolla 1 mazzetto di prezzemolo Pepe nero macinato 1 cucchiaino da tè di paprika dolce Una manciata di cumino stellato 1 cucchiaino da tè di sale Per la salsa: 375 g di yogurt greco 2 spicchi d’aglio senza buccia Extra: 80 g di burro 1 cucchiaino da tè di paprika piccante Menta fresca per decorare Impasto: setacciate la farina e mischiatela con il sale, l’uovo e l’acqua.
Lavorate l’impasto fino ad ottenere un composto uniforme e solido.
Ricoprite l’impasto e fate riposare per 20 minuti.
Ripieno: mettete la carne macinata in una ciotola.
Insieme grattugiatevi finemente la cipolla.
Lavate il prezzemolo, asciugatelo e tagliatene finemente le foglie.
Aggiungete alla carne il prezzemolo, la paprika dolce, il cumino, il sale, il pepe macinato e impastate con cura.Salsa: versate lo yogurt in una scodella.
Aggiungete l’aglio spremuto, amalgamate con la frusta fino a rendere lo yogurt cremoso.
Fate raffreddare la salsa in frigorifero.
Dividete l’impasto in quattro parti.
Su di un ripiano che avrete infarinato in precedenza stendete la pasta fino a ottenere una sfoglia molto sottile che taglierete in quadrati di quattro centimetri di lato.
Su ogni quadrato di pasta ponete un cucchiaino da tè del ripieno.
Pressate i quattro angoli della sfoglia ed anche i bordi così da formare dei fagottini ben sigillati.
In una pentola capiente scaldate acqua a sufficienza salandola con un cucchiaio da minestra di sale.
Fate quindi bollire i fagottini a fuoco moderato e senza coperchio per 4-5 minuti.
Scolate con attenzione aiutandovi con un setaccio.
Sciogliete il burro in un pentolino aggiungendovi la polvere di paprika.
Servite i fagottini in piatti fondi, versatevi sopra un po’ della salsa allo yogurt, qualche goccia di burro alla paprika e decorate con della menta fresca.
Prelibatezza d’agnellino da latte “meeh” con ratatouille Soul-ingredienti 12 costolette di agnellino 100 ml di aceto balsamico 5 cucchiai da minestra di olio d’oliva 1 limone Rosmarino Origano Timo 1 spicchio d’aglio 1 piccolo peperoncino Sale, pepe 3 peperoni (rosso, verde, giallo) 1 zucchina Mezza melanzana 2 scalogni 1 spicchio d’aglio 3 pomodori Sale, pepe Olio d’oliva Timo Origano Lavate velocemente le costolette e tamponatele con della carta da cucina.
Incidete con il coltello in più punti il margine di grasso e raschiate via con cura le ossa dalla carne.
Per la marinata versate l’olio, l’aceto balsamico e il succo di limone in una scodella.
Aggiungetevi gli odori lavati e sfilacciati grossolanamente.
Schiacciate poi uno spicchio d’aglio sbucciato.
Dividete a metà il peperoncino, privatelo dei semi e tritatelo finemente.
Mischiate bene aggiungendo pepe e sale.
Mettete le costolette in una padella e ricopritele con la marinata.
Lasciate riposare il tutto ricoperto per circa 3-4 ore in frigorifero, preoccupandovi di voltare più volte le costolette.
Scolate le costolette e rosolatele in una padella con dell’olio caldo oppure sulla griglia tenendole dai 3 ai 5 minuti per lato.
Infine aggiustate di sale e pepe.
Dopo averla cotta, lasciate riposare ancora un po’ la carne.
Per la ratatouille mondate la verdura e tagliatele in pezzi d’uguale grandezza.
Sbucciate gli scalogni e l’aglio e tritate finemente.
Pelate e private i pomodori dei semi per poi tagliarli a loro volta.
Fate appassire a fuoco dolce gli scalogni e l’aglio e aggiungeteci a mano a mano i peperoni, le zucchine e le melanzane.
Insaporite con il timo, l’origano, il sale e il pepe, lasciando cuocere e accertandovi che le verdure mantengano la cottura al dente.
Infine aggiungete i pomodori e fate terminare brevemente la cottura girando bene.
Disponete sul fondo del piatto la ratatouille e adagiatevi sopra tre costolette per porzione.
Decorate con del rosmarino fresco.
Festosa schiuma di Venere su un letto di “soul” uva passa Soul-ingredienti 150 g di glassa bianca 3 uova 1 stecca di vaniglia 2 fogli di gelatina 250 g di panna non troppo montata 0,5 cl di Rum 0,5 cl di Grand Marnier uva passa una ciotola di fragole menta fresca Ammorbidite la gelatina in acqua fredda e sciogliete la glassa a bagnomaria.
Separate poi il bianco di una delle tre uova.
Montatelo a neve con un pizzico di sale assicurandovi che sia sufficientemente compatto da non fuoriuscire dalla ciotola capovolta.
In una seconda ciotola montate la panna lasciandola un po’ lenta.
Fate freddare entrambe in frigorifero.
Fate sciogliere lentamente la glassa tagliata in piccole parti fino a renderla liquida.
Estraete l’essenza dalla stecca di vaniglia recisa in due parti per lungo.
Sbattete quindi le due uova ed il giallo restante assieme alla vaniglia e aiutandovi con del vapore rendetele spumose.
Scaldate il Rum e il Grand Marnier in un pentolino e scioglietevi la gelatina ben strizzata.
Procedete ad amalgamare la glassa e la gelatina sciolta con la spuma d’uova ancora calda.
Rigirate e fate freddare.
Aggiungete con molta cautela prima la panna e poi il bianco d’uovo montato al composto d’uovo liquoroso.
Nel fare ciò abbiate cura di non alterare il volume e la spumosità.
Versate tutto in un recipiente che lascerete freddare in frigorifero fino a ottenere una densa spuma di Venere.
Sciacquate e asciugate le fragole.
Conservate 4-6 fragole che userete dopo come decorazione, mentre passate quelle restanti nel mixer e poi al setaccio.
Arricchite la salsa di fragole con dello zucchero a velo e qualche goccia di Grand Marnier.
Lavate ora l’uva e liberatela dai raspi, asciugate.
Passiamo ora alla presentazione: prendete dei bicchieri da cocktail (Martini) o delle piccole ciotole di vetro.
Adagiatevi uno o più chicchi d’uva (regolatevi in base alla grandezza del vetro).
Aiutandovi con un sac à poche con il beccuccio a stella riempite i bicchieri coprendo delicatamente i chicchi d’uva con la spuma di Venere.
Versate poi in superficie un po’ di salsa di fragole, decorate con le restanti fragole e della menta fresca.
N.B.
La presentazione di queste ricette che sono preparate dal cuoco estroso di Soul Kitchen possono- forse- cancellare anche qualche altro stereotipo, tipo “che schifo, il mangiare tedesco, turco, arabo…”, no??? Soul Kitchen, Premio della Giuria internazionale di Venezia’66 [Soul Kitchen , Germania, 2009, Commedia, durata 99′] Regia di Fatih Akin Con Moritz Bleibtreu, Birol Ünel, Wotan Wilke Möhring, Jan Fedder, Peter Lohmeyer, Dorka Gryllus, Lukas Gregorowicz, Maria Ketikidou, Catrin Striebeck, Marc Hosemann Zinos (Adam Bousdoukos) è il proprietario di origine greca di un ristorante di Amburgo che sta attraversando un periodo di notevoli difficoltà: la sua fidanzata Nadine si è trasferita a Shanghai e ai suoi clienti il nuovo chef che ha assunto non va affatto a genio, tanto che hanno deciso in massa di boicottare il locale.
Per Zinos si tratterà così di intraprendere una lotta su due fronti: riconquistare la fiducia della clientela e il cuore di Nadine.
Due compiti che però non lo spingono decisamente nelle stessa direzione, mettendolo di fronte a scelte complicate.
“La musica è il cibo dell’anima!” grida un disperato Zinos all’ispettrice dell’Ufficio Imposte mentre esce dal Soul Kitchen con l’impianto stereo che gli ha confiscato perché non ha pagato le tasse.
Il soul è il cuore di questo ristorante di Wilhelmsburg: dai brani strumentali funky di Kool & The Gang, Quincy Jones o Mongo Santamaría alle classiche tracce R&B di Sam Cooke e Ruth Brown.
Ma non c’è solo la musica soul.
La colonna sonora è un mix di hip-hop e sound elettronico di Amburgo, musica rock dal vivo, rebetiko greco e “La Paloma”.
Un tipico DJ-set di Fatih Akin insomma, e naturalmente non può esserci un heimat film ambientato ad Amburgo senza una canzone di Hans Albers, uno dei più grandi e popolari attori-cantanti tedeschi degli anni ’30 e ’40.
Che cos’è la musica soul? Non appena il rhythm ‘n’ blues si affermò come musica nera, diede vita a nuovi stili: il rock ‘n’ roll negli anni cinquanta, la musica soul negli anni sessanta, la musica disco e funk negli anni settanta.
Dal novembre 1963 al gennaio 65 Billboard non pubblicò la hit-parade della categoria Rhythm ‘n’ Blues, dato che c’erano così tanti brani che potevano essere compresi sia nel rhythm ‘n’ blues che nel pop che sembrava superfluo mantenere le due categorie separate.
Un revival del rhythm ‘n’ blues negli anni sessanta ripristinò questa categoria, che da quel momento in poi incluse la musica soul e altri stili di musica nera.
Mentre i temi dominanti nei testi del rhythm ‘n’ blues erano l’amore e i rapporti umani in generale, le parole cantate dagli interpreti di soul toccavano temi quali l’ingiustizia sociale, l’orgoglio dei neri, la militanza nera e altre forme di protesta; la loro musica di conseguenza era più dura, più intensa e più esplosiva del rhythm ‘n’ blues, con maggior enfasi sugli elementi tradizionali (come il gospel, per esempio) e sulle pratiche interpretative.
Alla pari di altri stili di musica nera, la musica soul eludeva una definizione precisa; la maggior parte dei suoi maggiori esponenti apparteneva anche al mondo del gospel, del blues o del rock.
Certamente una lista comprenderebbe, oltre agli individui già citati, James Brown (1933-2006), Ray Charles (1930-2004), Sam Cooke (1931-1964), Aretha Franklin (1942) e Nina Simone (Eunice Kathleen Waymon, 1933-2003).
James Brown, il cui primo grande successo fu Please, Please, Please nel 1956, nei tardi anni sessanta si era già guadagnato il titolo di «padrino del soul» e «Soul Brother No.
1» e divenne particolarmente famoso per il suo manifesto vocale Black is Beautiful: Say It Loud: l’m Black and l’m Proud (1968).
Aretha Franklin che figurava regolarmente al primo posto nei sondaggi gospel, blues e rhythm ‘n’ blues, fu consacrata «regina del soul», mentre Nina Simone si guadagnò l’appellativo di «sacerdotessa del soul».
Sam Cooke passò dalla apprezzatissima posizione di lead singer del gruppo gospel Soul Stirrers a una posizione di uguale rilievo nell’orbita del soul e del rhythm ‘n’ blues.
Esercitò una grande influenza su cantanti quali Marvin Gaye (1939-1984), Al Green (1946), Otis Redding (194| 1967) e Robert «Bobby» Womack (1944).
Altre figure importanti del soul furono «Little» Anthony and the Imperials, Roy Hamilton, Clyde McPhatter, Jackie Wilson e il gruppo femminile The Shirelles(Da: La musica dei neri americani.
Dai canti degli schiavi ai Public Enemy, di Eileen Southern, edizioni il Saggiatore).
“Avatar”
Pubblichiamo quasi integralmente un articolo apparso sul sito in rete della rivista “Mondo e Missione” (www.missionline.org).
La pellicola di James Cameron ha fatto discutere, e molto, anche per il suo rapporto con la religione.
La domanda potrebbe suonare così: di quale religione è Avatar? A dar fuoco alle polveri è stato il commentatore di religious affairs del “New York Times”, Ross Douthat, che dalle colonne del quotidiano liberal l’estate scorsa aveva promosso a pieni voti la Caritas in veritate di Benedetto XVI.
Secondo Douthat, Avatar presenta “un’apologia del panteismo, una fede che rende Dio uguale alla Natura, e chiama l’umanità a una comunione religiosa con il mondo naturale”.
Il commentatore ricorda come questa visione religiosa sia una sorta di cavallo di battaglia dell’Hollywood più recente.
Per Douthat la scelta panteista di Cameron, e dell’industria cinematografica Usa in generale, continua su questa strada perché “milioni di americani vi hanno risposto in maniera positiva”.
E come riconosceva già nell’Ottocento il filosofo francese Alexis de Tocqueville, “il credo americano nell’essenziale unità del genere umano ci porta ad annullare ogni distinzione nella creazione.
Il panteismo apre la strada a un’esperienza del divino per la gente che non si sente a proprio agio con la prospettiva scritturistica delle religioni monoteistiche”.
All’editorialista hanno replicato diversi osservatori.
Sul cliccatissimo giornale online “Huffington Post” Jay Michaelson ha corretto l’interpretazione di panteismo per Avatar, parlando invece di “visione unitaria dell’Essere”.
“I panteisti non pregano, i panessenzialisti sì, come avviene in Avatar”, suona la precisazione di Michaelson.
Un’altra interpretazione viene dal blog “politicsdaily.com”, a firma di Jeffrey Weiss, che invece ha deteologicizzato l’opera di Cameron, affibiandole la qualifica di “allegoria di carattere neurologico, non teologico”: “Il film tende a fare in modo che lo spettatore pensi al modo in cui vuole trattare le persone con cui vive, i valori e le abitudini diverse dalle proprie”.
Dall’Oriente arrivano interpretazioni ancora più “teologiche”.
Il quotidiano “Hindustan Times” ha ospitato una recensione in cui riconosce che i personaggi alieni che abitano Pandora “sono di colore blu, non molto diversi dalle immagini popolari di Shiva”, una delle principali divinità induiste.
A dar man forte all’interpretazione indù del kolossal – che in pratica si sposa bene con la visione panteista del “New York Times” – è anche il sito di “Hinduism Today”, in un articolo dal titolo che più chiaro non si può: “Il nuovo film Avatar getta luce su una parola indù”.
Scrive l’articolista: “La teologia indù elenca dieci tipi di avatar.
Le origini di questa parola vengono dal sanscrito dei sacri testi indù ed è un termine per gli esseri divini mandati a ristabilire la divinità sulla Terra”.
Il sito dà voce a un fedele induista, Anil Dandona: “Il modo in cui la parola avatar viene usata nel film non è una distorsione della mia fede.
È appropriato.
Noi crediamo nell’Essere Supremo mandato presso gli uomini per creare la giustizia.
Questi messaggeri di Dio prendono forme umani, ma hanno qualità divine”.
E il cristianesimo, è assente da Avatar? Mark Silk, sul blog “SpiritualPolitics”, rintraccia il nome “cristiano” di un personaggio del film: Grace Augustine, che per Silk fa riferimento al santo di Ippona e al concetto cristiano di “grazia”.
Sarà Grace a spiegare al protagonista, l’ex marine Jake Sully, i significati nascosti del mondo di Avatar, come quello di “rinascere due volte”, che Silk rilegge cristianamente secondo il dettato evangelico dei born again.
“Per questo – conclude il blogger di “SpiritualPolitics” – è possibile affermare che Cameron ha unito la vecchia teologia cristiana della grazia e della redenzione alla sua parabola anti-imperialista”.
Il dibattito, come si vede, è più aperto che mai.
di Lorenzo Fazzini Tanta stupefacente tecnologia da incantare, ma poche emozioni vere, emozioni umane per intendersi, in un mondo di alieni pur eccezionalmente immaginato e rappresentato.
Tuttavia l’attesissimo film di James Cameron Avatar – che uscirà il 15 gennaio in Italia con un mese di ritardo rispetto al resto del mondo – non deluderà le aspettative degli appassionati del filone fantascientifico.
Infatti con Avatar, la pellicola più costosa della storia (oltre 400 milioni di dollari, lancio compreso), la magia del cinema si rinnova in tutta la sua forza immaginifica. Del resto la rilevanza del film sta nell’impatto visivo più che nella storia, piuttosto scontata, e nei messaggi peraltro non nuovi, già al centro, talvolta con ben altro spessore, di diverse pellicole alle quali il regista si richiama più o meno apertamente, da Piccolo grande uomo a Balla coi lupi, da Un uomo chiamato cavallo a Pocahontas.
L’innovativo 3D, unito alla rivoluzionaria tecnica performance capturing che coglie anche le espressioni degli attori per trasporle in animazione digitale, porta l’esperienza visiva a livelli mai visti.
A cominciare dalla qualità dell’ambiente in cui si svolge l’azione, con una tridimensionalità che non punta a “bucare” lo schermo, ma a rendere la scena avvolgente, con una profondità che avvicina molto alla realtà e una maggiore nitidezza di dettagli.
D’altra parte Cameron ha tenuto questo progetto nel cassetto per 10 anni – la prima idea è del 1995, la realizzazione è iniziata nel 2005 – proprio perché allora non c’erano i mezzi tecnici per rendere sullo schermo quanto da lui immaginato.
E siccome è uno sperimentatore, il regista non si è limitato a usare tecniche di computer grafica già conosciute, ma ne ha inventate altre.
E il risultato è affascinante.
La storia si svolge nel 2154.
Protagonista è Jake Sully (Sam Worthington), un marine rimasto paralizzato alle gambe spedito sul pianeta Pandora, mondo primordiale ricco di materie prime preziose di cui gli umani vogliono impossessarsi e abitato dai Na’vi, giganteschi uomini blu, razza guerriera determinata a difendere il proprio territorio.
Su Pandora non c’è ossigeno e gli uomini non potrebbero sopravvivere.
Per avvicinare i nativi vengono utilizzati degli “avatar”, Na’vi artificiali creati dalla scienziata Grace Augustine (Sigourney Weaver), che possono essere “indossati” da ospiti umani attraverso un travaso della coscienza.
Per Jake è l’occasione per recuperare l’uso delle gambe e tornare in prima linea.
Presto, però, il marine si innamora dell’indigena Neytiri (Zoë Saldana), comincia a comprendere la sua civiltà e le cose per cui lotta, finendo per passare dalla parte dei Na’vi e a combattere contro gli invasori umani.
Cameron punta, dunque, su un racconto di portata universale, facilmente condivisibile nella sua semplicità ed efficacia, che narra un evento più volte ripetutosi nella storia dell’umanità: le violenze e i soprusi, non di rado sfociati in genocidio, compiuti da civiltà considerate più avanzate per soppiantare o sottomettere, per smania di potere e ancor più per interesse, le culture indigene.
Un tema che negli Usa si riflette nel mito della frontiera e nella guerra dei bianchi contro le popolazioni dei nativi, ma che può essere fatto risalire ad altre colonizzazioni e adattabile anche a più recenti guerre.
Ma Cameron, più concentrato sulla creazione del fantastico mondo di Pandora, sceglie un approccio blando; racconta senza approfondire e finisce per cadere nel sentimentalismo.
Il tutto si riduce a una parabola antimperialista e antimilitarista facile facile, appena abbozzata, che non ha lo stesso mordente di pellicole più impegnate su questo fronte.
Analogamente il sotteso ecologismo si impantana in uno spiritualismo legato al culto della natura che ammicca non poco a una delle tante mode del tempo.
La stessa identificazione dei distruttori con gli invasori e degli ambientalisti con gli indigeni appare poi una semplificazione che sminuisce la portata del problema.
Ciò detto, resta l’indubbio valore del film per il suo eccezionale impatto visivo.
Se serviva una nuova frontiera per il cinema di fantascienza, Avatar l’ha segnata, spostandola molto in avanti.
E il record di incassi – che peraltro appartiene a un altro lavoro di Cameron, Titanic (1997) – potrebbe essere superato.
Del resto lo spettacolo vale il prezzo del biglietto.
di Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 10 gennaio 2010)
Nei cinema italiani a Natale
Piovono film sugli schermi di Natale, qualcuno in sintonia con lo spirito delle feste, altri destinati a chi fugge da impegno e riflessione.
Come sempre di questi tempi, insomma, ognuno troverà pane per i propri denti.
Anche se le pellicole in sala hanno spessore e qualità molto diverse.
PER BAMBINI E FAMIGLIE La nuova eroina delle più piccole sarà una fanciulla povera e con la pelle nera, in linea con la nuova era Obama, una Cenerentola riveduta e corretta da Ron Clements e John Musker ne La principessa e il ranocchio con cui la Disney fa ritorno all’animazione tradizionale in 2D.
Ai maschietti piacerà invece Astroboy, una sorta di Pinocchio fantascientifico che a 58 anni dalla sua nascita per mano di Osamu Tezuka arriva sul grande schermo con la voce di Silvio Muccino.
In Piovono polpette, invece, un inventore un po’ folle trova il modo di trasformare la pioggia in leccornie da immagazzinare durante la crisi economica, mentre lo spagnolo Planet 51 racconta di un astronauta sbarcato per sbaglio su un pianeta dove sono i terrestri ad essere considerati temibili alieni.
Porta sullo schermo uno dei racconti natalizi per eccellenza, ma non è adatto ai più piccoli, A Christmas Carol, prodigio di animazione tridimensionale, mentre Land of the Lost propone la classica avventura di una famigliola perdutasi in un’altra dimensione spazio-temporale.
LE COMMEDIE Se in Io e Marilyn Leonardo Pieraccioni riflette sul ruolo di padre e sulle famiglie allargate grazie al fantasma della Monroe, anche il postino protagonista di Il mio amico Eric di Ken Loach risolverà i suoi problemi con l’aiuto di un amico immaginario, il calciatore Cantona.
Mentre continua il suo fortunato percorso Cado dalle nubi di Checco Zalone, aspirante musicista pugliese emigrato a Milano, la famiglia, in particolare il rapporto tra padri e figli nell’Italia del Sud degli anni Sessanta, è al centro de L’uomo nero di Sergio Rubini, mentre George Clooney ironizza su vecchi, presunti esperimenti dell’esercito americano in L’uomo che fissa le capre.
PER RIFLETTERE Remake del film danese di Susanne Bier, Brothers di Jim Sheridan racconta di un marine che, dato per morto ma risbucato dall’inferno, ritorna in famiglia profondamente traumatizzato dall’orrore subito.
Ne Il canto delle spose, ambientato nella Tunisi del 1942, Karin Albou propone una storia di conflitti razziali e di oppressione sulle donne, mentre nel documentario Debito di ossigeno di Giovanni Calamari due famiglie confessano il dramma della perdita del lavoro.
Il tema dell’immigrazione clandestina e dell’intolleranza sono invece al centro di Welcome del francese Philippe Lioret.
UN NATALE DIVERSO Per chi detesta i film di Natale a Natale c’è Sherlock Holmes di Guy Ritchie in cui il celebre detective e il suo assistente Watson devono vedersela con un complotto che minaccia l’intera nazione: tra arti marziali e scazzottate i due assomigliano molto a Bud Spencer e Terence Hill.
Delude Amelia di Mira Nair, piatto e stucchevole ritratto dell’aviatrice americana che per prima attraversò l’Atlantico in solitaria, mentre ossessioni e cliché della cultura ebraica sono messi alla berlina dai Coen nella pellicola A Serious Man, e Francis Ford Coppola rivela i Segreti di famiglia di un giovane americano trasferitosi a Buenos Aires.
Michael Mann ridimensiona il mito del gangster John Dillinger in Nemico pubblico, il catastrofico 2012 di Roland Emmerich porta sullo schermo gli effetti della profezia maya e Moon di Duncan Jones affronta il tema del doppio in un film di fantascienza teorico e concettuale.
da Avvenire 19 12 2009