Michael”: il film del regista austriaco Markus Schleinzer

 

opera prima, presentata in Concorso alla 64.ma Edizione del Festival di Cannes

 

 

Che cosa narra il film MICHAEL

Michael, il titolo del film, è anche il nome del protagonista, un trentacinquenne dalla vita tranquilla per non dire mediocre e abituale. Metodico, appartenente alla classe media colpita dalla crisi economica, conduce un’esistenza tutta casa, lavoro e qualche amicizia superficiale. Ha solo un piccolo passatempo che lo appassiona in modo particolare: si chiama Wolfgang, ha dieci anni, e vive segregato nello scantinato di casa sua.

Michael è infatti un pedofilo, ma non uno di quei tipi borderline che suscitano subito dubbi, anzi, a prima vista sembra la persona più buona e mite del mondo. E come prova di questa gentilezza Michael offre al suo piccolo ’ospite’ parecchi comfort, cercando di rendergli la vita da recluso più comoda e gradevole possibile, con l’illusione di creare una sorta di rapporto paritario.

Colpisce in modo particolare la normalità che fa dà cornice a questa vicenda. Il regista infatti mostra gli avvenimenti dal punto di vista del pedofilo che, convinto di non compiere nulla di sostanzialmente sbagliato, restituisce allo spettatore un senso di serenità, che contrasta fortemente con le immagini da lucido aguzzino che scorrono sullo schermo. Paradossalmente Michael rimane spesso stupito dalle reazioni violente e ribelli di Wolfgang, che vorrebbe tornare a casa, e tenta più volte di convincere il bambino che sono stati i genitori ad abbandonarlo. Adottando uno stile che ricorda molto quello di Michael Haneke, del quale è stato assistente al casting per diversi film, il regista ha voluto realizzare una pellicola che colpisse dritto allo stomaco dello spettatore, mostrando l’orrore che affligge una piccola vita indifesa caduta nelle mani di un pericoloso orco(Cfr. quotidiani italiani del 16 maggio 2011).

 

 

Scheda del film

MICHAEL

titolo originale: Michael

paese: Austria

anno: 2011

genere: fiction

regia: Markus Schleinzer

durata: 96′

sceneggiatura: Markus Schleinzer

cast: Michael Fuith, Christine Kain, Ursula Strauss, Viktor Tremmel, Gisela Salcher

fotografia: Gerald Kerkletz

montaggio: Wolfgang Widerhofer

scenografia: Katrin Huber, Gerhard Dohr

costumi: Hanya Barakat

produttore: Nikolaus Geyrhalter, Markus Glaser, Michael Kitzberger, Wolfgang Widerhofer

produzione: Nikolaus Geyrhalter Filmproduktion

supporto: Österreichisches Filminstitut, Filmstandort Austria, ORF Film/Fernsehabkommen, Filmfonds Wien, Cine Tirol

distributori: Les Films du Losange

rivenditore estero: Les Films du Losange

 

 

Chi è Markus Schleinzer

Il regista  presenta per la prima volta un suo film da regista in concorso al Festival di Cannes, ma è un habitué della Croisette essendo stato direttore casting di Michael Hanneke, autore di  La pianista. Nel suo film si sente l’’influenza del maestro  per il suo soggetto tabù e il modo in cui è trattato, mantiene sia una filiazione artistica con Happiness di Todd Solondz che un legame diretto con l’attualità austriaca segnata dal caso Natascha Kampusch,la ragazzina che poi è diventata una star dei vari Talk Show, tenuta prigioniera per tanti anni dal suo aguzzino.
L’autore filma  la routine quotidiana con una neutralità sconcertante, dando poca importanza ai dettagli più sordidi o ai riferimenti temporali. Non si fa mai allusione al rapimento, ma il tentativo su un altro bambino lascia intendere il metodo e il lavaggio del cervello messi in atto. Per Schleinzer, suggerire è più importante che spiegare. I dialoghi sono ridotti al minimo che suppone il rapporto tra un pedofilo e la sua vittima manipolata. La natura sovversiva di questa relazione è costantemente anestetizzata da un trattamento basato sull’osservazione, senza pertanto entrare nel voyeurismo malsano.
Per il regista, il sequestro è come un ménage disfunzionale che ha al contempo le caratteristiche di una coppia e quelle di una famiglia monoparentale. Uomo e bambino guardano la televisione, mangiano tête à tête e lavano i piatti insieme. Michael arriva persino a portare la sua vittima in gita, fanno insieme i puzzle e le battaglie con le palle di neve. Ogni sera, il ragazzino viene riportato nella sua prigione sotterranea, dove viene chiuso a doppia mandata, vittima regolare di sevizie che il pedofilo segnerà più tardi con una piccola croce su un calendario. Il carnefice è organizzato e manipolatore, ma non ha niente del personaggio malvagio dei thriller. Piuttosto, emana da Michael un’impressione di naturalezza ed è dal potere di questa normalità che nasce l’orrore.
Schleinzer gioca con le aspettative del suo pubblico seminando, lungo tutto il film, false piste e indizi sul contesto di questo crimine e le sue implicazioni nella vita del personaggio principale. Non è presentato come un uomo particolarmente mostruoso né simpatico, e lo spettatore è tenuto a distanza dalle sue intenzioni abilmente svelate un po’ per volta, fino alla sorprendente conclusione( Cfr.. Domenico La Porta, in CINEUROPA del 17 maggio2011).

 

 

Ma non mi piace  che il nome Michael

venga associato solamente alle brutture che- simili a serpi velenosi, come quell’orribile prete bestemmiatore, pedofilo e commerciante di carne umana, qual’é Riccardo Seppia, il parroco della chiesa di Santo Spirito a Sestri Ponente.

E’ consolante sapere che è citato nella Bibbia ebraica, nel Libro di Daniele 12,1, come primo dei principi e custode del popolo di Israele.

Nel Nuovo Testamento è definito come arcangelo nella Lettera di Giuda 9, mentre nell’Apocalisse di Giovanni 12,7-8 è l’angelo che conduce gli angeli nella battaglia contro il drago, rappresentante il demonio, e lo sconfigge. Esso è implicitamente nominato in Giosuè 5:14-15 e in Zaccaria 3:2. Essendo qui chiamato Angelo Personale del Signore possiamo ritrovare la sua figura in Genesi 16,7 che rimanda a 1Corinzi 10,4 che a sua volta si ricollega a Esodo 3,2 e 23:21 che rimandano ad Isaia 9,5 e 63,9 per poi ritrovarsi in Giudici 2:1 e rivelarsi nel collegamento tra Malachia 3:1 e Marco 1,2 e Salmo 106:20 e Giovanni 1,1.

Numerosi poi sono gli scritti apocrifi vetero e neo-testamentari in cui l’arcangelo Michele compare a vario titolo. Per esempio, nell’ Apocalisse siriaca di Baruc è scritto che detiene le chiavi del Paradiso; nella Vita di Adamo ed Eva si dice che fu lui ad insegnare ad Adamo a coltivare la terra; nell’ Apocalisse di Mosè detta ai figli di Adamo ed Eva i doveri rituali verso i defunti; nel Vangelo di Bartolomeo si racconta che fu lui a portare a Dio la terra e l’acqua necessarie a creare Adamo; nella Ascensione di Isaia si racconta che fu lui a rimuovere la pietra dal sepolcro di Gesù; nella Apocalisse della Madre di Dio accompagnò la Vergine in un viaggio infernale per mostrarle le pene a cui sono sottoposti i dannati…. (Cfr. Wikipedia).

In ogni caso, il cinema può dare una mano alla gerarchia cattolica, per tentare di “spegnere” i troppi scandali dovuti ai molti, moltissimi preti pedofili. Non sarebbe più semplice permettere ai giovani che vorrebbero servire Cristo nella comunità, frequentare anche l’altro genere, in modo che la loro sessualità si sviluppi in maniera naturalmente umana?

E Dio li creò. Maschio e femmina li creò(Dal libro della Genesi)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Karol: un film su Giovanni Paolo II

il film d’animazione Karol è incentrato sulla vita del Pontefice

 

Nel giorno della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, anche Boing renderà a suo modo omaggio alla figura di Karol Wojtyla con un lungometraggio prodotto da Mondo Tv. Andrà in onda, infatti, proprio domenica 1° Maggio, in prima serata alle 20.35, il film d’animazione Karol, incentrato sulla vita del Pontefice.

Realizzato con tecniche d’animazione in computer grafica, il film narra le principali vicende che hanno segnato il percorso umano e spirituale di Wojtyla. Una storia ricca di eventi ed emozionante, in cui ampio risalto verrà dato al rapporto tra il Papa e i giovani. Un rapporto da sempre molto intenso, che portò il Pontefice a istituire la Giornata Mondiale della Gioventù, diventata nel corso degli anni occasione d’incontro per milioni di ragazzi.

Il film, che vedrà Luca Ward dare la voce a Papa Giovanni Paolo II, si rivolge non solo ai più piccoli ma a tutta la famiglia, rappresentando un’ulteriore offerta della rete, sempre più premiata dal pubblico. Ad oggi Boing è infatti il canale più seguito nella fascia 4-14 anni, oltre che essere ottava rete nazionale, subito dopo le  reti generaliste Rai, Mediaset e La7.

Noi credevamo

NOI CREDEVAMO Regia: Mario Martone Nazione: ITALIA, FRANCIA Anno: 2009 Presentato: 67.a Mostra Internazionale D·Arte Cinematografica di Venezia  È la storia di tre ragazzi del sud Italia, Domenico, Angelo e Salvatore, i quali, nel periodo risorgimentale, a seguito delle feroci repressioni borboniche, decidono di unirsi ai moti clandestini miranti all’unificazione dell’Italia.
Entrano così a far parte della “Giovine Italia” di Giuseppe Mazzini, viaggiando per l’Europa in cerca di finanziatori per le loro azioni rivoluzionarie e trovando, in un primo momento, l’appoggio di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, principessa animata da forti sentimenti antiaustriaci e liberali.
Dopo il fallimento del tentativo di spedizione in Savoia, organizzato da Mazzini, la principessa però ritirerà il suo appoggio, anche se il suo salotto resterà un circolo di ritrovo per gli intellettuali e gli esuli italiani.
Salvatore, figlio di contadini, viene (per le sue umili origini) scelto per incontrare Mazzini a Ginevra, e incaricato di procurarsi un’arma con la quale un cospiratore, Antonio Gallenga, medita di assassinare Carlo Alberto di Savoia (ma il Gallenga, intimorito non porterà a termine il suo piano, nascondendosi).
Dopo il fallimento della spedizione egli viene accusato da Angelo di essere una spia al servizio dei piemontesi e viene ucciso da questi in un impeto di fanatismo ideologico.
Dopo l’assassinio Angelo scappa, viaggiando a lungo per l’Europa dove finirà per entrare nel circolo di Felice Orsini, rivoluzionario che si è distaccato dalle idee di Mazzini, ritenendo i di lui metodi inadeguati per la lotta politica e che medita un attentato a Napoleone III.
L’attentato, in cui viene coinvolto anche Angelo, fallisce però miseramente e l’Orsini insieme con Angelo e altri due compagni viene arrestato e processato.
Angelo e Orsini finiranno con l’essere quindi condannati a morte ed entrambi ghigliottinati in Francia.
Domenico, nel frattempo, dopo aver passato in carcere gran parte della sua giovinezza, stringendo durante la prigionia amicizie con alcuni importanti esuli italiani attivi nella lotta politica, torna nel sud Italia dove incontra il giovane Saverio, figlio del vecchio amico Salvatore, legandosi insieme a lui ai garibaldini e vivendo con loro la presa del potere di Vittorio Emanuele II e la conseguente disillusione per un’Italia unità nel nome di ideali repubblicani e democratici.
Caduti in mano piemontese, anche il giovane Saverio finirà vittima della repressione dei bersaglieri inviati dai Savoia.
Ormai vecchio, Domenico assisterà inoltre agli ultimi sviluppi del post-unità, vivendo una nuova, forte disillusione dopo aver visto il  repentino distacco di Francesco Crispi dai vecchi ideali mazziniani e l’avvicinamento a politiche monarchiche repressive.
Stanco e disilluso a Domenico non resterà che meditare tristemente sulle passate speranze e sulle presenti delusioni (e tradimenti ideologici) che segnano tragicamente l’inizio della storia d’Italia.
La vicenda, lunga e complessa è, a livello del racconto, schematizzata in quattro parti, divise in altrettanto sezioni con rispettivo titolo.
Nella prima parte (intitolata: «Salvatore») viene mostrata, a grossi tratti, la vicenda di Salvatore, il più umile dei tre amici cospiratori dalla sua “investitura” mazziniana (con il relativo “onore” di essere da Mazzini incaricato di armare la mano del Gallenga) fino alla morte, avvenuta per mano di Angelo, ormai diventato fanaticamente ossessionato dalla rivoluzione.
Nella seconda sezione («Domenico» viene invece presentata la figura di Domenico, nei suoi fervidi tentativi cospiratori contro il nemico borbonico e austriaco.
In questa parte del film la figura di Domenico è ancora mostrata come piena di giovanili speranze e di fiducia nell’ideale mazziniano e rivoluzionario.
La sezione dedicata a Domenico si interrompe lasciando il posto alla terza (quella di «Angelo».
Nella  terza parte, abbiamo il delinearsi della figura di Angelo, ormai invecchiato, ma non per questo rassegnato nel suo ideale del gesto “risolutore” e violento che dovrebbe dare una svolta alla lotta politica.
Macchiato dalla colpa dell’omicidio di Salvatore, che porta come un peso, la storia di Angelo si conclude, anche in questo caso, con la morte del personaggio, invischiato nel fallito attentato di Napoleone III e giustiziato.
La quarta e ultima sezione, infine, ripresenta la figura di Domenico, dai lunghi giorni di prigionia fino alla sua adesione ai garibaldini.
Le quattro sezioni qui presentate sono (tranne la vicenda di Salvatore che è quasi “autoconclusiva”) a tratti intrecciate tra loro, restituendoci la visione d’insieme di un grande “affresco” della storia risorgimentale attraverso le emblematiche vicende dei tre personaggi.
In questa grande visione, spicca con evidenza la grande disillusione di Domenico, personaggio che non a caso sopravvive ai due amici, entrambi uccisi ed entrambi “perdenti” nel triste gioco della lotta politica.
La disillusione di Domenico è del resto ben motivata dalla similarità dei comportamenti dei nemici borbonici e austriaci e degli “amici” piemontesi, che vengono mostrati dall’autore nel compimento di analoghi comportamenti repressivi nei confronti dell’inerme popolazione locale, come a dire che, cambiando pur l’ordine delle dominazioni (straniere o italiche che siano), il risultato finale di sopraffazione non cambia.
La sequenza della morte di Saverio, personaggio legato a quello di Salvatore (suo padre nella vicenda) ed egualmente “sconfitto”, è a questo riguardo molto indicativa: egli infatti viene ucciso, non dal nemico borbonico, ma dalla repressione dei piemontesi (e, anzi, l’episodio della sua morte, con la fucilazione a “tradimento” dei bersaglieri Savoia, nonostante l’armistizio e il mancato processo di un legittimo tribunale acuisce la sensazione di arbitraria malvagità delle azioni repressive dei “nuovi dominatori”).
La finale disillusione di Domenico, poi, è ben motivata dalla consapevolezza del prezzo che la neonata nazione ha dovuto pagare, nonostante le numerose morti.
La nuova Italia, è sì unita, ma tradita nelle fondamenta ideologiche profonde che avevano ispirato le insurrezioni.
Non a caso l’ultima sequenza del film mostra, in un parlamento vuoto, l’ombra di Francesco Crispi durante il famoso e storico discorso con il quale l’ex rivoluzionario democratico mostrerà di aver cambiato del tutto (con l’opportunismo che coinvolge la maggior parte degli esponenti della nuova classe politica) il suo credo ideologico: «noi unitari siamo monarchici e sosterremo la monarchia meglio dei monarchici antichi».
E l’amara riflessione finale di Domenico chiude il film, dando quindi un significato profondo al titolo «Noi credevamo», che mostra come l’Unità italiana sia stata raggiunta tradendo però tutto quel complesso di ideali, speranze e convinzioni che avevano animato, nel profondo, i protagonisti dei moti risorgimentali.
Il film di Martone si caratterizza, come un ottimo film di vicenda dalla buona struttura e dall’eccellente realizzazione artistica, che non fa pesare le oltre tre ore di visione, supportato anche da un cast di attori –  quasi tutti ben diretti –  che aggiungono valore a un’opera che, per l’impegno complessivo, meriterebbe di sicuro un riconoscimento (di qualsiasi tipo) in questa mostra del cinema.
                                                                                 

Hereafter”(L’Aldilà),

Hereafter: dopo che c’è??? Il crudo film di C.
Eastwood, dal fascinoso titolo “Hereafter”( = L’Aldilà),  ha rimesso in moto il cervello di molte persone che- dopo averlo visto- si sono chieste davvero: ma dopo la morte che c’é?, cosa ci aspetta,  è vero che c’è un “qualcosa”, oppure tutto finisce di noi sotto un metro di terra o in un forno crematorio??? Attraverso i secoli, l’uomo ha ricercato al di là di se stesso, al di là del benessere materiale – qualcosa che chiamiamo verità o Dio oppure realtà, uno stato eterno che non può essere turbato dagli avvenimenti, dal pensiero o dalla corruzione umana.
L’essere si e’ sempre posto la domanda: che cosa e’ tutto quanto? La vita ha davvero un significato? Egli ne vede l’enorme confusione, le brutalità, le rivolte, le guerre, le eterne fratture di religione, le  ideologie, le nazionalità, gli etnicismi, e con un senso di profonda e costante frustrazione chiede cosa bisogna fare, cos’é questa cosa che chiamiamo vita, e se c’e’ alcunché aldilà di essa che meriti che brighiamo per raggiungerla..
E poiché non e’ riuscito a trovare quello che ha sempre cercato, questa cosa senza nome a cui vengono dati migliaia di nomi, ha coltivato la fede – fede in un saggio o in un ideale – In questa perenne battaglia che chiamiamo vivere, tentiamo di fissare un codice di comportamento conforme alla società in cui siamo cresciuti, qualunque sia la sua connotazione politica e religiosa( buddhista, cristiana, indù, musulmana, atea…).
E così continuiamo a vivere, rifiutandoci- quando pensiamo- di vivere come i pesci in un acquario.
Io non voglio essere un pesce rosso.
Chi è il regista Il regista dagli occhi di ghiaccio, partito da semplice cow boy con i Film di Leone, oggi ad  ottant’anni, dopo aver girato  titoli straordinari come Million Dollar Baby, Gran Torino e Changeling, invece di riposare sugli allori continua ad accettare sfide.
E si cimenta per la prima volta con il thriller sovrannaturale.
Hereafter che racconta la storia incrociata di tre personaggi: un uomo che può comunicare con i morti ma che vuole sfuggire a questo suo “dono”, una giornalista scampata ad uno tsunami e un bambino che ha assistito alla morte del fratello gemello.
Il film ha la sceneggiatura di  Peter Morgan di The Queen ed è interpretato da Matt Damon, Bryce Dallas Howard e Cécile de France e musicato, come d’abitudine, dallo stesso regista.
La trama.
Marie  è una nota giornalista televisiva francese ed è una sopravvissuta dello tsunami.
Marcus è un ragazzino di Londra che vede morire il fratello gemello.
George è di San Francisco e ha la capacità di entrare in contatto con i morti.
Per la costruzione, “Hereafter” sembra essere un film di Iñárritu(terribilmente tragico), però  lo stile e la sensibilità sono indubbiamente quelli di Eastwood.
La prima parte del film, che inizia con la sconvolgente sequenza dello tsunami ricostruita al computer, è volutamente lenta e piuttosto introduttiva, ma il tema scelto impone una certa delicatezza ed una analisi approfondita.
Il comune denominatore delle tre storie apparentemente slegate è, infatti, la morte.
Quella toccata da Marie che, per pochi secondi, muore, quella sofferta da Marcus che perde una parte di sé insieme al fratello e quella con cui, da tutta la vita, ha a che fare George.
Il suo non è un dono, ma una maledizione.
Il film, rigorosamente sceneggiato da Peter Morgan (“Frost/Nixon- il duello”, “The Queen”, “L’ultimo re di Scozia”), ha tra i suoi pregi quello di presentare una tesi (c’è qualcosa dopo la morte), supportarla con prove (testimonianze di chi ha avuto un’esperienza di quasi morte, sensitivi che parlano con i morti) e affrontare le eventuali confutazioni (i ciarlatani), ognuno di noi, dopo, avrà modo di pensare a ciò che ha visto e  trarre le proprie conclusioni.
 “Hereafter” non afferma, infatti, che la vita dopo la morte c’è, vuole solo proporre un’eventualità e per chi già ci crede non è altro che una conferma, ma per gli scettici rappresenta indubbiamente qualcosa su cui riflettere.
Ancora una volta Eastwood si dimostra un regista delicato, poetico, misurato.
La direzione degli attori è perfetta e il film è ottimo e da vedere, assolutamente( Cfr.: www.savonaeponente.com ) Qualche pensiero “curioso” Durante la storia teologica dell’umanità, i capi religiosi ci hanno assicurato che se avessimo compiuto certi riti, ripetuto delle preghiere o mantra, se ci fossimo adattati a certi schemi, avessimo soffocato i desideri, controllato i pensieri, sublimato le passioni, frenato l’avidità e avessimo evitato di abbandonarci al sesso, avremmo, dopo una sufficiente tortura della mente e del corpo, trovato qualcosa che fosse al di là di questa vita banale.
Ed e’ quanto milioni di persone religiose hanno fatto nei secoli, sia da soli, andandosene in un deserto o sulle montagne o in una caverna o vagando di villaggio in villaggio con una ciotola da mendicante, oppure in gruppo, riunendosi in monasteri, costringendo le loro menti a conformarsi ad un modello stabilito.
Ma una mente torturata, una mente agitata, una mente che vuole sfuggire ad ogni inquietudine, che ha rifiutato il mondo esteriore ed e’ stata resa ottusa dalla disciplina e dal conformismo – una mente del genere, per quanto a lungo possa cercare, nelle sue scoperte sarà sempre condizionata dalla propria deformazione.
Alla domanda se esiste o meno un Dio, una verità o una realtà  o comunque vogliate chiamarla, non può mai essere data una risposta dai libri, dai preti, dai filosofi o dai saggi.
Nessuno e niente può dare una risposta alla domanda tranne voi stessi( tratto da J.
Krishnamurti, Liberta’ dal conosciuto, Ubaldini).
Ma debbo – per onestà professionale- raccontare del bellissimo incontro che ebbi anni fa con J.
Eccles, Nobel per la medicina 1963, K.
Popper, il grandissimo filosofo che tutti hanno amato e il Prof.
Piergiorgio Strata( attualmente dirige il Compartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino) che alla Giorgio Cini di Venezia tennero un convegno sulle “Molecole e la mente”( così allora, intitolai il mio pezzo per Dimensioni Nuove), che alle mie domande si “accapigliarono” tantissimo tra di loro, tanto che l’allora giovane Prof.
Strata rimproverò il famoso Popper che amava rispondere a me e non esporre all’assemblea dei dotti le sue idee! Ma i dotti non avevano la mia chioma rossa! Amo concludere questo mio piccolo contributo a continuare a porci domande sull’Aldilà, come ha fatto così bene C.
Eastwood, con le parole di J.
Eccles e che cioè  “che l’evoluzione biologica trascende se stessa fornendo il supporto materiale, il cervello umano, a individui autocoscienti la cui vera natura è di cercare le speranze e di indagare sul significato della ricerca dell’amore, della verità e della bellezza”.(Cfr.: John Eccles “Evoluzione del cervello e creazione dell’io”) Di: Maria de falco Marotta &Team

In un mondo migliore

INTERVISTA A SUSANNE BIER Cosa ha ispirato l’idea del suo nuovo film, In un mondo migliore? Ho discusso con Anders Thomas Jensen della Danimarca, che viene percepita come una società armoniosa e ideale, mentre nella realtà nulla è perfetto.
Abbiamo iniziato a pensare ad una storia nella quale eventi imprevedibili avrebbero avuto effetti drammatici sulle persone e distrutto l’immagine di luogo incantato nel quale vivere.
La storia di due ragazzi che diventano amici, ma uno di loro comincia a diventare violento, ha iniziato a svilupparsi.
Di solito si crede — o si vuole credere — che i ragazzini siano buoni, creature dell’amore, ma in questo caso un 12enne diventa cattivo, addirittura malvagio, perché arrabbiato.
Di cosa parla il film? Il film è incentrato sul personaggio di Mikael Persbrandt, che interpreta un medico idealista che lavora per una missione umanitaria in un campo di rifugiati in Africa.
Vuole fare la cosa giusta, ma gli eventi lo mettono alla prova e vediamo fino a che punto.
La sua storia è intrecciata con quella dei ragazzi.
Il medico è un personaggio interessante e intrigante che affronta le proprie ferite ma sogna un mondo migliore.
In Dopo il matrimonio, anche Mads Mikkelsen era impegnato in campo umanitario, ma doveva fare una scelta difficile nella sua vita.
Sembra affascinata da questi complessi personaggi maschili, messi alla prova dalla sorte e costretti a prendere decisioni pressoché eroiche.
Semplicemente mi piacciono le persone e sono i loro problemi che le rendono interessanti.
Nel film, Mikael Persbrandt è romantico, idealista, ma non certo perfetto.
È un vero essere umano con le sue fragilità, i suoi dubbi e le sue incertezze.
Da regista e donna, mi sento spinta verso questi personaggi maschili.
Gli attori spesso hanno un forte lato femminile, e mi piace trovarlo, come la profondità, segreto nascosto da portare allo scoperto.
Aveva in mente Ulrich Thomsen e Mikael Persbrandt quando ha scritto la sceneggiatura con Jensen? Di solito non parliamo degli attori all’inizio della scrittura, vogliamo concentrarci sulla storia e sulla drammatizzazione dei personaggi.
Poi, dopo la seconda e la terza scrittura, quando abbiamo i nomi, ci pensiamo e riscriviamo parti della storia.
Com’è stato per lei lavorare con Mikael Persbrandt? È un attore molto dotato, di grande forza.
Ha un lato animalesco molto vivo e questo è stato eccezionale per me, come regista.
Nel gennaio scorso ha avuto dei problemi con il Governo sudanese, che ha accusato il film di essere anti-islamico e di dipingere “una situazione inesistente in Darfur”.
Cosa ci dice di questo episodio? Il film non ha nulla a che fare con il Darfur.
È stato girato in Kenya, e l’azione si svolge da qualche parte in Africa, non in un luogo specifico.
La storia poi non ha nulla a che vedere con la religione: l’accusa era del tutto fuori luogo.
Lei è uno dei filmmaker più “vendibili” di Scandinavia, e i suoi film sono noti in tutto il mondo.
È importante per lei questo riconoscimento internazionale? Il cinema per me non è fare piccoli film d’avanguardia che non vedrà mai nessuno.
Mi piace essere connessa al pubblico, perché penso al pubblico quando faccio un film.
SUSANNE BIER regista Figlia di Rudy Bier, un ebreo tedesco rifugiatosi in Danimarca durante l’occupazione nazista, e di Henny Bier, danese di origini ebreo russe e sorella minore di due avvocati (uno a Londra, l’altro a Copenhagen), Susanne Bier incarna il modello cosmopolita e moderno della  tradizione europea degli anni d’oro, in cui i registi come Siodmak, Ophuls e Wilder cercavano, per necessità o inquietudine,  ispirazione fuori dai confini nazionali.
Susanne si laurea in architettura ma decide  di studiare cinema all’estero, a Londra e Gerusalemme.
Sposa un regista (da cui ha un figlio, Gabriel), poi un attore svedese (sua figlia Alice ha la doppia nazionalità ed è bilingue), poi un musicista.
Il suo cinema riflette appieno questa forma di libertà e di spazio a partire da subito, con Family Matters storia di incesto tra fratello e sorella, tra Copenhagen e un paese remoto del Portogallo.
La regista si sposta poi in Svezia, per girare Pensionat Oskar, incentrato su una famiglia piccolo borghese in una località di vacanza, in cui i legami iniziano a vacillare quando il padre e marito scopre di essere attratto da un bagnino.
In entrambi i film è evidente che l’altrove fisico serve alla regista a cercare un altrove morale e sentimentale, una forma di spostamento dalla normalità.
Il grande successo nazionale arriva con The One and Only, una commedia che non riesce a valicare i confini della Scandinavia, ma attira su Susanne l’attenzione dell’industria nel suo paese.
Di nuovo al centro dell’azione troviamo due famiglie, problemi di adozione e una bambina che arriva dal Burkina Faso.
La commedia successiva Susanne la gira in Svezia – è la storia di una giovane sfigata che sogna di cantare in Eurovisione – e il titolo la dice lunga: Once in a Lifetime.  È Open Hearts, tuttavia, a segnare la svolta critica internazionale, vincendo il Fipresci al festival di Toronto, riscuotendo un ottimo successo a San Sebastián e lanciando Susanne e il suo protagonista, Mads Mikkelsen,  nel firmamento delle star europee (purtroppo il film ha una pessima distribuzione in Italia, “curata” da E-mik).
Si tratta di una storia lacerante, in cui un uomo giovane e bello viene travolto da una macchina e rimane paralizzato a vita.
L’incidente cambierà anche le vite degli altri, della sua compagna, dell’automobilista distratta e del medico che lo cura.
Per certi aspetti Open Hearts racchiude tutto il lavoro precedente di Susanne e anticipa i film che farà in seguito.
Come per Non desiderare la donna d’altri, Dopo il matrimonio, Noi due sconosciuti e In un mondo migliore, sotto la lente d’ingrandimento non c’è mai solo il personaggio- motore della vicenda.
Un’azione scatena più reazioni e la traiettoria di un personaggio cambia le traiettorie degli altri.
L’infermità fisica di Nicolaj Lee Kaas provoca un’infermità altrettanto grave in Paprika Steen, la donna che lo ha investito.
L’Afghanistan di Non desiderare la donna d’altri è l’altrove che sconvolge la vita del soldato Ulrich Thomsen, di sua moglie Connie Nielsen e di suo fratello Nikolaj Lee Kaas.
Quando Thomsen è costretto a ammazzare un suo commilitone  in un campo di prigionia Talebano, si scatena una serie di lutti morali, pubblici e privati.
Oltre a essere un  successo critico, il film si afferma anche al botteghino: funziona in patria, in America, Germania, Italia e Spagna, vince il Sundance Festival, vince San Sebastián e una sfilza di premi nazionali.
Per l’industria americana, Susanne Bier è una da tenere d’occhio.
Il soggetto del film viene opzionato e qualche anno dopo esce un remake diretto da Jim Sheridan con Jake Gyllenhaal e Natalie Portman. Sheridan si sente appoggiato e incoraggiato dalla regista.
È uno dei film più belli del 2010: intenso, emozionante, vita vera.
In un mondo migliore (dal 10 dicembre nelle sale) è il lavoro cinematografico che consiglio di vedere a cuore pieno e spassionato, come se caldeggiassi qualcosa di caro e di mio.
Ci sono storie che ti passano davanti, magari perfettamente narrate, ma che non toccano un capello e il giorno dopo quasi non ricordi di aver visto.
Non è così per la pellicola di Susanne Bier, regista dalla mano potente e delicata venuta dalla fredda e “sconosciuta” Danimarca.
In un mondo migliore ti attraversa l’anima, ti fa piangere, ti fa arrabbiare, ti fa chiedere.
Davanti a prepotenze, piccole o enormi e inaccettabili che siano, bisogna rimanere lucidi e giusti o diventare vendicatori e violenti come i nostri aggressori? Nella vita quotidiana fatta di isterie, prevaricazioni, ingiustizie, è un dubbio quanto mai attuale.
È il dubbio alla base di tante guerre.
Qui, a due passi dal nostro naso, per strada, al parco, negli scontri cittadini quotidiani, nel tassista preso a pugni a un incrocio, come a miglia di distanza, in un’Africa lontana dove cozzano con la stessa mostruosità bene e male.
“Susanne Bier indaga la nostra epoca con passione, forza visionaria e coraggio civile”, questa la motivazione che ha dato a In un mondo migliore il Gran Premio della Giuria al recente Festival del Film di Roma.
Ma la potenza del film danese è la sua capacità di arrivare duro e diretto anche oltre i cineasti, i critici e gli addetti ai lavori, tanto da aver vinto anche il Marc’Aurelio del pubblico.
Gli attori sono tutti di una bravura indimenticabile e le loro vicende sono le nostre: la solitudine, l’impotenza, un bisogno profondo di riconciliazione.
Afferro e mantengo dentro di me lo sguardo imperscrutabile e mai aperto a una solarità del dodicenne Christian (William Jøhnk Nielsen), il sorriso imperfetto del tenero ed emarginato Elias (Markus Rygaard), la tenacia disperata di sua madre Marianne (Trine Dyrholm), la coerenza idealistica e dolorosa di suo marito Anton, medico in un campo di rifugiati africano (Mikael Persbrandt).
Intanto la fotografia dalla luce diafana di Morten Søborg intaglia i visi, fissa le espressioni e, insieme alla sceneggiatura firmata Anders Thomas Jensen, contribuisce a regalare il film perfetto di questa fine anno.
Il soggetto è della stessa Bier e dell’amico e stretto collaboratore Jensen.
Con Dopo il matrimonio la regista danese era arrivata finalista agli Oscar 2007 per il Miglior film straniero.
In un mondo migliore è ancora candidato per la Danimarca agli Oscar 2011.


The Promise: The Making of Darkness on the Edge of Town

The Promise: The Making of Darkness on the Edge of Town è un film di Thom Zimny del 2010, con Bruce Springsteen.
Prodotto in USA.
Durata: 85 minuti.
Trama Reduce dal successo di “Born to Run”, Springsteen apre il cantiere di un progetto del tutto differente, riempiendo il suo quaderno con i testi di circa settanta canzoni.
Un nuovo capolavoro era alle porte, “Darkness on the Edge of Town”.
Questo film ne racconta la nascita grazie al materiale raccolto dal pluripremiato regista Thom Zimny.
E’ difficile parlare del documentario The Promise: The Making of Darkness on The Edge of Town, presentato in anteprima al Festival del Film di Roma, senza parlare dell’evento che la proiezione in sé ha rappresentato.
Una proiezione che ha visto una partecipazione di pubblico straordinaria, certo tra le più alte dall’inizio dell’intera manifestazione, frutto del passaparola successivo all’annuncio che Bruce Springsteen sarebbe stato presente; un’atmosfera surriscaldata, da concerto rock, con tanto di cori e ovazioni, per un film che racconta la genesi di uno dei più importanti album della carriera del Boss, forse il più amato dai fans.
Era il 1978 e Springsteen, dopo due album passati quasi inosservati e il successivo “botto” commerciale di Born To Run, era chiamato a ripetersi ed entrare definitivamente nell’Olimpo dei grandi, o scomparire.
Darkness on The Edge of Town è stato probabilmente l’album della maturità artistica, quello in cui il suono della E-Street Band ha preso definitivamente forma, ma anche quello in cui Bruce ha preteso e ottenuto il controllo totale sulle sue creazioni.
La causa legale con il manager e amico Mike Appel è raccontata nel documentario con interviste a entrambi, e appare evidente la dolorosa frattura che questo evento causò (“ho dovuto affrontare una causa legale contro un mio amico”, ha dichiarato il rocker, “una cosa che non auguro a nessuno”), una ferita mai del tutto rimarginata nonostante gli oltre 30 anni intercorsi; ma altrettanto evidente appare la determinazione che mosse le decisioni di Springsteen, allora consapevole che la posta in gioco era il suo futuro artistico, la sua intera carriera.
  Era già un’opera dal carattere prettamente cinematografico, Darkness, e fa un certo effetto vedere ora, oltre 30 anni dopo, restituita questa dimensione proprio attraverso il medium del cinema, seppure sotto forma di documentario.
Un album che raccontava di un’America rurale, contrariamente alle ambientazioni urbane dei dischi precedenti, popolata di reietti, operai, losers, individui in cerca di sé stessi e di una Promised Land che nel corso degli anni si scoprirà luogo ideale, tensione, utopica meta verso la quale non si deve mai smettere di puntare.
Un’opera che restituiva le tensioni di una generazione che era appena uscita dalla contestazione, che doveva fare i conti con la crisi petrolifera e con un futuro incerto, e che cercava sé stessa sulle strade di un sogno che appariva già miraggio, e che doveva iniziare a fare i conti con i compromessi della vita adulta.
Tutto ciò è ottimamente restituito in immagini dal documentario di Thom Zimny, che alterna sequenza di repertorio (perlopiù in bianco e nero) riprese nello studio di registrazione, brevi interviste audio dell’epoca, e testimonianze registrate ex-novo, che vedono coinvolti Springsteen, il già citato Chuck Plotkin, il produttore Jon Landau e tutti i membri della E-Street Band (ed è da segnalare anche l’apparizione di Patti Smith, a cui Springsteen cedette uno dei suoi pezzi più celebri, Beacause the Night).
A inframezzare questo materiale, brevi sprazzi psichedelici di sconfinati paesaggi rurali, delle higways di cui si narra nell’album, il tutto unificato sotto forma di un racconto che è innanzitutto racconto umano.
L’uomo-Springsteen si mette coraggiosamente a nudo, in questo film, e raccontando la genesi di una delle sue opere più rappresentative racconta innanzitutto sé stesso e la sua crescita, personale prima che artistica.
Una crescita che è passata per la risoluta determinazione di voler gestire in proprio il suo lavoro, ma anche per un riconoscimento dell’importanza dell’amicizia, incarnata in quel pugno di musicisti dai cui strumenti si libera finalmente un suono compatto, corale, incendiario.
Non è casuale l’affermazione di Bruce secondo la quale questo fu il primo vero album della E-Street Band, mentre i precedenti somigliavano più ad album solisti; e non è un caso che il tour che ne seguì fu irripetibile, con una durezza nel suono mai più raggiunta in futuro, non a caso registrato in bootleg tuttora venerati come oggetti sacri dai fans.
L’amicizia, la dimensione di condivisione totale esistente tra i membri del gruppo è quindi un altro elemento fondamentale di quest’opera, visibile in spezzoni di filmati che strappano sorrisi e lacrime (tra cui una Sherry Darling ante-litteram con Steve Van Zandt a picchiare sulle percussioni) ma anche nei momenti più tesi, nei contrasti che inevitabilmente si creavano tra i musicisti e che da sempre sono alla base delle grandi opere.
Contrasti che rendono conto della ferrea etica del lavoro che permeava (e permea tuttora) l’operato di Springsteen, del suo perfezionismo, della sua immensa creatività, riassunta in quel quaderno di appunti su cui non smetteva di riportare idee, frammenti di testi, semplici visioni ancora da tradurre in versi di canzoni.
“Soffro di una sindrome ossessivo-compulsiva”, ha detto scherzando in una delle interviste, e lo ha ripetuto successivamente nell’incontro che ha seguito la proiezione del film; ma è proprio di quella sindrome che tutto il suo lavoro è informato, e senza di essa probabilmente non avremmo avuto dischi che sono entrati di diritto nella storia del rock.
Ed è un contorno fondamentale (forse un valore aggiunto) l’autentica partecipazione popolare che ha caratterizzato la proiezione del film e il successivo breve incontro, che dà conto ancora una volta dell’empatia speciale, unica, che lega Bruce al suo pubblico, e il pubblico alla band nel suo complesso: l’applauso di tutta la sala alla prima apparizione, nel documentario, di Danny Federici (tastierista storico del gruppo, morto di cancro nel 2008) dice a questo proposito più di mille parole.
E il cofanetto commemorativo in uscita tra pochi giorni, comprensivo di 3 cd e 3 dvd, nel quale questo documentario sarà incluso, diventa qualcosa di più di un mero oggetto da feticisti, ma piuttosto un ennesimo “pegno”, testimonianza di un amore speciale, e splendidamente collettivo, che dura ormai da quasi quattro decenni.

Io sono con te

Nella Nazareth di duemila anni fa.
Una madre e un figlio.
Giocano, sorridono, si guardano, si abbracciano.
Guido Chiesa, dopo una serie, pur breve, di film politicamente e socialmente impegnati, torna al cinema con Io sono con te, per raccontare la storia di Maria e del figlio Gesù.
Un lavoro pensato, voluto a tutti i costi.
Abbiamo visto in anteprima il film che sarà in concorso al Festival del cinema di Roma e la sensazione è quella che sia frutto di una sua esigenza spirituale vera.
“Nicoletta Micheli, mia moglie e autrice, insieme a me, della sceneggiatura – ci dice il regista – si è dovuta interrogare, diventando madre, su tanti nuovi problemi e sentimenti.
Ci siamo così imbattuti nella lettura dei Vangeli dell’infanzia:  ai nostri occhi, all’epoca di non credenti, è stata una sorta di epifania.
Mi sono accorto, a posteriori, che molti vivono il confronto con il religioso come se fosse qualche cosa di magico, di evanescente, non legato alla realtà quotidiana e concreta delle nostre vite.
All’inizio, ho lavorato alla sceneggiatura più con un’adesione di tipo razionale, come se fosse un percorso intellettuale, emotivo.
Alla fine è diventato un cammino di fede e tutto si è ricomposto”.
L’intervista Perché questo film è così importante per la sua vita e per quella di molti? Perché, semplicemente, propone un modello di relazione madre-figlio, genitori-bambini, che è universale.
Io sono con te riguarda tutti, sia che siamo genitori, sia che siamo figli, perché tutti siamo stati piccoli.
Ho cercato di rivolgermi a tutti, senza distinzione di cultura, di fede, privilegiando una prospettiva femminile e proponendo un modello positivo fondato sull’amore e la fiducia.
Fin dalle prime immagini, si percepisce come tutto sia spoglio, essenziale:  non ci sono angeli, comete, voci dall’alto, miracoli.
Perché? Il soprannaturale non è visibile, non può essere affrontato con i nostri strumenti di pensiero, la nostra logica, la ragione.
Il mistero trascende i limiti, per noi, non può essere rappresentato.
Però è accettabile e comprensibile.
Ho voluto spogliare tutto il racconto dell’infanzia da una possibile e pericolosa rappresentazione magica.
Mi sono interrogato e concentrato sul ruolo centrale di Maria, della Madre, ossia il ruolo della donna e della maternità.
Eppure, in alcune immagini, si avverte la forza straordinaria e speciale del rapporto d’amore tra questa Madre e il Figlio.
Il Vangelo è anche un modello antropologico e pedagogico universale e straordinario, perché fondato sull’amore positivo, sulla fiducia.
In un’epoca in cui siamo circondati da messaggi di pessimismo, di disperazione – spesso anche legittimi – è da lì che bisogna ripartire:  da una madre e un figlio.
L’amore può davvero cambiare le cose.
L’essenzialità scarna del contesto richiama in qualche modo la lezione cinematografica del Vangelo pasoliniano.
È d’accordo? Pasolini, lo dice lui stesso, cercava disperatamente Gesù e lo faceva da non credente.
Soffriva di questa sua ricerca, ha sofferto fino alla fine.
Per me è esattamente l’opposto:  sono un credente che cerca di andare verso tutti, chi crede e chi no.
Nel tentativo di convincere che il Vangelo non parla di magie, ma di cose molto concrete.
La grande sfida del cristianesimo, oggi la grande sfida nel messaggio di Benedetto XVI, è questo tentativo di armonizzare, in ogni contesto di vita, la ragione e la fede.
Si è confrontato con qualche Vangelo cinematografico, prima di iniziare le riprese? Ho visto tutti i film su Maria.
Ho visto soprattutto ciò che non mi piaceva, i film in cui Maria è costretta nell’immagine di una pia donna, sottomessa e dimessa in un angolo.
Ho voluto abbandonare un’iconografia della Madonna intesa in quel senso.
Anche il mondo ebraico circostante è particolare:  policromo, arcaico.
Ho restituito il colore – la terra, il sangue, il deserto, le vesti – i volti e gli ambienti, che ho recuperato in Tunisia, cercando di rappresentare l’ambiente più attendibile in cui è avvenuta la nascita di Gesù.
Fin dalle prime immagini la giovanissima Maria – che ha il volto berbero e sconosciuto di Nadia Khlifi da piccola e di Rabeb Srairi da adulta – si dimostra (anche se per la verità in modo del tutto implausibile) insofferente alle imposizioni rituali e cultuali, a ogni forma di sopraffazione.
Il suo atteggiamento è molto attuale.
Perché al legalismo rituale oggi si è sostituita l’interferenza medica.
Tutto ciò che riguarda la femminilità e l’intimità della donna, a cominciare dal parto, è stato violato dalla medicina e dai medici, che s’intromettono violando il ruolo della donna.
Nessuna, tra le grandi religioni, ha alla sua origine un parto come quello di Maria, che è sola dinanzi al mistero della sua maternità.
Capisce che la relazione col Figlio è simbiotica, intima, privata:  sono soli, isolati nella grotta.
Anche Giuseppe fa un passo indietro.
È un modello di paternità meno focoso, meno aggressivo, più umile.
Ma non si tira indietro quando è necessario proteggere la famiglia.
Il parto di Gesù, in ogni film, è un momento delicatissimo.
Pudicamente, in quel momento difficile, mi allontano.
Il dolore occupa uno spazio di primo piano nel film.
Un anziano pastore profetizza:  “Il dolore che tentate di risparmiare oggi al bambino, sarà uno scandalo per molti.
Ma non avete paura  per  quello  che  dovrà  subire in futuro?”.
Maria risponde con un sorriso aperto, innocente, bellissimo.
Perché? Perché si mette totalmente nelle mani di Dio.
Maria è umile, risponde semplicemente:  che cosa posso fare io, così piccola, indifesa, sola? Dio mi chiede di avere misericordia, di volergli bene, di proteggerlo, di amarlo.
Questo io faccio.
Non posso avere paura di quello che mi chiede.
Soltanto quando non troverà più il Figlio dodicenne, quando intuirà che la libertà di Gesù non si può condizionare e fermare, Maria capirà fino in fondo.
In quel momento  una  spada  le  trafigge  il cuore.
Si è chiesto come reagiranno i non credenti e i cattolici alla visione del film? L’ateo sarà colpito dall’aspetto femminile che ho voluto evidenziare, dalla pedagogia evangelica, dalla moralità del racconto.
Al mondo cattolico chiedo soltanto di capire il mio sincero tentativo.
Io non ho voluto fare scandali con il mio film.
Il vero scandalo è il cristianesimo, Cristo è lo scandalo per la società del suo tempo, la sua croce è lo scandalo per tutta l’umanità.
Maria, nelle ultime immagini, è una donna assai anziana, che confessa:  “Non possiamo capire cosa è stato, se non torniamo all’inizio”.
Spero, come Maria, che tutti riescano a riflettere sulla madre e il padre che abbiamo avuto, perché è da lì che veniamo, da loro abbiamo avuto la vita.
E sui genitori che a nostra volta siamo stati.
Il Vangelo ci dice tutto su questo rapporto.
Perché Maria sente la necessità di raccontare questo inizio? Non bastava raccontare la Passione e la Resurrezione? Perché gli Evangelisti sentono la necessità di raccontare la storia di Maria e della nascita di Gesù? Io tento di dare una risposta, raccontando la storia di una donna che ha veramente cambiato per sempre il volto dell’umanità e il posto della donna nella società.
Maria sente l’esigenza di raccontare perché è l’unica che sa degli inizi, e vuole che non li dimentichiamo.
(©L’Osservatore Romano – 31 ottobre 2010)

Uomini di Dio

Trama del film Uomini di Dio: Un monastero in mezzo alle montagne aglerine negli anni 1990…
Otto monaci cristiani francesi vivono in perfetta armonia con i loro fratelli musulmani.
Progressivamente la situazione cambia.
La violenza e il terrore integralista si propapagano nella regione.
Nonostante l’incombente minaccia che li circonda, i monaci decidono di restare al loro posto, costi quel che costi.
USCITA CINEMA: 22/10/2010 REGIA: Xavier Beauvois SCENEGGIATURA: Etienne Comar, Xavier Beauvois ATTORI: Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Sabrina Ouazani, Philippe Laudenbach, Jacques Herlin, Xavier Maly, Jean-Marie Frin, Abdelhafid Metalsi, Olivier Perrier, Adel Bencherif Ruoli ed Interpreti FOTOGRAFIA: Caroline Champetier DISTRIBUZIONE: Lucky Red PAESE: Francia 2010 GENERE: Drammatico DURATA: 120 Min FORMATO: Colore Note: In concorso al Festival di Cannes 2010 Uomini di Dio  L’Ultima Cena dei monaci di Tibhirine prima del martirio In settembre, nei cinema parigini, sette monaci trappisti circencensi, votati al silenzio e alla preghiera, hanno sbaragliato i sontuosi incubi di Di Caprio (Inception), e i misteri seduttivi della Jolie (Salt).
Nelle prime tre settimane Uomini di Dio di Xavier Beauvois, ha più che triplicato il pubblico dei due filmoni americani, sfiorando i due milioni di spettatori.
È vero che per i francesi la storia, vera, è tuttora una ferita oscura e tragica, ma ad assegnare al film a Cannes il Gran Premio è stata una giuria internazionale presieduta dal pur bizzarro Tim Burton: e del resto al festival i monaci in saio bianco avevano già trafitto il cuore di signore ingioiellate e critici burberi, di credenti, di agnostici e persino di atei.
Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, un drappello del Gruppo Islamico Armato rapisce sette (su nove, due erano riusciti a nascondersi) monaci del monastero di Tibhirine, sui monti dell’Atlante, e due mesi dopo ne annuncia l’assassinio.
Il 30 maggio vengono ritrovate le loro teste, mai più i corpi.
Il film racconta gli ultimi mesi di vita di questa comunità religiosa, e proprio perché il regista si definisce miscredente, riesce a comunicare, anche, o soprattutto a chi non crede, il mistero insondabile della fede.
L’Algeria è in piena guerra civile, eppure i monaci vivono in tranquillità e autosufficienza la giornata di preghiera, di canti, di lettura, di lavori agricoli e domestici: il loro ordine non prevede il proselitismo, quindi c’è armonia, rispetto e fratellanza con gli abitanti del piccolo villaggio musulmano.
Il vecchio padre Luc (Michael Lonsdale) è medico e riceve gratis anche 150 pazienti al giorno, il priore padre Christian (Lambert Wilson) che conosce a memoria il Corano e legge I fioretti di San Francesco, porta il miele del convento al mercato, tutti insieme assistono alla festa per la circoncisione di un piccino e ascoltano le parole dell’Imam, che paiono tanto simili a quelle del Vangelo.
Il paesaggio che circonda il monastero è paradisiaco, immenso, intatto, e induce a provare quel sentimento inquieto d’incanto che oscuramente avvicina a un mistero, forse proprio quello della fede.
Dopo il massacro di un gruppo di lavoratori croati da parte dei terroristi, ai monaci viene imposto o di accettare la protezione dell’esercito, o di tornare in Francia.
«È stato il colonialismo francese la radice di questa guerra civile», dice un militare al priore, che rifiuta «la protezione di un governo corrotto» (un governo militare imposto da un colpo di stato per non riconoscere la vittoria elettorale del Fronte Islamico), mentre il dubbio sull’opportunità di restare comincia a inquinare la serenità e la compattezza della comunità.
Forse un quasi certo suicidio collettivo è insensato, la fede non pretende il martirio: eppure alla fine, i monaci decidono che vale la pena di restare, sapendo che non ci sarà futuro per loro.
Ci sono scene indimenticabili: il terrorista ferito viene medicato nel convento, e pare il Cristo del Mantegna, però con la faccia di Che Guevara; nella notte di addio alla vita, i monaci si riuniscono attorno alla tavola come nell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, contro la regola si stappano due bottiglie di vino, e il disco scelto è quello fragoroso del Lago dei cigni di Ciaikovskij.
I visi s’illuminano nel sorriso, si spengono davanti all’angoscia che li attende.
In primo piano, ad uno ad uno, solo quei volti, quelle teste, che due mesi dopo si troveranno mozzate ai bordi di una strada.
È un’efferatezza che Beauvois ci risparmia: rapiti e spinti su un sentiero di montagna i monaci a poco a poco svaniscono nel chiarore notturno e funebre della neve.
Nel suo testamento spirituale (pubblicato in Più forti dell’odio, editore la Comunità di Bose) padre Christian scrive (e dice dallo schermo): «L’Algeria e l’Islam per me sono un corpo e un’anima… Anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi, dico grazie… e che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due».
Quasi quindici anni dopo quella strage non si sa ancora chi furono i veri responsabili.
Solo l’anno scorso è stato tolto il segreto di Stato, e l’inchiesta giudiziaria è in corso.
La tesi ufficiale del governo algerino è che colpevole fu la GIA di Djamel Zitouni; altri che lo stesso Zitouni fu manipolato dai servizi algerini per screditare i ribelli, mentre un generale francese sostiene che fu l’esercito algerino a bombardare il campo dove erano prigionieri i monaci, e a ucciderli.
Il presidente Sarkozy ha chiesto la verità.
di Natalia Aspesi in “la Repubblica” del 19 ottobre 2010

Il cattolico in politica

Come negoziare i principi non negoziabili di Stefano Ceccanti in “Europa” del 12 ottobre 2010 Monsignor Giampaolo Crepaldi, da tempo impegnato sulla dottrina sociale, ha scritto questo Manuale, destinato soprattutto ai politici, con una struttura agile e comprensibile: dopo la prefazione del cardinal Bagnasco che ne elogia l’originalità, un’introduzione generale, una indicazione dei criteri, una specificazione di alcuni contenuti, dei cenni conclusivi.
L’introduzione mira a ribadire il valore pubblico del fatto religioso contro visioni rinunciatarie: un obiettivo largamente condivisibile anche se in realtà questo tipo di impostazione ha alle spalle una forte tradizione anche negli anni Settanta e Ottanta, su cui lo sguardo di Crepaldi sembra essere invece di un certo pessimismo retrospettivo.
Indubbiamente la cesura della fine dell’unità politica dei cattolici ha rappresentato un momento di sbandamento, ma se per certi versi esso è stato superato si deve anche alla preparazione precedente.
Rispetto ai criteri monsignor Crepaldi invita opportunamente a non selezionare a piacere la dottrina o a trattarla in modo astorico, a considerarla invece più correttamente come «un unico corpus, che contiene elementi permanenti ed altri che cambiano, che non va vivisezionata e adoperata a brandelli, che appartiene alla missione della Chiesa e quindi va intesa dentro un contesto ecclesiale, ma che non per questo perde anche la sua capacità di dare indicazioni politiche, che essa ha prodotto e produce cultura politica anche se non scende direttamente nel dibattito politico delle cose da fare».
Viene poi avanzata la preoccupazione che lo schema classico vedere-giudicare-agire dei movimenti di azione cattolica costruisca un “vedere” neutro, che non incorpori sin dall’inizio le ragioni di un giudizio critico, per il cui il successivo “giudicare” sarebbe poi indebolito e produrrebbe un agire debole.
In realtà, al di là del fatto che qualsiasi schema sintetico ha dei pro e dei contro e rischia di essere curvato in modo sbagliato, quello schema reagiva a un’impostazione astorica e deduttiva della dottrina (quella stessa a cui vuole sfuggire l’autore).
Anche se non riusciva a farlo bene, considerando che finiva col trascurare la natura sempre precaria e storicamente limitata del giudizio pratico.
Significativa la parte sulla libertà religiosa in cui si ricorda che nei nostri ordinamenti si tratta certo di un diritto fondamentale soggetto però ad alcuni limiti: quelli che il Concilio Vaticano II indica nella nozione di “ordine pubblico”, che conducono ad esempio alla non accettabilità della poligamia.
Delicata è poi la questione del giudizio politico sulle coerenze personali e sulle impostazioni dei partiti.
È ragionevole sostenere che spostare l’accento su valutazioni pubbliche della coerenza dei singoli può portare a un approccio moralistico e inefficace.
Il giudizio politico deve primariamente vertere sulla coerenza della politica perseguita senza trascurare la rilevanza implicita dei comportamenti privati anche per la valutazione della credibilità politica.
Certo, le modalità di esprimere questa distinzione devono essere tali da non far sembrare che il richiamo alla coerenza  personale sia un optional e debbono sfociare su una verifica effettiva dell’impatto delle dichiarazioni.
Rispetto ai contenuti le pagine più interessanti paiono essere quelle sul ruolo dello Stato che, nonostante la crisi, non viene visto come una panacea nel suo ruolo di gestore diretto, se ne valuta positivamente soprattutto il ruolo di regolatore, di una realtà che «crea la cornice giuridica, fa da garante, coordina» più che erogare direttamente.
Analoga visione aggiornata delle grandi finalità solidali è proposta per il mercato del lavoro e per il ruolo dei sindacato che dovrebbero essere tra i primi a contribuire «a spostare la loro attenzione dai già garantiti ai non garantiti (…) sacrificando anche modalità e comportamenti consolidati per andare incontro alle nuove necessità» con la «continua invenzione di nuove configurazioni giuridiche».
Idem per le delocalizzazioni, che non si tratta di condannare moralisticamente, ma di prevenire con «politiche industriali e del mercato del lavoro che le disincentivino».
Ovviamente il politico cattolico che dovesse viceversa scrivere un manuale ai vescovi farebbe presenti altre due problematiche.
Il primo è che il problema della necessaria anche se paradossale negoziazione dei principi non negoziabili (visto che la politica è negoziazione) non deriva dall’intento di sfuggire ai princìpi o di adeguarsi ai principi di altri, ma dal fatto che in ogni decisione di norma vengono in gioco più principi e lo sforzo per armonizzarli dentro soluzioni accettabili e creative anche se imperfette va perseguito sino in fondo, la strada dell’obiezione è invece l’extrema ratio.
L’esigenza della «continua invenzione di nuove configurazioni giuridiche» proposta per il mercato del lavoro perché lì bisogna conciliare le esigenze di flessibilità dell’impresa con quelle di sicurezza dei lavoratori si pone ad esempio anche per i diritti e i doveri delle persone omosessuali su cui  esistono dei vuoti giuridici e che non si possono inquadrare in un rigido schema tra irrilevanza ed equiparazione al matrimonio.
Senza dimenticare poi che il bilanciamento tra diversi principi è il cuore dell’esperienza giuridica, ben oltre le negoziazioni tipiche dei procedimenti parlamentari di produzione legislativa.
Il secondo è nell’indicazione di priorità in questa fase italiana: al di là di criteri e contenuti mi sembra che il miglior servizio che la Chiesa italiana possa rendere e che sta già rendendo con la Settimana sociale sia quella di aprirsi ai contributi dei cattolici che cercano di realizzare una pratica cristiana della politica non perché riunendoli debbano arrivare alle medesime scelte, ma perché in tal modo la Chiesa riduce il tasso di incomunicabilità del nostro bipolarismo.
Questo si sta già facendo, ma non c’è forse ancora una teoria che lo spieghi bene e che ne allarghi il rilievo GIAMPAOLO CREPALDI,  Il cattolico in politica.
Manuale per la ripresa, Edizioni Cantagalli,  2010, pp.
236, € 14,50 Qual è il ruolo oggi del cattolico che si dedica alla politica? Con un linguaggio preciso, efficace e a tratti coraggioso Crepaldi fornisce indicazioni chiare e univoche ai cattolici che desiderano intraprendere l’avventura politica o che già inseriti nelle strutture di partito trovano difficile conciliare la loro vita di fede con la vita pubblica.
Un manuale strutturato per punti, che ricorda alla coscienza del politico i principi non negoziabili e traccia una scala di valori in cui rintracciare i necessari spazi del compromesso.
Tutela della vita, protezione della famiglia e del lavoro, immigrazione, gestione responsabile dell’ambiente devono essere gli obiettivi primari nell’impegno politico del cattolico da tenere sempre presente e perseguire con decisione.
Sono i temi su cui oggi si gioca il futuro della società e che meritano una riflessione attenta e un’azione efficace.

Una sconfinata giovinezza

Dopo venticinque anni di matrimonio Lino e Francesca (Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri) sono ancora una coppia molto unita.
Superata l’amarezza per non aver avuto figli e ormai raggiunta la mezza età, hanno trovato una serenità profonda, corroborata anche da un discreto successo professionale, come giornalista sportivo lui, come docente universitaria lei.
Il loro solido equilibrio viene messo alla prova quando Lino comincia a manifestare disturbi della memoria.
Dapprima arginata soprattutto grazie all’amore di Francesca, la malattia è destinata a diventare sempre meno gestibile, tanto da impedire presto a Lino di proseguire il suo lavoro, e portarlo a maltrattare la compagna di tutta una vita.
 In questo progressivo allontanamento dalla quotidianità, si fanno però strada i ricordi dell’infanzia trascorsa nella campagna emiliana, rivissuta con straordinaria fedeltà percettiva.
Per Lino sarà l’inizio di un percorso a ritroso solitario ma anche misteriosamente salvifico.
È senz’altro ingiusto che il film di Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza, sia stato maltrattato ancor prima di uscire nelle sale, con l’esclusione dal concorso del Festival di Venezia.
Ma in fondo è anche comprensibile.
Perché al di là della qualità strettamente artistica, si tratta di un’opera destabilizzante.
A sorprendere è in particolare la capacità di questo regista e sceneggiatore dalla carriera ormai lunga e consolidata di immergersi completamente nel dolore dei suoi personaggi.
Investendo energie emotive che altrove aveva paventato salvo poi tenerle sapientemente a bada, magari rintanandosi in quei personaggi di sveviana memoria di cui è ottimo depositario, ma a cui ultimamente aveva fatto sin troppo affidamento.
Qui, al contrario, la materia emotiva è quasi incandescente, tanto che il rischio poteva essere casomai quello opposto, ossia di finire al di là del crinale scosceso del melodramma.
Rischio scampato grazie alla scelta coraggiosa di evitare il teorema dei sentimenti, e di riservare momenti di gioia dove ci si aspetterebbe solo angoscia, e viceversa.
Succede allora che una malattia che colpisce la memoria diventi la macroscopica madeleine con cui schiudere tutto uno scrigno di ricordi infantili, e che quella stessa infanzia, di contro, non si riveli un quadretto idilliaco, ma alterni accenti di dionisiaca vivacità a riflessi amari e persino inquietanti.
“Per quanto possa essere stata vissuta nelle condizioni più penalizzanti – ci ha spiegato lo stesso Avati – il ricordo dell’infanzia ha sempre degli accenti di suggestione e di rassicurazione che ti richiamano a un rientro a casa.
È un sentimento comune a tutte le persone che hanno raggiunto la mia età.
Io ho cominciato ad avvertire questa grandissima nostalgia nei riguardi della mia infanzia perché è il chiudersi di una circolarità della vita attraverso un  ritrovarsi.
E io penso che le persone  che  vedranno e che hanno già visto  il  film, consapevolmente o meno riconoscano nel profondo questo tipo di tensione, che è dentro ognuno di noi”.
Il senso di emotività quasi debordante sorprende ancor di più se messo in rapporto al precedente e ancora recentissimo film del regista, il sottovalutato Il figlio più piccolo, in cui al contrario il suo sguardo si era fatto tanto lucido quanto distante dalle proprie creature, viste come in un vetrino dal placido piedistallo dell’entomologo.
Col senno di poi, si potrebbe dire che Avati avesse bisogno di prendere il fiato prima di tuffarsi in questo tour de force di sentimenti.
 “In Il figlio più piccolo – prosegue il regista – si contrapponevano due anime:  il mondo terribile, glaciale di chi considera la vita attraverso gli affari e il potere, appartenente al padre e lontano anni luce da quello che io sono, e quello appunto del figlio minore e di sua madre, che è di un’ingenuità e di un candore estremi.
Entrambi però visti, in effetti, con una partecipazione relativa, perché io non mi riconoscevo né nel figlio né tanto meno in suo padre.
In quest’ultimo film invece la storia è ben diversa:  qui c’è un coinvolgimento umano che è dato dalla responsabilità di dover mettere in scena un dramma sociale, il morbo di Alzheimer, che coinvolge molte famiglie in occidente e che è destinato purtroppo a crescere proprio per l’aumentare dell’aspettativa della vita media.
E allora non potevo che raccontarlo con vicinanza.
Con questo film cerco di essere affettivamente vicino a chi vive questo dramma”.
Il film sorprende e rischia molto anche nella scelta degli attori.
Bentivoglio e Neri, entrambi bravissimi, recitano per tutto il film – caso più unico che raro – con un trucco che li invecchia.
Una scelta dettata ancora una volta non solo dall’evidente ammirazione di Avati per i due interpreti, ma dalla cura che sente di dovere al disegno dei personaggi.
Alla domanda sul perché non scegliere direttamente attori più anziani, il regista ha infatti osservato:  “Era mia intenzione tenere sempre molto vicini fra loro da una parte i momenti dell’amore tradizionale fra un uomo e una donna, fatto dunque anche di passione, e dall’altra la senescenza, in cui l’amore si trasforma in affetto, e i ruoli mutano, come in questo caso, dove Francesca diventa in pratica la madre del figlio che non ha mai avuto.
Non potevo dunque affidare i ruoli a due  attori la cui immagine fosse troppo  lontana  da  quel  primo percorso di  giovinezza,  in  cui penso molti spettatori  possano  facilmente  identificarsi”.
L’idea dell’avvicinamento alla malattia e alla morte come momento di arricchimento spirituale viene curiosamente affrontato anche da un altro film che esce in questi giorni, il thailandese Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti.
Il ricorrere di questo tema sta forse a denunciare un’esigenza di allontanarsi per un attimo da questo presente, dalla modernità? “Per chi ha già vissuto tanti anni come me – risponde il regista – il presente diventa sempre complicato, di conseguenza si vanno a imporre, con maggiore nitore, dei mondi, dei paesaggi, degli sfondi che ti suggestionano e che ti seducono, e che ti fanno capire che in qualche maniera il mondo può essere più grande, più vasto, più sacro addirittura di quanto non lo consideriamo o non lo immaginiamo ragionando solo attraverso calcoli di carattere egoistico o bracci di ferro di potere.
Io penso che questo sia un film molto affettuoso nei riguardi dell’essere umano, che è un atteggiamento che il cinema italiano non sempre mette in campo.
Nel film precedente ho già detto cosa non mi piace del mondo presente, ma, avendo dei figli, avendo dei nipoti, sarebbe anche profondamente scorretto da parte mia infierire, continuando a raccontare come il presente sia invivibile.
Mi sembra una forma di esprimersi troppo dissuasiva nei confronti dei sogni e delle aspettative che i ragazzi di oggi devono legittimamente tenere dentro di sé”.
Non a caso torna dunque nelle parole di Avati l’idea che questo film sia stato fatto pensando agli altri.
Che sia, neanche troppo velatamente, un atto d’amore più che un’opera d’arte.
E come tale incappa sporadicamente in difetti dovuti alla generosità, come quando a due terzi del racconto l’autore vi insinua un piano psicanalitico invadente, di cui la materia trattata, già così carica di significati, non aveva ovviamente alcun bisogno, e che comunque arriva troppo tardi e in modo troppo esplicito.
È un errore comprensibilissimo, da manuale addirittura:  Avati ha intravisto in questi personaggi e in questa storia la possibilità di parlare di tutta una vita, e a tratti è caduto nella tentazione di strafare.
Ma nel terreno arido del cinema d’oggi il suo sbagliare per abbondanza ha il sapore di un sorso d’acqua fresca.
di Emilio Ranzato (©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2010)