ENZO BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi, Torino 2011, 978-88-06-20465-5, pp.127, Euro 17 Confesso che nella mia vita stare accanto al camino acceso verso sera, all’ora del tramonto, è una delle gioie più grandi che mi è stato dato di vivere.
[…] Assieme agli altri, mi offre in dono poche parole, dense di rara capacità comunicativa. È impossibile sostare davanti a un camino acceso e parlare troppo: quel fuoco che scoppietta e manda faville con ritmi e tonalità tutte sue invita al silenzio e fa dell’ascolto reciproco un sussurro eloquente.
Non “ogni cosa ha la sua stagione”, ma “ogni cosa alla sua stagione”.
Un sottile spostamento di senso per dire come siamo noi, assieme alle cose di cui riempiamo i nostri giorni, ad appartenere al tempo.
Non il contrario.
Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, conosce gli uomini e il mondo: dalla sua cella, al rapporto con la quale dedica uno dei capitoli più intensi, non si limita ad osservare ciò che accade al di fuori.
Piuttosto, cerca nella solitudine che quello spazio comporta, un contatto autentico e profondo con sé stesso, così da poter poi tornare nel mondo forte di una nuova consapevolezza di quello che è altro da sé.
Attinge agli insegnamenti di un cistercense del dodicesimo secolo per riscoprire la radice comune a “cella” e a “coelum”, cielo, e costruisce un ponte fra due concetti apparentemente opposti, e invece accomunati da un’idea di orizzonte interiore che supera ciò che gli occhi possono vedere.
Il libro pubblicato da Einaudi inanella riflessioni maturate nel corso di una vita che Bianchi sente essere stata – ed essere ancora – piena, matura, ricca; e accanto a questi pensieri trovano spazio ricordi di gioventù, rievocazioni di momenti significativi e alcuni ritratti delle persone care.
Fra questi, spiccano le pagine dedicate alla Teresina del Muchèt, donna “selvatica” vissuta accanto al paese dove lui è cresciuto, che nell’umile regola di una vita condotta fra le malghe e una casina modesta, a fare formaggi, rimarrà un esempio luminoso per le scelte future di Bianchi.
Fuge, tace, quiesce.
Fuggi, taci, rappacificati.
Tre precetti che Bianchi ci illustra con passione, mostrandoci un ciclo virtuoso di cui l’uomo dispone per riappropriarsi della propria vita in tre passi.
Fuggire: “lasciare il luogo abituale di vita – anche se solo per il breve tempo di una vacanza – può diventare affermazione “che il luogo in cui si vive non basta, e che desideriamo altri luoghi”.
Tacere: regola d’oro nel mondo “assordante in cui viviamo oggi, dove il silenzio costituisce una creatura in via d’estinzione”.
Rappacificarsi, infine: per rinfrancarsi dalle fatiche, e “esercitarsi a pensare in grande, all’amare contemplando l’amore di cui siamo oggetto e l’amore che può sbocciare dal nostro cuore”.
Ma attenzione: non si tratta di un itinerario low cost, perché questo viaggio verso sé stessi richiede la rinuncia alle proprie abitudini, e la disponibilità ad allontanarsi dagli schemi cui ci appoggiamo per sentirci più forti.
La ricompensa, però, è grande, e può significare un rinnovato patto fra noi stessi e la società degli uomini nella quale viviamo ogni giorno.
Belle pagine, in un libro che sa regalarci anche osservazioni non banali, sull’importanza del convivio; sulle verità che il vino può dispensare se goduto con intelligenza; sull’amicizia, esercizio perpetuo di coltivazione della bellezza oggi più che mai indispensabile.
Categoria: In libreria
Gli errori di Darwin
Intervista a Massimo Piattelli Palmarini sui contenuti del libro Gli errori di Darwin e le polemiche suscitate A un secolo e mezzo dalla pubblicazione delle sue prime opere sull’evoluzione biologica, Darwin fa ancora notizia.
Anzi, infiamma gli animi e scatena polemiche.
L’ultima, in ordine di tempo, è motivata dall’imminente pubblicazione di Gli errori di Darwin (Feltrinelli), annunciata per il 21 aprile, dopo altrettante polemiche suscitate negli States dall’edizione originale.
Il volume, che ha richiesto tre anni di lavoro, è scritto a quattro mani da due scienziati di livello internazionale.
Uno, vanto italiano, è Massimo Piattelli Palmarini, docente di Scienze cognitive all’Università dell’Arizona, dopo una permanenza al Mit di Boston e successivamente al San Raffaele di Milano dove ha creato il dipartimento della sua disciplina.
L’altro, Jerry Fodor, è anch’egli un’autorità nelle scienze cognitive, insegna filosofia del linguaggio alla Rutgers University del New Jersey.
Ancor prima di uscire nel nostro Paese, il volume di Piattelli Palmarini e Fodor sta riempiendo le pagine culturali e scientifiche dei nostri giornali, con pepati botta e risposta tra scienziati che si occupano di queste tematiche.
Ho raggiunto Massimo Piattelli Palmarini a Venezia, durante una sua parentesi italiana, per un ciclo di seminari universitari. Gli ho chiesto di spiegarci le ragioni di così tanto scalpore per aver controbattuto alcune presunte idee “errate” del darwinismo.
Professor Piattelli Palmarini, ci spiega perché queste reazioni, anche emotive, al libro che ha scritto con Jerry Fodor? Ci sono varie spiegazioni.
Una è che la selezione naturale, il darwinismo, combina le due spiegazioni centrali della nostra vita e della nostra psiche.
Che sono la spiegazione di tipo meccanicistico e quella di tipo finalistico.
La spiegazione di tipo meccanicistico è quella che applichiamo nella vita di tutti i giorni, nelle cose inanimate, le cose inorganiche.
Le spiegazioni finalistiche le applichiamo nelle cose umane.
Si spiega quanto è successo nelle vicende storiche e nelle biografie di certi personaggi ricostruendo i loro scopi, le loro intenzioni, i loro progetti.
La selezione naturale mette assieme queste due forme fondamentali di spiegazione.
Fornisce una spiegazione meccanicistica a qualcosa che sembrerebbe di tipo finalistico.
Non c’è dubbio che l’idea di Darwin sia geniale e abbia conquistato gli scienziati.
In fondo, se si guarda all’evoluzione biologica si nota questo emergere di forme sempre più complesse nel tempo.
Il “match” che si verifica tra le forme e i tratti biologici degli ambienti in cui crescono.
Tutto ciò suggeriva, tradizionalmente, qualcosa di finalistico.
E con l’idea della sezione naturale si spiegherebbe questa parvenza di “disegno” in modo meccanicistico.
Questa è una idea molto forte che ha conquistato molti, e non intendono abbandonarla.
Questo atteggiamento non assomiglia un po’ alla resistenza degli psicoanalisti quando, ad un certo punto, dovettero confrontarsi con le neuroscienze e con la psicofarmacologia? Certi saperi rischiano di costituirsi, da un certo punto di vista, come “chiese laiche”.
In un certo senso sì.
Ma è accaduto in diversi ambiti, non solo per la psicoanalisi.
E’ successo, ad esempio, pure per il marxismo.
Quando una dottrina è ritenuta “forte”, si coagulano attorno ad essa consensi altrettanto resistenti al cambiamento, e si costituisce una sorta di credenza indiscutibile.
C’è quindi anche una valenza filosofica della teoria dell’evoluzione che incide molto in questo dibattito.
Certo.
Perché si tratta di una spiegazione meccanicistica di fenomeni che avevano l’aria di essere finalistici.
Non c’è dubbio che questa sia un’idea forte.
Qual è invece l’idea forte del libro che ha scritto con Fodor? L’idea forte è che, ovviamente, l’evoluzione è un fatto.
L’appartenenza nel tempo dell’evoluzione di specie simili ad antenati comuni anche questo è un fatto.
Tutte le ricerche degli ultimi anni relative a ciò che tecnicamente viene definito “evo-devo” (cioè l’evoluzione biologica vista insieme allo sviluppo dell’embrione, dall’uovo fecondato fino all’adulto), ha mostrato che i geni sono sostanzialmente gli stessi.
Dal moscerino della frutta fino a noi.
I geni sono sempre i medesimi.
L’evoluzione è un fatto.
L’appartenenza delle specie l’una all’altra nella filogenesi, è anch’essa un fatto.
Quello che noi contestiamo è che la selezione naturale sia il meccanismo che spieghi la comparsa di specie nuove e di tutte le forme biologiche esistenti.
Questo è ciò che noi contestiamo.
Quindi contestate e lasciate un interrogativo aperto.
Voi mettete sul piatto dei dubbi, delle perplessità riguardo la possibilità di spiegazione onnicomprensiva delle teorie darwiniane.
Sì, proprio così. Non pensiamo che la teoria universale della selezione naturale debba essere sostituita da un’altra e diversa teoria onnicomprensiva.
I meccanismi sono molteplici, i livelli dei cambiamenti biologici nel tempo sono molteplici e quindi si tratta di un processo complesso, articolato, eterogeneo.
Siamo ben lungi dall’aver scoperto tutti i fattori in gioco.
Occorreranno molte altre ricerche, probabilmente per molti decenni.
In termini un po’ ironici, giocando sui vostri rispettivi doppi cognomi, Cavalli-Sforza ha esemplificato recentemente su “Repubblica” la questione dell’evoluzione culturale e l’adattamento alle necessità ed ai gusti della specie umana.
Lasciando intendere tra le righe che lei e Fodor non siete dei genetisti e quindi non avete gli strumenti concettuali per affrontare tali tematiche.
Sì, però Cavalli-Sforza parla di linguaggio e non è un linguista.
I fenomeni linguistici che egli sottolinea sono assolutamente marginali.
E’ lo stesso problema: Cavalli-Sforza parla di piccole modifiche cumulative che si verificano nel tempo, all’esterno della lingua.
Da parte mia sottolineo invece che da cinquant’anni, da Chomsky in poi, viene riconosciuta l’importanza delle strutture interne della lingua.
Quindi, lingue tra loro remote geograficamente e storicamente che hanno fatto le stesse scelte sintattiche.
E nulla rende l’organizzazione sintattica del giapponese più funzionale nelle isole del Giappone, né quella dell’inglese più funzionale nelle isole britanniche.
Non c’è questo tipo di funzionalità che spieghi alcunché.
I vincoli e i fattori sono interni, non ambientali.
Voi siete per una teoria che comprenda anche questi aspetti.
Una teoria che enfatizza molto le strutture “interne”.
E i cambiamenti endogeni delle strutture interne, sia nel campo della linguistica che della biologia.
L’organizzazione interna dei geni: come possano riorganizzarsi.
Come la fisica e la chimica – con componenti di autorganizzazione – organizzano e strutturano in parte gli esseri viventi.
Noi enfatizziamo questa componente interna.
Il neo-darwinismo è una dottrina “esterna”: è l’ambiente che filtra e plasma le strutture e i fenomeni biologici.
C’è anche quello, però non è una componente così importante.
E’ molto più importante la componente interna.
A quale corrente “revisionista” del darwinismo vi rifate, perciò? Steve Gould e Richard Lewontin sono stati dei pionieri, importantissimi.
Ma oggi vi sono, oltre ai revisionisti, anche dei biologi che vanno oltre, che considerano la sintesi moderna (cioè il neo-darwinismo, la fusione di genetica e evoluzionismo darwiniano) decisamente superata.
Per esempio Eugene Koonin, Carl Woese, Lynn Margulis, Gabriel Dover, Stuart Newman, Leonard Kruglyak e altri.
Siamo dalla loro parte e li citiamo nel libro.
Lei ha lavorato anche all’interno di strutture, come il San Raffaele, in cui le sarà capitato di dibattere con colleghi dell’area medica.
Cosa pensa delle teorie darwiniane applicate alla medicina e alla psicologia? La medicina darwiniana è una sciocchezza.
Dello stesso genere dell’ “estetica darwiniana” e dell’ ”etica darwiniana”.
Applicazioni senza senso del darwinismo.
Una piccola corrente senza importanza.
Non vedo il clinico o il chirurgo che quando fanno le diagnosi o eseguono un intervento si rifanno alla teoria darwiniana.
Non è il caso.
Mi sembra un aspetto decisamente marginale destinato a scomparire.
Nelle scienze cognitive, c’è invece la psicologia evoluzionistica che ha centri di ricerca che sono appunto il bersaglio della nostra critica.
Infatti nel libro c’è una appendice con svariate citazioni tratte da questi psicologi evoluzionisti i quali sostengono che “tutto cambia, tutto diventa chiaro quando si applica la teoria dell’evoluzione” e così via.
Secondo noi è sbagliatissimo.
Le cosiddetta “sacra triade” di studiosi (Dennett, Dawkins e Pinker) oggetto delle vostre critice, secondo Cavalli-Sforza non sarebbe poi così “sacra”, ovvero non così autorevole nelle ricerche relative all’evoluzione biologica.
Quindi non meritevole di così tanta attenzione.
Sono comunque studiosi di queste problematiche con cattedre prestigiose, che fanno anche divulgazione.
Sono studiosi qualificati e influenti, considerati dei maestri.
Mi fa piacere che Cavalli-Sforza ed altri dicano: non state a preoccuparvi di loro dal punto di vista scientifico.
Benissimo.
Ma non è che non siano autori ininfluenti e di nessun interesse.
Sono personaggi con posizioni accademiche ben consolidate.
Sono anche autori di prestigio.
A chi è venuta l’idea di questo libro? A lei, a Fodor, ad entrambi parlando di questi temi? E’ venuta a tutti e due.
Io presentai quattro anni fa quella che ora costituisce la “parte prima” del libro alla City University of New York.
E Fodor, con il quale siamo intimi amici da decenni, mi esortò a scriverne, perché le riteneva cose importanti.
Mi invitò a ripetere la mia conferenza il giorno dopo ai suoi studenti alla Rutgers University.
E insistè che dovevo pubblicarla.
Io ribattei che non c’era nulla da scrivere, perché si trattava di dati e scoperte già pubblicate sulle riviste scientifiche.
Fodor insistè, dicendo che però era importante riunirle tutte assieme, spiegarle in modo accessibile e discuterle criticamente.
Abbinando e integrando queste scoperte della biologia con un’analisi concettuale critica rigorosa delle idee centrali del neo-darwinismo.
Così è nata l’idea di scrivere questo libro.
Ci siamo divisi i compiti: la prima parte l’ho scritta io e la seconda Fodor.
Poi ovviamente ognuno ha letto la parte dell’altro, aggiungendo e integrando la rispettiva divisione del lavoro.
Abbiamo impiegato circa tre anni a completarlo, ovviamente alternando questo lavoro agli altri impegni.
Avete seguito anche l’ottima regola, soprattutto americana, di sottoporre i capitoli ad altri esperti, in corso d’opera? Sì, e un lettore molto importante è stato il grande biologo e genetista Richard Lewontin.
Ha suggerito vari cambiamenti che abbiamo adottato.
Il suo contributo è stato determinante.
Importante anche la critica benevola, ma serrata, di Gabriel Dover e quella amichevole, ma molto dissenziente, di Charles Randy Gallistel, eccellente amico personale sia di Fodor che mio, un critico spietato e micidiale del comportamentismo (che noi citiamo nel nostro libro), ma assai restio a criticare il neo-darwinismo.
Altri lettori sono stati filosofi, biologi e altri colleghi che ci hanno fornito suggerimenti e critiche.
Restando su Lewontin, com’è stato che qualcuno abbia avuto l’idea di fare una “petizione” contro di lei? Lewontin, come lei ha detto, l’ha informata di questa curiosa iniziativa.
Sì, è partita dal genetista Giorgio Bertorelle, il quale si vide rispondere da Lewontin “I urge you to desist” (La invito caldamente a desistere).
Ma lui ha insistito e, pur senza la firma di Lewontin, ha fatto circolare la petizione e sostiene che i più prestigiosi evoluzionisti hanno firmato un manifesto contro di me.
Un manifesto di condanna contro le mie idee, mi sembra una cosa da inquisizione.
Detto in senso ironico: non è uno dei motivi che l’hanno indotta a tornarsene negli Stati Uniti, dopo la parentesi al San Raffaele di Milano? Metti caso che mi brucino come Giordano Bruno, avrà pensato.
No, ero già in America.
E neppure in America sono teneri su certe cose.
Sono tornato negli Stati Uniti per tornare a fare lo studioso e non soltanto l’organizzatore.
Si attende altre reazioni dall’uscita del libro nel nostro Paese? Penso di sì.
Appena il libro comincerà a circolare ed essere letto, vi saranno certamente altre reazioni.
Vi farà però piacere: in fondo riapre un dibattito su questioni un po’ ferme tra religione e laicismo.
Noi ovviamente non abbiamo nulla da dire sulla religione.
E’ bene che la scienza non dica nulla sulla religione, e viceversa.
Sono due settori distinti.
Anche se in Rete, alcuni pensatori religiosi, cominciano ad annoverarvi tra i loro “paladini”.
Lo so, ma cosa possiamo farci? L’importante è che non ci considerino parte di loro.
Né che facciano credere ai lettori che stiamo dalla loro parte.
E questo per ora non lo fanno.
Anzi, sottolineano: questi sono due atei e perfino (sottolineano il perfino) loro criticano il darwinismo.
Il che è vero.
Quindi, ne facciano l’uso che credono.
Qualcuno anzi ci aveva avvertito: non scrivete queste cose perché poi saranno strumentalizzate.
Ma noi abbiamo scritto ciò che ci sembra giusto e vero.
E poi sull’uso che ne verrà fatto, sarà quel che sarà.
* Su VideoScienza parte dell’audio della conversazione con Piattelli Palmarini.
* Leggi anche una delle più interessanti e pacate repliche a firma del genetista Mauro Mandrioli (Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Biologia animale) su Pikaia (il portale dell’evoluzione diretto dal filosofo della scienza Telmo Pievani).
Enzo Soresi http://bioneuroblog.wordpress.com/2010/04/10/gli-errori-di-darwin-secondo-massimo-piattelli-palmarini/ FODOR JERRY A., PIATTELLI PALMARINI MASSIMO, Gli errori di Darwin, Feltrinelli, Milano 2010, ISBN: 8807104571, pp.
263, E 22,50 In questo libro Massimo Piattelli Palmarini, biofisico e scienziato cognitivo, e Jerry Fodor, filosofo del linguaggio e cognitivista, sostengono che il principio darwiniano di selezione naturale e di progressivo adattamento all’ambiente non è verificabile.
Anzi, con grande probabilità, è sbagliato.
Lo dimostrano i dati più recenti della ricerca genetica, embriologica e biomolecolare.
E lo dimostra l’esame stringente della logica interna della teoria darwiniana.
Sulla scia di Stephen J.
Gould e Richard Lewontin, i primi evoluzionisti a mettere in seria discussione il principio di selezione naturale, Piattelli e Fodor processano Darwin e i suoi seguaci più ortodossi.
Oggi, sostengono, possiamo affermare con certezza che i viventi evolvono.
Quali siano però i meccanismi che innescano il cambiamento è questione controversa e non ancora del tutto chiara.
Atei, materialisti, non sospetti di derive creazioniste, i due autori credono che non esistano nella scienza discussioni “inopportune”.
Al contrario, proprio nel nome della scienza occorre discutere con chiarezza e onestà i presupposti, i riscontri e le aporie di tutte le teorie scientifiche.
Darwin e il darwinismo sono stati a lungo ritenuti fondamentali per comprendere la natura del vivente, ma non sono un feticcio che non possa essere messo sotto osservazione critica.
Dizionario di Ecclesiologia
G.
Calabrese, P.Goyret, O.F.Piazza, DIZIONARIO DI ECCLESIOLOGIA, edd.
Città Nuova, Roma,pp.
1.568, € 140,00.
Se siete “laici”, non accantonate subito come non a voi pertinente questa segnalazione, convinti al massimo che il termine “Chiesa” valga solo per stare in guardia contro ogni tentazione teocratica, rimodulando e ribadendo la formula di Cavour della «Libera Chiesa in libero Stato» o, più aspramente temendo col Pasolini della Religione del mio tempo che «la Chiesa sia lo spietato cuore dello Stato».
No, la categoria sottesa a questo vocabolo di matrice greca, ekklesía, è quella della “convocazione”, certo di taglio sacrale e trascendente, ma che rimanda anche a un incontro sociale.
Risaliamo, così, alle radici stesse dell’antropologia che non si accontenta di aggregazioni genetiche (famiglia, clan), ma segnala l’anelito a congregazioni di altra impronta, più civile e culturale (popolo, nazione), o corporativa (associazioni, ordini) o infine spirituale e simbolica.
Ecco, allora, entrare in scena la Chiesa con le sue sotto-categorie (pensiamo alle comunità monastiche).
Ma non si creda che l’idea sia appannaggio del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo.
L’umma musulmana è la comunità “materna” (tale è l’etimologia della parola) che raccoglie in unità i fedeli di quella religione e che tende spesso a sovrapporsi alla stessa comunità civile in una sovrimpressione identitaria giuridico-politica.
Persino il buddhismo, a prima vista restio ad accogliere criteri di mutua appartenenza (al massimo c’è la sangha monastica rigidamente istituzionalizzata), ha prodotto forme di comunità nazionale religiosa: come non pensare al Tibet che ha – a partire dal Seicento – nel Dalai Lama l’unificazione dell’identità sacra, civica ed etnica? Il discorso è ancor più evidente per l’ebraismo che ha già nelle Scritture Sacre l’emergere della qahal, l’ekklesía appunto, una “convocazione” divina dai forti connotati istituzionali civili.
È, però, indubbio che la categoria “ecclesiale” sia capitale nel cristianesimo e sia uno dei nodi più intricati dell’odierno dialogo ecumenico, come lo fu in passato nello scontro, non di rado armato, tra le varie Chiese col relativo corteo di scismi, di scomuniche e persino di guerre di religione.
Tempo fa, proprio su queste pagine, abbiamo spiegato – sulla scorta di un saggio di Giacomo Canobbio (Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, Queriniana) – il senso autentico del celebre motto “inventato” da Origene e Cipriano, Extra Ecclesiam nulla salus, spesso ancor oggi imbracciato come un kalashnikov anti-ecumenico e integralistico.
Si capisce, allora, perché l’apparire di un dizionario di ecclesiologia debba essere segnalato anche ai lettori più diversi e non ai destinatari a prima vista specifici come gli “ecclesiastici” o le comunità “ecdesiali”.
Certo, quello che ora presentiamo è un manuale che lascia in sordina la prospettiva antropologica (ad esempio, la voce “Appartenenza” è esclusivamente teologica, così come le “società” qui evocate sono soltanto le “Società di vita apostolica”).
Tuttavia, nelle 160 voci che compongono questo vasto arazzo tematico ci si imbatte nella trattazione della “Democrazia”, della “Promozione umana”, dei “Rapporti Chiesa-Stato”, di “Arte e Chiesa”, ma si lascia pure vasto campo alle mille iridescenze che la categoria “Chiesa” ha assunto nella storia al punto tale da essere applicata a soggetti disparati con reciproco dispiacere degli uni e degli altri.
Significativo al riguardo sarebbe rincorrere la sequenza rubricata sotto “Ecclesiologia”: ci sono gli anglicani, i congregazionalisti, i luterani, i bizantini medievali, l’occidente medievale, gli ortodossi, i cattolici conciliari e post-conciliari, i riformati, tanto per seguire l’ordine alfabetico.
Ma all’interno s’incunea l’ecclesiologia degli Atti degli apostoli, quella giovannea, delle Lettere pastorali neotestamentarie, la paolina, quella della patristica occidentale e orientale, della comunità cristiana primitiva, l’ecclesiologia sinottica e veterotestamentaria, anche qui per stare alla sequenza alfabetica, fermo restando poi che una decina di voci sono riservate alle specifiche Chiese in cui si è frammentata la cristianità.
L’oscillazione ondeggia, quindi, tra voci che isolano e approfondiscono i fondamenti teologici, come «Concilio, Corpo di Cristo, Dodici, Episcopato, Eucaristia, Evangelizzazione, Infallibilità, Liturgia, Magistero, Ministeri, Missione, Papato, Parola, Popolo di Dio, Presbiterato, Sacramentalità, Scisma, Spirito Santo, Tradizione» e così via, e voci che toccano questioni storiche o pastorali come l’architettura ecclesiale, il Gallicanesimo, le sette e i nuovi movimenti religiosi, la teologia della liberazione, la Scuola di Tubinga e di Roma o lemmi enigmatici ai profani come Subsistit in, sempre per fare qualche esempio.
L’oscillazione si ripete – come è ovvio in simili prodotti affidati a una legione di collaboratori – tra impostazioni più sincroniche e approcci diacronici, tra prospettiva tematica ed evoluzione storico-tematica.
Il Concilio Vaticano II, con la sua costituzione Lumen gentium, ha fatto sì che l’ecclesiologia tornasse al centro dell’interrogazione teologica, ma anche dell’impegno pastorale nel confronto col mondo.
Lo ha fatto ribadendo che i suoi confini sono meno “ecclesiastici” di quanto si è soliti ipotizzare anche da parte dei non credenti.
Ha riproposto con forza la necessità dell’incontro ecumenico per impedire integralismi e autoreferenzialità.
Ha rettificato gli incroci con la società e la politica (Martin Luther King in quegli stessi anni nella sua Forza d’amare affermava che «la Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, è la coscienza dello Stato»).
Mi sembra, comunque, significativo concludere con un passo dell’allora cardinale Ratzinger nel suo saggio sulla Chiesa, una comunità sempre in cammino (San Paolo 1991) passo che è posto in apertura a questo dizionario e che noi riproponiamo ai lettori credenti e “laici”.
«La Chiesa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per dare avvio a una vita comunitaria.
La Chiesa non è nemmeno la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l’eucaristia.
La Chiesa è anche di più che papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale.
Di essa fanno parte tutti i santi, a partire da Abele, da Abramo e da tutti i testimoni della speranza…
Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi, il cui cuore si protende, sperando e amando, verso Cristo».
di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 9 gennaio 2011
Omelie
Quella che segue è la prefazione al volume – edito in Italia da Libri Scheiwiller e in vendita da poche settimane – che raccoglie le omelie di Benedetto XVI nell’anno liturgico appena trascorso, l’anno C del lezionario romano.
Terzo della serie, il volume accompagna ogni omelia di papa Joseph Ratzinger con le letture bibliche della messa del giorno, come pure con i salmi e le antifone dei vespri da lui celebrati.
Nell’esortazione apostolica postsinodale “Verbum Domini” sulla Parola di Dio nella vita della Chiesa, pubblicata lo scorso 30 settembre, un paragrafo, il 59, è dedicato proprio alla cura dell’omelia, che in effetti è il principale, se non l’unico, atto di comunicazione della buona novella cristiana ascoltato da centinaia di milioni di battezzati ogni domenica nel mondo.
Nell’arte dell’omelia, indubitabilmente, Benedetto XVI è uno straordinario modello.
__________ “COME PAPA LEONE MAGNO, ANCHE PAPA BENEDETTO PASSERÀ ALLA STORIA PER LE SUE OMELIE” di Sandro Magister Sono tre le annualità che scandiscono il messale romano domenicale e festivo, con al centro di ciascuna i Vangeli di Matteo, di Marco e di Luca.
Nel pubblicare anno dopo anno le omelie di Benedetto XVI, Libri Scheiwiller si è attenuto a questa sequenza.
Con questo terzo volume della serie si chiude il triennio.
Esso raccoglie le omelie papali dell’anno liturgico lucano, che è iniziato con la prima domenica di Avvento del 2009 e si è disteso sull’arco del 2010.
Le omelie della messa e dei vespri sono un asse portante di questo pontificato, ancora non da tutti capito.
Joseph Ratzinger le scrive in buona parte di suo pugno, alcune le pronuncia a braccio con l’immediatezza della lingua parlata.
Ma sempre le pensa e prepara con estrema cura, perché per lui hanno una valenza unica, distinta da tutte le altre sue parole scritte o pronunciate.
Le omelie, infatti, sono parte dell’azione liturgica, anzi, sono esse stesse liturgia, quella “liturgia cosmica” che egli ha definito “meta ultima” della sua missione apostolica, “quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, adorazione, e allora sarà sano e salvo”.
C’è molto Agostino in questa visione di Ratzinger, c’è la città di Dio in cielo e sulla terra, ci sono il tempo e l’eterno.
Nella messa il papa vede “l’immagine e l’ombra delle realtà celesti” (Ebrei 8, 5).
Le sue omelie hanno il compito di sollevare il velo.
E in effetti, a rileggerle, esse schiudono una visione del mondo e della storia colma di nuovi significati, che sono poi il cuore della buona novella cristiana, perché “se Gesù è presente, non esiste più alcun tempo privo di senso e vuoto”.
L’Avvento è “presenza”, “arrivo”, “venuta”, ha detto il papa nell’omelia inaugurale di questo anno liturgico.
“Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli”, e quindi il tempo diventa “kairós”, occasione unica, favorevole, di salvezza eterna, e la creazione intera cambia volto “se dietro di essa c’è lui e non la nebbia di un’incerta origine e di un incerto futuro”.
Ma il tempo della “civitas Dei” non è informe.
Ha un ritmo che gli è dato dal mistero cristiano che lo riempie.
Ogni messa, ogni omelia cade in un tempo preciso, la cui scansione fondamentale procede di domenica in domenica.
Il “giorno del Signore” ha come protagonista colui che è risorto il primo giorno dopo il sabato, divenuto figura dell'”octava dies” della vita eterna.
La presenza del Risorto nel pane e nel vino consacrati è reale, realissima, predica incessantemente il papa.
Per vederlo e incontrarlo basta che gli occhi della fede si aprano, come ai discepoli di Emmaus, che riconobbero Gesù proprio nel sacramento dell’eucaristia, “allo spezzare del pane”.
“L’anno liturgico è un grande cammino di fede”, ha ricordato il papa prima di un Angelus, in una di quelle sue brevi meditazioni domenicali costruite come piccole omelie sul Vangelo del giorno.
È come camminare sulla strada di Emmaus, in compagnia del Risorto che accende i cuori spiegando le Scritture.
Da Mosè ai profeti a Gesù, le Scritture sono storia, e con esse il camminare si fa storia e l’anno liturgico la ripercorre tutta, attorno alla Pasqua che gli fa da asse.
Avvento, Natale, Epifania, Quaresima, Pasqua, Ascensione, Pentecoste.
Fino alla seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi.
Ciò che fa della liturgia cristiana un “unicum”, e il papa non smette di predicarlo, è che la sua narrazione non è solo memoria.
È realtà viva e presente.
In ogni messa accade quello che Gesù annunciò nella sinagoga di Nazaret dopo aver riavvolto il rotolo del profeta Isaia: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Luca 4, 21).
Nelle omelie, papa Benedetto svela anche cos’è la Chiesa.
Lo fa in obbedienza alla più antica professione di fede: “Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati”.
La “comunione dei santi” è primariamente quella dei santi doni, è quel santo dono salvifico dato da Dio nell’eucaristia, accogliendo il quale la Chiesa è generata e cresce, in unità su tutta la terra e con i santi e gli angeli del cielo.
La “remissione dei peccati” sono il battesimo e l’altro sacramento del perdono, la penitenza.
Se questo professa il “Credo”, allora davvero la Chiesa non è fatta dalla sua gerarchia, non dalla sua organizzazione, tanto meno è uno spontaneo associarsi di uomini solidali, ma è puro dono di Dio, creatura del suo Santo Spirito, che genera il suo popolo nella storia, con la liturgia e i sacramenti. C’è un’immagine che torna di frequente nelle omelie del papa: “Uno dei soldati con la lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Giovanni 19, 34).
Ecco di nuovo il sangue e l’acqua, l’eucaristia e il battesimo, la Chiesa che nasce dal fianco trafitto del Crocifisso, nuova Eva dal nuovo Adamo.
Il ricorso alle immagini è un altro dei distintivi delle omelie di Benedetto XVI.
Nella cattedrale di Westminster, il 18 settembre 2010, fece alzare lo sguardo di tutti al grande Crocifisso che domina la navata, al Cristo “schiacciato dalla sofferenza, sopraffatto dal dolore, vittima innocente la cui morte ci ha riconciliati con il Padre e ci ha donato di partecipare alla vita stessa di Dio”.
Dal suo sangue prezioso, dall’eucaristia, la Chiesa attinge la vita.
Ma il papa aggiunse anche, citando Pascal: “Nella vita della Chiesa, nelle sue prove e tribolazioni, Cristo continua a essere in agonia fino alla fine del mondo”.
Nella predicazione liturgica di Benedetto XVI le immagini bibliche e quelle dell’arte hanno una costante funzione mistagogica, di guida al mistero.
Lo stupore dell’invisibile intravisto nel visibile artistico rimanda all’ancor più grande meraviglia del Risorto presente nel pane e nel vino, principio della trasformazione del mondo, affinché anche la città degli uomini “diventi un mondo di risurrezione”, una città di Dio.
La maggior parte delle omelie raccolte in questo volume sono state pronunciate dal papa durante la messa, dopo la proclamazione del Vangelo.
Ma ve ne sono anche alcune pronunciate nei vespri, prima del canto del “Magnificat”.
I luoghi sono i più vari, in Italia e all’estero, in villaggi e metropoli: Roma, naturalmente, ma anche Castel Gandolfo, Malta, Torino, Fatima, Porto, Nicosia, Sulmona, Carpineto, Glasgow, Londra, Birmingham, Palermo.
Particolare il caso dell’omelia della IV domenica di Quaresima, pronunciata dal papa durante un servizio liturgico ecumenico, nella chiesa luterana di Roma.
In appendice, come già nelle due precedenti raccolte, sono riportati anche alcuni di quei piccoli gioielli di omiletica minore, sulle letture della messa del giorno, che Benedetto XVI offre ai fedeli e al mondo la domenica mezzogiorno prima dell’Angelus oppure, nel tempo pasquale, prima del Regina Cæli.
Tra le maggiori e le minori, le omelie qui raccolte arrivano così all’ottantina, coprendo quasi l’intero arco dell’anno liturgico: una prova in più della cura che papa Benedetto dedica a questo suo ministero.
Il cardinale Angelo Bagnasco ne ha riconosciuto la grandezza e l’ha eletta a modello per tutti i pastori della Chiesa, quando ai vescovi del consiglio permanente della conferenza episcopale italiana, il 21 gennaio 2010, ha detto: “Non temiamo di dirci ammirati di questa sua arte, e non ci stanchiamo di indicarla a noi stessi e ai nostri sacerdoti come una scuola di predicazione alta e straordinaria”.
Come papa Leone Magno, anche papa Benedetto passerà alla storia per le sue omelie.
Benedetto XVI, “Omelie di Joseph Ratzinger, papa.
Anno liturgico 2010”, a cura di Sandro Magister, Libri Scheiwiller, Milano, 2010, pp.
420, euro 18,00. Nella predicazione liturgica di Benedetto XVI le immagini bibliche e quelle dell’arte hanno una costante funzione mistagogica, di guida al mistero.
Lo stupore dell’invisibile intravisto nel visibile artistico rimanda all’ancor più grande meraviglia del Risorto presente nel pane e nel vino, principio della trasformazione del mondo, affinché anche la città degli uomini “diventi un mondo di risurrezione”, una città di Dio.
La maggior parte delle omelie raccolte in questo volume sono state pronunciate dal papa durante la messa, dopo la proclamazione del Vangelo.
Ma ve ne sono anche alcune pronunciate nei vespri, prima del canto del Magnificat.
I luoghi sono i più vari, in Italia e all’estero, in villaggi e metropoli: Roma, naturalmente, ma anche Castel Gandolfo, Malta, Torino, Fatima, Porto, Nicosia, Sulmona, Carpineto, Glasgow, Londra, Birmingham, Palermo.
In appendice, come già nelle due precedenti raccolte, sono riportati anche alcuni di quei piccoli gioielli di omiletica minore, sulle letture della messa del giorno, che Benedetto XVI offre ai fedeli e al mondo la domenica mezzogiorno prima dell’Angelus oppure, nel tempo pasquale, prima del Regina Caeli.
Ricerca e carità
Libertà e dialogo per la «nuova città» di Giulio Giorello e Carlo Maria Martini in “Corriere della Sera” del 9 dicembre 2010 Da oggi è in libreria “Ricerca e carità”, un dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e Giulio Giorello, un confronto su scienza e solidarietà, ed.
San Raffaele, curato da Damiano Modena.
Anticipiamo due estratti tratti dai capitoli “La città dell’uomo” e “Intelligenza e amore”.
GIULIO GIORELLO – Eminenza, può godere di quella «potenza trasformante» dei Vangeli anche chi ritiene che essi siano non la «buona novella», ma una tra le tante buone novelle che dal passato ci arrivano «come la luce di stelle che non ci sono più» (rubo quest’espressione a Luca Ronconi)? Tale luce a noi serve ancora, rischiara la nostra notte.
Dobbiamo riprendere tutte le buone novelle, anche quelle redatte dai miscredenti, come «l’ateo Spinoza» (così lo chiamavano i bigotti nella sua Amsterdam).
Ritengo che questa sia una via praticabile per ridare senso alle parole, come lei stesso desidera.
Un esempio: ho riletto di recente quei passi della Monarchia di Dante, in cui viene prospettato come grande momento nella storia dell’umanità la fondazione delle prime città.
Semiramide sarà stata pure colei che «libito fe’ licito in sua legge» ( Inferno V, 56), ma è anche colei che pose o custodì le mura delle grandi città assire di cui era sovrana.
Ecco cos’è una città: un elemento al tempo stesso di inclusione ed esclusione, che configura il modo in cui si costituisce l’umanità; l’uomo riconosce alcuni come compagni nella propria avventura, cioè con-cittadini ed esclude altri come estranei, se non nemici.
Questo movimento di inclusione ed esclusione è sostanzialmente il processo fondativo della città, le cui mura non sono soltanto segno ostile verso il nemico; sono anche, e non a caso, l’elemento che marca il carattere di quella comunità.
La città rappresenta, allora, una mediazione tra natura e cultura; e di conseguenza l’esperienza della cittadinanza si ritrova alla base della nostra stessa modernità.
In che modo, allora, un essere umano si realizza nella città? E vi può essere una città globale? Ovvero, possiamo pensare al mondo come un’unica grande città? La città di oggi conosce, per altro, una drammatica esperienza della diversità, quella che indichiamo con vari termini (non sempre esattamente equivalenti), come multiculturalismo, multietnicità, pluralismo.
È solo un ricordo del passato il modello di convivenza e integrazione della Cordova dell’età d’oro dei musulmani in Andalusia, quando a poca distanza coesistevano la moschea, la sinagoga e la chiesa? Quale delicato equilibrio può proporsi oggi? Gli stessi mutamenti prodotti da scienza e tecnica non potrebbero essere quelli che porteranno prima o poi alla disgregazione della città armoniosa in cui diverse fedi, etnie, forme di vita potrebbero prosperare insieme? E soprattutto, si può andare oltre la mera coesistenza? (…) Come ci dovremmo regolare con il ruolo politico delle altre religioni? Nel Corano si legge che è volontà di Dio che il Califfo intervenga quando i propri magistrati sono corrotti: questa linea è idealmente migliore del «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»? CARLO MARIA MARTINI — Come lei sa, nei miei ventidue anni di servizio episcopale a Milano ho posto la città come uno dei cardini riflessivi.
Non era un vezzo, ma la coscienza che sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento la città, con le sue dinamiche e le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio dialoga con l’uomo.
Gerusalemme, addirittura, è il luogo dove Dio prende dimora.
Non saprei bene come un individuo si realizzi nella città.
In generale, un essere umano si realizza quando scopre in sé delle potenzialità e può esprimerle contestualizzandole in un determinato ambiente, senza contrastare l’impegno dell’altro, la sua identità, la sua libertà, la sua responsabilità.
Tuttavia, il mondo intero ha in sé le stesse dinamiche positive e gli stessi peccati di una città, sicché può essere considerato come un’unica grande città.
Ma lei sottolinea il carattere drammatico della diversità all’interno della città.
A me, invece, pare che ciò non sia così drammatico.
La diversità è una ricchezza.
Modelli nuovi di convivenza pacifica potranno essere raggiunti; anzi, sono già in atto in ogni parte del mondo, a cominciare dalla città che mi è più cara.
Pochi sanno, infatti, del movimento che a Gerusalemme unisce i familiari delle vittime della guerra israelo-palestinese in momenti di dialogo e di preghiera comune molto belli e intensi.
La diversità è una ricchezza non sempre compresa come tale.
E la sofferenza è uguale per tutte le madri, per tutti i figli, di qualsiasi cultura, religione o Stato.
Ecco quel superamento della semplice coesistenza cui lei fa riferimento! Condividere il dolore, soprattutto il dolore innocente, subito, costruisce relazioni ben più profonde dell’essere coinquilini della stessa terra.
«Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13, 12).
L’immagine di Gesù crocefisso fuori dalle mura di Gerusalemme ci ricorda quali dolorose conseguenze possa avere l’esclusione di ciò che scandalizza, il rifiuto di chi è diverso.
Lei solleva non pochi cruciali problemi.
Allora, le rispondo pensando anzitutto che cos’è una città unita: essa è un luogo dove le differenze dialogano per il bene comune, dove si cede alle convinzioni altrui se rappresentano realmente un bene maggiore per tutti.
Un luogo dove la Chiesa, per ciò che le compete, e l’Autorità, per ciò che le compete, offrono ai più deboli un sostegno immediato e uno a lungo termine.
Anche se non ha il compito di interferire direttamente nella vita politica, la Chiesa senza dubbio ne condiziona lo svolgimento con i suoi interventi, seppure in seconda battuta.
La sua sola missione è quella di annunciare Gesù, e questi crocefisso.
Non credo, tuttavia, che la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio sia così individualista come sembrano suggerire le sue riflessioni.
Sarebbe giusto, se la coscienza fosse egualmente matura in tutti.
Ma sappiamo che per alcune coscienze tutto è di Cesare e per certe altre tutto è di Dio.
Io penso che sia di Cesare tutto ciò che riguarda il potere, il ben-essere, il ben-avere, il volere; e siano invece di Dio il servizio, l’umiltà, la povertà, l’essere, il dono, la carità.
(…) GIULIO GIORELLO — Credo che la ricerca abbia bisogno di idee, capaci di far parlare i fatti; altrimenti, come ebbe bene a dire un mio maestro, il matematico René Thom, «quel che minaccia la verità non è la falsità, ma l’insignificante».
Non basta una miriade di numeri, misurazioni dopo misurazioni, dati e ancora dati: occorre un’idea che ci permetta di rendere comprensibili intellettualmente i fatti più diversi.
Non è stato così, per esempio, con l’intuizione di Galileo del pendolo o con la celebre «mela di Newton» che ha mostrato come la forza che fa sì che quel pomo cada è la stessa che fa sì che la Luna non cada sulla Terra? O con la concezione evoluzionistica di Darwin, o con l’idea di Einstein della «relatività del moto»? O con la congettura di Dirac a proposito dell’antimateria? Servendoci di un’etimologia magari fantasiosa, diciamo che intelligenza risponda a inter legere ovverossia «a scegliere fra»: alla capacità di selezionare ciò che è rilevante da ciò che è insignificante.
Per questo la ricerca ha bisogno di intelligenza.
Ma essa non è nemmeno distinta dalla passione.
Talvolta pensiamo ai ricercatori scientifici come a persone asettiche, che si lasciano alle spalle qualsiasi riferimento al mondo della vita appena entrano in laboratorio o si siedono al computer.
Non credo che questa sia una caratterizzazione completa dell’impresa scientifica; un’impresa scientifica che non portasse seco la passione del conoscere sarebbe un’impresa di scarso respiro… Ancora una volta vorrei citare un passo di Zadig riguardo alle passioni: «”Ah, quanto sono funeste”, diceva Zadig.
“Sono i venti che gonfiano le vele e il vascello”, ribatté l’eremita, “qualche volta lo fanno affondare; ma senza di loro non potrebbe navigare.
La bile rende collerici e malati; ma senza la bile l’uomo non potrebbe vivere.
Tutto è pericoloso in questo mondo, e tutto è altrettanto necessario”».
Perché la passione è così importante? La passione è qualcosa che ti prende, ti rapisce, ti trascina, può essere anche un’esperienza dolorosa, il pericolo di cui parla l’eremita a Zadig, ma nello stesso tempo è qualcosa che dà colore a quanto altrimenti sarebbe un’ontologia grigia rivelata dalla scienza.
Certo, occorre passione; ma passione qui vuol dire un profondo rapporto con le cose che vengono indagate.
Dobbiamo amare il cielo se vogliamo esplorarlo; sentirci rapiti dalle «infinite forme bellissime» (la citazione è da Darwin) del vivente se vogliano studiarne genesi ed evoluzione.
La costruzione delle teorie scientifiche, le rielaborazioni che spiegano i fatti, l’applicazione delle idee ai nostri macchinari sono tutte prove di amore per il mondo, un interesse specifico per le singole cose, collegate in un intellegere che è colligere.
CARLO MARIA MARTINI — Rispetto agli scienziati che lei cita, ci sono da fare alcune distinzioni importanti.
Mentre Galileo con il pendolo o Newton con la sua leggendaria mela hanno fatto delle sperimentazioni sulla gravità e hanno mostrato appunto che c’è una forza che attrae i corpi verso il centro della Terra, le intuizioni di Darwin o quelle inerenti l’antimateria sono solo delle teorie.
Altro è l’esperimento che dimostra un’intuizione teorica, altro l’intuizione non sperimentata né sperimentabile.
Ancora, altro è scoprire la composizione dell’acqua, altro comporre l’acqua da un atomo di ossigeno e due di idrogeno.
Uno scienziato potrebbe spiegarne bene la differenza.
Ma sono d’accordo con lei che l’intelligenza non è solo leggere dentro, ma anche leggere «fra», cioè selezionare, discernere ciò che ha valore da ciò che non ne ha.
Siamo anche d’accordo sul fatto che sia necessaria una grande passione nell’ambito della ricerca.Ricordo gli anni dei miei studi sul Codice Vaticano (B) come anni di grande passione: tutte le scienze chiedono una grande passione.
So di alcuni ricercatori che dimenticano di mangiare o di bere durante una fase piuttosto intensa del loro lavoro.
Non c’è dubbio che lo scienziato sia tale anzitutto per l’amore appassionato verso ciò che fa e ciò che lo circonda, verso il mistero che avvolge anche le realtà quotidiane che l’uomo comune ritiene ovvie.
Davvero la conoscenza rende più ricco, vero e puro l’amore, e l’amore rende più profonda, paziente e tenera la conoscenza.
E pur intuendo dove lei vuol condurmi, e cioè che un amore per essere autentico chiede di essere libero e, quindi, anche la scienza che scaturisce dall’amore per la natura chiede una libertà incondizionata, bisogna fare delle precisazioni.
La libertà, nell’amore come nella scienza, chiede di essere sempre accompagnata alla responsabilità.
Il gesuita Bernard Lonergan, pensatore tra i più originali del Novecento seppure non adeguatamente conosciuto, coniuga oggettività della conoscenza e soggettività umana proprio attraverso la responsabilità, nella quale deve necessariamente confluire il processo conoscitivo.
Il vincolo per la scienza è quindi che essa sia rispettosa della dignità umana e della libertà della persona.
Ha idea di cosa potrebbe diventare la scienza senza nessun vincolo? Lei non crede che finirebbe con l’essere molto simile alle sperimentazioni «a fin di bene» praticate nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale? Che alcuni diventerebbero «null’altro che» delle cavie? G.
GIORELLO, C.M.
MARTINI,Ricerca e carità, Editrice San Raffaele , Milano 2010, ISBN-13: 9788896603208, pp.
92, € 9,00 Un dialogo tra Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002, e Giulio Giorello, filosofo della scienza, dedicato al nodo tra Ricerca e Carità ovvero tra Conoscenza e Solidarietà, nella convinzione che ricerca sia anche interrogazione sul senso profondo del nostro destino e che l’amore sia lo strumento migliore per sconfiggere il lato oscuro di ogni persona.
Sia che si concluda per una esistenza con Dio o senza Dio, resta un patrimonio di tutti la tensione a l’amor che move il sole e l’altre stelle (Dante, Paradiso, XXXIII, 145).
«Le quattro stagioni di un vecchio lunario»
* Luisito Bianchi, «Le quattro stagioni di un vecchio lunario», Sironi Editore, Milano, pagg.
320, € 17,00.
La parola «lunario» è una di quelle che da parecchio tempo non si usano più.
È un vocabolo che ha anche una nobile ascendenza letteraria, immortalata da Giacomo Leopardi nel Dialogo di un venditore l’almanacchi e di un passeggere: «Almanacchi nuovi, lunari novi! Bisognano, signore?».
«Lunario», però, è soprattutto termine popolare, che indica un calendario con le fasi della luna, i santi, le feste, le fiere, consigli, ricette e tante altre informazioni minute.
E in questa accezione, profondamente radicata nella cultura contadina dalla quale proviene, la usa Luisito Bianchi nel titolo del suo ultimo romanzo, Le quattro stagioni di un vecchio lunario.
Luisito Bianchi è nato nel 1927 ed è sacerdote dal 1950.
È originario di Vescovato (Cremona) e nella sua vita ha svolto i lavori più diversi, perché ha sempre voluto, da prete, essere economicamente autosufficiente, cioè non gravare sulle comunità che ha servito (su questo tema ha scritto un libro bellissimo, intitolato Dialogo sulla gratuità, Gribaudi 2004): è stato insegnante, traduttore, operaio, benzinaio, inserviente di ospedale.
Chi lo conosce sa che all’origine di questo suo percorso non c’è una posa anticonformista, ma una motivazione intima, necessaria.
Come narratore ha scritto uno dei romanzi più convincenti e meno retorici sulla Resistenza: La messa dell’uomo disarmato (Sironi 2003).
Con questo nuovo libro, Luisito Bianchi si conferma come uno degli scrittori italiani più convincenti degli ultimi decenni.
Appartato, isolato, lontano dalla società letteraria e dai clamori massmediali, siamo certi che prima o poi gli verrà riconosciuto il ruolo che gli spetta.
Perché – Le quattro stagioni di un vecchio lunario lo dimostra con chiarezza — la sua è una scrittura sostenuta da uno straordinario lavoro sulle parole e su ciò che esse veicolano in termini culturali e affettivi.
Qui l’autore ha inteso ricostruire la propria infanzia e la propria giovinezza, ripercorrendo i momenti dell’anno con le loro abitudini e i loro riti: le feste religiose (i Santi, i Morti, San Biagio per la gola, Sant’Apollonia per i denti, il carnevale, la Quaresima, la Pasqua, il Corpus Domini), le fiere di paese, l’uccisione del maiale (rito, questo, tutto laico, pagano, culinario), officiata dal norcino dopo essersi corroborato con un bicchiere di grappa, e a Natale il presepe con, al posto delle stelle, tante lampadine sottratte ai fanali delle biciclette.
Un’elegia della memoria di straordinaria intensità: alcune pagine ricordano il Walter Benjamin di Infanzia berlinese, il Luigi Meneghello di Libera nos a Malo, l’Ermanno Olmi dell’Albero degli zoccoli.
Ma nel libro di Luisito Bianchi c’è molto di più: realtà e poesia in una sintesi personalissima Roberto Carnero in “Il Sole 24 Ore” del 28 novembre 2010
“Una presenza da accogliere”
il Sussidio liturgico-pastorale “Una presenza da accogliere” è il titolo del Sussidio liturgico-pastorale per il periodo di Avvento-Natale 2010 curato dall’Ufficio liturgico nazionale della CEI.
Si apre con la presentazione di S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI.
Edito dalla San Paolo è disponibile in tutte le librerie cattoliche e nel sito internet www.chiesacattolica.it/uln “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14): il lieto messaggio del Natale verrà ancora una volta rinnovato nella celebrazione liturgica, segno dell’inesauribile volontà, da parte di Dio, di abitare in mezzo al suo popolo.
Nel contesto della nostra società, che ha fatto dello sviluppo dell’informazione globalizzata uno dei suoi tratti distintivi, il Verbo, la Parola fatta carne, ci appare come la forza comunicativa ed educativa del Padre.
Il mistero del Natale potrebbe essere interpretato oggi come il mistero dell’agire comunicativo ed educativo di Dio: esso da un lato illumina la profonda vocazione dell’essere umano alla relazione, allo stabilirsi di un contatto profondo con i suoi simili e con l’assoluto; dall’altro provoca e chiama a conversione.
“Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa, i segni dei tempi”
Licht der Welt.
Luce del mondo.
La grafia del Papa è inconfondibile e trovarla impressa sulla prima pagina del volume fa un certo effetto.
Lui stesso, con estrema probabilità, ha scelto il titolo e questo è significativo.
In un’intervista si suppone che il ruolo centrale spetti all’intervistato; in questo caso, però, non è così.
Il titolo scelto non permette che ci si fermi sulla persona del Papa, ma rimanda oltre, a chi ancora dopo duemila anni illumina la storia, perché aveva detto di essere la “luce del mondo”.
Protagonista di queste pagine, comunque, appare da subito la Chiesa.
Le tante domande che compongono il colloquio, non fanno che evidenziare la natura della Chiesa, la sua presenza nella storia, il servizio che il Papa è chiamato a svolgere e, cosa non secondaria, la missione che ancora oggi deve continuare per essere fedele al suo Signore.
“Viviamo un’epoca nella quale è necessaria una nuova evangelizzazione.
Un’epoca nella quale l’unico Vangelo deve essere annunciato nella sua razionalità grande e immutata, ed insieme in quella potenza che supera quella razionalità, in modo tale da giungere in modo nuovo al nostro pensare e alla nostra comprensione…
È importante intendere la Chiesa non come un apparato che deve fare di tutto, bensì come organismo vivente che proviene da Cristo stesso” (pagine 193-194).
Alla luce di questo riferimento, è facile percepire l’obiettivo che segna questi anni del pontificato tesi a mostrare quanto sia decisivo per l’uomo di oggi saper cogliere la presenza di Dio nella sua vita per poter rispondere in modo libero – questo in effetti comporta la continua sottolineatura della razionalità – alla domanda qualificante sul senso della propria esistenza.
Il raggio d’azione su cui verte l’intervista è vasto, sembra che nulla sfugga alla curiosità di Peter Seewald che vuole entrare fino nelle pieghe della vita personale del Papa, nelle grandi questioni che segnano la teologia del momento, le diverse vicende politiche che accompagnano da sempre le relazioni tra diversi Paesi e, infine, gli interrogativi che spesso occupano gran parte del dibattito pubblico.
Siamo dinanzi a un Papa che non si sottrae a nessuna domanda, che tutto desidera chiarificare con un linguaggio semplice, ma non per questo meno profondo, e che accetta con benevolenza quelle provocazioni che tante questioni possiedono.
Ridurre, tuttavia, l’intera intervista a una frase estrapolata dall’insieme del pensiero di Benedetto XVI sarebbe un’offesa all’intelligenza del Papa e una gratuita strumentalizzazione delle sue parole.
Ciò che emerge dal quadro complessivo di queste pagine, invece, è la visione di una Chiesa chiamata ad essere Luce del mondo, segno di unità di tutto il genere umano – per usare una nota espressione del concilio Vaticano ii – e strumento per cogliere l’essenziale della vita.
Anche se appare ai nostri occhi come una Chiesa che dà scandalo, che non vuole adeguarsi ai comportamenti di moda, che appare incomprensibile nei suoi insegnamenti e che, forse, lascia intravvedere possibili trame interne di uomini che ne adombrano la sua santità.
In ogni caso, sull’insegnamento del Maestro “luce del mondo”, città posta sopra la montagna per essere vista da tutti.
Segno di contraddizione che ha la missione di mantenere viva nel corso dei secoli la fede nel Signore Risorto fino al suo ritorno: “Guardiamo a Cristo che viene.
È in questa prospettiva che viviamo la fede, rivolti al futuro” (pagina 97).
Licht der Welt, ovviamente, non è un volume scritto da Benedetto XVI; eppure, qui si condensa il suo pensiero, le sue preoccupazioni e sofferenze di questi anni, il suo programma pastorale e le aspettative per il futuro.
L’impressione che si ricava è quella di un Papa ottimista sulla vita della Chiesa, nonostante le difficoltà che l’accompagnano da sempre: “La Chiesa cresce ed è viva, è molto dinamica.
Negli ultimi anni il numero dei sacerdoti è aumentato in tutto il mondo e anche il numero dei seminaristi” (pagina 28).
Come dire: la Chiesa non può essere identificata solo nel frammento di una zona geografica; essa è un tutto che fonda, abbraccia e supera ogni parte.
Una Chiesa composta anche da peccatori; eppure, senza minimizzare il male, egli può giustamente affermare che “se la Chiesa non ci fosse più, interi ambiti di vita andrebbero al collasso” (pagina 54), perché il bene che compie è davanti agli occhi di tutti nonostante si voglia spesso volgere lo sguardo altrove.
Pagina dopo pagina si nota la pazienza di voler rispondere con chiarezza a ogni interrogativo che viene posto.
Benedetto XVI apre il cuore della sua vita quotidiana, così come esprime con la dovuta parresia i problemi che sono sul tappeto della storia di questi anni.
Se, da una parte, sembra farci entrare nel suo appartamento, condividendo con il lettore i ritmi della sua giornata, dall’altra evoca immagini che ben descrivono lo stato d’animo dei mesi passati: “Sì, è una crisi grande, bisogna dirlo.
È stato sconvolgente per tutti noi.
All’improvviso tutta quella sporcizia.
È stato come se il cratere di un vulcano avesse improvvisamente eruttato una grossa nube di sporcizia che insudiciava e rabbuiava tutto” (pagina 44).
Il tono semplice delle sue risposte si fa forte della plasticità delle immagini che spesso ricorrono, permettendo di comprendere a pieno il dramma di alcuni fatti.
Eppure, dalla pacatezza delle risposte e dallo sviluppo del suo argomentare, ciò che emerge in maniera netta è soprattutto la spiritualità che caratterizza la sua vita tanto da lasciare ammutoliti.
“Fin dal momento in cui la scelta è caduta su di me, sono stato capace soltanto di dire solo questo: Signore, cosa mi stai facendo? Ora la responsabilità è tua.
Tu mi devi condurre.
Io non ne sono capace.
Se tu mi hai voluto, ora devi anche aiutarmi” (pagina 18; cfr.
pagina 33).
Chi legge si arrende.
O si accetta la visione della fede come un autentico abbandonarsi in Dio che ti trasporta dove vuole lui, oppure ci si lascia andare alle interpretazioni più fantasiose che caratterizzano spesso il chiacchiericcio clericale e non solo.
La verità, però, sta tutta in quelle parole.
Se si vuole capire Benedetto XVI, la sua vita e il suo pontificato, bisogna ritornare a questa espressione.
Qui si condensa la vocazione al sacerdozio come una chiamata alla sequela; qui si comprende il perché di una traiettoria che non può essere modificata nella sua visione del mondo e dell’agire della Chiesa; qui si coglie la prospettiva attraverso la quale è possibile entrare nella profondità del suo pensiero e nell’interpretazione di alcuni suoi atti.
C’è un termine in tedesco che sintetizza tutto questo: Gelassenheit, cioè l’abbandono fiducioso usque ad cadaver.
Esso esprime la scelta decisiva di libertà come un radicale svuotamento di sé per lasciarsi plasmare e condurre dove vuole il Signore; insomma, il Papa si identifica più di tutti gli altri come un “povero mendicante davanti a Dio” (pagina 35).
La spiritualità cristocentrica, che più volte viene richiamata, alimentata da un profondo legame con la liturgia (cfr.
pagine 153- 154); permette di comprendere il comportamento di Benedetto XVI.
D’altronde egli stesso lo afferma quando, rispondendo alla domanda sul potere che un Papa possiede, attesta: “Essere Papa non significa porsi come sovrano colmo di gloria, quanto piuttosto rendere testimonianza a Colui che è stato crocifisso e disposto ad esercitare il proprio ministero anche in questa forma in unione con lui” (pagina 26).
In questa ottica, diventa almeno paradossale leggere l’espressione successiva che sembra contraddire quanto appena affermato mentre, invece, lo colloca nel suo coerente orizzonte di comprensione: “Tutta la mia vita è stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti” (pagina 27).
Insomma, un Papa che continua ad essere ottimista; non in primo luogo per l’oggettiva dinamicità della Chiesa resa evidente da tante forze di spiritualità, ma soprattutto in forza dell’amore che tutto plasma e tutto vince (pagine 90-91).
Un’intervista che per molti versi diventa una provocazione a compiere un serio esame di coscienza dentro e fuori della Chiesa per giungere a una vera conversione del cuore e della mente.
Le condizioni di vita della società, l’ecologia, la sessualità, l’economia e la finanza, la stessa Chiesa…
sono tutti temi che richiedono un impegno particolare per verificare la direzione culturale del mondo di oggi e le prospettive che si aprono per il futuro.
Benedetto XVI non si lascia impaurire dalle cifre dei sondaggi, perché la verità possiede ben altri criteri: “la statistica non è il metro della morale” (pagina 204).
È consapevole che siamo dinanzi a un “avvelenamento del pensiero che a priori dà prospettive sbagliate” (pagina 77), per questo provoca a cogliere il cammino necessario verso la verità (cfr.
pagine 79-80), per essere capaci di dare genuino progresso al mondo di oggi (cfr.
pagine 70-71).
Queste pagine, comunque, lasciano trasparire con chiarezza il pensiero del Papa e alcuni dovranno ricredersi per le descrizioni avventate date nel passato come di un uomo oscurantista e nemico della modernità: “È importante che cerchiamo di vivere e di pensare il cristianesimo in modo tale che assuma la modernità buona e giusta” (pagina 87) con le sue conquiste e con i valori che ha saputo raggiungere a fatica: “Vi sono naturaliter molti temi dai quali emerge per così dire la moralità della modernità.
La modernità non consiste solo di negatività.
Se così fosse non potrebbe durare a lungo.
Essa ha in sé grandi valori morali che vengono proprio anche dal cristianesimo, che solo grazie al cristianesimo, in quanto valori, sono entrati nella coscienza dell’umanità.
Là dove essi sono difesi – e devono essere difesi dal Papa – c’è adesione in aree molto vaste” (pagina 40).
Questi richiami fanno percepire perché il Papa pensi così sovente al tema della nuova evangelizzazione per raggiungere quanti si trovano nella condizione di essere “figli” della modernità avendo colto solo alcuni aspetti del fenomeno, non sempre i più positivi, mentre hanno dimenticato la necessaria ricerca della verità e, soprattutto, l’esigenza di rivolgere la propria vita in una visione unitaria e non contrapposta (cfr.
pagina 87).
Questo risulta essere uno dei suoi compiti programmatici con i quali saremo chiamati a confrontarci: “Affrontare con rinnovate forze la sfida dell’annuncio del Vangelo al mondo, impiegare tutte le nostre forze perché vi giunga, fa parte dei compiti programmatici che mi sono stati affidati” (pagina 185; cfr.
193).
Benedetto XVI ritorna spesso in queste pagine al rapporto tra modernità e cristianesimo.
Una relazione che non può né deve essere vissuta parallelamente, ma coniugando in modo corretto fede e ragione, diritti individuali e responsabilità sociale.
In una parola, “Rimettere Dio al primo posto” (pagina 96) per contraddire gran parte della cultura dei decenni passati che ha puntato a dimostrare superflua “l’ipotesi di Dio” (pagina 190).
Questa è la conversione che Benedetto XVI chiede ai cristiani e a quanti vorranno ascoltare la sua voce: “Rimettere di nuovo in luce la priorità di Dio.
La cosa importante oggi è che si veda di nuovo che Dio c’è, che Dio ci riguarda e che ci risponde.
E che, al contrario, quando viene a mancare, tutto può essere razionale quanto si vuole, ma l’uomo perde la sua dignità e la sua specifica umanità e così crolla l’essenziale” (pagina 100).
È questo il compito che il Papa si prefigge per il suo pontificato e, onestamente, non si può negare quanto esso appaia arduo: “Comprendere la drammaticità del nostro tempo, rimanere saldi nella Parola di Dio come la parola decisiva e al tempo stesso dare al cristianesimo quella semplicità e quella profondità senza delle quali non può operare” (pagina 101).
Familiarità, confidenze, ironia, in alcuni momenti sarcasmo ma, soprattutto, semplicità e verità sono i tratti caratteristici di questo colloquio scelto da Benedetto XVI per rendere partecipe il grande pubblico del suo pensiero, del suo modo di essere e del suo modo di concepire la stessa missione che gli è stata affidata.
Un’impresa non facile nel periodo della comunicazione che tende spesso a sottolineare solo alcuni frammenti e lascia in ombra la globalità.
Un volume da leggere e su cui meditare per comprendere ancora una volta in che modo la Chiesa può essere nel mondo annuncio di una bella notizia che reca gioia e serenità.
(©L’Osservatore Romano – 24 novembre 2010) Benedetto XVI, “Luce del mondo.
Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi.
Una conversazione con Peter Seewald”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, pp.
284, euro 19,50.
L’atteso libro-intervista di Benedetto XVI, “Luce del mondo”, sarà nelle librerie dei cinque continenti, in varie lingue, a partire da martedì 23 novembre.
Domenica 21 vari giornali ne hanno anticipato alcuni brani, ripresi dai capitoli primo, sesto e diciassettesimo, forniti loro dalla Libreria Editrice Vaticana, titolare dei diritti d’autore.
Ma già nel pomeriggio di sabato 20 una diversa anteprima del libro – con passaggi ben più pepati – era stata pubblicata da “L’Osservatore Romano”.
Con immediato rimbombo sui media mondiali.
Sabato e domenica erano i giorni del concistoro, con la creazione di 24 nuovi cardinali e con le omelie del papa dedicate a spiegare che l’autorità nella Chiesa ha come suo modello il regno di Cristo: un regno che un antico inno liturgico canta con le parole: “Regnavit a ligno Deus”, un regno esercitato dal Dio crocifisso che al buon ladrone dice: “Oggi sarai con me in paradiso”.
Ma il concistoro è stato spazzato via dalle cronache.
Conquistate e invase dai passaggi del libro anticipati da “L’Osservatore Romano”.
Uno su tutti: quello in cui Benedetto XVI giustifica l’uso del preservativo da parte di un prostituto (al maschile nell’originale tedesco del libro: “ein Prostituierter”).
Un uso che la dottrina morale cattolica già ammette – al pari del ricorso al preservativo da parte di coniugi uno dei quali sia affetto da HIV – ma che qui per la prima volta è approvato pubblicamente da un papa.
E poi ancora: i passaggi sugli abusi sessuali del clero, sull’enciclica “Humanae vitae”, su Pio XII e gli ebrei, sulle donne sacerdote, sul burqa…
Peter Seewald, l’intervistatore, ha registrato l’intervista in sei successivi incontri con Benedetto XVI, di un’ora ciascuno, l’estate scorsa a Castel Gandolfo (vedi foto).
Seewald ha presentato in anticipo al papa una traccia, ma il colloquio è avvenuto in libertà e Benedetto XVI non ha eluso nessuna domanda.
Alla trascrizione del tutto il papa ha apportato solo piccole correzioni di forma.
L’originale dell’intervista è in tedesco.
La traduzione italiana che sarà in libreria da martedì 23 novembre appare qua e là maldestra.
Ad esempio, il prostituto della frase sul profilattico è diventato “una prostituta”.
La Libreria Editrice Vaticana assicura che le inesattezze saranno corrette nella prossima ristampa del libro.
Ecco qui di seguito i brani anticipati da “L’Osservatore Romano”.
Anche i titoli dei paragrafi sono quelli del giornale vaticano.
__________ “LUCE DEL MONDO” / UN’ANTOLOGIA di Benedetto XVI La gioia del cristianesimo Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti.
In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto “contro” sarebbe insopportabile.
Un mendicante Per quel che riguarda il papa, anche lui è un povero mendicante davanti a Dio, ancora più degli altri uomini.
Naturalmente prego innanzitutto sempre il Signore, al quale sono legato, per così dire, da antica amicizia.
Ma invoco anche i santi.
Sono molto amico di Agostino, di Bonaventura e di Tommaso d’Aquino.
A loro quindi dico: “Aiutatemi”! La Madre di Dio, poi, è sempre e comunque un grande punto di riferimento.
In questo senso, mi inserisco nella comunione dei santi.
Insieme a loro, rafforzato da loro, parlo poi anche con il Dio buono, soprattutto mendicando, ma anche ringraziando; o contento, semplicemente.
Le difficoltà L’avevo messo nel conto.
Ma innanzitutto bisognerebbe essere molto cauti con la valutazione di un papa, se sia significativo o meno, quando è ancora in vita.
Solo in un secondo momento si può riconoscere quale posto, nella storia nel suo insieme, ha una determinata cosa o persona.
Ma che l’atmosfera non sarebbe stata sempre gioiosa era evidente in considerazione dell’attuale costellazione mondiale, con tutte le forze di distruzione che ci sono, con tutte le contraddizioni che in essa vivono, con tutte le minacce e gli errori.
Se avessi continuato a ricevere soltanto consensi, avrei dovuto chiedermi se stessi veramente annunciando tutto il Vangelo.
Lo shock degli abusi I fatti non mi hanno colto di sorpresa del tutto.
Alla congregazione per la dottrina della fede mi ero occupato dei casi americani; avevo visto montare anche la situazione in Irlanda.
Ma le dimensioni comunque furono uno shock enorme.
Sin dalla mia elezione al soglio di Pietro avevo ripetutamente incontrato vittime di abusi sessuali.
Tre anni e mezzo fa, nell’ottobre 2006, in un discorso ai vescovi irlandesi avevo chiesto loro di “stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prendere tutte le misure atte ad evitare che si ripeta in futuro, assicurare che i principi di giustizia vengano pienamente rispettati e, soprattutto, guarire le vittime e tutti coloro che sono colpiti da questi crimini abnormi”.
Vedere il sacerdozio improvvisamente insudiciato in questo modo, e con ciò la stessa Chiesa cattolica, è stato difficile da sopportare.
In quel momento era importante però non distogliere lo sguardo dal fatto che nella Chiesa il bene esiste, e non soltanto queste cose terribili.
I media e gli abusi Era evidente che l’azione dei media non fosse guidata solamente dalla pura ricerca della verità, ma che vi fosse anche un compiacimento a mettere alla berlina la Chiesa e, se possibile, a screditarla.
E tuttavia era necessario che fosse chiaro questo: sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere riconoscenti.
La verità, unita all’amore inteso correttamente, è il valore numero uno.
E poi i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato.
Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei.
Il progresso Emerge la problematicità del termine “progresso”.
La modernità ha cercato la propria strada guidata dall’idea di progresso e da quella di libertà.
Ma cos’è il progresso? Oggi vediamo che il progresso può essere anche distruttivo.
Per questo dobbiamo riflettere sui criteri da adottare affinché il progresso sia veramente progresso.
Un esame di coscienza Al di là dei singoli piani finanziari, un esame di coscienza globale è assolutamente inevitabile.
E a questo la Chiesa ha cercato di contribuire con l’enciclica “Caritas in veritate”.
Non dà risposte a tutti i problemi.
Vuole essere un passo in avanti per guardare le cose da un altro punto di vista, che non sia soltanto quello della fattibilità e del successo, ma dal punto di vista secondo cui esiste una normatività dell’amore per il prossimo che si orienta alla volontà di Dio e non soltanto ai nostri desideri.
In questo senso dovrebbero essere dati degli impulsi perché realmente avvenga una trasformazione delle coscienze.
La vera intolleranza La vera minaccia di fronte alla quale ci troviamo è che la tolleranza venga abolita in nome della tolleranza stessa.
C’è il pericolo che la ragione, la cosiddetta ragione occidentale, sostenga di avere finalmente riconosciuto ciò che è giusto e avanzi così una pretesa di totalità che è nemica della libertà.
Credo necessario denunciare con forza questa minaccia.
Nessuno è costretto ad essere cristiano.
Ma nessuno deve essere costretto a vivere secondo la “nuova religione”, come fosse l’unica e vera, vincolante per tutta l’umanità.
Moschee e burqa I cristiani sono tolleranti ed in quanto tali permettono anche agli altri la loro peculiare comprensione di sé.
Ci rallegriamo del fatto che nei paesi del Golfo arabo (Qatar, Abu Dhabi, Dubai, Quwait) ci siano chiese nelle quali i cristiani possono celebrare la messa e speriamo che così accada ovunque.
Per questo è naturale che anche da noi i musulmani possano riunirsi in preghiera nelle moschee.
Per quanto riguarda il burqa, non vedo ragione di una proibizione generalizzata.
Si dice che alcune donne non lo portino volontariamente ma che in realtà sia una sorta di violenza imposta loro.
È chiaro che con questo non si può essere d’accordo.
Se però volessero indossarlo volontariamente, non vedo perché glielo si debba impedire.
Cristianesimo e modernità L’essere cristiano è esso stesso qualcosa di vivo, di moderno, che attraversa, formandola e plasmandola, tutta la modernità, e che quindi in un certo senso veramente la abbraccia.
Qui è necessaria una grande lotta spirituale, come ho voluto mostrare con la recente istituzione di un “Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione”.
È importante che cerchiamo di vivere e di pensare il cristianesimo in modo tale che assuma la modernità buona e giusta, e quindi al contempo si allontani e si distingua da quella che sta diventando una contro-religione.
Ottimismo Se si osserva con più attenzione – ed è quello che mi è possibile fare grazie alle visite dei vescovi di tutto il mondo e anche ai tanti altri incontri – si vede che il cristianesimo in questo momento sta sviluppando anche una creatività del tutto nuova […] La burocrazia è consumata e stanca.
Sono iniziative che nascono dal di dentro, dalla gioia dei giovani.
Il cristianesimo forse assumerà un volto nuovo, forse anche un aspetto culturale diverso.
Il cristianesimo non determina l’opinione pubblica mondiale, altri ne sono alla guida.
E tuttavia il cristianesimo è la forza vitale senza la quale anche le altre cose non potrebbero continuare ad esistere.
Perciò, sulla base di quello che vedo e di cui riesco a fare personale esperienza, sono molto ottimista rispetto al fatto che il cristianesimo si trovi di fronte ad una dinamica nuova.
La droga Tanti vescovi, soprattutto quelli dell’America Latina, mi dicono che là dove passa la strada della coltivazione e del commercio della droga – e questo avviene in gran parte di quei paesi – è come se un animale mostruoso e cattivo stendesse la sua mano su quel paese per rovinare le persone.
Credo che questo serpente del commercio e del consumo di droga che avvolge il mondo sia un potere del quale non sempre riusciamo a farci un’idea adeguata.
Distrugge i giovani, distrugge le famiglie, porta alla violenza e minaccia il futuro di intere nazioni.
Anche questa è una terribile responsabilità dell’Occidente: ha bisogno di droghe e così crea paesi che gli forniscono quello che poi finirà per consumarli e distruggerli.
È sorta una fame di felicità che non riesce a saziarsi con quello che c’è; e che poi si rifugia per così dire nel paradiso del diavolo e distrugge completamente l’uomo.
Nella vigna del Signore In effetti avevo una funzione direttiva, però non avevo fatto nulla da solo e ho lavorato sempre in squadra; proprio come uno dei tanti operai nella vigna del Signore che probabilmente ha fatto del lavoro preparatorio, ma allo stesso tempo è uno che non è fatto per essere il primo e per assumersi la responsabilità di tutto.
Ho capito che accanto ai grandi papi devono esserci anche pontefici piccoli che danno il proprio contributo.
Così in quel momento ho detto quello che sentivo veramente […] Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato, a ragione, che per la struttura della Chiesa è costitutiva la collegialità; ovvero il fatto che il papa è il primo nella condivisione e non un monarca assoluto che prende decisioni in solitudine e fa tutto da sé.
L’ebraismo Devo dire che sin dal primo giorno dei miei studi teologici mi è stata in qualche modo chiara la profonda unità fra Antica e Nuova Alleanza, tra le due parti della nostra Sacra Scrittura.
Avevo compreso che avremmo potuto leggere il Nuovo Testamento soltanto insieme con ciò che lo ha preceduto, altrimenti non lo avremmo capito.
Poi naturalmente quanto è accaduto nel Terzo Reich ci ha colpito come tedeschi e tanto più ci ha spinto a guardare al popolo d’Israele con umiltà, vergogna e amore.
Nella mia formazione teologica queste cose si sono intrecciate ed hanno segnato il percorso del mio pensiero teologico.
Dunque era chiaro per me – ed anche qui in assoluta continuità con Giovanni Paolo II – che nel mio annuncio della fede cristiana doveva essere centrale questo nuovo intrecciarsi, amorevole e comprensivo, di Israele e Chiesa, basato sul rispetto del modo di essere di ognuno e della rispettiva missione […] Anche nella antica liturgia mi è sembrato necessario un cambiamento.
Infatti, la formula era tale da ferire veramente gli ebrei e di certo non esprimeva in modo positivo la grande, profonda unità fra Vecchio e Nuovo Testamento.
Per questo motivo ho pensato che nella liturgia antica fosse necessaria una modifica, in particolare in riferimento al nostro rapporto con gli amici ebrei.
L’ho modificata in modo tale che vi fosse contenuta la nostra fede, ovvero che Cristo è salvezza per tutti.
Che non esistono due vie di salvezza e che dunque Cristo è anche il salvatore degli ebrei, e non solo dei pagani.
Ma anche in modo tale che non si pregasse direttamente per la conversione degli ebrei in senso missionario, ma perché il Signore affretti l’ora storica in cui noi tutti saremo uniti.
Per questo gli argomenti utilizzati da una serie di teologi polemicamente contro di me sono avventati e non rendono giustizia a quanto fatto.
Pio XII Pio XII ha fatto tutto il possibile per salvare delle persone.
Naturalmente ci si può sempre chiedere: “Perché non ha protestato in maniera più esplicita”? Credo che abbia capito quali sarebbero state le conseguenze di una protesta pubblica.
Sappiamo che per questa situazione personalmente ha sofferto molto.
Sapeva che in sé avrebbe dovuto parlare, ma la situazione glielo impediva.
Ora, persone più ragionevoli ammettono che Pio XII ha salvato molte vite ma sostengono che aveva idee antiquate sugli ebrei e che non era all’altezza del Concilio Vaticano II.
Il problema tuttavia non è questo.
L’importante è ciò che ha fatto e ciò che ha cercato di fare, e credo che bisogna veramente riconoscere che è stato uno dei grandi giusti e che, come nessun altro, ha salvato tanti e tanti ebrei.
La sessualità Concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità, e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé.
Perciò anche la lotta contro la banalizzazione della sessualità è parte del grande sforzo affinché la sessualità venga valutata positivamente e possa esercitare il suo effetto positivo sull’essere umano nella sua totalità.
Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando un prostituto [ein Prostituierter] utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole.
Tuttavia, questo non è il modo vero e proprio per vincere l’infezione dell’HIV.
È veramente necessaria una umanizzazione della sessualità.
La Chiesa Paolo dunque non intendeva la Chiesa come istituzione, come organizzazione, ma come organismo vivente, nel quale tutti operano l’uno per l’altro e l’uno con l’altro, essendo uniti a partire da Cristo.
È un’immagine, ma un’immagine che conduce in profondità e che è molto realistica anche solo per il fatto che noi crediamo che nell’eucaristia veramente riceviamo Cristo, il Risorto.
E se ognuno riceve il medesimo Cristo, allora veramente noi tutti siamo riuniti in questo nuovo corpo risorto come il grande spazio di una nuova umanità.
È importante capire questo, e dunque intendere la Chiesa non come un apparato che deve fare di tutto – pure l’apparato le appartiene, ma entro dei limiti – bensì come organismo vivente che proviene da Cristo stesso.
L’enciclica “Humanae vitae” Le prospettive della “Humanae vitae” restano valide, ma altra cosa è trovare strade umanamente percorribili.
Credo che ci saranno sempre delle minoranze intimamente persuase della giustezza di quelle prospettive e che, vivendole, ne rimarranno pienamente appagate così da diventare per altri affascinante modello da seguire.
Siamo peccatori.
Ma non dovremmo assumere questo fatto come istanza contro la verità, quando cioè quella morale alta non viene vissuta.
Dovremmo cercare di fare tutto il bene possibile, e sorreggerci e sopportarci a vicenda.
Esprimere tutto questo anche dal punto di vista pastorale, teologico e concettuale nel contesto dell’attuale sessuologia e ricerca antropologica è un grande compito al quale bisogna dedicarsi di più e meglio.
Le donne La formulazione di Giovanni Paolo II è molto importante: “La Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”.
Non si tratta di non volere ma di non potere.
Il Signore ha dato una forma alla Chiesa con i Dodici e poi con la loro successione, con i vescovi ed i presbiteri (i sacerdoti).
Non siamo stati noi a creare questa forma della Chiesa, bensì è costitutiva a partire da lui.
Seguirla è un atto di obbedienza, nella situazione odierna forse uno degli atti di obbedienza più gravosi.
Ma proprio questo è importante, che la Chiesa mostri di non essere un regime dell’arbitrio.
Non possiamo fare quello che vogliamo.
C’è invece una volontà del Signore per noi, alla quale ci atteniamo, anche se questo è faticoso e difficile nella cultura e nella civiltà di oggi.
Tra l’altro, le funzioni affidate alle donne nella Chiesa sono talmente grandi e significative che non può parlarsi di discriminazione.
Sarebbe così se il sacerdozio fosse una specie di dominio, mentre al contrario deve essere completamente servizio.
Se si dà uno sguardo alla storia della Chiesa, allora ci si accorge che il significato delle donne – da Maria a Monica sino a Madre Teresa – è talmente eminente che per molti versi le donne definiscono il volto della Chiesa più degli uomini.
I novissimi È una questione molto seria.
La nostra predicazione, il nostro annunzio effettivamente è ampiamente orientato, in modo unilaterale, alla creazione di un mondo migliore, mentre il mondo realmente migliore quasi non è più menzionato.
Qui dobbiamo fare un esame di coscienza.
Certo, si cerca di venire incontro all’uditorio, di dire loro quello che è nel loro orizzonte.
Ma il nostro compito è allo stesso tempo sfondare quest’orizzonte, ampliarlo, e di guardare alle cose ultime.
I novissimi sono come pane duro per gli uomini di oggi.
Appaiono loro irreali.
Vorrebbero al loro posto risposte concrete per l’oggi, soluzioni per le tribolazioni quotidiane.
Ma sono risposte che restano a metà se non permettono anche di presentire e riconoscere che io mi estendo oltre questa vita materiale, che c’è il giudizio, e che c’è la grazia e l’eternità.
In questo senso dobbiamo anche trovare parole e modi nuovi, per permettere all’uomo di sfondare il muro del suono del finito.
La venuta di Cristo È importante che ogni epoca stia presso il Signore.
Che anche noi stessi, qui ed ora, siamo sotto il giudizio del Signore e ci lasciamo giudicare dal suo tribunale.
Si discuteva di una duplice venuta di Cristo, una a Betlemme ed una alla fine dei tempi, sino a quando san Bernardo di Chiaravalle parlò di un “Adventus medius”, di una venuta intermedia, attraverso la quale sempre egli periodicamente entra nella storia.
Credo che abbia preso la tonalità giusta.
Noi non possiamo stabilire quando il mondo finirà.
Cristo stesso dice che nessuno lo sa, nemmeno il Figlio.
Dobbiamo però rimanere per così dire sempre presso la sua venuta, e soprattutto essere certi che, nelle pene, egli è vicino.
Allo stesso tempo dovremmo sapere che per le nostre azioni siamo sotto il suo giudizio.
__________ 24 novembre 2010 La visione del mondo di Benedetto XVI di Stéphanie Le Bars in Le Monde del 25 novembre 2010 (nostra traduzione) “Una visione spesso cupa, ma temperata dalla speranza che il cristianesimo, anche se non ha un “posto autorevole nell’opinione pubblica”, ha ancora delle cose da dire al mondo, in particolare ai cattolici che hanno tagliato i ponti con la Chiesa.
Il papa si entusiasma perfino della vitalità dei fedeli esterni alle strutture tradizionali!” La svolta di Ratzinger di Giancarlo Zizola in la Repubblica del 24 novembre 2010 “Una volta definiti i percorsi di un cattolicesimo in forma nuova, emerge la questione di far seguire alle parole i fatti.
Il Papa insiste sul suo abbandono spirituale alla volontà divina, ma la “grazia di stato” gli è assicurata perché proceda ad un programma di cambiamenti strutturali, che solo lui ha l´autorità di varare.
Ciò rinvia al punto critico del pontificato, tanto lucido nel disegno quanto fragile nel governo” Dentro il laboratorio di un papa di Aldo Maria Valli in Europa del 24 novembre 2010 “Nel volume è l’intera realtà della Chiesa e del pontificato a essere affrontata, senza evitare i nodi più problematici.” “«Non cerco di essere un altro.
Quel che posso dare do, e quel che non posso non cerco nemmeno di darlo»” Ratzinger, il Papa fragile di Marco Politi in il Fatto Quotidiano del 24 novembre 2010 “Sincero, fragile, appassionato nella fede.
Benedetto XVI lascia di sé nel libro-intervista Luce del mondo, redatto da Peter Seewald, un ritratto intimo e rivelatore.
Un quadro non convenzionale, che rovescia stereotipi.
Parlando a braccio, Ratzinger si mostra nelle sue tre dimensioni.
Il teologo e l’intellettuale.
Il regnante.
L’uomo nella sua sfera più privata.” 23 novembre 2010 West Wing in Vaticano di Massimo Faggioli in Europa del 23 novembre 2010 “non è escluso che con quel passaggio in Luce del mondo papa Ratzinger voglia richiamare alla memoria dell’ecumene cattolico una questione – quella del papa inabilitato a governare e inabilitato a dimettersi – che solo dieci anni fa rischiò di diventare una vera crisi costituzionale per la chiesa di Roma.” 22 novembre 2010 Il papa, la sessualità e le leggi della Chiesa di Editoriale in Le Monde del 23 novembre 2010 (nostra traduzione) “Se le dichiarazioni fatte da Benedetto XVI nel suo libro fossero il segno precursore di una evoluzione in profondità, servirebbero la causa della Chiesa, oggi e domani.” La scelta del Papa: “Pronto a lasciare in caso di malattia” di Giacomo Galeazzi in La Stampa del 22 novembre 2010 “Benedetto XVI riconosce di sentire il peso degli 83 anni…
ma…
«grazie a Dio posso contare su validi collaboratori»…
Intanto il primo sì del Papa al condom…
è stato accolto da un coro mondiale di consensi…
«il Papa non giustifica moralmente l’esercizio disordinato della sessualità, ma ritiene che l’uso del profilattico per diminuire il pericolo di contagio sia…
“un primo passo sulla strada verso una sessualità più umana”…
puntualizza il portavoce vaticano” Ratzinger: “In caso di malattia lascerò la guida della Chiesa” di Marco Ansaldo in la Repubblica del 22 novembre 2010 “«Quando il pericolo è grande…
non si deve scappare via…
Ci si può dimettere in un momento di pace o quando semplicemente non si può più andare avanti»…
Continua a far discutere il libro-intervista del Pontefice con il giornalista bavarese Peter Seewald “Luce del mondo”, in uscita domani in Italia…
tiene banco tra gli osservatori più attenti anche il caso del giallo sull´esatta terminologia usata da Benedetto nella frase sui profilattici” Il Papa: «Forse un giorno avrò il dovere di dimettermi» di Roberto Monteforte in l’Unità del 22 novembre 2010 Dimissioni del Papa dovute in caso di impossibilità a governare la Chiesa.
Lo afferma Papa Ratzinger nel libro-intervista «Luce del mondo».
L’effetto Wojtyla.
Ipotesi concreta, ma per ora l’esclude.
Come il predecessore.
(ndr.: il problema vero del papato non riguarda tanto le situazioni di emergenza, ma quelle normali, in particolare la riduzione della chiesa al papato (soprattutto con Giovanni Paolo II) e l’identificazione della teologia con la teologia del papa (soprattutto con Benedetto XVI) 21 novembre 2010 «Il suo è realismo La dottrina resta contraria» intervista a Giovanni Maria Vian a cura di Gian Guido Vecchi in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 «La Chiesa e Joseph Ratzinger soffrono pregiudizi tenaci.
Questo libro, come i suoi precedenti, serve a scardinarli, e del resto basterebbe seguire il suo magistero” (ndr.:quest’oggi la stampa italiana dedica, con grande evidenza, molto spazio al libro intervista dell’attuale papa, e in particolare alla liceità dell’uso del profilattico in certi casi.
E’ davvero siderale la distanza esistente tra ciò che sostiene il magistero su alcuni temi e quanto recepisce la coscienza di molti credenti.
Si rischia di confondere la radicalità evangelica con la proibizione della contraccezione artificiale.
Saremo giudicati non sulle tecniche ma sull’amore, unico valore davvero non negoziabile) «Ora è più pastore Ha affrontato un grande male» di Andrea Galli in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 “vicino a Cristo ci sono state straordinarie figure femminili, con le quali egli stesso ha avuto anche legami profondi; ma come apostoli si è scelto degli uomini..” (ndr.: Adriana Zarri avrebbe aggiunto: Gesù come apostoli si è scelto uomini ebrei…
quindi i preti devono essere ebrei?) “E’ un atto di carità La dottrina resta intatta” intervista a Vittorio Messori a cura di Giacomo Galeazzi in La Stampa del 21 novembre 2010 “Il celibato, il no alla contraccezione, la povertà, la castità e l’obbedienza degli ordini religiosi sono da denuncia all’Onu o da Amnesty International se non le si inquadra in una prospettiva cristiana.” (ndr.: ed io che pensavo che la povertà, intesa come condivisione, la castità, come purezza di intenzioni, l’obbedienza come adesione alla voce dello spirito che risuona nella coscienza fossero profondamente umanizzanti e liberanti per tutti…) Il significato di un passo di Luigi Accattoli in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 “Si potrà inquadrare meglio la sua «apertura» quando si potrà leggere tutto il volume, del quale martedì sarò uno dei presentatori nella Sala stampa Vaticana.” Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi di Joseph Ratzinger e Peter Seewald in L’Osservatore Romano del 21 novembre 2010 Luce del mondo è il titolo con il quale sta per essere pubblicato il libro che raccoglie la conversazione di Benedetto XVI con il giornalista e scrittore tedesco Peter Seewald.
Nei 18 capitoli che lo compongono, raggruppati in tre parti – “I segni dei tempi”, “Il pontificato”, “Verso dove andiamo” – Benedetto XVI risponde alle più scottanti questioni del mondo di oggi.
Del libro (pagine 284, euro 19,50) anticipiamo alcuni stralci.
Il pastore tedesco e la modernità di Giancarlo Zizola in la Repubblica del 21 novembre 2010 “Il Papa prosegue dunque a servire il ruolo umanistico delle grandi figure papali del Novecento, la premura per le sorti della Terra, e non solo del Cielo, svolta da Roncalli, Montini, Wojtyla.
E ridefinisce il suo antico contenzioso con la modernità assumendolo nello stesso paradigma della costituzione conciliare sulla Chiesa e il mondo: il paradigma della compagna di viaggio di uomini e donne in ricerca dell´Assoluto, ne siano o meno coscienti.” Suggerisco ai colleghi giornalisti di leggere questo volume come una visita guidata al laboratorio papale di Benedetto XVI e al mondo vitale di Joseph Ratzinger.
In tale mondo ha un ruolo decisivo la chiamata alla Cattedra di Pietro che lo sorprese quel pomeriggio d’aprile in maglione nero e con quel maglione nero sotto l’abito bianco lo portò sulla loggia della Basilica di San Pietro.
La visita guidata ci dice qualcosa sull’uomo in maglione, su quello con l’abito bianco e sul rapporto tra i due.
La mia presentazione si appunterà su questo lato umano del suo modo di fare il Papa.
Vedremo Joseph-Benedetto che dubita e si interroga, o che – a seconda dell’argomento che affronta – è sicuro di sé e della sua parola; che ci informa su come è arrivato a una decisione, che ammette errori e ripensamenti o lascia intravedere qualche futuro orientamento.
Coglieremo per lo più quest’uomo chiamato a fare il Papa nell’atteggiamento con cui viene pubblicando i due volumi su Gesù di Nazaret, che propone non come documenti di magistero ma come attestazioni della propria ricerca del volto del Signore.
Ci avverte fin dall’inizio che “il Papa può avere opinioni personali sbagliate” e certo dispone della “facoltà della decisione ultima” in materia di fede ma ciò “non significa che possa di continuo produrre infallibilità” (pagine 23s).
È forse in questa riflessione che va cercata la prima radice del libro-intervista che affronta temi anche ardui in un’attitudine di libertà e di azzardo: azzardo nella testimonianza della fede, si intende.
Egli a più riprese (pagine 28, 135s, 161s, 166, 168) si interroga sui suoi 83 anni e su quanti altri gliene darà il Signore e in nostra presenza – si direbbe – ragiona dell’opportunità delle dimissioni qualora venga a trovarsi nell’impossibilità di adempiere alla sua missione (53).
Nella stessa pagina nega di aver pensato a dimettersi per lo scandalo pedofilia: “Non si può scappare proprio nel momento del pericolo”.
Con analoga schiettezza chiede a se stesso “se sia veramente giusto offrirsi sempre alle folle e farsi acclamare come una star”, ben sapendo che “le persone hanno il grande desiderio di vedere il Papa” (110).
Ragiona sull’opportunità di dire “io” o “noi” (124) e si confessa “timoroso” delle decisioni sulle persone (125).
Tratta ampiamente del conflitto della fede cristiana con il nostro tempo, ma in almeno due passi riconosce con parole impegnative “la moralità della modernità” e l’esistenza di una “modernità buona e giusta” (40 e 87).
A queste affermazioni in positivo andrebbero uniti i passaggi in cui riconosce le prevaricazioni religiose del passato: dalle “atrocità” commesse “in nome della verità” (79) alle “guerre di religione” (84) e ai “rigorismi” nei confronti della corporeità, con i quali “si giunse a impaurire l’uomo” (150).
Nel conflitto con il mondo moderno occorrerà dunque chiedersi a ogni passo “in che cosa il secolarismo ha ragione” e dove gli si dovrà invece “opporre resistenza” (88).
In una delle pagine più felici usa un’espressione creativa per aiutare a comprendere il mistero della risurrezione: “Nella risurrezione (Dio) ha potuto creare una forma nuova di esistenza; al di là della biosfera e della noosfera ha posto in essere una nuova sfera, nella quale l’uomo e il mondo giungono all’unità con Dio” (232).
Altre volte trattò dell’amore come “traccia” della Trinità inscritta nel “genoma” umano (7 giugno 2009), o svolse similitudini inventive tra il mistero eucaristico e la fissione nucleare (21 agosto 2005).
Non teme di usare espressioni come “peccaminosità della Chiesa” e “quanto misera sia la Chiesa” (241).
Il termine “sporcizia” per indicare il peccato che è nella Chiesa – tipico già del teologo e del cardinale Ratzinger, da Introduzione al cristianesimo (1968) alla Via Crucis del 2005 – ricorre nel volume almeno tre volte a proposito della pedofilia del clero e dello “shock enorme” che ha provocato (44s e 59).
Sempre per la sporcizia vi è un ripetuto riconoscimento del ruolo positivo dei media, che aveva già espresso in diverse occasioni ma mai così esplicitamente: “Sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere riconoscenti” (49 e 61). Su questo tema ci regala uno degli aforismi più efficaci del volume: “Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei” (49).
Pronuncia dei “sì” e dei “no” asciutti e su questioni di rilievo, proprio quelle risposte che noi giornalisti amiamo quando facciamo interviste: dice che comprende chi “per protesta lascia la Chiesa” a motivo degli scandali (55); assicura che non avrebbe tolto la scomunica al vescovo Williamson senza condurre un’ulteriore istruttoria se avesse saputo delle sue posizioni negazioniste della Shoah (174).
Di Williamson dice anche che “non è mai stato cattolico nel senso proprio del termine: era anglicano e dagli anglicani è passato direttamente a Lefebvre” (175).
Spiega l’itinerario che l’ha portato alla decisione sulle scomuniche dei vescovi lefebvriani, facendo presente che si è seguito lo stesso criterio adottato per i vescovi cinesi ordinati senza il mandato papale e che una tale soluzione era stata prevista prima della sua elezione.
Cerca con cautela e coraggio una via pragmatica attraverso cui i missionari e altri operatori ecclesiali possano aiutare a vincere la pandemia dell’aids senza approvare ma anche senza escludere – in casi particolari – l’uso del profilattico (169ss).
Riafferma il carattere “profetico” dell’Humanae vitae di Paolo VI ma non si nasconde l’esistenza di una vera difficoltà a “trovare strade umanamente percorribili” per dare seguito a quella profezia e riconosce che “in questo campo molte cose debbono essere ripensate ed espresse in modo nuovo” (203-207).
Si mostra fiducioso sui possibili sviluppi del ritorno alla Chiesa cattolica di gruppi di anglicani, quasi curioso di vedere “fino a che punto possono salvaguardare la propria tradizione e la forma di vita loro propria” (142), nella quale c’è anche quella dell’ordinazione degli sposati.
Il Papa non ne parla, ma in altra pagina del volume, a proposito del celibato afferma di “poter capire” che i vescovi “riflettano” sulla possibilità di ordinare “anche” uomini sposati e aggiunge: “Il difficile viene quando bisogna dire come una simile coesistenza dovrebbe configurarsi” (208).
Si dichiara “molto ottimista rispetto al fatto che il Cristianesimo si trovi di fronte a una dinamica nuova” che forse lo porterà ad assumere “un aspetto culturale diverso” (90s); ma anche “deluso” perché “la tendenza generale del nostro tempo è di ostilità alla Chiesa” (183).
Forse la frase più amara del volume riguarda le ostilità sperimentate in patria: “Nella Germania cattolica esiste un numero considerevole di persone che, per così dire, aspetta solo di colpire il Papa” (179).
Sogna il ritrovamento della “semplicità” e “radicalità” del Vangelo e del cristianesimo.
di Luigi Accattoli (©L’Osservatore Romano – 24 novembre 2010)
Bisogno di Maestri
“Seminando grano, raccoglierai una volta.
Piantando un albero, raccoglierai dieci volte.
Diffondendo bellezza, raccoglierai cento volte» (1).
Farsi condurre dalla poesia alla ricerca della verità non vuol dire semplicemente privilegiare gli aspetti estetici, la dimensione del bello, il lato di dolce fruibilità della realtà.
Se essa ci apre la strada alla verità, è perché essa ci fa intuire che questa verità è una verità in cor-relazione, una verità che le cose reclamano e che essa stessa interpella con intensità e immediatezza, appellandosi alla nostra responsabilità, facendoci correggere la prospettiva nel nostro rapporto con noi stessi, con il mondo e con ciò che trascende queste due dimensioni della realtà.
È di grande interesse qui ricordare – come un leitmotiv di queste riflessioni – quanto ha scritto un grande poeta polacco, un maestro da poco scomparso, Czeslaw Milosz, nel suo Cagnolino lungo la strada: «È un momento particolare nella plurisecolare storia della religione! La Provvidenza ha stabilito che si stemperasse la lama dei sermoni e trattati teologici, e che per l’uomo intento a meditare sulle cose ultime non restasse altro strumento di conoscenza se non la poesia» (2).
————————————— 1.
G.
GAZZANEO, La bellezza, il mio dono per le nuove generazioni, in”Luogghi dell’Infinito”, n.115, XII(2008), p.23 2.
C.
MILOSZ, Cagnolino lungo la sterada, a cura di A.Ceccherelli, Adelphi, Milano 2002, p.44 Da: VITO DI CHIO, Bisogno di maestri, Armando Editore, Roma 2010, p.
24 VITO DI CHIO, Bisogno di Maestri, Armando Editore Roma, 2010, pp.432, Euro 35,00 Il volume introduce, mediante un vocabolario accessibile all’uomo d’oggi, a una rilettura di un grande patrimonio culturale di cui siamo eredi e indica in molteplici forme come “tradurlo” nel linguaggio attuale: “Bisogno di Maestri” di Vito Di Chio non solo è uno scritto ben documentato, ma è un testo leggibile, godibile e arricchente”.
Perché c’è “Bisogno di Maestri”? Il libro di Vito di Chio non contiene ricette risolutive per venire incontro a questa mancanza, al vuoto che si è creato e si sta aggravando.
Si parla con sempre più insistenza di “insostenibile declino di chi deve educare il paese…” Il libro invita a una pausa di riflessione, di confronto, pone domande coinvolgendo il lettore.
Nell’affrontare il problema della mancanza di Maestri l’autore non parte da analisi settoriali, da indagini statistiche, sociologiche o psicologiche, ma tenta di elaborare un patrimonio culturale che, da un lato, è andato sperperandosi in questi ultimi decenni e, dall’altro, è diventato di difficile traduzione per le nuove generazioni e per l’uomo di oggi in genere.
In questo l’autore si confronta con realtà concrete, a cui dà un nome: un’antropologia alternativa a una visione dell’uomo che non parte dalla persona e dalla libertà, ma che ha assorbito la pretesa positivistica e scientista e la traduce nei processi educativi, dove appunto non la personalità del Maestro, ma altre figure divengono centrali: i tecnici, gli esperti, i metodologi, i verificatori di una oggettività di facciata; il bisogno di “Compagni di viaggio”, che ci aiutino a ritrovare e riscoprire, anche nel nostro caotico mondo, il senso profondo dell’amicizia, non solo nel suo aspetto personale, ma anche come vero motore dell’attività nella Polis, dell’impegno politico concreto; la ricerca delle sorgenti di vita interiore del Maestro; la consapevolezza che la “creazione” ci arricchisce, che la natura ha già in sé i segni di una “nuova creazione”… Ecco perché abbiamo bisogno di Maestri – di Maestri che – come afferma Hannah Arendt – si siano qualificati “per conoscere il mondo e siano in grado di istruire altri in questa conoscenza ed esperienza del mondo, acquisendo autorevolezza di fronte agli allievi, in quanto di quel mondo si assumono la responsabilità”.
Maestri che sentano la necessità, la gioia e il piacere di continuare ad imparare, perché chiamati ad insegnare (W.
Goethe).
Le età della vita
CARLO MARIA MARTINI, Le età della vita, Mondadori, Milano, 2010, pp.192, € 18,00.
La condizione umana, provvisoria pur nella sua apparente continuità, è il tema di questo nuovo libro del cardinale Martini.
Dall’infanzia all’adolescenza, alla maturità, alla vecchiaia, i sogni, i doveri, le responsabilità mutano con il mutare del corpo e dell’animo sotto la spinta dell’esperienza e dei “fatti della vita”.
Nei suoi incontri con i giovani, i lavoratori, gli anziani, Carlo Maria Martini ha più volte affrontato i rischi e la grandezza di ogni età, ciascuna degna di essere vissuta con il massimo impegno e consapevolezza.
Le sue parole, frutto di una lunga, personale meditazione, sono di incitamento, ma soprattutto di speranza.
BAMBINI I fanciulli si pongono tante domande che nascono dalla curiosità e dalla meraviglia che suscita in loro l’esperienza dell’essere.
Spesso queste domande non vengono prese sul serio dagli adulti; invece emergono dal profondo e sono da tenere in considerazione: il continuo interrogare dei più giovani è indice di una capacità spontanea e innata di vedere a fondo le cose.
Mi pare che anche per questo i bambini siano lodati da Gesù e proposti come modelli.
L’episodio in cui tali domande emergono con particolare vigore, e sono fondate, valutate e accolte, è quello che narra la permanenza di Gesù al tempio all’insaputa dei suoi genitori.
Qui Gesù sperimenta la forza che lo lega al Padre e che si esprime anche nelle istituzioni del tempio.
Ma tale presenza del divino è spesso ostacolata: Gesù nella sua vita pubblica si scontrerà sovente con questo ostacolo, che emergerà anche nel rapporto con la classe sacerdotale, e sarà una delle cause che lo porteranno alla crocifissione.
L’atteggiamento di Gesù mostra l’importanza che può assumere la decisione di un dodicenne.
Di fronte a tale scelta noi abbiamo la sensazione di procedere su un terreno sacro, a cui bisogna avvicinarsi con rispetto.
Anche i fanciulli sono quindi capaci di conoscere Dio spontaneamente e di avvicinarsi a lui.
Essi sono abilitati a essere uditori della Parola e sono capaci di compiere scelte coraggiose.
*** GIOVANI La giovinezza è l’età dei grandi sogni, che presentano un quadro ideale della vita dell’uomo, ed è per questo che i giovani sono di solito molto critici del mondo così com’è.
Bisogna saperli aiutare rispettando le loro esigenze di perfezionismo e condurli, nello stesso tempo, a non spaventarsi di fronte alle realtà della vita.
La giovinezza è anche il tempo dei grandi amori e delle grandi speranze.
È necessario non deludere le attese dei ragazzi, saperne sfruttare l’idealità e insegnare loro che la realizzazione di un ideale di solito richiede tempi lunghi.
Bisogna inoltre accompagnarli verso l’accettazione del fatto che noi non siamo perfetti.
La figura concreta di questa idealità è Gesù che si reca nel tempio a pregare e scaccia i mercanti, che rendono quel luogo una spelonca di ladri.
La giovinezza può pure essere il tempo della contestazione, della ribellione e del rifiuto, come è normale che sia.
Ma secondo un proverbio indiano, questa è anche un’età in cui si è chiamati a insegnare: ciò comporta una responsabilità che fa da contrappeso alla voglia di respingere la tradizione.
Tale responsabilità ha un grande valore per sostenere le persone nella vita.
ADULTI L’età adulta viene definita da quello stesso proverbio indiano come un ritirarsi nel bosco.
L’adulto deve saper riconoscere i suoi limiti e fare anche un passo indietro, se necessario.
L’adulto ha una visione complessiva di come vanno le cose in questo mondo.
Ciò, però, non deve diventare motivo per limitare gli ideali, ma deve essere stimolo per giungere a una visione esatta della realtà.
Bisogna considerare che ci sono almeno due tipi di adulti: quelli che si lasciano trascinare dal vortice degli impegni e quelli che sanno prendere tempo per far maturare i propri principi.
Solo quest’ultimi meritano in pieno il titolo di adulto.
Quanto più uno cresce in responsabilità, tanto più sono necessari momenti di ritiro e silenzio.
L’adulto è in grado di riflettere su di sé e ciò gli dà la possibilità di confrontarsi con la propria fede.
È difficile uscire del tutto da sé per effettuare quella che è chiamata la «conversione», perché essa comporta un totale rivolgimento della visione della realtà.
Ci si domanda quanti uomini giungano alla piena conoscenza di sé.
Secondo gli psicologi tale conoscenza non può aversi prima dei trentacinque/ quarant’anni, ma non molti giungono a un simile punto di maturazione.
È questo il motivo per cui si diffondono visioni semplicistiche del mondo e dell’uomo.
Perciò il parere della maggioranza non è senz’altro una garanzia per la verità.
*** ANZIANI Per la spiritualità indù la rinunzia ai propri beni significa la capacità di presentarsi con la mano destra aperta per ricevere umilmente il pane quotidiano.
Tradotto nel linguaggio della cultura occidentale significa che occorre sempre più riconoscere che la nostra vita dipende dagli altri e godere di questo fatto.
È certamente difficile per i ricchi sopportare di diventare poveri, come dimostrano gli esempi evangelici di Nicodemo e del giovane ricco, ma in questo si può gustare una partecipazione più autentica al Vangelo.
Fa parte di tale impoverimento anche l’indebolimento fisico cui si va incontro con il passare degli anni.
Perciò il Vangelo di Giovanni, che esemplifica il cammino del cristiano ed è un Vangelo segnato dalla profondità mistica, riduce tutto all’essenziale.
I vecchi devono imparare a ritirarsi dalle loro responsabilità e contemplare maggiormente l’unità delle cose.
In questo senso l’anzianità può durare molto meno delle altre fasi della vita e non dipende dall’età anagrafica.
Ciò significa che le età della vita non possono ridursi solamente alla biografia.
Esse hanno una durata diversa che non è possibile determinare a priori.
Bisogna interpretare ciascuno alla luce di un cammino spirituale che tenga conto della maturità raggiunta.
Anche lo stile di preghiera varia nelle diverse età della vita.
È molto importante vedere se la nostra preghiera corrisponde o meno alla nostra età.
La preghiera, infatti, matura via via con la ricchezza interiore, ma nel tempo della vecchiaia può tornare a essere semplice e spontanea come quella dei fanciulli in “Corriere della Sera” dell’8 novembre 2010