Cristiani perseguitati e persecutori

 

un libro in cui Franco Cardini affronta il tema del rapporto tra cristianesimo e violenza subita e inflitta (Salerno, pp. 186, €12,50).

 


Non facile il compito che si è dato Franco Cardini nel suo recente Cristiani perseguitati e persecutori (Salerno, pp. 186, €12,50): affrontare il tema del rapporto tra cristianesimo e violenza subita e inflitta non attraverso una «conta» delle vittime di persecuzioni religiose nei duemila anni di cristianesimo, né con una contrapposizione del numero di uccisi o dell’efferatezza dei crimini compiuti da parte di opposti schieramenti, ma piuttosto attraverso una ben più approfondita disamina di un nodo e un’epoca cruciali: come e perché tra il I e il VI secolo d.C. i cristiani da perseguitati diventano anche persecutori. Un lavoro accurato da storico onesto e documentato, quale è Cardini, svolto «non al fine di giudicare e tanto meno di condannare, ma, semplicemente, per comprendere».

 

Lo spunto è fornito dall’amara realtà che si è venuta affermando in questi ultimi trent’anni: la rinascita di «appelli a guerre sante», l’apparire di «nuovi carnefici e nuove vittime tali anche e magari soprattutto nel nome di Dio».
Ma l’analisi di quanto accaduto – dalle violenti persecuzioni contro i cristiani nei primi quattro secoli dell’era volgare fino all’affermarsi nei due secoli successivi di una società cristiana anche attraverso l’imposizione di «una fede di pace e d’amore con strumenti che furono … anche quelli dell’intimidazione … e della vera e propria violenza» – porta a un’amara constatazione: «le persecuzioni condotte e i massacri perpetrati nel nome della croce non sono stati né eccezioni confermanti la regola, né fatali ma casuali incidenti di percorso». Sarebbe piuttosto l’inevitabile conseguenza di una fondamentale impossibilità a vivere il Vangelo come cristianità: «il Vangelo non solo non è stato attuato nel cristianesimo, ma questo non si esaurisce affatto in quello».

 

L’equilibrio di giudizio di Cardini, docente di Storia medievale, riesce a svelenire la polemica senza tacere fatti e misfatti e fornisce chiavi di interpretazione solo apparentemente paradossali, come quando ricorda che la società cristiana che si afferma dal IV secolo in poi «è composta per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensì dei persecutori».

 

Certo, il quadro che emerge ha toni amari, ma in questa luce cupa che ferisce la «buona notizia» portata da Gesù di Nazaret assumono un significato ancor più pregnante quei discepoli di Cristo restati «costantemente fedeli alla consegna di pace affidata dal maestro tanto da rinunziare perfino a difendersi». Non si tratta di evocarli quasi a coprire o sminuire i misfatti di altri, servono invece a ricordare che vivere da cristiani non è impresa sovrumana ma umanissima, che nulla e nessuno può impedire a un discepolo di seguire fino in fondo il suo Signore e restare fedele al Vangelo.

 

È quanto due celebrazioni chiave del Giubileo del 2000 mai troppo ricordate: la giornata del perdono e la commemorazione ecumenica dei martiri del XX secolo – hanno idealmente accostato: solo quando la chiesa riconosce i peccati commessi nel nome del cristianesimo può anche gloriarsi della luminosa testimonianza di tanti suoi figli che – con semplicità e risolutezza, con fierezza e senza arroganza alcuna hanno affermato con la loro vita e la loro morte che sì, il Vangelo è vivibile fino in fondo anche quando ogni cosa attorno, perfino in ambito cristiano, sembra spingere a un
compromesso con le forze del male.

 

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 21 maggio 2011

 

 

Dal prologo:



La ricerca storica e magari le ragioni della discussione e perfino della polemica, ispirate talvolta anche da convinzioni o da propensioni anticlericali ma sostenute sovente anche dal ridimensionamento di certi eventi e dall’approfondimento di certe ricerche, ci avevano indotti a ritenere che non sempre i “martiri della fede” fossero stati tanto frequenti e numerosi quanto in passato era stato sostenuto. Gli eventi dell’ultimo trentennio circa hanno presentato invece l’allarmante ritorno di un incubo che credevamo dissolto: nuovi appelli a “guerre sante”, nuovi carnefici e nuove vittime tali anche e magari soprattutto nel nome di Dio. Come dice Pascal, sembra proprio che l’uomo non sia mai tanto capace di fare del male come quando lo commette nel nome di una fede religiosa: una sentenza che mantiene la sua verità anche da quando, cioè dal tardo Settecento in poi, sono sorte le “religioni laiche”.

Vero è altresí che, a partire dall’ultimo quarto circa del XX secolo, abbiamo assistito a una sorta di “ritorno selvaggio di Dio” e a un riaffermarsi di nuove forme di “guerra santa”. Da molti ambienti dell’immenso mondo musulmano alle regioni induiste del subcontinente indiano alla Cina, all’Africa, all’America latina, molti religiosi e anche semplici credenti laici sono stati uccisi: e, sempre piú spesso, si è trattato non solo di cristiani vittime della violenza, ma di vittime della violenza tali proprio in quanto cristiani. In effetti – a parte casi molto particolari e specifici, per esempio in Irlanda o in Libano o in Rwanda – in linea di massima i cristiani hanno rivestito il ruolo, nelle tristi effemeridi degli ultimi anni, mai di carnefici e persecutori bensí sempre di vittime e perseguitati. (…)

Ma, al di là delle forzature e delle vere e proprie calunnie, secondo le idées reçues che al riguardo circolano ordinariamente, episodi come i massacri dei sassoni pagani in età carolingia, le violenze compiute durante le crociate in Terrasanta o la Reconquista iberica, la repressione inquisitoriale, la liquidazione del catarismo nella Linguadoca duecentesca, le campagne dei Cavalieri Teutonici nel Nordest europeo, le stragi di native Americans che accompagnarono la conquista spagnola e portoghese dell’America centrale e meridionale o quella francese, inglese e olandese di quella settentrionale e infine la Riforma e le “guerre di religione” cinque-seicentesche con relative mattanze di “eretici”, cacce alle streghe e “Notti di San Bartolomeo”, altro non furono se non eccezioni confermanti una regola di pietà e di misericordia: incidenti di percorso d’una fede d’amore che di quando in quando ha tuttavia potuto venir meno a se stessa (e ciò varrebbe soprattutto per la Chiesa cattolica) e i cui fedeli hanno agito in contraddizione con la natura della loro religione e con le loro stesse convinzioni. (…)

Le pagine che seguono non intendono affatto costituire un j’accuse non diciamo contro il cristianesimo in quanto tale, ma neppure contro le società che nei secoli si sono dette cristiane o contro le Chiese e le confessioni cristiane storiche. Non si proporranno dunque piú o meno grandguignoleschi cataloghi di errori e di orrori, non si allineeranno argomenti “scandalosi” e recriminatorii, non si procederà ad alcuna macabra e ripugnante computisteria funebre. Ci si limiterà a richiamare i caratteri fondamentali delle persecuzioni delle quali i cristiani furono vittime tra I e IV secolo per mostrare come, nei due secoli successivi, la società divenuta a sua volta cristiana – e composta, non dimentichiamolo, per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensí dei persecutori – si sia affermata a sua volta proponendo, ma anche imponendo, una fede di pace e d’amore con strumenti che furono non certo soltanto, ma tuttavia anche quelli dell’intimidazione, della costrizione legale, della seduzione e perfino della corruzione morale, della legislazione restrittiva o addirittura inibitrice della libertà di coscienza, dell’esibizione della forza militare e della vera e propria violenza. Ne sarebbe derivata una storia lunga secoli, che dall’alto Medioevo all’età coloniale andò di pari passo con l’impegno missionario: senza nulla togliere, beninteso, ai meriti di tanti missionari che anche in tempi recenti e recentissimi si sono sacrificati per amore dei poveri e degli ultimi.

Quel che intendiamo qui ricordare è che, all’origine delle pagine piú nere e sconcertanti non già del cristianesimo – che a sua volta non consiste tuttavia semplicemente ed esclusivamente nel rispetto dei valori evangelici –, ma della storia della società cristiana e delle Chiese storiche, non stanno momentanee fasi di obnubilamento bensí lo sviluppo e la conseguenza di premesse intrinseche non ai loro princípi, ma senza dubbio alla loro natura e alla dinamica secondo la quale esse si sono affermate nel mondo.

Le cinque perle di Giovanni Paolo II

 

i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia

un bilancio storico e spirituale di un pontificato.

 

In vista della beatificazione di Giovanni Paolo II ha ripreso slancio un’operazione tutt’altro che semplice, inauguratasi già immediatamente dopo la sua morte: quella di tracciare un bilancio storico e spirituale di un pontificato che non solo è durato più di venticinque anni, ma che ha attraversato un periodo storico estremamente complesso e sconvolgente – basti pensare ai due crolli epocali: il muro di Berlino e le Torri gemelle o, prima ancora, all’attentato subito dal papa – e il cui protagonista aveva a sua volta vissuto in prima persona il dramma della seconda guerra mondiale e della Shoah, la cattività comunista e l’evento di grazia del Vaticano II. Su quali elementi soffermarsi per un’analisi complessiva? I documenti portanti del magistero, come le encicliche? I messaggi veicolati dagli innumerevoli viaggi? La tipologia della moltitudine di santi e beati canonizzati? Le caratteristiche e gli orientamenti teologici degli ecclesiastici nominati all’episcopato o al cardinalato? La gestione dei rapporti interni alla Curia o delle relazioni con i capi di stato?
Un’opzione rischiosa ma al contempo feconda è stata quella scelta da Alberto Melloni – docente di Storia del cristianesimo all’ Università di Modena-Reggio Emilia e direttore della Fondazione per le Scienze religiose di Bologna – che ha individuato Le cinque perle di Giovanni Paolo II (Mondadori, pp. 154, 18), cioè «i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia», come recita il sottotitolo. Scelta non facile, che l’autore motiva efficacemente nelle prime pagine del libro, e che lo porta a isolare delle gemme preziose per poterle incastonare nell’insieme del pontificato wojtyliano così da permetterne una lettura luminosa e al contempo destinata a durare ben al di là della momentanea attenzione mediatica legata alla beatificazione.
Di queste «perle», l’aver celebrato il concilio come la «grande grazia del XX secolo», la visita alla sinagoga di Roma e il primo incontro delle religioni ad Assisi appartengono al biennio 1985-1986, la richiesta di perdono per i peccati commessi dai figli della chiesa nel corso della storia è al cuore del Giubileo del 2000, mentre la strenue opposizione alla guerra si colloca già nel periodo del progressivo declino fisico del Papa. Sono cinque eventi che contengono sì una forte carica innovativa rispetto al passato, ma che, paradossalmente, rivelano anche una profonda continuità con
la grande tradizione della chiesa e la sua capacità di annunciare il vangelo in un mondo che cambia.
Non a caso mi sembra che la «perla» chiave che ha in sé la capacità di suscitare le altre sia proprio la prima: la valorizzazione del Vaticano II attraverso un «sinodo straordinario» dei vescovi che ne riafferma la qualità di massima espressione del magistero pontificio e quindi di criterio alla luce del quale discernere a valutare ogni scelta successiva, e non viceversa. Non sorprende allora che negli altri gesti, ricostruiti ed evidenziati da Melloni con sagacia e copiosa documentazione, l’ispirazione profondamente conciliare emerga con particolare evidenza e sia esplicitamente richiamata dal papa stesso.
Davvero sono perle che «hanno bisogno di essere narrate per essere comprese» e che anche quanti, come la nostra generazione, hanno avuto il privilegio di vederle risplendere sotto i loro occhi, devono rileggere e rielaborare per assaporarne tutta la portata evangelica, così da trasmetterle come tesoro prezioso alle generazioni che verranno.

Le cinque perle di Wojtyla
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 30 aprile 2011

 

 


Melloni: Ecco le cinque perle di Giovanni Paolo II


By Rai Vaticano | Aprile 25, 2011

A pochi giorni dalla beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, lo storico Alberto Melloni ci propone nel suo nuovo libro “Le cinque perle di Giovanni Paolo II”, edito da Mondadori, una sua chiave di lettura del pontificato del papa polacco. Si tratta di un approfondimento di alcuni eventi che hanno lasciato il segno e che hanno bisogno di essere compresi in una prospettiva autonoma. Le cinque perle di Giovanni Paolo II sono i gesti e i momenti della vita e del pontificato di  questo Papa, che agiscono dentro la Chiesa . Ho chiesto all’autore di spiegarci meglio alcuni punti del suo libro.

 

 

I rapporti tra la comunità ebraica e il Papa non sono mai stati una semiretta”, afferma nel secondo capitolo del suo libro, ma possiamo dire che il rapporto tra il rabbino Toaff  e Papa Wojtyla è stato particolare, non a caso è citato nel testamento del Pontefice. Come è stato il loro rapporto? Che cosa ha rappresentato la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1986 in questa complessa storia tra la Chiesa cattolica e gli ebrei?

La comunità ebraica di Roma è stata nei secoli testimone di uno sviluppo delle concezioni del potere e della salvezza della chiesa latina: ha visto la prima chiesa perseguitata, quella che prende il potere nell’impero, quella dell’alto medievo, il maturare della discriminazione religiosa, la persecuzione e la ghettizzazione, la pressione rude della conversione, gli accomodamenti con una macchina di governo pontificia, l’emancipazione nello Stato unitario, i diversi atteggiamenti davanti alle leggi razziali e alla persecuzione nazifascista, la stagione del concilio, il lento riconoscimento dello Stato d’Israele. Del percorso che va dal Vaticano II al mea culpa del 2000, è stato testimone diretto Rav Toaff, rabbino capo di una comunità ferita dalla razzia del 16 ottobre e poi dal battesimo del suo rabbino capo Zolli. Quella comunità ha potuto vedere una metamorfosi degli atteggiamenti cattolici con Giovanni XXIII e poi con “Nostra Aetate” , che per Giovanni Paolo II è stato un atto di svolta al quale bisognava rispondere in modo creativo, come ha fatto con la visita alla Sinagoga, ad Assisi e con il mea culpa del 2000. Come sempre nella vita di papa Wojtyla, il gesto conta più delle parole: quella espressione “fratelli maggiori” non è lusinghiera per chi conosca la bibbia, così come il fugace segno di croce al Muro occidentale quando deposita la sua preghiera di perdono nel pellegrinaggio giubilare a Gerusalemme avrebbero potuto suscitare diffidenze o irritazioni. Che non ci furono perché l’eloquenza del gesto superava e spiegava ciò che le parola non dicevano: il coraggio di Rav Toaff è stato quello di pazientare perché quella metamorfosi avviata al concilio producesse tutti i suoi frutti, almeno per quella generazione, in attesa che la prossima faccia la sua parte.

Proseguendo nella lettura del suo libro, la terza perla per lei e’ Assisi, lo spartiacque del nuovo atteggiamento del cattolicesimo contemporaneo verso le altre religioni. Che cosa ha voluto sottolineare in questo capitolo?

Il concilio non aveva programmato un documento sulle religioni, ma solo una dichiarazione sugli ebrei che, a valle della Shoah e dell’ombra che da quella si allungava sulla intera esperienza cristiana di vertice e di base, spiegasse perché la chiesa di Roma sentiva di dover affermare al suo massimo grado il riconoscimento delle promesse, la perennità dell’alleanza e la detestazione dell’antisemitismo “di chiunque e di qualunque epoca”. Fu per attenuare la resistenza dei vescovi arabi e dei loro governi che si decise di estenderlo e mimetizzarlo in un atto, “Nostra Aetate”, che esprimesse stima e attenzione per l’islam, e anche per le altre grandi religioni. Ma così facendo si creava una indiretta analogia: come il rapporto con l’ebraismo era qualcosa di essenziale per la chiesa, si veniva a suggerire che anche nel rapporto da fare con le altre religioni si doveva adottare la stessa grammatica. Israele, come sacramento di tutte le alterità, diventava un modello del bisogno cristiano di comprendere la fede degli altri con gli occhi di Dio. Questa intuizione rimane silente fino al 1986, segmentata in segretariati e mansionari di curia: Assisi rappresenta un evento enorme perché dice come la chiesa di Roma vuole guardare agli altri non come a civiltà o come ad antagonisti, ma come a voci della preghiera comune che sale dalla terra chiedendo a Dio la pace che gli uomini dimenticano di fare.

Papa Benedetto XVI nell’omelia della messa crismale concelebrata in San Pietro, ha fatto esplicitamente il nome di Karol Wojtyla come esempio di riscatto per tutti i cristiani,  e lei  scrive  nel quarto capitolo: “finalmente il momento del perdono e del mea culpa viene fissato al 12 marzo 2000, un gesto il cui annuncio e’ stato accolto polemicamente”. Ci puo’ spiegare?

Il mea culpa era stato proposto fin dal 1993 in un concistoro straordinario: e la reazione di alcuni porporati, come Biffi, era stata molto negativa. Si pensava che chiedere perdono volesse dire aprire una falla nella difesa del magistero e dell’autorità delle autorità: e che dunque quelle cose che la modernità aveva rimproverato alla chiesa andassero al contrario o sbandierate o al massimo contestualizzate in tempi lugubri e violenti per tutti. Wojtyla invece non cede: da padre conciliare aveva vissuto la discussione sul caso Galileo al Vaticano II; da vescovo aveva partecipato all’atto del dare e chiedere perdono con il quale vescovi tedeschi e polacchi si erano abbracciati a vent’anni dalla fine della II guerra mondiale; come persona aveva perdonato chi gli aveva sparato nel 1981 e alla fine ottenne al suo mancato killer la grazia del Quirinale. Per lui il riconoscersi della Chiesa come “casta meretrix” non era una concessione fatta al marketing – anche se poteva perfino essere usata così – ma qualcosa che andava dovuto a Dio. Ancora una volta sul piano delle formule si oscilla (peccato della chiesa, nella chiesa, dei figli della chiesa), ma il senso è chiaro e consente al cattolicesimo romano oggi di poter guardare a orrori come quelli della pedofilia – che non sono certo tipici del suo clero, ma che hanno toccato anche un clero mal guidato – con gli occhi di chi sa che non è della propaganda di sé che la Chiesa ha bisogno ed è ministra, ma di una misericordia di cui è la prima mendicante.

Antonia Pillosio

 


Manca il respiro

di  Saverio Xeres, presbitero e docente di storia della chiesa presso la facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, e Giorgio Campanini, laico e già professore di Storia delle dottrine politiche, oltre che di teologia del laicato.

 

Saverio Xeres, Giorgio Campanini, Manca il respiro – Un prete e un laico riflettono sulla Chiesa italiana, Ancora, Padova 2011, EAN, 9788851408572, pp. 144, Euro 13,00

 

 

Descrizione

 

È una sensazione condivisa, di questi tempi, nelle nostre comunità cristiane: un senso di oppressione, quasi mancasse il respiro. Come per una Chiesa piuttosto in affanno, fino ad avere il “fiato corto”. Si attribuisce spesso l’inizio di tutti i mali presenti alla svolta segnata dal concilio Vaticano II, ma è una tesi non giustificata. Se ci fu un momento in cui il respiro della Chiesa si fece ampio, fu proprio quello: ricuperando le dimenticate profondità della Scrittura e della Tradizione, riattivando i legami con le altre Chiese cristiane, aprendo le finestre verso un mondo in fermento. Si era tornati, insomma, a respirare a pieni polmoni, utilizzando le molteplici risorse che lo Spirito mette a disposizione del Corpo di Cristo. Poi, per una serie di motivi che qui, almeno in parte, si cerca di individuare e documentare, si ebbe forse timore di osare troppo, impauriti, come l’apostolo Pietro, per un vento che soffiava forte. E ci si è rassegnati ad un piccolo cabotaggio, in un rassicurante andirivieni tra una sponda e l’altra. Eppure il vento soffia ancora.

 

Recensione

Oggi alla Chiesa manca il respiro

Ormai non ci si presta nemmeno più attenzione, ma nei mezzi di informazione si è ritornati alla «antica e preconciliare identificazione fra chiesa italiana e Conferenza episcopale», anzi sovente addirittura tra cattolici e presidenza della Cei. E questo non dipende in primo luogo da una sbrigativa semplificazione da parte dei mass media, ma da un progressivo dilatarsi della forbice tra la sovraesposizione dei vertici ecclesiastici e l’afasia dell’opinione pubblica nella chiesa. È l’immagine che la chiesa dà di se stessa che in un certo senso autorizza l’osservatore esterno a identificarla con le figure più rappresentative del suo episcopato. Non si tratta quindi di un deplorevole malcostume giornalistico, quanto piuttosto di un serio campanello d’allarme sullo stato di salute della chiesa italiana e sul suo impatto nella società civile.
L’impressione più diffusa all’esterno, ma soprattutto all’interno della chiesa, è quella sinteticamente evidenziata dal titolo di un breve saggio a due voci: Manca il respiro (Ancora, pp. 144, 13,00). Gli autori – Saverio Xeres, presbitero e docente di storia della chiesa presso la facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, e Giorgio Campanini, laico e già professore di Storia delle dottrine  politiche, oltre che di teologia del laicato – danno voce a un disagio sempre più diffuso tra i cattolici italiani, alla sofferenza di tanti credenti che amano e hanno a cuore la propria chiesa e la vorrebbero in costante riforma per presentarsi al suo Signore «senza macchia né ruga» (Ef 5,27).
Xeres analizza in modo sintetico ma esauriente «La Chiesa italiana nel passaggio culturale degli ultimi decenni», esaminando in particolare l’articolazione tra postconcilio e postmoderno, mentre Campanini guida il lettore «Alla riscoperta della categoria conciliare di “popolo di Dio”».
L’immagine che emerge da questo doppio, appassionato sguardo non è delle più incoraggianti: sempre più fedeli assistono scoraggiati e impotenti a un progressivo depotenziamento dei documenti conciliari, specie di quelli portatori di un nuovo soffio vitale nella chiesa. Sembra quasi che le decisioni collegiali assunte dai padri conciliari che, non si dimentichi, costituiscono la più alta espressione del magistero ecclesiale – siano equiparati ai molteplici pronunciamenti di singole conferenze episcopali e di uffici nazionali che finiscono per esprimere una sempre più accentuata autoreferenzialità della chiesa. Così si arriva ad «assimilare le grandi prospettive conciliari alle
patetiche velleità postconciliari».
Il criterio di lettura della situazione della «Chiesa nel mondo contemporaneo», offerta dal Vaticano II e consistente nel «vedere-giudicare-agire», sembra ormai aver lasciato il posto a una prelettura di eventi e circostanze che viene poi calata dall’alto nelle singole realtà regionali o diocesane.
Anche il laicato, quando è preso in considerazione, viene pensato come un sostituto di un clero in costante diminuzione e non come una diaconia con un ruolo specifico nel mondo. Così assistiamo a interventi di organismi episcopali che si sostituiscono ai laici nel leggere la situazione sociale proprio mentre prestano sempre meno ascolto alla voce dei laici stessi: questa è l’analisi dei due autori, che tuttavia non si ferma all’amara costatazione di «un diffuso senso di frustrazione all’interno stesso della chiesa», ma aprono con fiducia a una nuova stagione di presenza cristiana nella società: «Sono questi tempi di marginalità per la chiesa i più preziosi: la bellezza del Vangelo infatti appare limpidamente quando esso non ha altro sostegno se non la propria, intrinseca fecondità». Sì, anche quando «manca il respiro», lo Spirito non cessa di soffiare.

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 16 aprile 2011

 

Vivere con la complessità

 

 

NORMAN DONALD A.,  Vivere la complessità, Pearson 2011, ISBN: 9788871926469, pp. 266, Euro 16,00

titolo originale: Living with complexity, Traduzione di Virginio B. Sala

 

Recensione del testo

La complessità è nel mondo e si riflette anche nelle nostre tecnologie. Ma i prodotti che ne derivano non devono essere fonte di confusione, perché allora si tratta di “complicazione” inutile, non di complessità. Tuttavia, anche il sistema meglio progettato richiede uno sforzo – nostro – di apprendimento, per dominare la struttura e i modelli concettuali. La comprensione rende i sistemi complessi semplici e dotati di significato. Donald Norman torna a farci riflettere sulle sfide della tecnologia e del design a partire da casi comprensibilissimi (quando non addirittura divertenti), ma illuminanti e rivelatori.

La biografia di Norman Donald A.

 

PRESENTAZIONE

Vivere con la complessità, di Donald A. Norman

La semplicità è uno stato mentale, fortemente legato alla comprensione. Una cosa viene percepita come semplice quando le sue azioni, le sue opzioni e il suo aspetto corrispondono al modello concettuale della persona.

La caffettiera del masochista, titolo del libro più celebre di Norman, è diventata negli anni un’immagine proverbiale: una cuccuma con il beccuccio rivolto dalla stessa parte dell’impugnatura, cosi che l’avido consumatore di caffè abbia le braccia ustionate ogni volta che cerca di riempirsi la tazzina.
Donald Norman è un designer che da anni scava negli angoli ciechi del design e dei codici di comunicazione propri della nostra era, caratterizzata senz’altro dalla complessità.
E proprio alla complessità, alle forme che assume nella vita di tutti i giorni, è dedicata questa sua ultima fatica, un libro che sin dal titolo cerca di fare chiarezza sul compito che ci attende, volenti o nolenti.
Non c’è modo di sottrarsi, infatti, a una certa dose di complessità nella vita di tutti i giorni: a casa, per l’utilizzo di elettrodomestici e la gestione di sistemi complessi; al lavoro, per la quantità di operazioni complesse e coordinate che dobbiamo sapere padroneggiare e mettere in atto continuamente; nel tempo libero e in ogni occasione in cui usciamo di casa per interagire con un mondo che alla complessità affida la propria efficienza.
Di più: la propria sopravvivenza.
Innanzitutto, naturalmente, occorre definire con precisione cos’è la complessità in sé.
Nelle prime pagine del suo saggio appassionante, Norman usa la scrivania di Al Gore, già vicepresidente degli Stati Uniti e Premio Nobel, come esempio adatto a tracciare un distinguo fra complicazione e complessità.
In mezzo a pile e pile di carta, tre monitor perennemente accesi e una apparentemente incontrollabile entropia, spiega il designer, sembrerebbe impossibile orientarsi rapidamente e trovare ciò di cui si ha bisogno.
Ma la questione è posta in modo sbagliato, ci viene spiegato, perché dietro quel modello complesso c’è una logica ferrea, per quanto questa sia conosciuta solo da chi su quella scrivania dovrà lavorare.
Come sa bene chiunque lavori in mezzo ad un ordine che è stato lui stesso a disporre e organizzare, anche secondo criteri che al resto del mondo risultano irrazionali, il disordine in cui viviamo e lavoriamo sarà tale solo se qualcun altro vi metterà mano.
Quindi il distinguo è fra “complessità” e “complicazione”: una complessità supportata da un modello concettuale appropriato – cioè dalla conoscenza della logica che sottende a quel sistema di relazioni fra cose – sarà una complessità “buona”.
L’esempio della scrivania è comprensibile a chiunque, ma Norman ha un fiuto particolare per riuscire a spiegare le sue teorie con l’ausilio di esempi sempre nuovi, stimolanti e accessibili.
Così potrà accadere, mentre leggiamo questo libro, di riconoscere aspetti della propria quotidianità nella descrizione fatta di tutti i preparativi necessari ad approntare una cena per gli amici, tipico esempio di raggruppamento di operazioni semplici in insiemi complessi per il conseguimento di un fine sociale.
Il “carico cognitivo” cui ci sottopongono tutte le interruzioni che occorrono mentre – ad esempio – affettiamo le verdure in vista della preparazione di un piatto, è oggetto degli studi di questo brillantissimo designer, che ha offerto le sue competenze a molte aziende informatiche (su tutte, Apple, del cui reparto Tecnologie avanzate Norman è stato vicepresidente per lungo tempo) e di telecomunicazioni.
Norman osserva le strutture semantiche del mondo in cui vive con un’attenzione continua e affilata: ogni evento è degno di essere preso in considerazione e affrontato, dalla semplice gestione delle attese (la coda) in una filiale bancaria, ai messaggi che i software ci danno a proposito delle operazioni che stanno compiendo.
C’è molto da imparare, e come ogni buon docente, Norman sa tenere viva la nostra attenzione, mostrandoci come si possa cercare di decifrare questo intricato mondo, e migliorarne la qualità, ad ogni passo: partendo dalla segnaletica stradale o concentrandosi sugli interruttori posti su di un quadro elettrico; interagendo con una macchina del caffè o osservando con attenzione l’interruttore che spegnerà (o accenderà) la luce in camera nostra. È illuminante.


 

 

UNA INTERESSANTE LEZIONE SULL’APPRENDIMENTO

 

L’INTERVISTA

 

«Lo predissi oltre dieci anni fa. E avevo ragione: i computer stanno diventando invisibili». Donald A. Norman, ingegnere e psicologo, studioso di Scienze cognitive, tra i nomi più illustri nel campo del design, aggiorna la tesi enunciata nel 1998 nel suo The Invisible Computer (Apogeo). Lo anticipa al «Corriere» in occasione dell’uscita in Italia del nuovo libro, Vivere con la complessità (Pearson) e della partecipazione, questa sera, al ciclo di incontri Meet the media guru a Milano (ore 19, Mediateca Santa Teresa).

La copertina di «Vivere con la complessità» (Pearson)
La copertina di «Vivere con la complessità» (Pearson)

Il computer però è ancora molto diffuso…
«Non dappertutto: in Cina e Giappone, ad esempio, si usano già oggi più smartphone che pc. Le funzioni del computer verranno sempre più inglobate dentro altri dispositivi, come le cosiddette “tavolette”. Userà il pc in senso classico solo chi, come gli scrittori o gli ingegneri, non potrà fare a meno dello schermo e della tastiera. Per tutti gli altri, non sarà più così necessario».

Anche i libri e i giornali saranno letti sui supporti elettronici?
«Il futuro è digitale. Io uso il Kindle, dove posso raccogliere tantissimi saggi e romanzi dentro un unico strumento. Anche il giornale non ha più bisogno di essere stampato: scaricando un’applicazione su un dispositivo elettronico si hanno le notizie del giorno e delle settimane precedenti, con più foto, filmati e mappe interattive».

Fin da «La caffettiera del masochista» (1988, edito in Italia da Giunti), si è battuto contro le tecnologie troppo elaborate che non consentono la facilità d’uso. In «Vivere con la complessità» sostiene che quest’ultima è inevitabile. Ha cambiato idea?
«Il mio messaggio è solo diventato più sofisticato. Ho capito che la complessità è necessaria in un mondo sempre più articolato e interconnesso. Per questo agli utenti non bisogna offrire semplicità ma comprensibilità: oggetti, cioè, con molte funzioni ma intellegibili già dopo la prima lettura delle istruzioni. A questo scopo, designer e ingegneri devono praticare l’empatia e studiare le scienze sociali. I singoli individui devono applicarsi nell’apprendimento, come fecero in passato con il telefono o la televisione».

È stato vicepresidente del settore Tecnologie avanzate alla Apple. Nel suo libro racconta il passaggio dell’azienda dal mouse a un tasto a quello a due tasti: è stata una buona scelta?
«Suggerii la soluzione a più tasti già negli anni 90. Il mouse con un pulsante infatti era una proposta corretta negli anni 80, per favorire la facilità d’uso. Una volta che gli utenti avevano capito il funzionamento del nuovo strumento, però, non serviva aspettare il 2005 per il design a più tasti».

Da sempre sostiene le nuove iniziative imprenditoriali. Si può rischiare nell’attuale situazione economica?
«Dipende dai luoghi. Sì negli Stati Uniti, dove anche un fallimento è giudicato positivamente, perché segue un’idea e un tentativo. No in Italia: i vostri migliori designer sono costretti ad andare all’estero; i vostri prodotti sono belli ma non sempre funzionali».

L’emergenza nucleare in Giappone, le rivolte in Nord Africa e la guerra in Libia. Quali saranno le conseguenze, dal punto di vista cognitivo e tecnologico, nel mondo interconnesso?
«La catastrofe di Fukushima comprometterà per qualche tempo la fiducia degli individui nelle macchine, ma il genere umano è abbastanza arrogante per superare lo choc. Ciò che tutti questi eventi dovrebbero infondere, invece, è l’umiltà: la natura trionfa sulla tecnologia; le esigenze politiche e culturali possono vincere sulla logica e la razionalità».

Alessia Rastelli
arastelli@corriere.it

LE ULTIME PUBBLICAZIONI

 

2011

Norman Donald A.
Vivere con la complessità
Pearson, € 16,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 15,20
2009

Norman Donald A.
La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani
Giunti Editore, € 14,50

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 10,88
2008

Norman Donald A.
Il design del futuro
Apogeo, € 15,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 13,65
2005

Norman Donald A.
Il computer invisibile. La tecnologia migliore è quella che non si vede
Apogeo, € 18,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 14,40
2004

Norman Donald A.
Emotional design. Perchè amiamo (o odiamo) gli oggetti di tutti i giorni
Apogeo, € 18,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 16,38
1995

Norman Donald A.
Lo sguardo delle macchine
Giunti Editore, € 14,50

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 13,20

 

Giovanni Paolo II. La biografia

Andrea Riccardi, Giovanni Paolo II : La biografia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2011, ISBN-13: 978-8821568893, € 24,00


La biografia più documentata su Giovanni Paolo II. Un viaggio attraverso le vicende che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, per comprendere appieno la carismatica figura del Pontefice.

Giovanni Paolo II, protagonista per più di un quarto di secolo sulla scena mondiale, è stato definito il papa slavo, colui che ha dato il colpo di grazia all’Unione Sovietica e al suo impero, l’uomo del secolo.

Più semplicemente, egli riteneva di aver ricevuto il compito di introdurre la Chiesa nel nuovo millennio. Questo era il senso del suo viaggio condotto, secondo la sua convinzione, dal filo invisibile della Provvidenza. Questa guida nascosta l’aveva sottratto alla guerra e alle deportazioni di cui erano caduti vittima tanti suoi compagni; l’aveva chiamato alla vita sacerdotale; l’aveva scelto come vescovo e come papa. Ancora nel 1981 questo scudo di grazia l’aveva protetto in occasione dell’attentato in piazza San Pietro. Una volta ristabilito, Giovanni Paolo II ampliò ulteriormente il suo raggio d’azione. Al servizio della Chiesa cattolica, egli si impegnò a favorire l’unione tra i cristiani, l’amicizia con l’ebraismo, il dialogo tra le religioni, la pace nel mondo. Al termine della sua vita, consumato dalla dedizione, commosse il mondo con la sua sofferenza.

L’opera di Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio che conobbe e collaborò a lungo con il papa polacco, è la prima vera biografia scritta su base scientifica e testimoniale di un papa che ancora vive nel ricordo di credenti e non credenti.

 

Andrea Riccardi

è ordinario di Storia contemporanea presso la Terza Università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Presso le Edizioni San Paolo ha pubblicato: Le politiche della Chiesa (1997); Vescovi d’Italia. Storie e profili del Novecento (2000), Dio non ha paura. La forza del Vangelo in un mondo che cambia (2003), La pace preventiva. Speranze e ragioni in un mondo di conflitti (2004) e ha curato Il sogno di un tempo nuovo. Lettere di Giorgio La Pira a Giovanni XXIII (2009).

 

 

UN COMMENTO

 

Giovanni Paolo II. Il fascino di quel papa che dava del tu alla storia
di Agostino Giovagnoli
in “la Repubblica” del 21 marzo 2011

Allo “shock” Wojtyla – la grande sorpresa per la sua elezione – sono seguiti ventisette anni in cui egli è stato al centro della scena mondiale, portando la Chiesa nel cuore della storia. Eppure, Wojtyla resta ancora “un personaggio da scoprire”, come scrive Andrea Riccardi in un importante volume appena pubblicato e da cui difficilmente potranno prescindere, in futuro, altre ricostruzioni di questo pontificato (Giovanni Paolo II. La biografia, San Paolo, 561 pp., 24 euro). «Non si scrive per fare un monumento» – egli spiega aprendo un libro ricco di documenti inediti e di tante voci di protagonisti – «bensì per comprendere». Anche se il 1° maggio Karol Wojtyla sarà solennemente beatificato, infatti, resta ancora qualcosa del disorientamento degli inizi. Allora egli era sconosciuto ai più – molti pensarono che fosse un africano – e nulla faceva presagire che ai suoi funerali avrebbero partecipato i potenti della terra. Ma si è poi conquistato, passo dopo passo, rispetto e fama.
Giovanni Paolo II ha affascinato e sconcertato. Non è stato un personaggio oscuro e misterioso, sono note la sua carica umana e la cordialità del suo tratto. Ma, spiega Riccardi, aveva una visione originale della storia ed ha tracciato una nuova geografia spirituale del mondo, dalla Polonia all’Italia, dall’America latina all’Africa. Sorprese molti affermando che la dittatura di Pinochet in Cile sarebbe finita senza bisogno di ricorrere alla violenza. E, fino al 1989, anche la sua convinzione che il blocco sovietico non fosse eterno è stata condivisa da pochi. Ma sarebbe
sbagliato leggere queste posizioni con le chiavi del pensiero politico occidentale, come dimostra efficacemente questo libro. La biografia dell’americano George Weigel pubblicata nel 1999 ha insistito sull’alleanza politica tra Reagan e Wojtyla contro l'”impero del male” identificato con i regimi comunisti. Ma a Gorbaciov – la ricostruzione dell’incontro tra i due nel 1989 è una delle tante novità di questo volume – il papa disse che non si dovevano  applicare al mondo orientale modelli occidentali. Karol Wojtyla ha sempre portato con sé la storia e la cultura di una terra di confine tra Oriente ed Occidente, oltre ad una straordinaria esperienza personale del Ventesimo secolo, compresi la guerra, il nazismo e il comunismo. Non è stato solo il primo papa non italiano dopo quattrocento anni, è stato anche il primo pontefice, da dodici secoli, che non sia venuto da un paese dell’Europa occidentale. Riccardi sottolinea che egli non credeva al mito della rivoluzione, intorno a cui ha ruotato il pensiero politico occidentale per due secoli, e nota che non sostenne con l’intensità di Paolo VI l’esperienza dei partiti democratico-cristiani, tanto rilevante in Italia, in Germania e altrove. Per Giovanni Paolo II, la caduta del muro di Berlino non ha rappresentato il trionfo dell’Occidente e la fine della storia. E dopo il 1989 egli si è proiettato con ancora maggiore fiducia nel mare aperto delle vicende mondiali, inserendo sempre di più la Chiesa nella globalizzazione. Ha sviluppato, tra l’altro, l’intuizione dell’incontro di Assisi nel 1986, quando convocò leader religiosi di tutto il mondo invitandoli a pregare per la pace, e, pur non avendo avuto in precedenza esperienze dirette con l’Islam, ha saputo aprire la via del dialogo con i musulmani.
Nel contesto post-conciliare in cui Giovanni Paolo II è stato eletto, era usuale classificare gli uomini di Chiesa in conservatori e progressisti. Ma i giornalisti notarono che il nuovo papa sfuggiva a queste categorie. Il volume documenta numerose divergenze di vedute tra il papa e il suo principale collaboratore, il card. Casaroli, considerato un progressista perché protagonista della Ostpolitik vaticana. Ma Wojtyla lo volle ugualmente come suo Segretario di Stato per oltre dieci anni: lo scelse perché ne conosceva la fedeltà e la lealtà. Questo papa, nota Riccardi, non si è circondato di persone con visioni affini alle sue (come fece Paolo VI con i “montiniani”). È convinzione di molti
che Wojtyla “non abbia governato” la Chiesa, ma è vero piuttosto che ha accettato di vivere senza protezioni, per così dire, la «dialettica di sempre tra l’uomo e l’istituzione, tra il sentire personale e il lavoro di un’amministrazione», come spiega qui Benedetto XVI in una testimonianza ad hoc. Per quanto riguarda l’Italia, si pensa che egli abbia delegato molte scelte al card. Ruini, ma anche in questo caso ha seguito la sua visione personale: Ruini, ha detto lo stesso Giovanni Paolo II all’autore, è stato l’interprete della linea del papa per l’Italia.
Pagina dopo pagina, vicenda dopo vicenda, il ritratto di Wojtyla diventa sempre più nitido. Riccardi ha trovato la cifra interiore di questo papa nella sua poesia, un aspetto spesso trascurato. Attraverso la poesia, infatti, egli meditava sulla fede e sulla storia, nella sua poesia si fondono il “mistico” e il “politico”, l’uomo di preghiera e colui che crede «nella forza delle energie religiose e spirituali della sua Chiesa e dell’umanità». Il Giovanni Paolo II raccontato da Andrea Riccardi dà del tu alla storia perché dà del tu a Dio. Gli eventi mondiali degli anni Ottanta e Novanta hanno dato ragione alla sua speranza in una «forza disarmata delle convinzioni, più forte dei poteri costituiti e oppressivi».
Vedremo se accadrà di nuovo con la primavera araba emersa nelle ultime settimane .

Gesù di Nazareth

 

LA RECENSIONE

Nonostante sia assai denso, questo libro si legge per intero senza interruzioni. Percorrendone i nove capitoli e le prospettive finali, il lettore è trasportato per sentieri scoscesi verso l’avvincente incontro con Gesù, una figura familiare che si rivela ancor più vicina nella sua umanità come nella sua divinità. Completata la lettura, si vorrebbe proseguire il dialogo, non soltanto con l’autore ma con Colui del quale egli parla. Gesù di Nazaret è più di un libro, è una testimonianza commovente, affascinante, liberatrice. Quanto interesse susciterà tra gli esperti e tra i fedeli!
Oltre l’interesse d’un libro su Gesù, è il libro del Papa che si presenta in umiltà al foro degli esegeti, per confrontarsi con loro sui metodi e sui risultati delle loro ricerche. Lo scopo del Santo Padre è quello di andare con loro più lontano, in stretto rigore scientifico, certo, ma anche nella fede nello Spirito Santo che scandaglia le profondità di Dio nella Sacra Scrittura. In questo foro, gli scambi fecondi predominano di molto sugli accenti critici, e ciò contribuisce a far meglio conoscere e riconoscere l’essenziale contributo degli esegeti.


Non c’è forse da trarre grande speranza da questo riavvicinamento tra l’esegesi rigorosa dei testi biblici e l’interpretazione teologica della Sacra Scrittura? Io non posso fare a meno di scorgere in questo libro l’aurora d’una nuova era dell’esegesi, una promettente era di esegesi teologica.
Il Papa dialoga in primo luogo con l’esegesi tedesca ma non ignora importanti autori che appartengono alle aree linguistiche francofona, anglofona e latina. Eccelle nell’individuare le questioni essenziali e i nodi decisivi, costringendosi a evitare le discussioni sui dettagli e le dispute di scuola che pregiudicherebbero il suo proposito, che è quello di “trovare il Gesù reale”, non il “Gesù storico” proprio del filone dominante dell’esegesi critica, ma il “Gesù dei Vangeli” ascoltato in comunione con i discepoli di Gesù d’ogni tempo, e così “giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù”.
Questa formulazione del suo obiettivo manifesta l’interesse metodologico del libro. Il Papa affronta in modo pratico ed esemplare il complemento teologico auspicato dall’Esortazione Apostolica Verbum Domini per lo sviluppo dell’esegesi. Nulla stimola di più dell’esempio dato e dei risultati ottenuti. Gesù di Nazaret offre una magnifica base per un fruttuoso dialogo non solo tra esegeti, ma anche tra pastori, teologi ed esegeti! Prima di illustrare con alcuni esempi i risultati di questa esegesi di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, aggiungo ancora un’osservazione sul metodo. L’autore si sforza di applicare in maggior profondità i tre criteri d’interpretazione formulati al concilio Vaticano II dalla Costituzione sulla Divina Rivelazione Dei Verbum: tener conto dell’unità della Sacra Scrittura, del complesso della Tradizione della Chiesa e rispettare l’analogia della fede. Come buon pedagogo che ci ha abituati alle sue omelie mistagogiche, degne di san Leone Magno, Benedetto XVI, a partire dalla figura – quanto centrale ed unica – di Gesù, mostra la pienezza di senso che promana dalla Sacra Scrittura “interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta” (Dei Verbum, 12).
Anche se l’autore si preclude d’offrire un insegnamento ufficiale della Chiesa, è facile immaginare che la sua autorità scientifica e la ripresa in profondità di certe questioni disputate saranno di grande aiuto per confermare la fede di molti. Serviranno inoltre a far progredire dei dibattiti rimasti insabbiati a motivo dei pregiudizi razionalisti e positivisti che hanno intaccato il prestigio dell’esegesi moderna e contemporanea. Tra la comparsa del primo volume nell’aprile 2007 e quella del secondo in questa Quaresima 2011, un gran numero di eventi felici ma anche di penose esperienze ha segnato la vita della Chiesa e del mondo. Ci si chiede come il Papa sia riuscito a scrivere quest’opera molto personale e molto impegnativa, di cui l’attualità del tema e l’audacia del progetto balzano agli occhi di chiunque s’interessi al cristianesimo. Come teologo e come pastore, ho la sensazione di vivere un momento storico di grande portata teologica e pastorale. È come se in mezzo alle onde che agitano la barca della Chiesa, Pietro avesse ancora una volta afferrato la mano del Signore che ci viene incontro sulle acque, per salvarci (cfr. Matteo, 14, 22-33).
Detto ciò che riguarda il carattere storico, teologico e pastorale dell’evento, veniamo al contenuto del libro che vorrei riassumere assai a grandi linee attorno ad alcune questioni cruciali. Innanzitutto la questione del fondamento storico del cristianesimo che attraversa i due volumi dell’opera; poi la questione del messianismo di Gesù, seguita da quella dell’espiazione dei peccati da parte del Redentore, che costituisce un problema per molti teologi; allo stesso modo la questione del sacerdozio di Cristo in rapporto alla sua Regalità e al suo Sacrificio che tanta importanza rivestono per la concezione cattolica del sacerdozio e della Santa Eucaristia; da ultimo la questione della risurrezione di Gesù, il suo rapporto alla corporeità ed il suo legame con la fondazione della Chiesa.
Non occorre dire che l’elenco non è esaustivo e molti troveranno altre questioni più interessanti, a esempio il suo commento del discorso escatologico di Gesù o ancora della preghiera sacerdotale in Giovanni, 17. Io identifico le questioni qui esposte come nodi da sciogliere in esegesi come in teologia, allo scopo di ricondurre la fede dei fedeli alla Parola stessa di Dio, compresa in tutta la sua forza e la sua coerenza, nonostante i condizionamenti teologici e culturali che a volte impediscono l’accesso al senso profondo della Scrittura.
La questione del fondamento storico del cristianesimo impegna Joseph Ratzinger fin dagli anni della sua formazione e del suo primo insegnamento, come appare dal suo volume Introduzione al cristianesimo (Einführung in das Christentum), pubblicato oltre quarant’anni or sono, e che ebbe all’epoca un notevole impatto sugli uditori e i lettori. Dal momento che il cristianesimo è la religione del Verbo incarnato nella storia, per la Chiesa è indispensabile stare ai fatti e agli avvenimenti reali, proprio in quanto essi contengono dei “misteri” che la teologia deve approfondire utilizzando chiavi d’interpretazione che appartengono al dominio della fede.
In questo secondo volume che tratta degli avvenimenti centrali della passione, della morte e della risurrezione di Cristo, l’autore confessa che il compito è particolarmente delicato. La sua esegesi interpreta i fatti reali in maniera analoga al trattato su “i misteri della vita di Gesù” di san Tommaso d’Aquino, “guidato dall’ermeneutica della fede, ma tenendo conto nello stesso tempo e responsabilmente della ragione storica, necessariamente contenuta in questa stessa fede” (9).
Sotto questa luce, si comprende l’interesse del Papa per l’esegesi storico-critica ch’egli ben conosce e da cui trae il meglio per approfondire gli avvenimenti dell’Ultima Cena, il significato della preghiera del Getsemani, la cronologia della passione e in particolare le tracce storiche della risurrezione.
Non manca di porre in evidenza di passaggio il difetto d’apertura di un’esegesi esercitata in modo troppo esclusivo secondo la “ragione”, ma il suo principale intendimento rimane quello di far luce teologicamente sui fatti del Nuovo Testamento con l’aiuto dell’Antico Testamento e viceversa, in modo analogo ma più rigoroso rispetto all’interpretazione tipologica dei Padri della Chiesa. Il legame del cristianesimo con l’ebraismo appare rafforzato da questa esegesi che si radica nella storia di Israele ripresa nel suo orientamento verso il Cristo. Ecco allora, per esempio, che la preghiera sacerdotale di Gesù, che sembra per eccellenza una meditazione teologica, acquisisce in lui una dimensione del tutto nuova grazie alla sua interpretazione illuminata dalla tradizione ebraica dello Yom Kippur.
Un secondo nodo riguarda il messianismo di Gesù. Certi esegeti moderni hanno fatto di Gesù un rivoluzionario, un maestro di morale, un profeta escatologico, un rabbi idealista, un folle di Dio, un messia in qualche modo a immagine del suo interprete influenzato dalle ideologie dominanti.
L’esposizione di Benedetto XVI su questo punto è diffusa e ben radicata nella tradizione ebraica. Egli s’inserisce nella continuità di questa tradizione che unisce il religioso e il politico, ma sottolineando a qual punto Gesù operi la rottura tra i due domini. Gesù dichiara davanti al Sinedrio d’essere il Messia, ma non senza chiarire la natura esclusivamente religiosa del proprio messianismo. È d’altra parte per questo motivo che è condannato come blasfemo, poiché si è identificato con “il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo”. Il Papa espone con forza e chiarezza le dimensioni regale e sacerdotale di questo messianismo, il cui senso è quello d’instaurare il culto nuovo, l’adorazione in Spirito e in Verità, che coinvolge l’intera esistenza, personale e comunitaria, come un’offerta d’amore per la glorificazione di Dio nella carne. Un terzo nodo da sciogliere riguarda il senso della redenzione e il posto che vi deve o meno occupare l’espiazione dei peccati. Il Papa affronta le obiezioni moderne a questa dottrina tradizionale. Un Dio che esige una espiazione infinita non è forse un Dio crudele la cui immagine è incompatibile con la nostra concezione d’un Dio misericordioso? Come conciliare le nostre moderne mentalità sensibili all’autonomia delle persone con l’idea di un’espiazione vicaria da parte di Cristo? Questi nodi sono particolarmente difficili da sciogliere.
L’autore riprende queste domande più volte, a diversi livelli, e mostra come la misericordia e la giustizia vadano di pari passo nel quadro dell’Alleanza voluta da Dio. Un Dio che perdonasse tutto senza preoccuparsi della risposta che deve dare la sua creatura avrebbe preso sul serio l’Alleanza e soprattutto l’orribile male che avvelena la storia del mondo? Quando si guardano da vicino i testi del Nuovo Testamento, domanda l’autore, non è Dio a prendere su se stesso, nel suo Figlio crocifisso, l’esigenza d’una riparazione e d’una risposta d’amore autentico? “Dio stesso “beve il calice” di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore che, attraverso la sofferenza, trasforma il buio” (258-259).
Tali questioni sono poste e risolte in un senso che invita alla riflessione e in primo luogo alla conversione. Non si può infatti veder chiaro in tali questioni ultime rimanendo neutrali o a distanza. Occorre investirvi la propria libertà per scoprire il senso profondo dell’Alleanza che giustamente impegna la libertà d’ogni persona. La conclusione del Santo Padre è perentoria: “Il mistero dell’espiazione non dev’essere sacrificato a nessun razionalismo saccente” (267).
Un quarto nodo concerne il Sacerdozio di Cristo. Secondo le categorie ecclesiali del giorno d’oggi, Gesù era un laico investito d’una vocazione profetica. Non apparteneva all’aristocrazia sacerdotale del Tempio e viveva al margine di questa fondamentale istituzione del popolo d’Israele. Questo fatto ha indotto molti interpreti a considerare la figura di Gesù come del tutto estranea e senza alcun rapporto con il sacerdozio. Benedetto XVI corregge quest’interpretazione appoggiandosi saldamente sull’Epistola agli Ebrei che parla diffusamente del Sacerdozio di Cristo, e la cui dottrina ben si armonizza con la teologia di san Giovanni e di san Paolo. Il Papa risponde ampiamente alle obiezioni storiche e critiche mostrando la coerenza del sacerdozio nuovo di Gesù con il culto nuovo ch’egli è venuto a stabilire sulla terra in obbedienza alla volontà del Padre. Il commento della preghiera sacerdotale di Gesù è d’una grande profondità e conduce il lettore a pascoli che non aveva immaginato.
L’istituzione dell’Eucaristia appare in questo contesto d’una bellezza luminosa che si ripercuote sulla vita della Chiesa come suo fondamento e sua sorgente perenne di pace e di gioia. L’autore si attiene strettamente alle più approfondite analisi storiche ma dipana egli stesso delle aporie come solo un’esegesi teologica può farlo. Si giunge al termine del capitolo sull’Ultima Cena non senza emozione e restandone ammirati. Un ultimo nodo da me considerato riguarda infine la risurrezione, la sua dimensione storica ed escatologica, il suo rapporto alla corporeità e alla Chiesa. Il Santo Padre comincia senza giri di parole: “La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti” (269).
Il Papa insorge contro le elucubrazioni esegetiche che dichiarano compatibili l’annuncio della risurrezione di Cristo e la permanenza del suo cadavere nel sepolcro. Egli esclude queste assurde teorie osservando che il sepolcro vuoto, anche se non è una prova della risurrezione, di cui nessuno è stato diretto testimone, resta un segno, un presupposto, una traccia lasciata nella storia da un evento trascendente. “Solo un avvenimento reale d’una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l’annuncio apostolico, che non è spiegabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche” (305).
Secondo lui, la risurrezione di Gesù introduce una sorta di “mutazione decisiva”, un “salto di qualità” che inaugura “una nuova possibilità d’essere uomo”. La paradossale esperienza delle apparizioni rivela che in questa nuova dimensione dell’essere “egli non è legato alle leggi della corporeità, alle leggi dello spazio e del tempo”. Gesù vive in pienezza, in un nuovo rapporto con la corporeità reale, ma è libero nei confronti dei vincoli corporei quali noi li conosciamo.
L’importanza storica della risurrezione si manifesta nella testimonianza delle prime comunità che hanno dato vita alla tradizione della domenica come segno identificativo d’appartenenza al Signore. “Per me – dice il Santo Padre – la celebrazione del Giorno del Signore, che fin dall’inizio distingue la comunità cristiana, è una delle prove più forti del fatto che in quel giorno è successa una cosa straordinaria, la scoperta del sepolcro vuoto e l’incontro con il Signore risorto” (288).
Nel capitolo sull’Ultima Cena, il Papa affermava: “Con l’Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita”. Qui aggiunge un’osservazione di grande portata teologica e pastorale: “Il racconto della risurrezione diviene per se stesso ecclesiologia: l’incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente la sua forma” (289). Ogni volta che noi partecipiamo all’Eucaristia domenicale andiamo all’incontro con il Risorto che torna verso di noi, nella speranza che noi rendiamo così testimonianza ch’Egli è vivente e ch’Egli ci fa vivere. Non c’è in tutto questo di che rifondare il senso della messa domenicale e della missione? Dopo aver citato questi nodi senza che mi sia possibile estendermi in modo adeguato sulla loro soluzione, mi preme concludere questa sommaria presentazione facendo un poco più spazio al significato di questa grande opera su Gesù di Nazaret.
È evidente come mediante quest’opera il successore di Pietro si dedichi al suo ministero specifico che è di confermare i suoi fratelli nella fede. Ciò che qui colpisce in sommo grado, è il modo con cui lo fa, in dialogo con gli esperti in campo esegetico, e in vista di alimentare e fortificare la relazione personale dei discepoli con il loro Maestro e Amico, oggi.
Una tal esegesi, teologica quanto al metodo, ma che include la dimensione storica, si riallaccia effettivamente al modo di interpretare dei Padri della Chiesa, senza tuttavia che l’interpretazione s’allontani dal senso letterale e dalla storia concreta per evadere in artificiose allegorie.
Grazie all’esempio che dà e ai risultati che ottiene, questo libro eserciterà una mediazione tra l’esegesi contemporanea e l’esegesi patristica, da un lato, come anche nel necessario dialogo tra esegeti, teologi e pastori, da un altro. In quest’opera vedo un grande invito al dialogo su ciò che è essenziale del cristianesimo, in un mondo in cerca di punti di riferimento, in cui le differenti tradizioni religiose faticano a trasmettere alle nuove generazioni l’eredità della saggezza religiosa dell’umanità.
Dialogo dunque all’interno della Chiesa, dialogo con le altre confessioni cristiane, dialogo con gli Ebrei il cui coinvolgimento storico in quanto popolo nella condanna a morte di Gesù viene una volta di più escluso. Dialogo infine con altre tradizioni religiose sul senso di Dio e dell’uomo che emana dalla figura di Gesù, così propizia alla pace e all’unità del genere umano.
Al termine d’una prima lettura, avendo maggiormente gustato la Verità di cui con umiltà e passione è testimone l’autore, sento il bisogno di dar seguito a questo incontro di Gesù di Nazaret sia con l’invitare altri a leggerlo che riprendendone la lettura una seconda volta come meditazione del tempo liturgico di Quaresima e di Pasqua. Credo che la Chiesa debba rendere grazie a Dio per questo libro storico, per quest’opera cerniera tra due epoche, che inaugura una nuova era dell’esegesi teologica. Questo libro avrà un effetto liberatorio per stimolare l’amore della Sacra Scrittura, per incoraggiare la lectio divina e per aiutare i preti a predicare la Parola di Dio.
Alla fine di questo rapido volo su un’opera che avvicina il lettore al vero volto di Dio in Gesù Cristo, non mi rimane che dire: Grazie, Santo Padre! Consentitemi tuttavia di aggiungere ancora un’ultima parola, una domanda, poiché un simile servizio reso alla Chiesa e al mondo nelle circostanze che si conoscono e con i condizionamenti che si possono intuire, merita più d’una parola o d’un gesto di gratitudine. Il Santo Padre tiene la mano di Gesù sulle onde burrascose e ci tende l’altra mano perché insieme noi non facciano che uno con Lui. Chi afferrerà questa mano tesa che ci trasmette le parole della Vita eterna?

di M Aarc Ouellet

L’osservatore Romano 11  03 2011

 


  • RASSEGNA STAMPA
“il pontefice analizza, dal punto di vista storico, teologico ed esegetico, gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo culminati con la Resurrezione… Tema centrale, la lettura della Passione nella quale Ratzinger rilancia lo storico documento conciliare Nostra Aetate con cui 46 anni fa la Chiesa cattolica cancellò l’infamante accusa di deicidi contro «tutto il popolo ebraico»”
“Al caso giudiziario del processo di Gerusalemme, al rapporto tra la verità e il potere (politico e religioso) è dedicato uno dei capitoli più penetranti del nuovo libro del Papa dedicato a Gesù di Nazaret… Un libro che contiene importanti novità in particolare perché sottolinea «il legame del cristianesimo con l’ebraismo»… Ma che apre al dialogo con le altre confessioni cristiane in particolare protestanti e con le altre religioni”
“particolare rilevanza la parte dedicata alla risurrezione, dove il papa dice senza mezzi termini che se la si elimina dalla storia di Gesù il cristianesimo può restare un insieme di buone idee sull’uomo e sul suo essere, ma la fede cristiana «è morta». (ndr.: davvero la resurrezione è un fatto storico, accertabile con gli strumenti della ricerca storica? Davvero la tomba vuota è un presupposto necessario per la resurrezione? diversi studiosi, biblisti e teologi hanno opinioni differenti)
“Si tratta infatti di mettere in luce la contraddizione tra lo spirito evangelico e una politica gretta ed egoista.”
“La preoccupazione del Papa concerne… il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede… narrazione evangelica = storia reale… però in questo nuovo volume egli stesso… prende atto che “nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze”… Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà… ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato”
“«la Chiesa ha diritto a far sentire la sua voce e a orientare l’opinione dei cittadini, ma non a imporre i propri valori a chi non li condivide mediante accordi politici non sempre disinteressati»… Che senso ha la resurrezione per un laico? «La resurrezione di Gesù ha avuto ed ha un significato più universale. Significa far passare il messaggio che ciascuno può risollevarsi dopo ogni caduta, riformulare e ricominciare da capo la propria vita… anche l’antica figura del destino appare sconfitta»”
“il Gesù uomo… lottando si innalza alla superiore realizzazione di se stesso, che è sacrificarsi per la salvezza degli altri… non è proprio questo che avviene pure in ogni uomo… quando riesce a vincere l’ansia per la sua sorte particolare, e a realizzare un valore che trascende la sua individualità accidentale, psicologica? Un valore che è sempre per tutti, perché ogni gesto d’amore e di vero coraggio… è sempre per tutti… L’eterno non è il tempo che continua senza fine… è la vita nelle sue epifanie essenziali – dolore, felicità, amore, conoscenza della verità – sempre presenti; è il kairós dei greci… è l’attimo di Michelstaedter, sempre vissuto come se fosse l’ultimo”
“Racconta molto su Ratzinger questo secondo volume sulla passione e resurrezione di Gesù. Mentre esalta la fiducia nel Cristo, che tiene le sue mani stese sui fedeli e l’umanità, il testo rivela il profondo e permanente pessimismo di Benedetto XVI sui rapporti tra Chiesa e società.”
Antisemitismo di origine cristiana. “Benedetto XVI segue l’opinione condivisa a livello scientifico che gli Ebrei di cui parla il vangelo di Giovanni, così come la richiesta dell’esecuzione di Gesù, non possano venir riferiti all’intero popolo d’Israele”

I nuovi padri: intervista a Massimo Recalcati

Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?,  Cortina Editore, pag. 190, euro 14.


“Papi”: è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a “papi”, invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell’epoca ipermoderna, sull’evaporazione del padre, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l’interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).

Cosa resta dell’uomo che assicurava l’ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l’ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all’autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica… Si tratta allora di pensare al padre come “resto”, non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all’insegnamento esemplare, all’intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l’incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».

 

Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice “sì!” a ciò che esiste, senza sprofondare nell’abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell’avvenire».

 

In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l’insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo… Quando Freud gli attribuiva il saper “tenere gli occhi chiusi”, intendeva sottolineare il carattere “umanizzato” della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita… È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un “no!” che sia davvero un “no!”, e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».

 

Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all’adozione… C’era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre “interdice” il godimento incestuoso e “separa” la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero “nuovo” e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare.
Intesa come legame “naturale”, la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l’importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un’appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza… Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».

 

Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto “l’ordine del sangue”. Prendiamo Million Dollar Baby…
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un’adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia… “Io voglio lei!”. “Sarò il tuo allenatore!”: Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo  eccezione alla propria etica (“Io non alleno ragazze!”) e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l’atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l’ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l’ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l’abbandona come “una causa persa”, alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».

Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».

 

in “la Repubblica” del 9 marzo 2011

Le ragioni della fede

La purezza cristallina del suo pensare lo rivela come un teologo rigoroso (non per nulla è uno dei pochi a fregiarsi della laurea honoris causa di un’università così prestigiosa com’è quella di Heidelberg).
L’ardore della sua comunicazione scritta e orale ne manifesta la missione di pastore ecclesiale.
L’essenzialità trasparente e poco ornata del suo dettato ne denota la qualità di autore letto e ascoltato (per questo ha una specifica collana di libri che reca il suo nome).
L’intensità delle sue pagine e la testimonianza della sua vita gli assegnano il titolo che forse gli è più caro, quello di cristiano evangelico.
Stiamo parlando di Paolo Ricca, teologo, pastore, docente e credente appassionato, appartenente alla comunità valdese, ma anche fervido protagonista dell’ecumenismo.
Anche se egli, per primo, vorrà schermirsi dal profilo che abbiamo tracciato e ai miei occhi può far velo l’antico legame d’amicizia che a lui mi unisce, appoggio con calore la lettura delle sue pagine o l’ascolto dei suoi frequenti interventi radiofonici a Uomini e profeti di Rai 3, nonostante la diversità delle nostre situazioni (lui protestante, io cardinale della Chiesa cattolica).
Il suo messaggio, infatti, punta sempre al cuore dell’annuncio biblico, ove tutti i cristiani dovrebbero trovare la loro patria comune, ma la sua sensibilità è tale da coinvolgere anche chi non aderisce a questo o ad altro credo.
È il caso di un libretto che apparentemente è eterogeneo, perché raccoglie 17 contributi pubblicati o pronunciati in momenti e ambiti diversi, ma che si ricompone a mosaico proprio attorno al tema enucleato dal titolo, Le ragioni della fede.
In questo si svelano le nostre coincidenze di fondo: io stesso ho appena edito un libro intitolato Questioni di fede, muovendomi sul suo stesso territorio e partendo proprio con una sorta di “grammatica della domanda”, così come Ricca in apertura al suo testo delinea «l’uomo come domanda».
Fede e ragione sono state variamente coniugate e separate tra loro, anche secondo le diverse prospettive teologiche cattoliche o protestanti.
È per questo che Ricca opta per la formula «le ragioni della fede» e, per capire il suo approccio, è indispensabile citare un suo paragrafo: «Questa espressione ha un doppio significato.
Può significare in primo luogo le ragioni che la fede elabora su quello che crede, la fede cioè che pensa se stessa e riflette sul suo statuto e sui suoi contenuti, li illustra, li spiega, li motiva.
In secondo luogo può significare le ragioni che si possono addurre per credere.
Queste ragioni non sono prove né dimostrazioni, sono però argomenti che possono essere offerti alla riflessione di chiunque.
La fede, lo sappiamo, non viene dalla ragione e parlare delle ragioni della fede non significa affermare, implicitamente, che la fede abbia ragione.
Significa però darle la parola e invitarla a spiegarsi, sostenendo le sue ragioni.
La fede insomma non è muta e sa organizzarsi come discorso».
Proprio perché la fede non è cieca, segue un suo coerente statuto epistemologico che partecipa ma non si identifica con quello della razionalità (non è ciò che accade anche per l’arte e per il linguaggio d’amore?) e offre un suo progetto interpretativo profondo dell’essere e dell’esistere, dovrebbe essere normale che anche il non credente ascoltasse «le ragioni della fede».
Esse sono tutt’altro che assurde o infantili, come vorrebbe suggerire un certo ateismo nazionalpopolare molto sommario e superficiale.
Ricca in queste pagine opta per una serie di scorci: ad esempio, apre squarci sulla salvezza, sul pensiero, sulla misericordia, sulla giustizia, sulla libertà, sul «timore e tremore», sull’escatologia, su Paolo e Cristo.
Ma non teme di inoltrarsi sui sentieri d’altura, come nel caso del bellissimo capitoletto sull’«Ineffabile dai molti nomi», ossia su quel Dio che è, sì, trascendente e ineffabile ma invocabile, affidabile, reperibile.
Non esita neppure a costeggiare la frontiera.
Citando in questo caso Pico della Mirandola, si domanda se «il dubbio può essere l’anticamera della fede».
Lo stesso Manzoni, nella sua Storia della Colonna infame, consigliava che «è men male l’agitarsi nel dubbio che il riposar nell’errore».
Il nostro autore sottolinea il paradosso della fede nella quale il dubbio è legittimo e illegittimo al tempo stesso: «Sì, perché l’invisibile non si mostra, e qui il dubbio ci può stare; no, perché la fede, a modo suo, dimostra l’invisibile».
In questa luce si può condividere con Ricca la nota definizione del teologo Paul Tillich secondo la quale la fede è Mut zum Sein, o Courage to be.
Ci vuole coraggio per imboccare questa via perché il suo obiettivo è quello di condurti a essere e a comprendere l’ultima radice dell’essere.
Folgorante, come spesso gli accadeva, è Kierkegaard in Timore e tremore: «La fede è la più alta passione d’ogni uomo.
Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre».

in “Il Sole 24 Ore” del 6 marzo 2011

Nuovi orizzonti per ebrei e cristiani

NATHAN BEN HORIN, Nuovi orizzonti per ebrei e cristiani, Edizioni Messaggero, Padova 2011, EAN 9788825026887, pp.
160, Euro 12,00 A quasi 25 anni dalla Nostra aetate e dopo i documenti applicativi che l’hanno seguita (1974 e 1985), a che punto è il dialogo tra ebrei e cristiani? Fra le molte voci, di entrambe le parti, che periodicamente intervengono su questo tema, quella di Ben Horin, che riportiamo, ci pare particolarmente significativa per equilibrio e pacatezza, oltre che per autorevolezza: Nathan Ben Horin ha vissuto a Roma dal 1980 al 1986 in qualità di ministro plenipotenziario dei rapporti di Israele con il Vaticano.
Il testo offre una sintesi storica degli anni trascorsi e ne deduce alcuni punti fermi validi per entrambi gli interlocutori.
Autore/i NATHAN BEN HORIN, nato in Germania da famiglia polacca, ha vissuto in Francia dove ha partecipato alla resistenza contro i nazisti.
Ha svolto attività diplomatica per Israele.
In Italia dal 1980 al 1986 si è occupato dei rapporti diplomatici con la Santa Sede, quando le relazioni diplomatiche con Israele non erano ancora state regolate.
Dal 1994 è membro della Commissione per la designazione dei «Giusti tra le Nazioni» dell’Istituto Yad Vashem, incaricato in particolare delle pratiche che riguardano l’Italia.
PIERO STEFANI (Ferrara 1949), laureato in filosofia a Bologna, noto studioso di ebraismo e insigne biblista, è uno dei principali animatori del dialogo cristiano-ebraico.
Insegna filosofia della religione presso l’Università di Ferrara.
Dal 1985 è redattore e articolista della rivista «Il Regno» e collabora con le riviste «Credere oggi», «Humanitas», «Esodo», «Studi Ecumenici», «Studi Fatti Ricerche» (Sefer), «Horeb», «Jesus».
È membro del Comitato scientifico e direttore del «Notiziario di Biblia», Associazione laica di cultura biblica.
Collabora regolarmente con la trasmissione di Radio 3 «Uomini e Profeti».
Ha al suo attivo una settantina di pubblicazioni in qualità di autore, curatore e scrittore di introduzioni o contributi vari.

Il comune sentire

MARTINI CARLO M., Il comune sentire, Rizzoli, Milano 2011, EAN 9788817047463, pp.
200, Euro 17,50 “Il mio motto episcopale suona così: per il servizio della verità essere pronto ad amare le avversità.” Inizia con queste parole il dialogo con i lettori del “Corriere della Sera”, uno spazio in cui il cardinale Carlo Maria Martini tocca con grande semplicità le domande cruciali alla base del nostro vivere quotidiano.
Perché crediamo? Perché perdiamo la fede? Che senso ha il dolore degli innocenti? Quel è lo scopo ultimo delle nostre buone azioni? Pagina dopo pagina emerge la profonda fede del cardinale.
Ma anche la sua straordinaria conoscenza biblica che, attraverso il conforto delle Scritture, ci incoraggia a metterci di fronte con autenticità al cammino di ricerca che ciascuno di noi deve compiere nel mondo e interiormente.
Martini, il cardinale con Milano nel cuore di Marco Garzonio Oggi il cardinale Martini compie 84 anni.
Festeggia la ricorrenza nel suo ritiro di Gallarate, attorniato dalle cure amorevoli e generose di chi lo sta accompagnando nella faticosa, diuturna battaglia per reggere gli effetti del male, il Parkinson.
Eppure sempre attentissimo, curioso di quanto accade in Italia, nel mondo, nella Chiesa, nella cultura e nella vita comune.
Lo sanno i lettori del Corriere.
Quelli che ogni giorno gli scrivono, confidandogli preoccupazioni, dubbi, anche angosce.
E quelli che non osano prendere carta e penna ma sono comunque attenti ad ogni sua parola, tanto da attendere l’ultima domenica del mese per andarsi subito a leggere il paginone con lettere e risposte.
Il dialogo a distanza (ora riprodotto in volume, Il comune sentire, edito da Rizzoli) è la continuazione ideale dello stile episcopale inaugurato da Martini a Milano e proseguito per gli oltre 22 anni in cui è stato arcivescovo.
Poco dopo gli inizi del suo ministero aveva riscoperto e reintrodotto nell’uso liturgico un’antica preghiera: “Dona sempre al tuo popolo pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze”.
E a quelle parole si è sempre rivelato fedele, praticando, lui professore e studioso di fama internazionale, virtù quali l’ascolto, il servizio, la preghiera, la ricerca mai paga di una senso da dare all’esistenza: nelle scelte forti, importanti, circa la vita (inizio e fine, bioetica) e in quelle quotidiane, alle prese con le gioie e le difficoltà, gli affetti e il lavoro, nella città.
Un misto di realismo e di fede, di scommessa sull’uomo e sui destini comuni che, alla fine del mandato per raggiunti limiti di età, nel 2002, gli diede l’opportunità di affidare due consegne: ai giovani e agli amministratori pubblici.
Incoraggiò i primi ad «attraversare la città» senza paura, come faceva Gesù, a vivere sino in fondo i disagi, le difficoltà, ma anche le speranze e gli ideali, la voglia di cambiare e di essere protagonisti.
Ai secondi, nel discorso di ringraziamento a Palazzo Marino per la medaglia d’oro del Comune, riservò un accorato e stringente appello sulla scia del predecessore e ispiratore, Sant’Ambrogio.
Incitò la politica a «dare forza e amabilità a un’esistenza vissuta nel rispetto delle regole»; ammonì che «finché la nostra società stimerà di più i “furbi”, che hanno successo, un’acqua limacciosa continuerà ad alimentare il mulino dell’illegalità» , «togliendo stima sociale all’onestà», indebolendo «il senso civico».
Lui stava per partire per Gerusalemme, ma a governanti, città tutta, Paese lasciò  l’impegno: «Compito culturale urgente è innescare un movimento di restituzione di stima sociale e di prestigio al comportamento onesto e altruistico, anche se austero e povero».
A monito citò Ambrogio: «Quanto è fortunata quella cittadinanza che ha moltissimi giusti»! A Gallarate, pur tra fatiche e impedimenti, Martini continua ad essere quel punto di riferimento che non solo i milanesi, ma la Chiesa tutta e l’Italia hanno imparato ad amare e, inutile nasconderselo, a contestare: perché nel suo stile e nella sua azione ha continuato e continua a raccogliere consensi, ma anche dissensi.
Ricorda il ruolo dei Profeti dell’antico Israele, che sono stati fra i punti di forza del Martini scienziato della Parola biblica, vescovo, predicatore di appassionati esercizi spirituali negli angoli più lontani della cattolicità.
Una Chiesa profetica è quella che ha sognato per anni e per la quale, come confidò a padre Georg Sporschill in Conversazioni notturne a Gerusalemme (edito da Mondadori), nella vecchiaia ha deciso di pregare.
Perché: oggi la profezia latita nella Chiesa? La risposta di Martini sta nella sua scelta orante.
Nel chiedere a Dio e nel ricordare ai confratelli e a tutti che la profezia non è qualcosa di astratto o per pochi, ma, sulla scia appunto dell’Israele della Scrittura, è cercare il punto d’incontro fra il progetto di Dio e le urgenze della storia.
Una testimonianza radicale, senza badare alle sollecitazioni dei potenti né alle tentazioni di lasciar perdere mortificati dalle difficoltà, accettando di essere piccolo gregge ((cioè minoranza) e granello di senape e lievito, disposti a pagare un prezzo anche salato nel seguire la via Gesù.
Come motto episcopale Martini scelse Pro veritate adversa diligere, per la verità amare le avversità.
In realtà il motto completo, preso da San Gregorio Magno, ha un altro paio di paroline «ed essere guardinghi verso il successo» Insomma, una prospettiva per lui e un’indicazione di marcia per tutti.
E quindi l’occasione per unirsi alle schiere di fedeli e di estimatori nel dire: grazie e tanti auguri, Eminenza! in “Corriere della Sera” – Milano – del 15 febbraio 2011