Storia di un uomo

 

Aldo Maria Valli, Storia di un uomo, Ancora, 2011, pp. 206, € 16

un «ritratto di Carlo Maria Martini» che ridà voce all’ormai anziano cardinale, reso afono dall’implacabile morbo di Parkinson.

 

 

Martini, sognare secondo il Concilio

di Enzo Bianchi

in “La Stampa” del 15 ottobre 2011

«Una memoria umile e grata»: è questo lo spirito che animò, ormai dieci anni fa, l’ultima lettera pastorale del cardinal Martini alla sua diocesi di Milano. Nell’accomiatarsi da quella chiesa cui aveva dedicato il meglio di sé durante ventidue anni di servizio pastorale, esplicitò «l’assillo quotidiano», la domanda decisiva che l’aveva accompagnato: «Ciò che sto proponendo è davvero secondo il Vangelo?». Umiltà di chi si è interrogato ogni giorno sull’essenziale del proprio ministero e gratitudine verso chi ha assecondato, accompagnato, arricchito quel lavoro quotidiano.

Ma una memoria umile e grata è anche la qualità che ha guidato Aldo Maria Valli nel raccontare la Storia di un uomo (Ancora, pp. 206, € 16: un «ritratto di Carlo Maria Martini» che ridà voce all’ormai anziano cardinale, reso afono dall’implacabile morbo di Parkinson.
Valli è uno dei giornalisti che ha seguito più da vicino il cardinal Martini durante tutti gli anni del suo ministero a Milano, ed è anche un «cattolico ambrosiano», un credente che nell’accostarsi a colui che è stato per lunghi anni il «suo» pastore, ha sempre saputo conservare un prezioso e fecondo equilibrio tra il professionista al lavoro e il credente in ricerca di una conferma alla propria fede. In questo avvincente percorso tra libri, scritti, omelie, gesti e aneddoti del cardinal Martini vi è una parola che ritorna e che il libro aiuta a cogliere nel suo significato più profondo:  «sogno».
Personalmente diffido di chi abusa di questo termine, come se la realtà che siamo chiamati a vivere e le responsabilità che dobbiamo assumere nei confronti di quanti ci sono accanto o verranno  dopo di noi dovessero essere relegate nel mondo onirico, minacciate costantemente dall’inevitabile risveglio. Ma per il cardinal Martini il «sogno» non è questo. È, invece, un altro nome della contemplazione cristiana, è, secondo le sue stesse parole, ridestare con la riflessione e l’agire concreto «quella capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla nostra Chiesa e che ci procurò tanta gioia»; è quel «mondo visto con gli occhi di Dio, con gli occhi della fede, con gli occhi della preghiera» che l’arcivescovo di Milano va a contemplare da Gerusalemme una volta terminato il suo ministero episcopale.
Così si esprimeva il cardinale in un’intervista circa il suo lascito a Milano: «Spero di aver lasciato l’amore per la parola di Dio, la coscienza della sua esistenza e la certezza che questa parola ci  guida in ogni momento». Dalle pagine amorosamente curate da Aldo Maria Valli, possiamo dire che questa speranza è esaudita e che la «memoria umile e grata» di tanti credenti e non credenti si aggiunge a quella dei suoi fedeli ambrosiani e degli abitanti di quella metropoli che il cardinale ha saputo capire, servire e amare.

Io e Dio

Vito MancusoIo e Dio, Garzanti, 2011, pp. 496,  € 18.60


Di quale domanda Dio è la risposta? Se non si chiarisce la domanda, la risposta-Dio può diventare semplicemente uno dei tanti strumenti di potere escogitati dalla politica per tenere buoni e compatti i popoli, o uno dei tanti hobby coltivati dagli esseri umani per non annoiarsi nel tempo libero, o uno psicofarmaco della mente, magari un po’ antiquato ma ancora abbastanza in uso e non senza qualche piacevole effetto.

A sentirli suonare così – senza saper leggere né scrivere – “Dio” e “d’io” possono trarre in confusione: sono simili al punto da generare il sospetto che i due concetti abbiano una radice comune, e non solo per il suono o le lettere di cui sono composte le parole.
Qualunque riflessione a proposito di quel che trascende la nostra vita di tutti giorni, le cose che facciamo, il senso del nostro affannarci dietro a cose di poca o nessuna importanza, non può che scaturire da noi stessi, e condurci nel vivo di una riflessione antica forse quanto il genere umano.
Oggi il dibattito sulla religione, almeno in occidente, è spesso arroccato su posizioni che vedono da un lato l’adesione cattolica (o la mancata adesione) al dogma della Chiesa e dall’altro l’interpretazione della bibbia, che secondo i protestanti è la fonte di ogni verità.
Tutto questo è troppo poco, sostiene Mancuso, e non rispecchia la complessità dei tempi in cui viviamo. 
I nostri sono tempi che richiedono a gran voce risposte nuove; risposte che sappiano andare oltre simili, piccine contrapposizioni e si facciano invece carico di quel che sappiamo e non ci è più dato ignorare.
Dando conto, insomma, del fatto che viviamo in una società secolarizzata e retta da un paradigma scientifico incompatibile con la visione del mondo espressa da una simile concezione religiosa, ormai definitivamente tramontata.
Ci vogliono risposte adeguate alla nostra perplessità.
È questa una parola chiave nel libro di Mancuso, che nell’introdurla ci spiega addirittura la sua etimologia: “perplesso” deriva dal verbo latino “plectere”, cioè “intessere”, e sta ad indicare appunto un incrocio confuso fra la trama e l’ordito.
Questa confusione, a dire del teologo, ben riassume il nostro attuale spaesamento.
Ma è uno spaesamento che faremmo bene a coltivare, o comunque a non sottovalutare e lasciare sullo sfondo, perché dalla risposta che saremo in grado di articolare dipende la nostra capacità di ricomporre la frattura – mai evidente come oggi – fra la vita che conduciamo tutti i giorni nel mondo e quella vita spirituale che è un bisogno irrinunciabile di ogni essere umano.
Accanto a queste considerazioni, di per sé ricchissime di conseguenze e implicazioni, Mancuso riporta una serie di dati che testimoniano come nel nostro mondo, in realtà, la religione stia occupando uno spazio crescente: i fedeli sono in aumento in tutte le principali religioni del mondo, e un gran numero di paesi ha addirittura governi che si ispirano nel loro operare ai precetti religiosi.
Ma la religione, nella maggior parte dei casi, non produce più una cultura, intesa come una visione del proprio stare al mondo che sappia declinarsi in tante forme – letteratura, arte, musica – e quindi resta lettera morta, sotto molti punti di vista: insieme di precetti oppure semplice sistema normativo che ci dice cosa fare e cosa non fare, senza darci gli strumenti per capire perché.
D’altra parte, una civiltà che rinunci a ogni forma di vita spirituale si consegna a sterilità certa, non solo nella produzione di forme artistiche ma anche – e soprattutto – nel cinismo e nell’egoismo che ne derivano, permeando ogni rapporto fra le persone.
Come uscire dall’impasse?
Riappropriandosi, o meglio: reinventandosi un rapporto con il sacro, con il legame insito nella radice stessa della parola “religione”: non insieme di vincoli ma relazione viva, presente, con una dimensione trascendente capace di non dimenticarsi mai della vita, che in sé è l’espressione biologica, spirituale e culturale più sacra che ci sia.
Soprattutto, Mancuso ci sprona a non delegare mai ad una chiesa, qualunque essa sia, la nostra personale ricerca di una verità: in quell’itinerario, complesso e fortunatamente inesauribile, il laico e il religioso in qualche modo procedono in parallelo, pur avvalendosi di strumenti diversi e giungendo (quando vi giungono) a conclusioni magari diametralmente opposte, ma ugualmente degne di rispetto perché scaturite da una ricerca personale.
Questo libro, che tutto ci dice volersi proporre come l’opus magnum di Mancuso, riesce ad attingere a una quantità sterminata di fonti e disporne organicamente le testimonianze assieme alle riflessioni dell’autore, per accompagnarci passo dopo passo in un cammino di grande fascino e di assoluta attualità.

Vito MancusoIo e Dio 496 pag., € 18.60 – Garzanti libri

Raimon Panikkar: Vita e parola

 

Raimon Panikkar, Vita e parola. La mia Opera, Jaca Book, Milano 2010 (pp. 158, euro 16,00)

 

Il 26 agosto 2010 si spegne, all’età di 92 anni, Raimon Panikkar, personalità ricca e complessa, profeta del dialogo e maestro dell’esperienza mistica.

Da qualche anno, con grande coraggio, la Jaca Book sta curando la pubblicazione dell’Opera Omnia di Panikkar a cura dell’Autore stesso e di Milena Carrara Pavan, che hanno organizzato i numerosi scritti in dodici volumi tematici (ma che arrivano a 17 poiché alcuni volumi sono in due tomi). È da notare anche che l’iniziativa dell’editore italiano è la prima in assoluto e sebbene Panikkar vivesse in Spagna e parlasse numerose lingue, sarà in italiano che comparirà per la prima volta l’edizione integrale delle sue Opere.

 

Sono quattro i volumi finora pubblicati, probabilmente cinque entro la fine dell’anno. Ma abbiamo la fortuna della pubblicazione – pochi mesi prima della sua morte – del volumetto di cui facciamo la recensione e che contiene le 16 Prefazioni riscritte da Panikkar a tutti i volumi che compongono il piano dell’Opera Omnia. Un testo dunque preziosissimo per accostarsi integralmente, anche se in modo essenziale e sintetico, alla pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita estremamente ricchi e stimolanti. Il volume è arricchito da una ampia nota biografica a cui manca solo la data della sua recente scomparsa.

Nella Prefazione è Panikkar stesso a definire il contenuto del volume: “Mi era stato chiesto in più occasioni di elaborare una sintesi del mio pensiero, di pubblicare, cioè, un testo che potesse intitolarsi La mia Opera. Mi sono reso conto che in effetti il lavoro l’avevo già fatto, avendo preparato in questi ultimi anni le introduzioni ai vari volumi dell’Opera Omnia” (p. 7). Ecco dunque tutto il valore di questo agile volumetto, estremamente denso e ricco. Peraltro, come sottolinea Panikkar, queste introduzioni sono anche un preziosissimo accesso non solo al suo pensiero, ma anche alla sua vita, essendo le due cose strettamente interconnesse: “Colgo l’occasione per sottolineare che tutti i miei scritti rappresentano non solo un problema intellettuale della mia mente, ma una preoccupazione del mio cuore e, ancor più, un interesse reale della mia intera esistenza, che ha cercato per prima cosa di raggiungere chiarezza e profondità studiando seriamente i problemi della vita umana […] Ora che ho fatto lo sforzo di riunire i miei scritti per argomenti, mi accorgo che lo schema di questa Opera Omnia rappresenta il percorso non solo del mio pensiero ma anche della mia vita, senza esaurirne, come dicevo, l’esperienza. I miei scritti coprono un lasso di circa settant’anni, in cui mi sono dedicato ad approfondire il senso di una vita umana più giusta e piena” (pp. 7-8). In questa prospettiva, aggiunge Panikkar, “non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può forse chiamare Spirito” (p. 8). In seguito, sintetizza in modo estremamente chiaro tutto il suo itinerario di vita: “Attratto fin da giovane dalla spiritualità, mi sono avvicinato allo studio delle religioni approfondendo prima la religione in cui sono nato e cresciuto, il cristianesimo, scoprendo poi la religione di mio padre, l’induismo, e subendo infine il fascino del buddhismo, pur rimanendo fedele alla mia origine cristiana. Con tale bagaglio di esperienze e conoscenze mi sono aperto in forma spontanea al dialogo con le diverse culture e religioni, avendolo già vissuto interiormente. Non si può scoprire infatti la verità di un’altra religione se non la si vive in profondità dall’interno […] Dalla rielaborazione della Trinità, che considero il fulcro del cristianesimo, sono giunto alla formulazione della mia visione della realtà che ho chiamato cosmoteandrica. Per comunicare agli altri ciò che non può essere descritto direttamente sono ricorso al mito, al simbolo e al culto, che sono alla base di ogni formulazione di fede, sviluppandone l’ermeneutica. Sono sempre stato attratto dalla filosofia come amore per la verità e per il Mistero. Non volendo chiudermi in un mondo di speculazione astratta, mi sono aperto alla vita che mi sta attorno nella sua concretezza e ho scoperto che non era profana ma sacra, da qui il mio interesse per i problemi che riguardano la secolarità” (pp. 8-9).

Vediamo ora, nello specifico, come è articolato il densissimo volume. È questo anche un modo per accostarci all’articolazione dell’Opera Omnia che raccoglie – come detto – per temi e con la supervisione dell’Autore stesso, tutti gli scritti di Panikkar.

Il primo capitolo – Mistica, pienezza di vita – contiene il saggio che fa da introduzione al tomo 1 del primo volume dell’Opera Omnia, intitolato Mistica e spiritualità. A proposito del volume – già pubblicato – Panikkar scrive che “è in parte autobiografico in quanto tratta del tema più importante della mia vita, che ha ispirato in forma discreta tutti i miei scritti, così da divenirne una chiave ermeneutica indispensabile” (p. 11). La mistica, per Panikkar, altro non è che esperienza integrale della vita; in questa prospettiva, essa non è “un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L’uomo è essenzialmente un mistico” (p. 12). La mistica è qualcosa che “non disumanizza” (p. 13); è “esperienza gioiosa” (p. 14), appunto in quanto esperienza integrale della Vita, di “quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si ‘sente’ palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi” (p. 15). In questo senso, l’esperienza mistica è quella che “ci permette di godere pienamente della Vita” (p. 16). Ne consegue allora, che “il grande ostacolo a che scaturisca spontaneamente in noi l’esperienza della Vita è la nostra preoccupazione per il fare a scapito dell’essere, del vivere. La mistica, quindi, richiede una certa maturità, che è più facile raggiungere al crepuscolo della vita” (p. 18).

Il secondo saggio – Spiritualità, il cammino della vita – fa da introduzione al tomo 2 del primo volume. Se la mistica è l’esperienza suprema della realtà, la spiritualità viene intesa da Panikkar come il “cammino per giungere a tale esperienza” (p. 21). È evidente che i cammini sono stati e sono molti. Ma una spiritualità per l’oggi dovrà comunque essere integrale: “vuol dire che deve coinvolgere l’uomo nella sua totalità” (p. 21), e quindi, nel linguaggio di Panikkar, fare sintesi tra quattro dimensioni che sarebbero, invece, nella cultura di oggi divise, con il rischio di frammentare e alienare l’uomo. Le quattro dimensioni, che una genuina spiritualità deve ricomporre, sono sōma, psychē, polis, kosmos. Anzitutto, l’uomo non ha, ma è sōma, corpo. Ne deriva che una spiritualità “che faccia astrazione dal corpo umano, che lo sottovaluti o che lo releghi come cosa secondaria, sarebbe monca” (p. 22). Ma l’uomo è anche psychē, anima, cioè pensiero, immaginazione, fantasia, volontà. L’uomo inoltre è anche polis, non è cioè individuo, ma società, collettività, chiesa, famiglia. “La dicotomia (mortale!) tra individuo e collettività si trova proprio alla base delle tensioni di ogni specie” (p. 22). Infine, l’uomo è kosmos: non è solo società ma universo, mondo. Cioè non è e non può essere separato dagli animali, dalle cose, dalla terra; e allora la terra non può essere arbitrariamente sfruttata perché non è ‘l’altro’ ma è parte costitutiva dell’uomo. In questo quadro antropologico, Dio è insieme immanente e trascendente: “è nella stessa quaternitas degli elementi che definiscono l’uomo che si incontra il divino” (p. 24). Solo in questa prospettiva possiamo comprendere come la spiritualità genuina non sia affatto qualcosa che disincarni, ma anzi qualcosa che – componendo i frammenti, mettendo insieme interno ed esterno, alto e basso – aiuta piuttosto a vivere la Vita integralmente. Nel senso dell’incarnazione, dove “i problemi della terra non possono essere separati da quelli del cielo” (p. 26). E una tale spiritualità non potrà che aprirsi al dialogo interculturale e interreligioso: “Non bisogna perdere di vista il fatto che, considerando la situazione attuale dell’umanità, nessuna religione, nessuna civiltà, nessuna cultura ha la forza sufficiente o è in grado di dare all’uomo una risposta soddisfacente: le une hanno bisogno delle altre. Non si può pretendere che la soluzione per l’insieme dell’umanità, d’ora in poi, possa venire da un’unica fonte […] bisogna sforzarsi perché avvenga una mutua fecondazione tra le differenti tradizioni umane” (p. 25).

Il terzo saggio – Religione e religioni – fa da introduzione all’omonimo, secondo volume dell’Opera Omnia, di imminente pubblicazione. Il titolo intende sottolineare “l’ambiguità della parola ‘religione’ che al singolare rappresenta l’apertura costitutiva dell’uomo al mistero della vita mentre al plurale indica le diverse tradizioni religiose” (p. 27). In questa prospettiva, l’esperienza di Dio – ma meglio sarebbe dire, in senso ancora più ampio, l’esperienza integrale della Vita – non è e non può essere monopolio di nessuna religione. Ogni religione ne esprime una parte, ma non la esaurisce. Le religioni “sono vie che conducono gli uomini verso la loro pienezza”, in qualunque modo poi si concepisca questa pienezza. Le vie sono tante: alcune sono costituite dalle religioni tradizionali, altre sono vie nuove, a cui spesso è difficile dire se possano o meno essere chiamate religioni. Ne deriva che nessuna religione (o cultura, o tradizione) può pretendere “di esaurire la gamma universale dell’esperienza umana” (p. 28) e che quindi il pluralismo sia, soprattutto oggi, una stringente necessità: “l’incontro-dialogo tra religioni, ideologie e concezioni del mondo è un imperativo umano dei nostri giorni” (p. 28). E in questo incontro Panikkar comprende anche la possibilità del dialogo con un certo umanesimo ateo in quanto, comunque, impegnato in un medesimo sforzo per il perfezionamento umano. Questo è quanto Panikkar chiama ecumenismo ecumenico. Esso “tenta di arrivare a un fecondo arricchimento reciproco e di accettare una critica delle tradizioni religiose del mondo senza tralasciare per questo di riconoscere il ruolo unico spettante a ognuna di esse. Come le confessioni cristiane riconoscono un Cristo di cui non possiedono il monopolio, un Cristo che le unisce tutte quante, senza dovere per questo esserne amalgamate, così le distinte tradizioni dell’umanità riconoscono un humanum (diversamente interpretato alla stessa maniera in cui vi sono interpretazioni divergenti di Cristo) non manipolabile da chicchessia, cioè trascendente. Fedeli a questo humanum, discutono tra loro tentando di avvicinarsi all’ideale” (p. 29). Ebbene, solo un tale atteggiamento che rinuncia alla pretesa di monopolio su ciò che la religione rappresenta, potrebbe aprire ad un fecondo dialogo dialogale, con l’unico obiettivo di aiutare l’uomo a raggiungere la sua pienezza.

Il terzo volume dell’Opera OmniaCristianesimo – dà anche il titolo al quarto saggio. Qui Panikkar distingue tre diversi livelli contenuti nella parola ‘cristiano’: esso può essere l’aggettivo di cristianità, cioè riferirsi ad una civiltà. Nel Medioevo, ad esempio, era impossibile essere cristiani senza appartenere alla cristianità. Ma cristiano può anche alludere alla religione cristianesimo: fino a non molto tempo fa era difficile dirsi cristiano senza riconoscersi appartenente al cristianesimo. Ma cristiano, sostiene Panikkar, può anche riferirsi a cristianìa, cioè alla possibilità di riconoscersi cristiano “come atteggiamento personale, senza appartenere alla cristianità o aderire al cristianesimo in quanto struttura istituzionale” (p. 31). Si tratta di una coscienza cristiana più matura che, soprattutto per il terzo millennio che si è appena aperto, sembra costituire un forte appello. Essere cristiano come membro della cristianità appartiene infatti al passato o semmai, come dice Panikkar, “ai sogni di alcuni nei confronti del futuro” (p. 32), ma sembra non parlare più alla maggioranza dei cristiani. Il cristianesimo come religione ha preso posto nella coscienza cristiana a cominciare dal declino della cristianità come regime politico-religioso. Ma il cristianesimo come religione deve confrontarsi con le altre religioni esistenti e ciò mette in crisi la sua purezza dottrinale. Da qui l’emergere, oggi, di quella che Panikkar chiama cristianìa (Christlicheit, in tedesco; christianness, in inglese), e cioè la “confessione di una fede personale, che adotta un atteggiamento analogo a quello di Cristo, nella misura in cui Cristo rappresenta il simbolo centrale della propria vita” (p. 35), e che comporta un rendersi indipendenti rispetto alla sovraistituzionalizzazione del cristianesimo ufficiale. “Si tratta di un mutamento ecclesiale nella stessa autocomprensione cristiana” (p. 35). Ciò non significa, precisa Panikkar, disprezzare o ignorare le strutture giuridiche e gli apparati istituzionali, ma solo non identificarsi con essi. Si tratta di superare, non di respingere: è una nuova autocomprensione per la quale “ci si è resi indipendenti da un ordine politico fisso e determinato (cristianità)”, come anche “dall’identificazione tra essere cristiano e l’accettazione di una serie determinata di dottrine (cristianesimo)” (p. 38). In questa prospettiva, cristianìa apparterrebbe piuttosto alla dimensione mistica, che, peraltro, ha bisogno di istituzioni. Ebbene, proprio questa nuova autocomprensione mistica, dice Panikkar, sembra essere l’urgenza dei nostri giorni.

Il quarto volume dell’Opera Omnia, è dedicato all’induismo. Il quinto e il sesto saggio costituiscono rispettivamente le introduzioni al primo e al secondo tomo del volume. Non ci soffermiamo su queste densissime introduzioni che hanno il grande merito di aiutare noi occidentali a comprendere meglio il cuore di una tradizione molto diversa dalla nostra. Il settimo saggio – Buddhismo – costituisce l’introduzione al quinto volume dell’Opera Omnia e raccoglie i testi di Panikkar su ciò che possiamo ritenere il messaggio fondamentale di questa religione. Un’impresa quasi paradossale, dato il carattere fondamentalmente apofatico del buddhismo. Caratteristica del buddhismo è infatti l’affermazione della non-realtà della realtà ultima: essa è niente. Ma, osserva Panikkar, “il buddhismo non afferma che l’Assoluto è un niente, che non esiste in generale un qualche cosa, ma piuttosto che nessun essere corrisponde a quel qualche cosa […] Significherebbe quindi falsare completamente il buddhismo, se si volesse fargli affermare che bisogna pensare l’Assoluto come un Niente; l’Assoluto non deve essere pensato, perché, in tal caso, si sarebbe costretti a pensarlo come Essere o non-Essere, ed esso «non è» nessuna delle due cose” (p. 75).

I saggi successivi – Pluralismo e interculturalità e Dialogo interculturale e interreligioso – sono le introduzioni ai due tomi del volume Culture e religioni in dialogo, il sesto dell’Opera Omnia. Sono saggi molto densi, perché vanno a toccare uno dei temi su cui Panikkar si è espresso di più e per il quale ha combattuto con maggiore convinzione: il tema del dialogo. Un tema oggi molto urgente, a motivo dei cambiamenti a cui il nostro mondo è andato incontro negli ultimi decenni e che hanno visto popoli e culture venire tra loro in contatto e mescolarsi, creando, spesso, scontri di civiltà e problemi di convivenza: “La verità di una tradizione si scontra con quella dell’altra e il dialogo rappresenta l’unica via per la sopravvivenza” (p. 77). Per l’analisi del contenuto del primo saggio, rimandiamo alla recensione che abbiamo fatto dell’intero tomo. I temi del pluralismo e del dialogo sono ripresi anche nel secondo saggio, il nono, che, come detto, costituisce l’introduzione al secondo tomo. Panikkar definisce un “mito nascente” della nostra epoca, un mito unificante, quello secondo cui l’uomo avvertirebbe sempre più l’insufficienza delle proprie culture e delle proprie religioni e tenderebbe verso una sorta di unità della famiglia umana, “nell’ottica globale di una cultura dell’uomo che abbraccia tutte le civiltà e le religioni come tante sfaccettature che si arricchiscono e stimolano a vicenda” (p. 91). Questo mito, curiosamente, prosegue Panikkar, si presenterebbe come l’opposto del vecchio mito del “monogenismo”, che ci presentava “l’unità della razza umana sottolineandone l’origine unica” (p. 92). Oggi, l’unità dell’umanità “ci appare molto meno al suo inizio che non al suo termine” (p. 92). A lungo andare,  “i sistemi di pensiero sembrano convergere su tutti i piani: la mutua fecondazione appare non solo possibile, ma auspicabile […] L’altro comincia a diventare un altro polo di noi stessi. Il confronto porta alla complementarietà” (p. 93). Dagli altri si può imparare e grazie agli altri si può crescere. Ma, conclude Panikkar, sarebbe un errore e un pericolo operare sintesi frettolose: “prima di arrivare a una qualche visione d’insieme dobbiamo studiare le dottrine, conoscere i fatti e scoprire lo spirito di un’altra tradizione” (p. 95). È dunque necessario un lungo e umile lavoro; si tratta di “conoscere quanto meglio possibile la nostra tradizione, sviluppare l’empatia e la comprensione, renderci conto che scoprire le altre religioni è al contempo approfondire e purificare la nostra e che iniziarci a un’altra tradizione non può che arricchirci” (p. 96).

Il decimo saggio – Induismo e cristianesimo – introduce l’omonimo volume focalizzato sul dialogo tra le due culture alle quali “l’autore appartiene fin dalla nascita e alle quali è stato fedele in tutta la sua vita: ha continuato sempre a sentirsi profondamente cristiano e autenticamente hindū” (p. 97). Per un cristiano il dialogo tra le religioni – afferma Panikkar – deve rispettare tre condizioni: “1. Si deve rimanere fedeli alla tradizione cristiana. Questo è il problema teologico; 2. Non si devono violare le altre tradizioni; devono essere interpretate secondo la loro stessa autocomprensione. Questo è il problema ermeneutico; 3. Non si deve mettere da parte l’esame critico della cultura contemporanea. Questo è il problema filosofico” (p. 102). All’esame di queste tre condizioni sono dedicate le pagine del saggio. L’undicesimo saggio introduce invece l’omonimo ottavo volume dell’Opera Omnia con il titolo Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo. Qui Panikkar presenta una sua visione della realtà, una cosmovisione che, a grandi linee, intende riprendere il tema cristiano della Trinità. Essa si situa come una terza, grande, visione, che cerca di superare i limiti delle due visioni precedenti, quella monista e quella dualista. La visione monista, fondandosi sulla ragione, intende ridurre ad unità i dati che le si presentano, giungendo al concetto di Essere: l’Essere è uno, l’Uno, o semplicemente la Realtà. “La ragione, per intendere, esige la reductio ad unum, come dicevano gli scolastici […] Se vogliamo intendere razionalmente la realtà, dovremo arrivare al monismo […] In breve, se non vogliamo rinunciare alla razionalità dovremo affermare che in ultima istanza tutto è Dio, o Essere, o Spirito, o Materia, o Energia, o Nulla” (p. 116). All’opposto, la visione dualista riconosce due irriducibili sfere della realtà: il materiale e lo spirituale. La via di uscita al dilemma tra monismo e dualismo è costituita dalla visione a-dualista o advaita, che è quella che Panikkar fa propria. Si tratta di superare il razionalismo, ma senza cadere nell’irrazionalismo. La realtà “è costituita da tre dimensioni relazionate le une con le altre – la perichōrēsis trinitaria – così che non solo una non esiste senza l’altra, ma tutte sono intrecciate inter-in-dipendentemente. Tanto Dio, quanto il Mondo e l’Uomo presi separatamente, o a sé, senza relazione con le altre dimensioni della realtà, sono semplici astrazioni della nostra mente” (p. 117).

Il volume nono dell’Opera OmniaMistero ed ermeneutica – è costituito da due tomi. L’introduzione al primo tomo – Mito, simbolo, culto – costituisce il dodicesimo saggio, mentre il saggio Fede, ermeneutica, parola introduce il secondo tomo. Il quattordicesimo saggio – Filosofia e teologia – introduce l’omonimo decimo volume dell’Opera Omnia. Nella prospettiva di Panikkar, filosofia e teologia sono inseparabili perché si implicano vicendevolmente. La filosofia è da lui intesa “non solo come amore della saggezza, ma anche come saggezza dell’amore” (p. 127). La filosofia, scrive ancora Panikkar, “è un tipo di amore molto particolare. È saggezza, la saggezza dell’amore, la saggezza che è contenuta nell’amore […] E la saggezza nasce quando l’amore del sapere e il sapere dell’amore si fondono spontaneamente” (p. 128). Ne consegue che una tale filosofia non può non cristallizzarsi in uno stile di vita, anzi è l’espressione della vita stessa. “Una filosofia che tratti solo di strutture, teorie, idee e si isoli dalla vita, eviti la prassi e reprima i sentimenti, non è solamente unilaterale perché non prende in considerazione altri aspetti della realtà, ma è cattiva filosofia […] Perciò tutte le tradizioni sostengono che per fare veramente filosofia si richiede cuore puro, mente ascetica, vita autentica. L’attività filosofica esige un coinvolgimento totale” (p. 128). La riflessione deve cioè divenire carne, e il pericolo della astrazione intellettuale è grande. “Un professore per me è «uno che professa», vale a dire che esprime una «professione», una confessione, con la totalità della sua vita”, esattamente come un religioso autentico “è colui che lotta, che si sforza per arrivare all’unione armoniosa del sacro e del secolare” (p. 129). La teologia descrive anch’essa questa esigenza di coinvolgimento in una immersione totale nella vita, in una comunione piena con la Realtà.

Il saggio successivo, il quindicesimo, introduce il volume undicesimo dell’Opera Omnia, intitolato Secolarità sacra. Secolarità sacra è – secondo Panikkar – “lo stile di vita cui siamo chiamati, superando la dicotomia tra il sacro e il profano” (p. 135). E aggiunge: “non si tratta di fuggire dal mondo, ma di trasfigurarlo. Bisogna ‘trovare’ il sacro e ‘scoprirne’ la via secolare” (p. 135). Non si tratta, in altre parole, di negare la trascendenza del divino, ma bensì di cogliere “l’immanenza del sacro nelle viscere stesse del mondo” (p. 135). Si tratta di re-imparare a cogliere la sacralità del mondo, senza confondere immanenza e trascendenza. “Se si riduce tutto il reale al meramente secolare, si soffoca la realtà privandola del suo carattere di infinitezza e libertà. Ma, allo stesso tempo, negare alla secolarità il suo carattere reale e definitivo, degrada la vita umana a un semplice gioco senza importanza reale, né dignità. Forse una delle ragioni della crisi apparentemente universale dell’umanità attuale è che non si è riusciti a operare una sintesi tra sacro e secolare” (p. 137). L’ultimo saggio, il sedicesimo, introduce l’ultimo volume dell’Opera Omnia, dedicato a Spazio, tempo e scienza. Il volume racchiude articoli e scritti che riguardano la scienza, apparsi nel primo periodo della vita di Panikkar.

Speriamo di essere riusciti a far cogliere, in queste pagine inevitabilmente troppo sintetiche, almeno qualche frammento della ricchezza e pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita che – crediamo – ha segnato profondamente il nostro tempo e non cesserà di parlare al nostro futuro.

Massimo Diana

Ave Mary

Michela Murgia, Ave Mary.  E la Chiesa inventò la donna, Einaudi, Torino, 2011. € 16.00

 

 


Presentazione

La chiesa è ancora oggi, in Italia, il fattore decisivo nella costruzione dell’immagine della donna. Partendo sempre da casi concreti, citando parabole del Vangelo e pubblicità televisive, icone sacre e icone fashion, encicliche e titoli di giornali femminili, questo libro dimostra che la formazione cattolica di base continua a legittimare la gerarchia tra i sessi, anche in ambiti apparentemente distanti dalla matrice religiosa. Anche tra chi credente non è. Con la consapevolezza delle antiche ferite femminili e la competenza della persona di fede, ma senza mai pretendere di dare facili risposte, Michela Murgia riesce nell’impresa di svelare la trama invisibile che ci lega, credenti e non credenti, nella stessa mistificazione dei rapporti tra uomo e donna.

 

Da tempo si attendeva l’opera terza di Michela Murgia, dopo l’ottimo successo del suo “Acabadora” (Einaudi), caso editoriale e buona operazione di marketing che hanno ben funzionato insieme, perché, di fatto, si tratta di un bel romanzo ben promosso, e la scrittrice sarda stupisce tutti dando alle stampe un saggio: “Ave Mary” (Einaudi 16 euro) che, recita la quarta di copertina, “non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre, sulle mie amiche e le loro figlie”. Un bel libro, davvero; scritto bene, con un linguaggio moderno, pop, che fa eco al new journalism americano. Il volume, insomma, si inserisce a buon titolo nel filone dei saggi redatti da scrittori attenti e impegnati (engagé come dicono i francese) che vanta nomi importanti quali Moravia, Vargas, Steinbeck, Ben Jelloun, Vargas Llosa e altri ancora. Il libro tratta del ruolo della donna nella dottrina cristiana e, soprattutto, della rappresentazione simbolica del femminile in ambito religioso. Non è un saggio femminista e la Murgia non smette di ripetere e sbandierare la sua appartenenza al mondo cattolico (è membra, da sempre, di Azione Cattolica). Si tratta di uno scritto che analizza, dal punto di vista di una credente ortodossa, ma critica in quanto donna, come la cultura cristiana e cattolica abbiano imposto a Dio di essere “solo e sempre a immagine dell’uomo, del maschio”. Il libro scorre via con uno stile mai pesante e pedante, con una struttura giornalistica d’inchiesta che è lontana dallo stile tipico del saggio teologico. Molto interessante l’ultimo capitolo dedicato al sacramento del matrimonio e a ciò che ne viene della donna al momento del fatidico si: il modello non è Adamo/Eva, neppure Giuseppe/Maria, ma Cristo/Chiesa, con tutto quello che ne consegue da un punto di vista sociale, civile e religioso. Sono pagine  da leggere, che fanno pensare. Una lettura per tutti, laici e soprattutto religiosi.  Buona lettura.

“All’Azione Cattolica col biondo Nemecsek”
intervista a Michela Murgia, a cura di Mirella Serri
in “La Stampa” del 16 luglio 2011

 

«Regalare libri è come attivare una bomba a orologeria che magari non deflagra subito ma si accende anche molto tempo dopo». Il pacco dono che ha innescato la miccia di Ave Mary polemico
saggio Einaudi di Michela Murgia su Maria di Nazareth, approdato velocemente nelle classifiche – è stato un gentile omaggio di più di dieci anni fa del teologo Lucio Casula. «Si trattava di In memoria di lei, fondamentale ricerca di Elisabeth Schüssler Fiorenza che è rimasta stampigliata nella mia memoria dando origine all’avventura di Ave Mary poiché mi ha aperto gli occhi sul rapporto tra donne e Chiesa», commenta la scrittrice che ha esordito con Il mondo deve sapere (Isbn edizioni), la prima eclatante denuncia dello sfruttamento dei lavoratori dei call center. Da cui  Paolo Virzì ha tratto il film Tutta la vita davanti .

L’anno scorso si è conquistata il Campiello con Accabadora (Einaudi) e ora è entrata nella schiera degli scrittori che – da Piergiorgio Odifreddi a Giulio Mozzi, autore con Valter Binaghi di 10 buoni motivi per essere cattolici (Laurana editore) – si cimentano con temi religiosi («Mozzi l’ho apprezzato, ma Odifreddi, che si dichiara ateo, è meglio che non si occupi di temi che possono essere di pertinenza di un cristiano critico»). Cumula successi letterari ma ha alle spalle una vita di precariato – venditrice di multiproprietà, operatore fiscale, dirigente amministrativo, portiere di notte -, una lunga militanza nell’Azione cattolica, studi di teologia all’istituto di Scienze religiose.
La narratrice di Cabras è, insomma, proprio una tipa tosta e dura al pari di quei cristalli di quarzo bianco e rosa che danno luce alle bellissime spiagge dove è vissuta e cresciuta.

 

La sua carriera di lettrice ha preso avvio tra sapori di mare e anche profumi di fritti delristorante paterno.
«Specialità pesce. Io viaggiavo con un piatto in mano e in tasca Erno Nemecsek, biondo, delicato e magro protagonista dei Ragazzi della via Paal , destinato a morire di polmonite. Nessun libro è innocente, lascia sempre un’impronta indelebile. Erno è il primo morto che incontro nella mia vita, un ragazzino che come me giocava per strada. Un trauma. A farmi compagnia c’era anche Mark Twain con Le avventure di Tom Sawyer, meraviglioso per l’invenzione linguistica. Poi è arrivata la serie degli Harmony che ha avuto un’influenza positiva. Mi identificavo con quelle giovani  donne, protagoniste semplici e sognanti che ambivano a una casa, un giardinetto, tanti bambini ma che trovavano tanti ostacoli sulla loro strada. Oggi circolano molti snobismi. Credo che non si debba disprezzare la letteratura di genere. Federico Moccia, per esempio, dà vita a cliché in cui i giovani si riconoscono, riprende la storia di Giulietta e Romeo e la cala nel presente. Tutto questo invoglia alla lettura».

In famiglia si leggeva?
«Mia madre soprattutto, e mi ha contagiato. Un virus che non sempre ha dato buoni frutti».


Cos’è successo?

«Avevamo un piccolo negozio in cui si vendevano oggetti di artigianato locale ma anche qualche manufatto di valore. E io anche lì davo una mano. Ero tutta immersa in Stephen King che mi teneva con il fiato sospeso quando, nella stanza a fianco alla mia, arrivano i ladri: così concentrata non li sento e loro si portano via un plateau di gioielli».

Un libro cambia la vita, direbbe Marzullo. Qualche volta in peggio.
«Quella della mia famiglia non c’è dubbio. Mi assolsero dalle mie colpe, ma poi arrivò anche un altro libro a mutare il corso della mia esistenza. Mi dedicavo interamente, con grande trasporto, al volontariato nell’Azione cattolica. All’epoca il mio autore preferito era Erri De Luca che mi travolgeva con lo stile semplice e per la grande profondità della riflessione. A seguire i miei corsi di religione a scuola, su Gesù, San Pietro o gli apostoli, c’erano anche allievi che non erano credenti.
Per coinvolgerli mettevo a confronto cinema, musica, arte, letteratura, mostrando le differenze tra i dissacratori Black Sabbath, gruppo heavy metal britannico, e il più tradizionale Jesus Christ Superstar ; oppure tra il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Mi cimentai anche nel confronto tra Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori e L’ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis, assai discusso per il suo impegno nel dimostrare che il figlio di Dio, pur privo di peccato, era comunque oggetto di ogni forma di tentazione».


Fu galeotto di sventura?

«Venni chiamata in Curia, io che ero vicepresidente diocesano dell’Azione cattolica di Oristano. Il vescovo mi dice: “Carissima, ti seguo con stima e affetto, ma di Kazantzakis non ne devi parlare”.
L’ho vissuto come un affronto. Giro pagina e cerco altri sbocchi professionali, cominciando ad acquistare competenze come direttore del personale in una centrale termoelettrica».

Altre letture che l’hanno segnata?
«Leggevo grandi russi e grandi italiani. Passavo da Dostoevskij a Salvatore Satta, da Tolstoj a Giuseppe Dessì. Poi è arrivato Kafka e poi c’è stato il periodo della letteratura latinoamericana, da García Márquez a Isabel Allende a Borges. Gli inglesi e gli americani non me li sono mai fatti mancare: dal Grande Gatsby di Fitzgerald a Graham Greene al meraviglioso Cronin de Le chiavi del  regno , racconto delle vicende di padre Francis Chisholm, missionario in Cina. A questi si aggiunge la scoperta di italiani, Moravia, in particolare La noia , Calvino, Primo Levi e poi degli story teller Ken Follett e Wilbur Smith e anche degli ebrei americani, da Philip Roth a Paul Auster».


E’ capitato che altri libri regalati segnassero il corso della sua vita? In campo sentimentale?

«Un coetaneo che pensavo mi corteggiasse mi porta un dono: Stefano Benni Il bar sotto il mare , raccolta di racconti dove il bar è un luogo fantastico, si incontrano misteriosi avventori. Però poi la nostra storia non ha decollato: voleva un rapporto intellettuale. Alle ragazze con cui si desiderava avere un flirt si offrivano cd».


Quando lavorava come portiere di notte leggeva?

«Antropologia, sociologia, psicologia mi accompagnavano fino alle prime luci del mattino. Mi ricordo Filippo D’Arino, Manuale di sparizione , che spiega come in un momento in cui la nostra identità è al centro di reti di controllo telematiche sempre più intrusive e anche di relazioni personali sempre più vincolanti e soffocanti, forse non si vuole altro che sparire. Alternavo il Simposio di Platone e Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo che mette in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista».

Ultimi lidi su cui è sbarcata?
«Sorella di Marco Lodoli mi ha riconciliato con la narrativa. Ho alzato il telefono e anche se non lo conoscevo l’ho chiamato per dirgli quanto mi è piaciuto l’incontro tra la suora Amaranta e “il bambino speciale”, un ragazzino afflitto da una forma di autismo, raccontato con una scrittura agile, piacevole, intensa. Poi c’è Elisa Ruotolo, Ho rubato la pioggia , con il suo affresco di una  provincia campana superstiziosa, terra dove si fanno mestieri inverosimili da tempi immemorabili. E perché si smetta di utilizzare il corpo femminile come luogo simbolico, sia nel bene che nel male, mi piace ricordare il video di Lorella Zanardo dedicato al Corpo delle donne. Meditate gente davanti a certe immagini, mi viene da dire».

Benedetto XVI. Donne nel Medioevo.



Il genio femminile nella storia del popolo di Dio” (Torino, Marietti 1820, 2011, pagine 141, euro 12) in libreria dal 20 luglio.

 

 

 

Nelle “collazioni” dedicate ad alcune sante donne, soprattutto mistiche, Papa Benedetto XVI torna a essere il professor Joseph Ratzinger, autore di una tesi di dottorato riguardante La teologia della storia in San Bonaventura (Monaco, 1959), dunque un “collega”, un eccellente conoscitore del pensiero e della spiritualità medievali, con il quale ho l’opportunità di dialogare su un terreno non troppo sbilanciato a mio svantaggio. Nell’opera si può vedere il capo della Chiesa cattolica comportarsi da paziente agiografo, sulle orme del suo lontano predecessore Gregorio Magno, che nei Dialoghi si dedicò ai Patres italici e in particolare alla vita e ai miracoli di san Benedetto.


Benedetto XVI presenta brevi ma accurate puntualizzazioni storiche sulla biografia di alcune sante medievali e riporta diverse citazioni dei loro scritti, perché i fedeli ne percepiscano la ricchezza spirituale e siano magari invogliati a leggerli direttamente. Compie insomma un’opera veramente meritoria di “volgarizzazione” e apre una nuova strada per i cristiani. Sono più di cinquant’anni che la cultura cristiana ha cominciato a riscoprire gli scritti dei Padri della Chiesa e degli autori cristiani della tarda antichità, ma le opere dei maestri spirituali del medioevo, nonostante la loro bellezza e profondità, restano ancora oggi in larga misura “terra incognita”, se si esclude la ristretta cerchia degli eruditi. Dobbiamo dunque rallegrarci quando il Santo Padre sottolinea “l’interesse per il cristiano odierno di attingere alle grandi ricchezze, in gran parte ancora da scoprire, della tradizione mistica medievale”.
L’argomento sul quale Benedetto XVI ha scelto di soffermarsi nelle prediche qui pubblicate coincide con le prevalenze tematiche dei recenti orientamenti della storiografia. I lavori pioneristici di Herbert Grundmann sul ruolo delle donne (la famosa Frauenfrage) nei movimenti religiosi del medioevo risalgono agli anni Trenta del Novecento, ma furono noti solo negli anni Cinquanta e Sessanta.


D’altro canto, la storia delle donne, a lungo trascurata, ebbe grande successo solo a partire dagli ultimi trent’anni del secolo scorso, influenzando anche il campo della storia religiosa. In questo stesso periodo, alcuni cultori della tarda antichità e del medioevo cominciarono a dedicare le loro ricerche alla storia della santità e del culto dei santi, rileggendo le fonti agiografiche in una prospettiva propriamente storica. I discorsi del Papa qui pubblicati si collocano all’incrocio di queste correnti del rinnovamento storiografico. Se ne percepisce chiaramente l’eco, anche se in modo discreto, visto il genere letterario degli interventi che non prevede il ricorso all’erudizione minuziosa.


Senza fare una lezione di storia, che sarebbe risultata fuori luogo, il Papa contestualizza opportunamente alcune nozioni, come quella della reclusione o della mistica nuziale, il cui significato sarebbe potuto sfuggire al grande pubblico, collegandole alla cultura e alla religiosità medievali, fino a fare intendere cosa abbiano comportato tali idee per la vita vissuta di alcune sante donne.


Accanto ad alcune personalità maggiori e largamente note, almeno in linea di massima, come Chiara d’Assisi, Caterina da Siena o Giovanna d’Arco, Benedetto XVI fa posto ad alcune figure meno famose ma non meno interessanti, come le sante monache di Helfta, in Turingia, Matilda di Hackeborn e Gertrude la Grande, la certosina francese Margherita di Oingt e Giuliana di Mont-Cornillon nell’area di Liegi. Come accade in ogni selezione, anche le scelte che il Papa propone, fra tante possibili figure di sante, potrebbero costituire argomento di discussione. Ci si potrebbe interrogare, per esempio, sui motivi dell’assenza di riferimenti alla Beata Maria di Oignies, la cui Vita, scritta da Giacomo di Vitry, è stata la prima biografia mistica nella storia dell’Occidente.
Il Papa pone giustamente l’accento su due aspetti fondamentali: la cultura religiosa delle donne di cui parla e le loro esperienze mistiche. Smentendo un luogo comune duro a scomparire, egli sottolinea il fatto che anche quando per umiltà queste donne si dichiaravano illitteratae, ciò non significa che devono essere da noi considerate ignoranti, quanto piuttosto sprovviste di una formazione di tipo scolastico.
Tanto è vero che dimostrano di possedere una solida cultura biblica, derivante dalla frequentazione dei testi liturgici. Anche le loro visioni o “rivelazioni” non devono essere considerate come dei sogni più o meno fasulli, perché trovano corrispondenza in alcuni concetti teologici ben identificabili. Il Papa si mostra impressionato dall’itinerario spirituale di queste sante, non diversamente da come lo furono nel medioevo i chierici che facevano loro da segretari o confessori.
Queste donne conobbero la vera e propria conversione, il passaggio repentino da una pratica di vita a un’altra, come nel caso esemplare di Angela da Foligno, che si lasciò alle spalle un’esistenza mondana per abbracciarne una penitenziale, fino a stabilire con Cristo una relazione intima che sbocciò in un’esperienza di vita unitiva con Dio stesso. A tal riguardo è particolarmente interessante il passo che il Papa dedica a Caterina da Genova, dove afferma che la mistica autentica, ben lungi dal mirare a una felicità narcisistica o a un distacco dagli esseri umani, è invece portata ad aprirsi agli altri, proprio perché comincia a vederli con gli occhi di Dio e ad amarli con il suo cuore.


Si tratta di una precisazione molto opportuna, che corregge una certa tendenza degli agiografi medievali. Questi, infatti, erano portati a codificare la vita delle loro eroine, dopo la conversione, come esistenza segnata non solo dal disprezzo del mondo in cui prima erano vissute, ma anche da una totale indifferenza nei confronti della sorte del prossimo, il quale fungeva come rappresentazione dell’ostacolo nei confronti della scelta di vita contemplativa. Sarebbe improprio voler estrarre da questi testi, il cui fine è più pastorale che dottrinale, una ricognizione sistematica e comparativa, tra ieri e oggi, a proposito del ruolo della donna nella vita religiosa, benché il Papa non esiti in alcune circostanze a sollevare, anche a tal riguardo, problemi importanti, come quando afferma che le donne, pur essendo escluse dal sacerdozio ordinato, hanno avuto e hanno un ruolo peculiare nella Chiesa, grazie ai carismi di cui sono spesso gratificate dallo Spirito Santo. Si riferisce specialmente ai doni della visione e della “capacità a discernere i segni dei tempi”, cioè di profetizzare per il bene del popolo cristiano, come fecero nel medioevo Ildegarda di Bingen e Brigida di Svezia. Alcune delle sante donne, di cui Benedetto XVI analizza e presenta qui la vita, avevano però superato le fratture tradizionali riguardanti le specializzazioni dei ruoli tra uomini e donne. È il caso, per esempio, di Ildegarda, che fu autorizzata da Eugenio III sia a rivolgersi ai fedeli e al clero per riportarli a una vita migliore sia a predicare a Colonia contro i catari.


Allo stesso modo, il Papa pone l’accento sulle notevoli doti teologiche di Gertrude la Grande, che l’avevano predestinata all’apostolato. Non dobbiamo dimenticare, d’altra parte, che nel medioevo era diffusa la credenza secondo cui santa Maria Maddalena sarebbe andata in Provenza con il fratello Lazzaro, dopo l’Ascensione di Cristo, per evangelizzare i pagani.
Scegliendo qui di parlare solo di figure femminili, il Papa evidenzia che le donne sante hanno precorso i tempi, con intuizioni e premonizioni che la Chiesa avrebbe ripreso e codificato solo in seguito. Illustra, per esempio, come la devozione di Giuliana di Mont-Cornillon, riguardante la presenza “reale” di Cristo nell’Eucaristia, abbia contribuito poi all’istituzione della festa particolare in onore del Corpus Domini e alla sua estensione all’insieme della cristianità con Papa Giovanni XXII nel 1317.
I testi di Benedetto XVI mettono inoltre l’accento sulla radicalità dell’impegno delle donne, una volta che esse hanno accolto la rivelazione dell’elezione divina e la conseguente vocazione alla missione. Il Papa evidenzia l’esempio di Giovanna d’Arco che, pur essendo stata condannata a morire sul rogo da un tribunale ecclesiastico, non derogò mai alla sottomissione nei confronti dell’autorità della Chiesa. Avrebbe anche potuto riferirsi a Chiara d’Assisi che, durante tutta la sua vita religiosa, si sforzò di resistere ai tentativi del papato miranti a imporre alle “Povere Dame recluse” di San Damiano una regola di stampo benedettino, che avrebbe loro consentito di acquisire beni, mentre lei li rifiutava per non rompere l’ultimo legame con i frati minori e con la povertà evangelica promessa a san Francesco.


Benedetto XVI riprende questi due punti quando ricorda che le richieste di Chiara d’Assisi furono soddisfatte alla vigilia della sua morte e quando sottolinea che fu la prima donna a scrivere la regola dell’ordine religioso da lei stessa fondato. È vero anche, però, che già nel secolo XII, Eloisa, dopo il suo ingresso nel monastero del Paraclito, stese personalmente una regola, ed è vero anche che quella di santa Chiara venne ben presto sostituita da un’altra – quella di Papa Urbano IV – che imponeva alle clarisse di accettare possedimenti e redditi fissi.


La testimonianza delle sante, qui proposta da Benedetto XVI alla meditazione dei fedeli, libera il sesso a torto ritenuto debole sia dai sospetti dipendenti dalla simbologia di Eva responsabile del peccato originale sia dai pregiudizi di debolezza intellettuale e morale trasmessi al medioevo cristiano dalla tradizione letteraria antica. Il Papa ricorda, proprio attraverso la storia, che alcune di loro, sia monache sia laiche, sono salite ai vertici dell’esperienza religiosa attraverso l’unione mistica con Cristo, fino al punto di esercitare un forte ascendente sui chierici che le seguivano e diffondevano i loro messaggi.

(©L’Osservatore Romano 17 luglio 2011)


Nuova luce sul medioevo

 

con la Disciplina Clericalis e Valfrido Strabone

Collana inedita della casa editrice Pacini curata dal professor Francecso Stella

 

Riscoprire l’affascinante e oscuro Medioevo attraverso i testi che lo hanno reso grande. È stato tradotto in italiano “La Disciplina Clericalis”, opera,  in latino, più famosa di Pietro Alfonsi, ebreo spagnolo convertito al cristianesimo. Una raccolta di storielle e aneddoti esemplari che introduce all’interno della letteratura latina medievale temi e forme delle culture orientali, ebraica ed araba, riferibile sia a tradizione orale, sia, a tratti, a capolavori letterari, dal Kalila e Dimna alla Storia dei sette sapienti, dal Pancatantra alle Mille e una notte. L’opera, in sostanza, intende fornire un’istruzione ai “chierici” e influenzerà le raccolte di novelle del Basso Medioevo, dal Decameron di Boccaccio al Novellino.  Un libro davvero sorprendente e che si suppone rappresenti la prima introduzione, nell’Europa cristiana, della narrativa orientale. Comprende ben 33 dialoghi di fonte araba e, in qualche caso, persianaindù.

 

L’opera, in modo più dettagliato,  si compone di un prologo, che tratta del concetto del timor di Dio, e di tre parti centrali, che trattano dei vizi e delle virtù umane, delle relazioni dell’ uomo con il suo prossimo, del rapporto dell’uomo con Dio e della fugacità delle cose terrene. Termina riprendendo l’idea del prologo e l’epilogo consiste in una vera e propria invocazione a Dio. Questa raccolta, è doveroso sottolinearlo, costituisce uno dei testi principali della novellistica medievale e grande è stata la sua fortuna anche in età moderna e contemporanea. “La Disciplina Clericalis” si inserisce nella collana inedita “Scrittori latini dell’Europa Medievale”, curata dal professor Francesco Stella ed edita dalla Casa Editrice Pacini. Esito di un progetto europeo per la conoscenza di testi mai tradotti in italiano, ospita racconti fantastici, poemi epici, storie di furti di reliquie, raccolte di canzoni latine e di aneddoti arabi, lettere, trattati medici, visioni dell’Aldilà e satire sociali che spalancano le porte del pubblico più ampio a un patrimonio sommerso finora riservato a pochi specialisti.

Obiettivo della collana, come scrive il curatore Francesco Stella nella premessa generale, è contribuire a superare “l’oscuramento della memoria testuale del Medioevo latino dai programmi scolastici e da gran parte dei curricula universitari, che lascia inesplorato un patrimonio immenso di invenzioni, racconti, cronache, meditazioni, favole, trattati, visioni, liriche, fatti, luoghi ed emozioni”. Questa limitazione ha impedito a lungo di inserire la conoscenza dell’arte, della religiosità e dell’immaginario medievali in una rete di testi che si potessero leggere in traduzioni accessibili.

Nove i volumi tradotti finora, ma la collana è destinata a crescere con nuovi testi. Tra questi  la prima visione poetica dell’aldilà, antenata della Divina Commedia nel “Valfrido Strabone”, un’opera del più grande poeta dell’epoca carolingia appena diciottenne, che inaugura in mille versi una tradizione tipicamente medievale con un viaggio fra Inferno e Paradiso, che apre squarci potenti sulle figure storiche principali del periodo, sulla società delle corti e delle abbazie,sui movimenti di riforma che agitavano la società del IX secolo. I sogni di un monaco dell’isola di Reichenau, sul lago di Costanza, diventano allora strumento per produrre satira di costume e critica politica in versi di fattura epica.


Eleonora Prayer

 

La teologia del Novecento

 

 

Fulvio Ferrario, La teologia del Novecento, Carocci, 2011, pp. 304, € 24


 

Anche se il XX secolo ha conosciuto una crisi del rapporto tra Chiese e società — le grandi masse lontano dalle pratiche religiose, l’ateismo comunista al potere, la secolarizzazione — non si può dire che la teologia del Novecento sia stata debole, anzi. Quasi come una forza di reazione, essa ha saputo opporsi alle sfide del «secolo breve» e oggi ci accorgiamo che figure come Karl Barth o Dietrich Bonhoeffer, Hans Urs von Balthasar o Rudolf Bultmann restano indiscussi punti di riferimento. Quella del Novecento è stata una teologia che sino a una buona parte degli anni Sessanta ha parlato tedesco, poi ha preferito l’inglese, grazie anche ai mezzi messi a disposizione dagli istituti americani; inoltre si può dire che questa ricerca continua di Dio ha avuto alimentatori filosofici formidabili (primo fra tutti Martin Heidegger) o spazi nuovi di confronto (genetica o tecnologia), soprattutto si è trovata davanti una società che al trascendente ha chiesto soluzioni sulla terra. È insomma stato un pensiero che ha saputo riflettere sulla morte di Dio (tema già presente in Schiller e nell’Ottocento tedesco prima che in Nietzsche, divenuto però popolare nella seconda metà del Novecento) e infine sulle scoperte di Qumran e di Nag Hammadi. I testi qui ritrovati hanno avviato nuovi capitoli di storia dell’esegesi della Parola. Fulvio Ferrario ha tracciato con competenza l’avventura di questo universo ne La teologia del Novecento (Carocci, pp. 304, € 24), offrendoci un manuale utile e comprensibile.

È il ritratto dell’anima del secolo scorso, oltre che il registro di tanti pensieri sopravvissuti alle guerre e alle ideologie. Dieci decenni che con Freud hanno creduto che Dio potesse essere «un padre potenziato» (in Totem e tabù) e con Einstein si sono infine accorti che il Creatore non gioca mai a dadi con il mondo.


in “Corriere della Sera” del 5 luglio 2011

Mai più Sanremo a Messa

 

La Chiesa e la musica di Dio “Mai più Sanremo a messa” Ora il Papa invita a cambiare partitura. Per tornare all’antico

 


È ora di mettere al bando le «armi di distruzione di messa». Nella Chiesa italiana, spesso divisa, c’è un argomento che mette d’accordo tutti, un po’ più scandalizzati i tradizionalisti, un po’ più ironici i progressisti: le canzoncine devote che si ascoltano ogni domenica in tutte le parrocchie della penisola tra l’introibo e il missa est sono quasi sempre desolanti, banali, lagnose o bizzarre, talora ridicole e a volte perfino sbadatamente eretiche. Tanto che nessuno giurerebbe che lo strepitoso rap che la regista Alice Rohrwacher, appena acclamata a Cannes, fa cantare ai catecumeni nel suo film Corpo celeste («Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta») sia del tutto inventato, e non magari ascoltato veramente in  qualche oratorio di periferia.
Non si può dire che gli allarmi non siano risuonati, è il caso di dire, molto in alto. Già venticinque anni fa l’allora cardinale Ratzinger fu spietato con la playlist degli altari: «Una Chiesa che si riduca a fare solo della musica “corrente” cade nell’inetto e diviene essa stessa inetta». Oggi, da pontefice
amante della musica, insiste sul concetto in un libro, Lodate Dio con arte, applaudito dal maestro Riccardo Muti, anche lui esasperato da «quelle quattro strimpellate di chitarre su testi inutili e insulsi che si ascoltano nelle chiese, un vero insulto». La questione sta diventando spinosa, anzi esplosiva, perché da anni è sullo stile delle celebrazioni che si gioca l’aspra contesa tra conciliaristi e restauratori, con i secondi al facile attacco di quella «eresia  dell’informe», come la definisce lo scrittore tedesco Martin Mosebach, che corrode la liturgia a colpi di «canti sguaiati». «A che serve avere belle chiese se la musica è penosa?», insorse dieci anni fa l’allora presidente del Pontificio istituto di musica sacra, il catalano Valentino Miserachs Grau.
La Chiesa francese ha risolto la questione da tempo, con piglio gallicano, stilando una lista rigorosa e vincolante di canti ammessi, una sorta di canatur, versione canora dell’imprimatur. Invece in Italia, sede del cattolicesimo ma anche patria del bel canto, l’anarchia del parrocchia’n’roll sembra ingovernabile. Ogni diocesi dovrebbe possedere un Ufficio di musica sacra tenuto a vigilare sulla serietà del sacro pop, ma di fatto quel che finisce per risuonare tra banchi e navate è quasi sempre frutto della creatività improvvisata di qualche catechista munito di iPod, o di certi sacerdoti chitarristi. La scena, un po’ dovunque, dev’essere quella frettolosa e distratta descritta dal bolognese don Riccardo Pane nel suo sconsolato pamphlet Liturgia creativa: «Prima della messa mi piomba immancabilmente in sacrestia qualcuno a chiedere: “Don, che cosa cantiamo?”, e il mio ritornello è inesorabilmente “vatti a leggere le antifone e vedi se trovi un canto che ci azzecca”».
Il risultato è nelle orecchie di tutti. Reperibile a vagonate anche sui canali di YouTube, pure in versioni medley e remix. Motivetti che non ci azzeccano proprio, incongruità (Signore scende la sera cantato alla messa delle 11 di mattina), cascami di musica di consumo, simil-Ramazzotti e para-Baglioni, esotismi world music con bonghi e maracas (come il cantatissimo Osanna-eh «africano») che sconcertano le vecchiette, azzardi stilistici estremi (c’è un Gloria hip-hop), perfino cover da grandi successi (allucinata la parafrasi del Pater sull’aria di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel: «Padre Nostro tu che staiiii / in chi ama veritàaaa…»). La ribellione è nell’aria, un gruppo Facebook frequentato da sacerdoti ha stilato perfino la classifica dei canti più disastrosi: ha vinto con 374 nomination l’Alleluja delle lampadine, ribattezzato così perché di solito è accompagnato da gesti delle mani che sembrano mimare il lavoro di un elettricista. L’arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra ha spuntato personalmente a matita rossa dai libretti parrocchiali i canti «che non devono più esserci», come Alleluja la nostra festa, visto che, semmai, la messa è la festa del Signore. Da più parti s’invocano il ripristino d’autorità del Gregoriano e la disciplina monostrumentale dell’organo a canne, o almeno dell’armonium.
Sotto queste pressioni, un paio d’anni fa la Conferenza episcopale chiese al suo consulente don Antonio Parisi, esperto di musica sacra e compositore, di mettere ordine nello sconcertante frastuono. Povero don Antonio, si trovò di fronte un oceano di quindicimila canti, canzoni e canzoncine estratti da quarantacinque anni di raccolte nazionali e locali. E c’era di tutto. Delle musiche abbiamo detto, ma i testi, i testi ancora peggio. Pieni di parole tronche, da poesiola delle elementari («Il nostro mal / sappi perdonar…»), banali, inappropriate, di orrori grammaticali («Te nel centro del mio cuor»), di espressioni rubate a qualche spot televisivo di banche («Tutto ruota intorno a Te»), quando non sono zeppi di ingenuità (definire Maria «l’irraggiungibile» non è incoraggiante per la partecipazione al rosario) e di veri e propri strafalcioni teologici, commessi sicuramente in buona fede, magari per far quadrare un verso: cantare «Tu che sei nell’universo» solo perché «nell’alto dei Cieli» non ci stava, più che riecheggiare una canzone di Mia Martini  significa circoscrivere Dio dentro la sua Creazione, e non va proprio bene.
Un compito immane, defatigante, sconsolante, da cui don Parisi riuscì meritoriamente a far scaturire un Repertorio nazionale di canti per la liturgia che ne seleziona 384 decenti e adeguati, ma che ancora non fa testo: «Non si può procedere per imposizioni», spiega, «bisogna formare, formare persone nelle diocesi, nelle parrocchie, far studiare musica ai presbiteri, agli animatori, ai catechisti, il canto liturgico non è un optional, è un segno sacro».
Giusto non voler guastare l’entusiasmo degli animatori parrocchiali, volonterosi e incolpevoli. Ma il punto è questo, che i canti durante la messa non sono un “accompagnamento”, non sono gli “stacchetti” fra un responsorio e una lettura: fanno parte della liturgia, sono cosa sacra come le parole  dell’Elevazione. Come è possibile che la stessa Chiesa che ripristina la messa in latino chiuda un occhio di fronte alla colonna sonora da X-Factor di quella in italiano? I conservatori hanno una spiegazione storica: la profanazione canora cominciò con «la deflagrazione nucleare» chiamata “Messa Beat”. Chi la ricorda? Anno 1965, Concilio appena terminato, fibrillazione del rinnovamento, il maestro Marcello Giombini accantonò le colonne sonore degli  spaghetti-western e, ispirato, scrisse una messa musicale «per i giovani». Davvero una bomba atomica. Trasmissioni Rai, concerti, tournée internazionali, benedizione del gesuita padre Arrupe, 45 giri pubblicati dall’etichetta discografica delle Edizioni Paoline. Il torrente non si fermò più, proliferarono i «complessi» da scantinato di canonica, alcune band divennero famose, Angel and the Brains, The Bumpers, per non dire delle due formazioni parallele dei Focolarini, Gen Verde e Gen Rosso, le cui audiocassette infestano ancora gli oratori. Ma fu così che la Chiesa non perse l’onda del Sessantotto.
E non fu affatto una sciagura, assicura monsignor Vincenzo De Gregorio, responsabile per la liturgia musicale della Cei: «Prima le messe erano o tutte recitate o tutte cantate, ma cantate solo dal coro, solo da ascoltare. La Messa Beat fu una sana apertura, ed era di qualità, il guaio come sempre  sono gli epigoni. Anzi, il guaio è la cultura musicale inesistente degli italiani. In questo Paese ormai si canta solo a messa».
I tradizionalisti sbagliano. Dare la colpa al Concilio è troppo facile, anche la Chiesa guardinga dell’Ottocento ebbe parecchi problemi con le hit parade da altar maggiore. Sentite come nel 1884 la Sacra congregazione dei riti elencò con disgusto quel che rimbombava tra le navate: «Polcke, valzer, mazurche, minuetti, rondò, scottisch, varsoviennes, quadriglie, galop, controdanze, e pezzi profani come inni nazionali, canzoni popolari, erotiche o buffe,  romanze…». Il difetto della Chiesa post-conciliare semmai fu trovarsi musicalmente impreparata alla sua stessa rivoluzione liturgica.
Con l’abbandono del latino, la Cei predispose il nuovo messale in italiano, ma trascurò il rinnovamento del repertorio canoro. A disposizione c’erano solo un po’ di litanie antiquate, Mira il tuo popolo, T’adoriam ostia divina. «Ai parroci non restò che prendere le canzonette del gruppo rock che faceva le prove in oratorio, o quelle dell’ultimo campeggio scout, e portarle sull’altare», sospira monsignor De Gregorio. Risultato: un’infantilizzazione drastica dei contenuti, degli stili, dei testi.
Eppure ci sono, nel grande mondo ecclesiale, talenti da utilizzare, compositori di qualità. Don Parisi li cita con rispetto: don Marco Frisina, compositore apprezzato anche negli Usa, don Pierangelo Sequeri, autore del diffusissimo Symbolum 77, il gesuita Eugenio Costa, il camilliano Giovanni Maria Rossi, il salesiano Domenico Machetta… «Vedo il bicchiere mezzo pieno: sono passati solo cinquant’anni dalla riforma conciliare, è presto per tirare delle conclusioni». La Cei sta pensando di commissionare a loro un nuovo repertorio, finalmente di qualità. Nell’attesa, quando rintocca la campana della messa, viene ancora il sospetto che le parrocchie d’Italia, come patrono della musica, non invochino santa Cecilia, ma Sanremo.


in “la Repubblica” del 16 giugno 2011

Come si diventa un ateo credente

 

Hilary Putnam, Filosofia ebraica, una guida di vita, Carocci, 2011

intervista a Hilary Putnam, a cura di Antonio Gnoli

 

Dopo aver letto il libro – bello e intenso come un appassionato esame di coscienza – verrebbe voglia di capire perché Hilary Putnam – che per sessant’anni ha scritto di “fatti e valori” e di filosofia della scienza, con l’autorità che tutti gli riconoscono a livello internazionale – abbia deciso di aprirsi alle grandi interrogazioni religiose e al mistero che le avvolge. Putnam ha da poco pubblicato Filosofia ebraica, una guida di vita (edito da Carocci con una postfazione di Massimo Dell’Utri e Pierfrancesco Fiorato) e già il titolo mette in chiaro che non si tratta di una ricostruzione neutra del pensiero di Rosenzweig, Buber, Lévinas e Wittgenstein, ma di una vera e propria lettura che implica una scelta di campo, un’adozione e una solidarietà intima con il pensiero ebraico.
Putnam è nato a Chicago, ha 85 anni ed è considerato il più grande filosofo analitico in circolazione. Egli ha appena consegnato per la Harvard University Press una raccolta di saggi dal titolo Philosophy in the Age of Science. Di formazione è un matematico e un logico e in passato si è occupato di filosofia del linguaggio e della mente.

 

Professor Putnam da dove nasce il bisogno di misurarsi con i problemi della fede, oltretutto abbracciandone la sostanza spirituale?
«È stato Kierkegaard a parlare del salto della fede, che deve avvenire solo dopo la riflessione. Io ritengo che avere una propria vita spirituale sia una benedizione, ma senza riflessione si rischia di provocare quei disturbi o malesseri che spesso accompagnano la religione».

 

Quali malesseri?
«Kant ne ha elencati quattro: fanatismo, superstizione, delusione, stregoneria. Sono un gran pericolo per chiunque abbracci una religione».


Lei utilizza alcuni importanti pensatori ebraici come antidoto ai pericoli che una religione può rappresentare. Ma che cosa hanno in comune Rosenzweig, Buber e Lévinas?

«Sono molto diversi tra loro, ma hanno in comune il fatto di filosofare nel solco della tradizione ebraica e di essere tutti e tre dei filosofi esistenzialisti. Ossia tutti e tre sarebbero d’accordo nell’affermare che filosofi e religiosi sono tali per il loro modo di essere al mondo e non solo per la loro capacità di sviluppare una teoria. Questo aspetto, che reputo fondamentale, è un loro debito nei confronti di Kierkegaard».

 

Ma si può essere, come nel suo caso, insieme atei e credenti? Non si rischia di confondere due piani inconciliabili?
«Da un lato, non credo nel sovrannaturale e agli occhi di molta gente questo mi rende un ateo; benché preferisca personalmente usare questo termine solo per chi si oppone attivamente alla religione. D’altro canto, credo che gli ideali religiosi e morali abbiano una qualche validità. In altre parole, penso che valori e ideali sono costruzioni umane, ma le richieste che questi ci permettono di esaudire non sono state inventate da noi. Non scherzo né mento quando affermo che pregare Dio – cosa che faccio ogni giorno – , non è pregare un essere fittizio. Per alcuni questo fa di me un
credente. Ma ciò in cui credo quando dico: “credo in Dio” non è affatto quello che l’ateo nega quando dice: “Dio non esiste”. Capisce perché quello tra un ateo e un credente può diventare un dialogo tra sordi».

 

Si può ricondurre la distinzione tra atei e credenti a una più generale distinzione tra fatti e valori?
«Non penso che i valori non religiosi – morali, epistemologici ecc. – presuppongano la religione o Dio. Ci dicono, semplicemente, che esistono modi di vivere, di ragionare, di agire che sono migliori o peggiori di altri. Non vedo il naturalismo in filosofia incompatibile con il credere nella realtà normativa. Chi è scettico sulla normatività del mondo lo sarà sicuramente anche sull’idea che il modo di vita religioso possa avere un valore oggettivo».


Nella sua visione filosofica viene prima la conoscenza scientifica o quella religiosa?

«Penso che la religione non dovrebbe essere considerata una forma di conoscenza. Quando alcuni invocano l’autorità della religione per negare dei dati scientifici (per esempio l’evoluzione), ebbene essi sono semplicemente irrazionali. Inoltre la conoscenza morale – il sapere cioè che tutti noi siamo degni di rispetto e abbiamo dei diritti – non dipende dalla religione che professiamo».

 

Lei è considerato un filosofo realista. Immagino che sia una definizione che non la soddisfi più?
«Al contrario mi soddisfa pienamente, come cercherò di dimostrare con il nuovo libro che ho appena consegnato».

 

La sua idea di religione?
«Un mio amico e grande studioso delle religioni di tutto il mondo, ripeteva spesso che nessuna delle religioni era interamente buona e, per spiegare la sua piccola provocazione, aggiungeva: “potrei mostrarti altrettante differenze tra i Metodisti della Londra del 1815, quante si presuppone ce ne siano tra tutte le altre religioni del mondo”. Dal mio punto di vista, un modo di vita religioso soddisfacente deve condurre verso il fiorire, compreso il fiorire morale, dell’individuo e della comunità. Quello che la religione non deve fare è creare dei dogmi su argomenti scientifici e morali».

 

Lei ha scritto della pagine molto interessanti su Lévinas che come sa è stato un allievo di Heidegger. Cosa pensa di Heidegger?
«Credo che il pensiero di Heidegger sia stato profondamente permeato dalla sua lunga simpatia per il nazionalsocialismo. Già da prima che Hitler prendesse il potere. So che questa interpretazione è controversa. Ma è un fatto che già in Essere e Tempo Heidegger è convinto che noi scegliamo il nostro destino scegliendo il nostro eroe e aggiunge che non si sceglie solo per se stessi, ma anche per il proprio Volk. L’autenticità che egli difende non ha nulla a che vedere con l’individualità. Essa nasce dalla venerazione per il Volk e la sua presunta grandezza. Non nego che fosse un genio. Dal mio punto di vista ritengo però fosse un genio del male».

 


Lei sostiene di non credere in una vita ultraterrena e di non credere nei miracoli o in un Dio che ci salva dai disastri. Su cosa basa la sua fede?

«Come Kant, ritengo che il genere più prezioso di religiosità non riponga sull’attesa di una qualche ricompensa. E d’altronde, Kant aveva ragione quando affermava che molte persone hanno bisogno di credere nella vita eterna e in una ricompensa dopo la morte. Io no. Ma non posso disprezzare ciò che dà alla gente il coraggio di andare avanti. Purché questo non porti all’intolleranza».

 

 

in “la Repubblica” del 31 maggio 2011