Qualcosa di così personale.

CARLO MARIA MARTINI,Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera, Mondadori Milano, 2009,  pp.
120, Codice EAN: 9788804594680, € 17,50 Come e perché pregare? Carlo Maria Martini tocca uno dei temi più importanti non solo per il cristiano ma per chiunque si trovi ad affrontare le innumerevoli circostanze della vita.
“La preghiera – scrive il Cardinale – è la risposta immediata che ci sale dentro il cuore quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere, momenti in cui ci sentiamo come tratti fuori dalla schiavitù delle immanenze quotidiane”.
Ma la preghiera è anche “la forza che si oppone alla paura di cambiare, di lanciarsi su nuove vie”.
<a href=”http://ads.bol.it/www/delivery/ck.php?n=ad042fd3&cb=%n” target=”_blank”><img src=”http://ads.bol.it/www/delivery/avw.php?zoneid=22&n=ad042fd3&ct0=%25c” border=”0″ alt=”” /></a> La preghiera è qualcosa di estremamente semplice, qualcosa che nasce dal cuore.
Con queste parole il cardinale Martini ci introduce nel tema del suo nuovo libro, dedicato a uno degli aspetti più intimi e delicati del rapporto con Dio: la preghiera.
E la risposta immediata che sale dal profondo quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere.
Il che può avvenire in molti modi, diversi per ciascuno di noi: davanti a un paesaggio di montagna, in un momento di solitudine nel bosco, ascoltando una musica.
Sono momenti di verità dell’essere, nei quali ci sentiamo come tratti fuori dalla schiavitù delle invadenze quotidiane, che ci sollecitano continuamente.
Facciamo un respiro più ampio del solito, avvertiamo qualcosa che si muove dentro di noi, ed ecco elevarsi una preghiera: Mio Dio ti ringrazio , Signore, quanto sei grande! .
Questo riconoscimento di Dio è la preghiera naturale, la preghiera dell’essere.
Ogni nostra preghiera parte da tale principio: l’uomo che vive a fondo l’autenticità delle proprie esperienze sente immediatamente, istintivamente, l’esigenza di esprimersi attraverso una preghiera di lode, di ringraziamento, di offerta.

Uomovivo

Come il gran vento arrivò a casa Beacon  Il vento si levò alto ad occidente come un’onda d’irragionevole felicità, e si slanciò verso oriente sull’Inghilterra, portando seco il nevoso aroma delle foreste e la gelida ubbriachezza del mare.
In mille buchi e cantucci ristorò la gente come un boccale di vin fresco e la sorprese come una percossa.
Nelle stanze più riposte di case labirintiche e recondite, suscitò come un’esplosione domestica; seminò l’impiantito di fogli professorali, tanto più preziosi quanto più fuggitivi; e spense la candela al lume della quale un ragazzo leggeva l’Isola del Tesoro, avvolgendolo in un’oscurità piena di rombo.
E dappertutto suscitò drammi in esistenze senza dramma, e suonò le trombe della crisi sul mondo.
Più d’una madre meschina, in qualche povero cortile, aveva guardato cinque camicine tese ad asciugare come si guarderebbe una tragedia miseranda; quasi ella avesse impiccato i suoi piccini.
Arrivò il vento: le camicine si gonfiarono e balzarono, come se vi fossero saltati dentro cinque grassi folletti; e nella stanca subcoscienza ella ricordò confusamente le rozze commedie de’ padri, a’ tempi che gli elfi abitavano ancora le case degli uomini.
Più d’una fanciulla derelitta, in un giardino murato e umidiccio, s’era buttata sull’amaca con lo stesso gesto di non poterne più col quale avrebbe potuto buttarsi nel Tamigi; e il vento le squarciò intorno l’ondeggiante muraglia di fogliame, e sollevò l’amaca a guisa di pallone, rivelando strane forme di nuvole in alto, e lontane visioni di villaggi splendenti, quasi che ora ella viaggiasse pel cielo in una magica barca.
Più d’un impiegato o d’un curato scarpinava tutto polveroso per una strada telescopica fiancheggiata di pioppi, rassomigliandoli per la centesima volta a pennacchi d’un carro funebre: quando cotesta forza invisibile li curvò a diadema intorno alla sua testa, e li fece rombare come un saluto d’ali angeliche.
E v’era in tutto ciò qualcosa d’ancor più ispirato e imperativo che non nel vecchio vento del proverbio; perché questo era il buon vento che non fa male a nessuno.
La folata s’abbatté nel punto ove Londra si inerpica sulle alture settentrionali, di terrazza in terrazza, scoscesa come Edimburgo.
Fu press’a poco in cotesto punto che qualche poeta, probabilmente ubriaco, guardò stupefatto tutte quelle strade che salivano verso il cielo, e (pensando vagamente a’ ghiacciai e agli alpinisti legati alle corde) dette alla località quel nome di Villaggio Svizzero che non le è più riuscito di levarsi d’addosso.
A una certa altezza, una fila di case alte e grige, vuote la maggior parte e desolate come i Grampiani, piegava ad arco verso occidente; e l’ultimo edificio, una pensione chiamata “Casa Beacon”, presentava al tramonto uno spigolo tagliente e torreggiante, come la prua d’una nave abbandonata.
Ma la nave non era abbandonata del tutto.
La proprietaria della pensione, certa signora Duke, era di quelle creature imbelli contro le quali il destino s’accanisce invano; ella sorrideva vagamente, avanti e dopo le sue sciagure, troppo molle per restarne colpita.
Con l’aiuto (o piuttosto sotto gli ordini) d’una nergica nipote, tratteneva i resti d’una clientela per la maggior parte giovane e bighellona.
Appunto cinque ospiti stavano ad annoiarsi in giardino, quando la raffica venne a rompere alla base del bastione retrostante, come il mare contro una scogliera.
Tutto il giorno quella collina di case sopra Londra era rimasta sigillata dentro una cupola di fredde nubi.
Malgrado ciò, tre uomini e due ragazze avevano finito per trovar preferibile il giardino, grigio e freddo, alle stanze nere e piene di malinconia.
Il vento giunse, spaccò il cielo, scaricò a destra e a sinistra la nuvolaglia, e spalancò le grandi fornaci radiose dell’oro serotino.
E l’irrompere della luce liberata e l’irrompere del vento, parvero avvenire quasi allo stesso istante; e il vento travolse ogni cosa in una violenza convulsiva.
L’erba corta e lucente si piegò tutta per un verso, come i capelli sotto la spazzola.
storica traduzione di Emilio Cecchi.
 GILBERT KEITH CHESTERTON, Uomovivo, Morganti Editori,  2009, Codice EAN: 9788895916019, pg.
256,  € 15,00 Continua la primavera italiana di Gilbert Keith Chesterton.
Dopo la riedizione di L’uomo eterno (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008) – era stata fuori commercio per oltre settant’anni – le doppie nuove traduzioni del San Francesco d’Assisi (Mursia e Lindau) e del San Tommaso d’Aquino (Fede&Cultura e Lindau), è tornato anche il suo capolavoro:  Uomovivo (Sona, Morganti, 2009, pagine 256, euro 15).
Era riapparso nel 1997 per Piemme nella memorabile traduzione (1933) di Emilio Cecchi.
In questa nuova versione di Paolo Morganti viene ripristinato il titolo originale Manalive, splendidamente tradotto con Le avventure di un uomo vivo.
E dire che lo stesso Chesterton dava grande importanza al soprannome del suo protagonista, tanto da precisare:  “Dovete scriverlo tutto attaccato, oppure lui si arrabbia davvero”.
Ma chi è, dunque, questo “uomovivo”? È Innocenzo Smith, vitale come una scimmia, fisico colossale e testa piccola, che compare d’improvviso in una locanda dove un pugno di giovani inquilini spreca la propria esistenza nell’indecisione.
Smith è bufera umana.
Al suo passaggio, folle e smisurato, avvengono episodi inspiegabili:  improvvise proposte di matrimonio, furti, rapimenti e pistolettate a chi non festeggia il proprio compleanno.
L’onda di avvenimenti anomali preoccupa le autorità e viene improvvisato un processo surreale per capire chi è Innocenzo Smith.
Un rivoluzionario, uno “che ha spezzato le consuetudini, ma ha conservato i comandamenti”, come vuole la difesa? Oppure – come sostiene l’accusa – uno che “ha lasciato nel mondo, dietro di sé, una lunga scia di sangue e di lacrime”, un “grande diavolo fantastico” da rinchiudere in una fortezza protetta da cannoni? Due posizioni inconciliabili, assolute.
Da teodicea.
E in effetti viene da chiedersi se Innocenzo Smith non sia in una certa misura una figura tipologica di Cristo, l’innocente che non apre bocca mentre lo processano. D’altra parte la metafora del processo metafisico – tanto cara a Dostoevskij, Kafka, Lagerkvist o Wiesel – torna spesso nella narrativa di Chesterton (L’uomo che fu giovedì, la conclusione di Il club dei mestieri stravaganti, Quattro candide canaglie, e così via).
Ma i suoi romanzi finiscono con improvvisi proscioglimenti da ogni accusa.
Allegre assoluzioni.
Chi è, allora, Innocenzo Smith? Certamente non la versione maschile di Mary Poppins in salsa dolciastra.
Perché Smith è innocente, ma non ingenuo.
Anzi, è genuino proprio perché non è ingenuo.
Cani e bimbi – invocati dal suo avvocato nel finale – sono ingenui, perché non possono scegliere il male; mentre Smith è innocente perché ha conosciuto la malattia nichilista, però ha optato coraggiosamente per un’altra strada.
Nelle pagine che raccontano la disputa dell’ancora giovane Smith con il suo professore universitario, il pessimista Emerson Eames, si percepisce un’impellenza straordinaria, palesemente autobiografica.
Perché Smith prende sul serio la filosofia del suo professore:  o, come egli sostiene, la vita è orribile nonsenso, e allora morire è un dono da regalarsi subito; oppure è la filosofia pessimistica a essere un orribile nonsenso, e allora bisogna estirparla con acribia.
Provato che, nonostante i suoi roboanti proclami, il professor Eames si aggrappa alla vita quando gli viene puntata addosso una pistola, Innocenzo si dedicherà con zelo alla seconda alternativa.
Ma le parole che suggellano la sua scelta sono, letteralmente, lapidarie:  “Io dovevo provare che lei aveva torto o dovevo morire”.
L’innocenza di Smith è stata comprata a caro prezzo.
Egli non è irragionevolmente felice perché non ha mai conosciuto la disperazione, ma ragionevolmente entusiasta perché l’ha attraversata a nuoto, guadagnandosi la gioia di vivere bracciata dopo bracciata.
“Fino a che non vediamo lo sfondo di tenebra – scriverà Chesterton in Eretici – non possiamo ammirare la luce anche di una sola cosa creata”.
Solo nel momento in cui ci si rende conto che le cose potrebbero benissimo non esserci, si smette di dare per scontata l’esistenza, nonostante la scandalosa costanza del suo ripetersi.
Il percorso di Smith altro non è che quello dello stesso Chesterton, il quale in gioventù si occupò “superficialmente d’infinite cose”; perfino di spiritismo.
Aveva mille strumenti sparsi attorno a sé, ma inutilizzati; e la sua volontà era paralizzata nello stallo di un’equidistanza intellettualista.
L’iconografia classica del melanconico.
Anche Chesterton, come Smith, affrontò un duello mortale con la disperazione, ma sconfisse la sua novecentesca “malattia dell’infinito” nel momento stesso in cui incontrò il volto dell’Infinito.
E scoprì che esso aveva una faccia umana, naso bocca e due gambe, proprio come l’amabile gente comune, creata a Sua immagine.
Chesterton riconobbe l’Innocente negli occhi dell’uomo comune e volle essere il suo difensore.
(©L’Osservatore Romano – 4 ottobre 2009)

Io sono un sogno di Dio

Don Giò e il desiderio del vero Il desiderio del vero.
Non c’è passo o azione umana che non siano dettati ultimamente da un insopprimibile desiderio di bene, di felicità, di compimento.
Eppure non è frequente oggi incontrare un giovane che viva di questo desiderio: “Voglio diventare sacerdote ed essere santo”.
Altri sono i modelli sociali di riferimento, altre le aspirazioni inculcate e che difficilmente fanno coincidere il sogno della propria realizzazione umana con l’appagamento dei desideri più profondi e veri.
O, almeno, questa è la realtà dipinta e ingigantita dai mass media.
Perché il mondo dei giovani non è poi così piatto e uniforme e, guardando bene, c’è anche chi, come Giò, è “lieto di giocarsi unicamente per il Signore”.
Giò è il nomignolo che gli amici hanno familiarmente affibbiato a Giovanni Bertocchi.
Un ragazzo come tanti, nato nel 1975 in una famiglia cattolica della provincia di Bergamo.
E che a 14 anni entra in seminario per conseguire la maturità classica e vi rimane fino all’ordinazione sacerdotale – il 3 giugno 2000 – divenendo così per tutti don Giò.
Un prete giovane, dedito al proprio ministero, plasmato dalla misericordia del Signore.
Una presenza cristiana tra le famiglie e i giovani della parrocchia.
Senza gesti eclatanti, ma nell’ordinarietà e nella semplicità del lavoro pastorale.
Fino al 30 aprile 2004, quando fatalmente cade sotto gli occhi attoniti dei suoi ragazzi, nella palestra dell’oratorio San Giovanni Bosco di Verdello, centro di settemila anime in provincia di Bergamo.
A cinque anni dalla morte e nel clima dell’Anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI, i genitori hanno acconsentito ad aprire una finestra sul mondo interiore di questo giovanissimo sacerdote.
È nato così, grazie al lavoro di Arturo Bellini – sacerdote e giornalista bergamasco – un libro che ne raccoglie il diario spirituale (Giovanni Bertocchi, Io sono un sogno di Dio, Padova, Edizioni Messaggero Padova, 2009, pagine 240, euro 13).
Don Bellini ha conosciuto don Giò nel 1998, due anni prima dell’ordinazione sacerdotale, quando il giovane seminarista – allora ancora senza il don – per la prima volta arrivò a Verdello con i compagni di teologia per la “Missione giovani”.
E lo ricorda così: “Mi colpì per la sua sensibilità e la sua capacità di dare volto alla figura di Gesù e di parlare di Gesù”.
E quando poi, dopo l’ordinazione, don Giò fu destinato proprio all’oratorio di Verdello, “trovai un giovane presbitero preparato e intelligente, creativo e appassionato di Gesù e del Vangelo, contento di essere prete”.
Un sacerdote “attento ai segni di Dio” nella propria storia e nella vita dei ragazzi che gli erano stati affidati, “sensibile al nuovo, ma rispettoso sempre di quel che altri avevano costruito”, un “paziente e fedele lavoratore nel campo di Dio”.
Quella di don Giò è dunque la piccola grande storia di un seminarista e poi di un sacerdote che – spiega don Bellini – “non ha fatto cose straordinarie, ma ha vissuto in modo appassionato l’ordinario della sua vita, la sua relazione con Dio e la relazione con le persone affidate al suo ministero”.
Un itinerario umano fatto di tante piccole tappe, dubbi, indecisioni, entusiasmi e scoperte.
Scrive infatti sulla sua agenda Giò appena diciassettenne: “Oggi ho capito che non c’è bisogno che io faccia grandi cose.
La santità devo costruirla con l’aiuto di Dio nelle piccole cose di ogni giorno.
Le grandezze che il Signore mi darà la grazia di vivere saranno frutto dei miei piccoli passi quotidiani”.
Il diario spirituale di Giò abbraccia un periodo di quindici anni: dall’entrata in seminario nel settembre 1989 – “per me è l’inizio di una nuova bellissima esperienza” – all’improvvisa morte nella primavera del 2004.
Contiene riflessioni tracciate con grafia minuta su agende e quadernetti insieme ad appunti di scuola, disegni e note musicali, impegni da ricordare.
Linguaggio e stile sono espressione di un figlio dell’epoca moderna, di una cultura dell'”io” sempre più invadente.
E anche se non sembra esserci stata la precisa volontà di tenere un diario, di fatto egli scrive in modo rapido ed essenziale i suoi pensieri e le sue domande sulla vocazione, sulla preghiera, sul senso della vita, dell’amore e della sofferenza umana.
Senza nulla censurare.
Talvolta, di fronte alla vocazione che lo chiama a vivere nella verginità, scoprendosi a “rincorrere il proprio cuore che corre più veloce di un motore”.
Altre, denunciando il proprio disimpegno: “Non prego molto, soprattutto non mi confesso…”.
Altre, ancora, manifestando il desiderio di abbandono a Dio: “Voglio essere un libro aperto (aperto come le braccia e le mani di Cristo sulla Croce!).
Voglio migliaia di pagine bianche su cui sia Tu a scrivere il resto della mia storia”.
Don Giò non idealizza e non teorizza la figura del prete.
Sa che il “successo” del sacerdote sta nella fedeltà a ciò che è indispensabile per essere segno della misericordia di Dio.
E dono e gratuità – lo ricorda in primo luogo a se stesso – sono gli unici tratti caratteristici: “La mia scelta di vita come sacerdote implica per se stessa il dono di te all’altro.
Devi essere tutto a tutti.
Tutto per i ragazzi, per i loro bisogni.
Tutto per i genitori, con la fatica dell’educare.
Tutto per la comunità che a volte ha sete di Dio, altre no…
Tutto per i baristi dell’oratorio, per le signore delle pulizie, per i catechisti, per gli anziani, per i malati, per la scuola…”.
Una vocazione vissuta nella consapevolezza e nell’esperienza dell’abbraccio misericordioso di Dio.
Come quella volta che in seminario, confuso e in cerca di conferme, d’improvviso notò sopra la propria testa il volo di una rondine che aveva fatto il nido proprio sopra una finestra del cortile.
Per circa un quarto d’ora rimase a guardare l’andirivieni della rondine che portava il cibo ai suoi piccoli che allungavano il collo con il becco aperto e l’accoglievano con garriti di gioia.
“Uno spettacolo troppo bello per vederlo da solo e così corsi a chiamare alcuni miei compagni per guardarlo insieme.
Rimasi nel cortile con due o tre di loro per una decina di minuti, ma della rondine nessuna traccia e il nido era diventato silenzioso.
I miei compagni rientrarono a studiare e io rimasi ancora lì fuori incantato da quella visione e stranamente sereno e felice: avevo capito che il Signore aveva preparato quello spettacolo apposta per me e per nessun altro.
Anch’io dovevo preparare qualcosa per Lui.
La mia vita doveva essere il mio regalo per Lui”.
di Fabrizio Contessa GIOVANNI BERTOCCHI, Io sono un sogno di Dio, Diario spirituale 1989-2004,  Edizioni Messaggero Padova, 2009, ISBN: 978-88-250-2399-2 , pagine 240, € 13,00 Contenuto Il diario spirituale di don Giò abbraccia un periodo di 15 anni: dal tempo del seminario che culmina con l’ordinazione sacerdotale il 3 giugno 2000, alla morte nel 2004.
Nel diario c’è la «piccola» storia di un giovane che si è ritrovato a pensare di essere un sogno di Dio; vi è la traccia della sua anima che si racconta con sincerità e libertà e che lo ha portato a comunicare con giovanile entusiasmo la speranza che gli bruciava in cuore.
Destinatari Tutti, in particolare i giovani Autore Giovanni Bertocchi nasce nel 1975 e a 14 anni entra in seminario a Bergamo dove consegue il diploma di maturità classica.
Nel 2000 completa gli studi e ottiene il bacellierato in teologia; a giugno dello stesso anno viene ordinato sacerdote.
Il 30 aprile 2004, cadendo nella palestra dell’oratorio parrocchiale, muore sotto gli occhi dei suoi ragazzi.

La sfida educativa

COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (CEI), La sfida educativa, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, pagine 223, euro 14 In nome di una sterile ‘neutralità’, la nostra società ha abdicato al suo ruolo di formatrice delle nuove generazioni.
Nel rapporto del Comitato per il Progetto Culturale CEI, il tema centrale dell’educazione.
Stiamo vivendo una vera ‘emergenza educativa’.
Mentre per le società del passato l’educazione era un compito largamente condiviso, per la nostra sta diventando soprattutto una sfida.
Se fino a ieri sembrava quasi scontato che la generazione adulta dovesse farsi carico dell’educazione della nuova, ormai questo automatismo si sta dissolvendo.
Il rapporto curato dalla CEI vuole sollecitare una riflessione sullo stato dell’educazione e, più in generale, sulla realtà esistenziale e socioculturale dell’uomo d’oggi, alla luce dell’antropologia e dell’esperienza cristiane.
L’obiettivo è quello di promuovere una consapevolezza che possa dar luogo, nel nostro Paese, a una sorta di alleanza per l’educazione; un’alleanza che sia in grado di coinvolgere – con un raggio d’azione che vada ben oltre l’ambito del cosiddetto mondo cattolico – tutti i soggetti interessati al problema, dalla famiglia alla scuola, al mondo del lavoro, a quello dei media.
Attraverso l’individuazione di alcuni temi particolarmente sensibili allo stato di attuale ‘emergenza’ – dallo sviluppo affettivo e sessuale della persona al suo rapporto con le nuove forme di socialità, anche elettroniche, dall’educazione nell’ambito dello sport, della moda e dello spettacolo al vissuto scolastico delle giovani generazioni – il volume offre un quadro complessivo dei problemi più urgenti, e, anche sulla base di dati empirici, prospetta una serie di soluzioni operative.
Il Progetto Culturale promosso dalla Chiesa italiana viene costituito nel 1997 all’interno della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana, su iniziativa del cardinale Camillo Ruini, come centro di raccordo tra le diocesi, i centri culturali cattolici, le associazioni e i movimenti, gli ordini religiosi, le Facoltà teologiche, le riviste e gli intellettuali di matrice cattolica.
Il Servizio collabora con gli Uffici della CEI per sviluppare l’aspetto culturale dell’evangelizzazione nei diversi settori della vita della Chiesa; svolge un’azione di monitoraggio, di osservatorio e di documentazione sulle iniziative volte a coniugare fede e cultura; organizza incontri di studio a carattere nazionale su temi di rilievo per il progetto culturale; coordina il Centro Universitario Cattolico.

Chiesa e Stato in Italia.

PERTICI ROBERTO,  Chiesa e Stato in Italia dalla grande guerra al nuovo concordato (1914-1984), Il Mulino 2009 ISBN: 8815132805, pp. 891, € 55.00.
Roberto Pertici ripercorre la storia dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Italia del Novecento, attraverso un’analisi approfondita delle discussioni parlamentari, del dibattito politico-culturale e dei rapporti diplomatici fra Italia e Santa Sede.
Dopo una premessa sulle radici risorgimentali della questione romana, lo studioso analizza la svolta rappresentata dalla prima guerra mondiale, che crea i presupposti per il superamento dell’antica contrapposizione, e poi la lunga trattativa approdata alla Conciliazione del 1929.
La sopravvivenza dei patti lateranensi nella crisi e dopo la caduta del regime fascista e il complesso percorso che porta all’articolo 7 della Costituzione: questo il problema ulteriore affrontato dall’autore, che infine segue il contrastato iter della riforma del Concordato nei decenni dell’Italia repubblicana, fino alla sua conclusione con gli accordi di Villa Madama del febbraio 1984.

Confini

CAMILLO RUINI, ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, Confini.
Dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo, Mondadori.
Mialano  2009, pp.  204, ISBN: 978880458310, €  18.00.  Una delle domande di fondo poste dall’attuale dibattito sull’identità culturale dell’Europa è se il cristianesimo, storicamente radicato in un Occidente sempre più secolarizzato e sollecitato dal problematico incontro con altre fedi e civiltà, riuscirà a conservare la sua dimensione profetica, e se l’Occidente laico potrà ancora riconoscere nella parola di Gesù un punto di riferimento etico e spirituale privilegiato.
Sul futuro della democrazia e sul ruolo del cristianesimo – e, in Italia, della Chiesa cattolica – due acuti osservatori del nostro tempo, lo storico Ernesto Galli della Loggia, di formazione laica, e il teologo Camillo Ruini, si confrontano in un serrato contraddittorio ricco di spunti di riflessione e acute intuizioni.
Un sintetico excursus dall’illuminismo ai giorni nostri, necessario per individuare i momenti più significativi nell’evoluzione dei rapporti tra società civile e istituzione ecclesiastica, introduce all’analisi della situazione del nostro paese, dove il cattolicesimo ha trovato la sua massima espressione politica nei quarant’anni di governo della Democrazia cristiana e dove il Concordato rappresenta tuttora un motivo di scontro ideologico.
Nella discussione entrano inevitabilmente questioni decisive per la nostra epoca, e spesso oggetto di roventi polemiche, come i limiti da porre alla scienza e alla tecnologia nella manipolazione della natura, o le istanze etiche che discendono da concezioni della vita e della morte agli antipodi.
Ma l’attenzione dei due interlocutori si rivolge anche alle grandi civiltà di matrice non cristiana (in primo luogo quella islamica), rispetto alle quali la Chiesa, come sostiene Ruini, «deve riaffermare la specificità dell’identità cristiana, la sua singolarità, che forse nel tumulto dei tempi minaccia talvolta di appannarsi agli occhi degli stessi fedeli».
Se, dunque, la strada da percorrere per raggiungere reali punti d’incontro tra la cultura laica e quella cristiana appare ancora lunga e tortuosa, non mancano segnali positivi in questa direzione, a cominciare dal messaggio del Concilio Vaticano II e dalla sua interpretazione a opera di pontefici come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, entrambi strenui difensori del concetto di dignità della persona e delle sue attese di giustizia, libertà e pace.
Senza la presunzione di fornire risposte definitive, questo dialogo apre nuovi orizzonti per chiunque desideri approfondire la conoscenza della realtà in cui vive e sia davvero tentato di attraversare i propri «confini», un passo che, prima o poi, ciascuno sarà chiamato a compiere.

Qui e ora (1984-1985)

LUIGI GIUSSANI, Qui e ora (1984-1985),  Editore: BUR Biblioteca Univ.
Rizzoli, Milano 2009,  EAN: 9788817028684, pp. 484, € 12,00 II quarto volume della serie “L’equipe”, in cui si riproducono le lezioni e i dialoghi di don Giussani con i responsabili degli universitari di Comunione e Liberazione.
“lo sono la resurrezione e la vita: credi tu questo?” Come si può rispondere alla domanda che Cristo rivolge a Marta, davanti a Lazzaro, il fratello morto? In altre parole, com’è possibile la fede oggi? L’uomo che ha detto: “lo sono la via, la verità e la vita” è risorto, cioè è contemporaneo alla storia.
“Sarò con voi fino alla fine dei secoli.” Dove lo si vede? Dove lo si tocca? Dove lo si ascolta? Ora, duemila anni fa come adesso, è l’appartenenza a Cristo presente e reale, che ci tocca attraverso determinate circostanze umane, a rendere possibile l’esperienza di una nuova consistenza, di una resurrezione dell’umano, in qualunque condizione.
Quella di metà anni Ottanta fu segnata dal rapido estendersi di un nichilismo gaio, sulle macerie di progetti e ideologie.
In quello scenario, che non fu solo universitario, spiccava ancor più la tenuta e la crescita di una presenza non determinata dalla volontà di un esito sociale e politico, ma dal riconoscimento di Cristo risorto e da una passione di testimonianza

“Iota unum”

 ROMANO AMERIO, Iota unum.
Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di Enrico Maria Radaelli, prefazione del card.
Darío Castrillón Hoyos, Lindau, Torino, 2009.
ROMANO AMERIO, Stat veritas.
Séguito a Iota unum, a cura di Enrico Maria Radaelli, Lindau, Torino, 2009.
Da domani fanno ritorno nelle librerie italiane, editi da Lindau, due volumi entrati tra i classici della cultura cattolica, il cui contenuto è in impressionante sintonia col titolo e col fondamento della terza enciclica di Benedetto XVI: “Caritas in veritate”.
I due volumi hanno per autore Romano Amerio, letterato, filosofo e teologo svizzero scomparso nel 1997 a 92 anni di età.
Un suo grande estimatore, il teologo e mistico don Divo Barsotti, ne sintetizzò così il contenuto: “Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente a un generale disordine mentale per cui viene messa la ‘caritas’ avanti alla ‘veritas’, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità”.
In effetti, Amerio vide proprio in questo rovesciamento del primato del Logos sull’amore – ossia in una carità senza più verità – la radice di molte “variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX”: le variazioni che egli descrisse e sottopose a critica nel primo e più imponente dei due volumi citati: “Iota unum”, scritto tra il 1935 e il 1985; le variazioni che lo portarono a porre la questione se con esse la Chiesa non fosse divenuta altra cosa da sé.
Molte delle variazioni analizzate in “Iota unum” – ma ne basterebbe una sola, uno “iota”, stando a Matteo 5, 18 che dà il titolo al libro – spingerebbero il lettore a pensare che una mutazione d’essenza vi sia stata, nella Chiesa.
Amerio però analizza, non giudica.
O meglio, da cristiano integrale qual è, lascia a Dio il giudizio.
E ricorda che “portae inferi non praevalebunt”, cioè che per fede è impossibile pensare che la Chiesa smarrisca se stessa.
Una continuità con la Tradizione permarrà sempre, pur dentro turbolenze che la oscurano e fanno pensare il contrario.
C’è uno stretto legame tra le questioni poste in “Iota unum” e il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 alla curia romana, discorso capitale per quanto riguarda l’interpretazione del Concilio Vaticano II e il suo rapporto con la Tradizione.
Ciò non toglie che lo stato della Chiesa descritto da Amerio sia tutt’altro che pacifico.
Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005, paragonò la babele della Chiesa contemporanea al marasma che nel IV secolo seguì al Concilio di Nicea, descritto da san Basilio, all’epoca, come “una battaglia navale nel buio di una tempesta”.
Nella postfazione che Enrico Maria Radaelli, fedele discepolo di Amerio, pubblica in coda a questa riedizione di “Iota unum”, la situazione attuale è paragonata piuttosto allo scisma d’Occidente, cioè ai quarant’anni tra il XIV e il XV secolo che precedettero il Concilio di Costanza, con la cristianità senza guida e senza una sicura “regola della fede”, divisa tra due o persino tre papi contemporaneamente.
In ogni caso, riedito oggi a distanza di anni, “Iota unum” si conferma libro non solo straordinariamente attuale, ma “costruttivamente cattolico”, in armonia col magistero della Chiesa.
Nella postfazione Radaelli lo mostra in modo inconfutabile.
La conclusione della postfazione è riprodotta più sotto.
Quanto al secondo libro, “Stat veritas”, pubblicato da Amerio nel 1985, esso è in lineare continuità col precedente.
Confronta la dottrina della Tradizione cattolica con le “variazioni” che l’autore ravvisa in due testi del magistero di Giovanni Paolo II: la lettera apostolica “Tertio millennio adveniente” del 10 novembre 1994 e il discorso al Collegium Leoninum di Paderborn del 24 giugno 1996.
Il ritorno in libreria di “Iota unum” e “Stat veritas” rende giustizia sia al loro autore, sia alla censura di fatto che si è abbattuta per lunghi anni su entrambi questi suoi libri capitali.
In Italia, la prima edizione di “Iota unum” fu ristampata tre volte per complessive settemila copie, nonostante le sue quasi settecento pagine impegnative.
Fu poi tradotto in francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco, olandese.
Raggiunse decine di migliaia di lettori in tutto il mondo.
Ma per gli organi cattolici ufficiali e per le autorità della Chiesa era tabù, oltre che naturalmente per gli avversari.
Caso più unico che raro, questo libro fu un “long seller” clandestino.
Continuò a essere richiesto anche quando si esaurì nelle librerie.
La rottura del tabù è recente.
Convegni, commenti, recensioni.
“La Civiltà Cattolica” e “L’Osservatore Romano” si sono anch’essi svegliati.
All’inizio del 2009 una prima ristampa di “Iota unum” è apparsa in Italia per i tipi di “Fede & Cultura”.
Ma questa nuova edizione del libro ad opera di Lindau, assieme a quella di “Stat veritas”, ha in più il valore della cura filologica, da parte del massimo studioso ed erede intellettuale di Amerio, Radaelli.
Le sue due ampie postfazioni sono veri e propri saggi, indispensabili per capire non solo il senso profondo dei due libri, ma anche la loro perdurante attualità.
Lindau, con Radaelli curatore, ha in animo di pubblicare nei prossimi anni l’imponente “opera omnia” di Amerio.
> Grandi ritorni: Romano Amerio e le variazioni della Chiesa cattolica (15.11.2007) > “La Civiltà Cattolica” rompe il silenzio.
Su Romano Amerio
(23.4.2007) > Fine di un tabù: anche Romano Amerio è “un vero cristiano” (6.2.2006) > Un filosofo, un mistico, un teologo suonano l’allarme alla Chiesa (7.2.2005) __________ Su Enrico Maria Radaelli, discepolo di Amerio, e sul suo libro “Ingresso alla bellezza”: > Tutti a vedere il “sacro teatro dei cieli”.
Un teologo fa da guida
(15.2.2008) Qui di seguito ecco un brevissimo assaggio della postfazione a “Iota unum”: le considerazioni finali.
Tutta la Chiesa in uno “iota” di Enrico Maria Radaelli […] La conclusione è che Romano Amerio si rivela essere il pensatore più attuale e vivificante del momento.
Con il garbo teoretico che contraddistinse tutti i suoi scritti, egli offre con “Iota unum” un pensiero molto costruttivamente cattolico, colmando uno spazio filosofico e teologico altrimenti incerto su interrogativi gravi.
Egli individua e indica che nella Chiesa una crisi c’è, ed è crisi che pare anche sovrastarla, ma mostra che non l’ha sovrastata; che pare rovinarla, ma non l’ha rovinata.
Individua poi e indica con chiarezza la causa prima di questa crisi in una variazione antropologica e prima ancora metafisica.
Individua e indica infine gli strumenti logici (iscritti nel Logos) necessari e sufficienti (eroicamente sufficienti, ma sufficienti) per superarla.
E tutto questo Amerio lo fa sviluppando un “modello di continuità” con la Tradizione, di ordinata e perciò perfetta obbedienza al papa, di intima adesione alla regola prossima della fede, che parrebbe chiarire in tutto come va intesa quella “ermeneutica della continuità” richiesta da papa Benedetto XVI nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 per mantenersi sicuri sulla strada della ragione, che è a dire sulla strada della salvezza, ossia sulla strada della Chiesa per perseguire la vita.
Romano Amerio: critico sì, discontinuista mai.
Questo “modello di continuità” tutto ameriano attende solo di essere oggi finalmente riconosciuto, anzi, finalmente apprezzato.
Chissà: magari persino seguìto, per il bene comune (teorico e pratico, filosofico ed etico, dottrinale e liturgico) della Città di Dio, con la semplicità e il coraggio necessari.
Se con l’uso di ambiguità e di contraddizioni si è riusciti a compiere una rivoluzione antropologica verso le più vane fantasie, tanto più si potrà compiere, e con meno sforzo, una più sana rivoluzione antropologica verso la Realtà, giacché è più facile essere semplici che essere complessi.

“Sogni di sabbia”

I migranti, le loro storie ed esperienze in un libro fotografico di Luca Leone Paolo Dieci è il direttore del CISP una ong con sede a Roma che opera a livello nazionale e internazionale attraverso progetti umanitari a favore dei più deboli, in particolare migranti.
“Accogliere la dimensione multiculturale delle nostre società come un’opportunità storica da valorizzare e non come una minaccia, lavorare con le comunità e associazioni di immigrati, responsabilizzandole e identificandole come strumenti essenziali per l’integrazione, rafforzare, la collaborazione tra Europa, Maghreb ed Africa Sub Sahrariana e le politiche di cooperazione internazionale” sono alcune delle strategie da mettere in atto per affrontare in maniera diversa e costruttiva il fenomeno migratorio secondo Paolo Dieci.
Con Paolo Dieci abbiamo approfondito il tema dell’immigrazione in questa intervista.
D.
Direttore, l’importanza e l’urgenza di un libro come “Sogni di sabbia” è data dalla cronaca nazionale e internazionale.
Qual è la posizione del Cisp rispetto alle politiche migratorie europee e nazionali e quali urgenze avete individuato? R.
Alcuni limiti di tali politiche sono così sintetizzabili: scarso coordinamento a livello europeo, tendenza, soprattutto in Italia, a identificare il tema della migrazione con quello della sicurezza e, soprattutto, mancanza di una visione globale dei processi migratori, che vanno compresi e gestiti nel loro insieme, per essere chiari dalla loro origine alla loro destinazione.
Sembra oggi di assistere a una rincorsa al presidio delle frontiere, quasi che queste fossero minacciate da pericolose invasioni.
Questa visione delle cose è ristretta, inefficacie, oltre ché, come vedremo, moralmente discutibile.
Le migrazioni sono processi globali, che nascono dallo squilibrio impressionante tra paesi ricchi e paesi poveri, si alimentano di aspettative per una vita diversa quando non da vere e proprie fughe.
Governare tali processi presidiando le coste è impossibile.
Servono politiche integrate, di accoglienza, cooperazione internazionale, formazione e orientamento delle comunità di immigrati.
Servono chiaramente anche accordi tra stati, ma in questo caso vorrei fare due brevi considerazioni.
La prima è che tali accordi vanno sottoscritti non solo con gli Stati del Maghreb, ma anche con quelli dell’Africa a sud del Sahara, dove spesso migrare significa provare a vincere le catene della povertà.
Esistono esempi concreti ai quali l’Italia può rifarsi; penso, ad esempio, all’accordo siglato tra Unione Europea e Mali per l’attivazione di servizi di informazione e orientamento professionale ai migranti potenziali.
La seconda considerazione è che tali accordi non devono avere come principale o unica finalità il respingimento dei migranti, senza dare loro oltretutto la possibilità di esporre le loro ragioni, di motivare, in molti casi, la richiesta di asilo.
D.
La soluzione giusta alla pressione migratoria dal Sud verso Nord è nei respingimenti o altre dovrebbero essere le risposte, forse tutte più adeguate? R.
Il respingimento indiscriminato è innanzitutto moralmente inaccettabile perché nega la possibilità di richiedere asilo anche a coloro che ne avrebbero diritto.
Inoltre spinge in modo coatto i migranti in situazioni – lontano dai riflettori dei media – che nessun organo internazionale è in grado di monitorare.
Nessuno ha “ricette” o soluzioni a problematiche così imponenti, che – lo ripeto – affondano le loro radici nella disuguaglianza mondiale.
Possiamo però provare a ipotizzare un percorso, un processo verso cui andare.
Provo a sintetizzare alcuni punti: accogliere la dimensione multiculturale delle nostre società come un’opportunità storica da valorizzare e non come una minaccia (non si dovrebbe scordare che uno dei paesi più multiculturali del mondo, gli Usa, sono una grande e solida potenza mondiale, non uno stato frantumato da divisioni e conflitti interni); lavorare con le comunità e associazioni di immigrati, responsabilizzandole e identificandole come strumenti essenziali per l’integrazione; rafforzare, nel senso che ho già provato a chiarire, la collaborazione tra Europa, Maghreb ed Africa Sub Sahrariana; rafforzare le politiche di cooperazione internazionale.
L’intervista è disponibile sul sito della Infinito edizioni (www.infinitoedizioni.it) e può essere ripresa liberamente citando la fonte (Luca Leone ©Infinito edizioni 2009).
Infinito edizioni: 06 93162414 Cell: 320 3524918 (Maria Cecilia Castagna), 347 3807428 (Luca Leone) info@infinitoedizioni.it, www.infinitoedizioni.it CISP ONLUS,  Sogni di sabbia.
Storie di migranti, Infinito Edizioni, 2009,  Isbn: 978-88-89602-58-4, pp.96  Euro 15.00 Libro fotografico a cura di Sandro De Luca, con testi di Gad Lerner e Ubah Cristina Ali Farah “Nessuno considera clandestino lo straniero irregolare che bada a sua madre, gli pota la vigna o fa le pulizie nel condominio.
Clandestini sono sempre gli altri: buttateli fuori!” (Gad Lerner).
Non tutti i viaggi terminano con la destinazione sognata, e non tutti quelli che partono riescono a realizzare il loro progetto.
Per tanti migranti il miraggio diventa un incubo, una trappola da cui non riescono più a uscire.
Lo raccontano i protagonisti di questo libro corredato da splendide foto, che con i loro volti ci raccontano che cosa c’è – in questo caso in Algeria – prima di Lampedusa.
Partiti dal Congo, dal Niger, dal Mali, dal deserto del Sahara, sono tanti, sempre di più, quelli che non vedranno mai l’Europa.
Perché rimangono bloccati nei Paesi del Maghreb, in un limbo da cui non riescono più a uscire.
Scoprire il viaggio prima del viaggio, la loro vita prima della partenza, può aiutarci a comprendere, a smontare pregiudizi e stereotipi.
Prima di diventare migranti, irregolari o clandestini, sono persone.
Come noi.
“Non è vero che questi giovani migranti non hanno nulla da perdere.
Hanno solo il coraggio di rischiare.
Buttarsi a capofitto con quel briciolo di incoscienza necessario per affrontare l’impossibilità” (dalla prefazione di Ubah Cristina Ali Farah).

In difesa di Pio XII.

GIOVANNI MARIA VIAN,  In difesa di Pio XII.
Le ragioni della storia,  Marsilio 2009,  ISBN: 8831797670 , ISBN-13: 9788831797672 Pagine: 167, € 13,00 Un contributo alla verità storica su Pio XII dagli scritti di Giovanni Maria Vian, Paolo Mieli, Saul Israel, Andrea Riccardi, Rino Fisichella, Gianfranco Ravasi, Tarcisio Bertone, Benedetto XVI — Eugenio Pacelli è stato il papa forse più controverso del Novecento.
Alla “venerabile memoria” riconosciutagli da contemporanei e successori, dagli anni sessanta si è andata gradatamente sostituendo la “leggenda nera” di Pio XII che rende ancora oggi difficile lo svolgimento di un normale dibattito storiografico.
Mentre è in corso la causa per la sua beatificazione, si è riaccesa aspra la polemica sul suo pontificato e sulla linea di condotta tenuta durante la Seconda guerra mondiale, di fronte alla Shoah e negli anni della guerra fredda.
Questo libro, attraverso gli interventi di autorevoli storici e teologi, ebrei e cattolici, intende fornire gli elementi per rifondare le interpretazioni del ruolo di Pio XII nella storia: gli anni da diplomatico della Santa Sede a Monaco e poi a Berlino, l’attività di segretario di Stato al fianco di Pio XI, l’elezione al soglio pontificio in un momento storico drammatico, il confronto con una modernità incalzante verso cui si pose come precursore del concilio Vaticano II.
Per gentile concessione dell’Autore, pubblichiamo l’introduzione al libro “In difesa di Pio XII – Le ragioni della storia” a cura di Giovanni Maria Vian, edizioni Marsilio.
Pio XII? Un papa lontano, dai tratti così sbiaditi da non essere più riconoscibili o, in alternativa, dai contorni sin troppo carichi, ma perché deformati da una rappresentazione polemica talmente aspra e persistente da oscurare la realtà storica.
È questa l’immagine che oggi prevale di Eugenio Pacelli, eletto sulla sede di Pietro alla vigilia dell’ultima guerra mondiale.
Destino singolare per il primo romano pontefice che, sul cammino aperto dal predecessore, divenne popolare e davvero visibile in tutto il mondo.
Grazie all’incipiente e tumultuosa modernità, anche della comunicazione, che il papa di Roma volle e seppe utilizzare: dai ripetuti viaggi – che lo portarono in Europa e America come diplomatico e segretario di Stato – al nuovo genere dei radiomessaggi, dalle grandi manifestazioni pubbliche alle copertine dei rotocalchi, dal cinema a un mezzo appena agli albori e destinato a grandi fortune come la televisione.
Destino ancor più singolare se si pensa poi all’autorevolezza generalmente riconosciutagli in vita e ai giudizi positivi quasi unanimi che nel 1958, mezzo secolo fa, ne accompagnarono la scomparsa.
Come è stato allora possibile un simile rovesciamento d’immagine, verificatosi per di più nel giro di pochi anni, più o meno a partire dal 1963? I motivi sono principalmente due.
Il primo risiede nelle difficili scelte politiche compiute da Pio XII sin dall’esordio del pontificato, poi durante la tragedia bellica, e infine al tempo della guerra fredda.
La linea assunta negli anni del conflitto dal papa e dalla Santa Sede, avversa ai totalitarismi ma tradizionalmente neutrale, nei fatti fu invece favorevole all’alleanza antihitleriana e si caratterizzò per uno sforzo umanitario senza precedenti, che salvò moltissime vite umane.
Questa linea fu comunque anticomunista, e per questo, già durante la guerra, il papa cominciò a essere additato dalla propaganda sovietica come complice del nazismo e dei suoi orrori.
La seconda ragione fu l’avvento del successore, Angelo Giuseppe Roncalli.
Questi, descritto già molto tempo prima del conclave come candidato (e, una volta eletto, come papa) «di transizione», in ragione soprattutto dell’età avanzata, prestissimo venne salutato come «il papa buono », e senza sfumature sempre più contrapposto al predecessore: per il carattere e lo stile radicalmente diversi, ma anche per la decisione inattesa e clamorosa di convocare un concilio.
Gli elementi principali che spiegano il cambiamento dell’immagine di papa Pacelli sono dunque la scelta anticomunista di Pio XII e la contrapposizione con Giovanni XXIII.
Contrapposizione che venne accentuata soprattutto dopo la morte di quest’ultimo e l’elezione di Giovanni Battista Montini (Paolo VI), anche perché fu favorita dalla polarizzazione dei contrasti, al tempo del Vaticano II, tra conservatori e progressisti, che trasformarono in simboli contrapposti i due papi scomparsi.
Intanto, nel rilancio delle accuse sovietiche e comuniste, ripetute con insistenza durante la guerra fredda, ebbe un ruolo decisivo il dramma Der Stellvertreter («Il vicario») di Rolf Hochhuth, rappresentato per la prima volta a Berlino il 20 febbraio 1963 e tutto giocato sul silenzio di un papa dipinto come indifferente davanti alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei.
Di fronte all’estensione della polemica in Inghilterra, a difendere Pio XII scese in campo il cardinale Montini – già stretto collaboratore di Pacelli – con una lettera alla rivista cattolica «The Tablet» che arrivò in redazione il giorno della sua elezione al pontificato, il 21 giugno, e fu pubblicata anche su «L’Osservatore Romano» del 29 giugno: «Un atteggiamento di condanna e di protesta, quale costui rimprovera al Papa di non avere adottato, sarebbe stato, oltre che inutile, dannoso; questo è tutto».
Severa, e scandita da parole scelte attentamente, la conclusione di Montini: «Non si gioca con questi argomenti e con i personaggi storici che conosciamo con la fantasia creatrice di artisti di teatro, non abbastanza dotati di discernimento storico e, Dio non voglia, di onestà umana.
Perché altrimenti, nel caso presente, il dramma vero sarebbe un altro: quello di colui che tenta di scaricare sopra un Papa, estremamente coscienzioso del proprio dovere e della realtà storica, e per di più d’un Amico, imparziale, sì, ma fedelissimo del popolo germanico, gli orribili crimini del Nazismo tedesco.
Pio XII avrà egualmente il merito d’essere stato un “Vicario” di Cristo, che ha cercato di compiere coraggiosamente e integralmente, come poteva, la sua missione; ma si potrà ascrivere a merito della cultura e dell’arte una simile ingiustizia teatrale?».
Da papa, più volte Montini sarebbe tornato a parlare di Pacelli, di cui volle difendere l’opera di pace e la «venerabile memoria» il 5 gennaio 1964, congedandosi a Gerusalemme dal presidente israeliano, mentre nel sacrario dedicato alle vittime della persecuzione nazista il cardinale decano Eugène Tisserant accendeva sei lumi in ricordo dei milioni di ebrei sterminati.
Quando «Paolo vi pose piede in terra israeliana, in quella che fu la tappa più significativa e “rivoluzionaria” della sua missione palestinese, tutti avvertirono» – ricordò Giovanni Spadolini su «il Resto del Carlino» del 18 febbraio 1965, dopo le prime rappresentazioni a Roma del dramma di Hochhuth e le conseguenti accese polemiche – «che il Pontefice intendeva rispondere, dallo stesso cuore del focolare nazionale ebraico, ai sistematici attacchi del mondo comunista che non mancavano di trovare qualche complicità o qualche condiscendenza anche nei cuori cattolici».
Allo storico laico era chiarissimo il ruolo della propaganda comunista nella mitizzazione negativa di Pacelli, con una consapevolezza che nella rappresentazione pubblica dei decenni successivi è quasi scomparsa, per lasciare il posto a una strumentale e denigratoria associazione della figura di Pio XII alla tragedia della Shoah, di fronte alla quale avrebbe taciuto o di cui si sarebbe addirittura reso complice.
La questione del silenzio del papa è così divenuta preponderante, spesso tramutandosi in polemica accanita, provocando reazioni difensive di frequente solo apologetiche, e rendendo più difficile la soluzione di un reale problema storico.
Interrogativi e accuse per i silenzi e l’apparente indifferenza di Pio XII di fronte alle incipienti tragedie e agli orrori della guerra erano venuti infatti da cattolici: come da Emmanuel Mounier già nel 1939, nelle prime settimane del pontificato, e più tardi da esponenti polacchi in esilio.
Lo stesso Pacelli più volte s’interrogò sul suo atteggiamento, che fu dunque una scelta consapevole e sofferta di tentare la salvezza del maggior numero possibile di vite umane piuttosto che denunciare continuamente il male con il rischio reale di orrori ancora più grandi.
Come sottolineò ancora Paolo vi, secondo il quale Pio XII agì «per quanto le circostanze, misurate da lui con intensa e coscienziosa riflessione, glielo permisero», al punto che non si può «imputare a viltà, a disinteresse, a egoismo del Papa, se malanni senza numero e senza misura devastarono l’umanità.
Chi sostenesse il contrario, offenderebbe la verità e la giustizia » (12 marzo 1964); Pacelli fu infatti «del tutto alieno da atteggiamenti di consapevole omissione di qualche suo possibile intervento ogni qualvolta fossero in pericolo i valori supremi della vita e della libertà dell’uomo; anzi egli ha osato sempre tentare, in circostanze concrete e difficili, quanto era in suo potere per evitare ogni gesto disumano e ingiusto» (10 marzo 1974).
Così, l’interminabile guerra sul silenzio di papa Pacelli ha finito per oscurare l’obiettiva rilevanza di un pontificato importante, anzi decisivo nel passaggio dall’ultima tragedia bellica mondiale, attraverso il gelo della guerra fredda e le difficoltà della ricostruzione, a un’epoca nuova, in qualche modo avvertita nell’annuncio della morte del pontefice che diede il cardinale Montini alla sua diocesi il 10 ottobre 1958: «Scompare con Lui un’età, si compie una storia.
L’orologio del mondo batte un’ora compiuta».
Un’età, comprendente gli anni spaventosi e dolorosi della guerra insieme a quelli duri del dopoguerra, che si volle dimenticare nei suoi tratti reali.
Insieme al papa che l’aveva affrontata, inerme.
E presto si è dimenticato anche il suo governo, attento ed efficace, di un cattolicesimo che si faceva sempre più mondiale, il suo insegnamento imponente e innovatore in moltissimi ambiti che ha preparato di fatto il concilio Vaticano II e che da questo in parte è stato ripreso, l’avvicinamento alla modernità e la sua comprensione.
Inoltre, al nodo storiografico già intricato – e al cui scioglimento Paolo VI volle contribuire disponendo la pubblicazione dagli archivi vaticani di migliaia di Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, in dodici volumi a partire dal 1965 – si è intrecciato quello della causa di canonizzazione.
L’avvio di questa insieme a quella di Giovanni XXIII fu annunciato proprio in quell’anno dallo stesso Montini in concilio, nel tentativo di contrastare la contrapposizione dei due predecessori e quindi l’uso strumentale delle loro figure, divenute quasi simboli e bandiere di tendenze opposte del cattolicesimo.
A mezzo secolo dalla morte di Pio XII (9 ottobre 1958) e a settant’anni dalla sua elezione (2 marzo 1939) sembra tuttavia formarsi un nuovo consenso storiografico sulla rilevanza storica della figura e del pontificato di Eugenio Pacelli, l’ultimo papa romano.
A questo riconoscimento ha voluto contribuire «L’Osservatore Romano» pubblicando una serie di testi e contributi di storici e teologi, ebrei e cattolici, qui rielaborati e raccolti insieme agli interventi di Benedetto XVI e del suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone.
Ragionando sul caso Pio XII, Paolo Mieli ha mostrato l’inconsistenza della «leggenda nera» e si è detto convinto che proprio gli storici riconosceranno l’importanza e la grandezza di Pacelli.
Andrea Riccardi ha sintetizzato formazione e carriera del futuro papa e ha ricostruito il significato del suo pontificato.
La sensibilità dell’insegnamento teologico di Pio XII di fronte alla modernità e la sua incidenza sul cattolicesimo successivo sono state messe in luce da Rino Fisichella.
E dai discorsi del papa Gianfranco Ravasi ha fatto emergere il suo mondo culturale.
Postuma, la struggente evocazione di Saul Israel – scritta al tempo della devastante tempesta che travolse il popolo ebraico, nel fragile riparo di un convento romano – esprime la realtà più profonda della vicinanza e dell’amicizia tra ebrei e cristiani, ma soprattutto la fede nell’unico Signore che benedice e custodisce tutti, «sotto le ali dove la vita non ha avuto inizio e non avrà mai fine».