DIOTALLEVI LUCA, Una alternativa alla laicita’, Editore: Rubbettino, 2010, ISBN-13: 9788849823684, pp.
250, € 14,00 È piuttosto raro trovare pronunciamenti critici a proposito della laicità.
A volte se ne ammette un momento di difficoltà, ma per serrare le fila a sua difesa.
La laicità è davvero un valore tra i più condivisi; non solo: spesso è addirittura identificata con la modernità, e quasi sempre con l’identità stessa dell’Europa.
Dello stesso autore de “II rompicapo della secolarizzazione italiana”, questo libro si chiede se non sia il caso di avviare una più attenta discussione sulla laicità, e se non sia il caso di sostituire alcune certezze con altrettante domande.
La ricerca muove dalle spiegazioni del momento difficile attraversato dai regimi di laicità, le quali, curiosamente, sovrastimano il cosiddetto ritorno della religione.
Dopo aver proposto una serie di interrogativi, termina avanzandone un ultimo: serve a qualcosa parlare di laicità “sana”, o “buona”, o “positiva”, o …? E se si trattasse di riconoscere le alternative alla laicità? E dunque di relativizzare la laicità?
Categoria: In libreria
Dizionario di Ecclesiologia
GIANFRANCO CALABRESE, PHILIP GOYRET E ORAZIO F.
PIAZZA, Dizionario di Ecclesiologia, Città Nuova, Roma, 2009, pp.
1350, Euro 140 Un nuovo Dizionario di Ecclesiologia è stato presentato alla Pontificia Università Lateranense.
Si tratta di un corposo volume curato da Gianfranco Calabrese, Philip Goyret e Orazio F.
Piazza.
Un fatto importante nell’ambito delle pubblicazioni teologiche.
Non perché manchino dizionari di teologia.
Ve ne sono, anzi, da tempo e di pregevoli.
Se però, la teologia dogmatica e anche quella morale, liturgica, spirituale e pastorale, e poi specialmente la Sacra Scrittura e la teologia biblica avevano non pochi dizionari di riferimento, ciò non era ancora accaduto per l’ecclesiologia.
Non, perlomeno, nella forma articolata e completa con cui si presenta questo dizionario e non con simile ampiezza quanto all’insieme e alle singole voci.
L’ottima – almeno così appare già a prima vista – riuscita di questa iniziativa editoriale non può, dunque, che essere salutata con soddisfazione.
In rapporto all’ecclesiologia stessa, anzitutto.
Lo mette in evidenza nella prefazione l’arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, che esordisce col richiamare il lavoro teologico durante quello che comunemente è conosciuto come “il secolo della Chiesa” (Otto Dibelius), ossia per quell’arco di tempo durante il quale c’è stata “la progressiva scoperta di questo mistero fondamentale della nostra fede e nella nostra vita che, come sappiamo, per secoli non aveva suscitato l’interesse esplicito della teologia” (p.
5).
Ladaria, poi, mette in luce la dipendenza del dizionario dal magistero del Vaticano ii, che sulla scia di precedenti interventi magisteriali (fra cui, anche temporalmente più vicina al concilio, la Mystici corporis di Pio XII), ha collocato il mistero della Chiesa al centro dei suoi interessi.
Di ciò questo dizionario intende essere un’approfondita sintesi e una fedele esposizione.
Espressamente, difatti, si dichiara che l’impianto portante dell’intera opera ha come riferimento principe il binomio Lumen gentium e Gaudium et spes due testi che, considerati nella loro reciprocità, danno vita a quella dimensione missionaria da cui sono qualificate tutte le voci e che costituisce il paradigma ermeneutico per la loro lettura.
Sul crinale, infine, di un processo storico, che ha il suo acme nel Vaticano II, il dizionario ha l’ambizione “di sostenere una sua dinamica ricezione nel variegato scenario della ecclesiologia contemporanea” e di “presentare una chiave di lettura, di indagine e di comprensione della realtà misterico-strutturale della Chiesa” (p.
7).
Tra gli altri scopi che giustificano la preparazione di ogni buon dizionario, in questo caso c’è pure quello di raccogliere in una prospettiva disciplinare le diverse questioni che interpellano l’ecclesiologia.
Sotto questo profilo è il caso di aggiungere e sottolineare alcune particolarità volute sin dal principio per questo dizionario.
Si consideri, dunque, anzitutto la provenienza dei molti autori delle voci.
Sono ben 114, legati in vario modo a 52 istituzioni tra università, atenei pontifici e facoltà teologiche operanti sia in Roma, sia nelle altre regioni d’Italia.
È, dunque, in gran parte la “teologia italiana” quella che qui s’esprime, per quanto non manchino i contributi di teologi di diversa nazionalità e attivi in istituti non italiani.
Ciò sia detto al fine di mettere in luce e onorare la profondità e la vivacità della ricerca teologica presente nelle Chiese d’Italia.
L’idea del Dizionario, peraltro, nacque nel contesto del secondo Colloquio nazionale dei docenti di ecclesiologia, che si svolse a Telese Terme nell’aprile 2004.
Coglieva, dunque, nel segno l’arcivescovo Rino Fisichella quando, in occasione della presentazione alla Lateranense, affermava che il presente dizionario, nel quadro dell’odierno bisogno di fare sintesi, si presenta come un singolare e armonico mosaico ecclesiologico.
Si riconoscerà, d’altronde, che raccogliere il trattato ecclesiologico in 161 voci non è stata impresa facile, tenuto conto dello sviluppo che esso ha conosciuto specialmente dopo il Vaticano II.
All’appuntamento conciliare, difatti, l’ecclesiologia era giunta con una grande ricchezza di studi e con una molteplicità di proposte ecclesiologiche senza, tuttavia, avere raggiunto un consenso rispetto alla struttura, ai contenuti e alla metodologia.
Dal Vaticano ii in avanti, però, l’interesse per la costruzione di un trattato di ecclesiologia è stato ed è ancora oggi in crescendo.
È stata, allora, opera davvero meritoria quella dei curatori nell’integrare i vari temi (biblici, storici, liturgico, ecumenico, pastorale, canonico, e così via) d’interesse ecclesiologico in una (non esclusiva) prospettiva storico-dogmatica, preoccupandosi che ogni voce conservasse la sua specificità disciplinare e al tempo stesso rimanesse aperta a una positiva interazione critica per un efficace discorso teologico-sistematico.
Un’ultima caratteristica è giusto mettere in luce ed è quella su cui indirizza l’attenzione anche l’arcivescovo Ladaria.
È la disposizione “modulare” delle singole voci.
La proposta è evidenziata nelle pagine iniziali dove sono presentati ventiquattro “moduli”, ciascuno dei quali suggerisce al lettore la possibilità di selezionare ambiti specifici di ricerca.
“La lettura modulare, secondo moduli appositamente non titolati per non condizionarne concettualmente il contenuto – avvertono i curatori – favorisce la duplice possibilità di fruire, contestualmente, di specificità disciplinare e integrazione critica, per cui ogni voce è idealmente collocata all’interno di una unità tematica e si sviluppa in armonia con le altre voci presenti nel modulo” (pp.
7-8).
Va da sé, in ogni caso, che nel dizionario le voci sono materialmente disposte in rigoroso ordine alfabetico e perciò facilmente rintracciabili.
Ciascuna di esse, però, fornita di aggiornata e completa, per quanto essenziale, bibliografia, è previamente qualificata, a seconda dei casi, come voce “fondativa”, o “secondaria”, o “esplicativa”.
Distinzione senza dubbio utile, almeno perché aiuta, magari il principiante, a scegliere secondo l’aureo principio contenuto nella breve lettera De modo studendi, che se non è di san Tommaso, come si è ritenuto, si armonizza stupendamente con la sua metodologia: ut per rivulos, non statim in mare, eligas introire, quia per faciliora ad difficiliora oportet devenire.
Altrimenti detto, la diversa qualificazione delle “voci” aiuta il lettore a individuare subito ciò che è davvero alle fondamenta dell’ecclesiologia.
di Marcello Semeraro Vescovo di Albano
Prego Dio che mi liberi da Dio.
VANNINI MARCO, Prego Dio che mi liberi da Dio.
La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano, 2010, ISBN: 8845264130, pp.192, € 16.00 Il dibattito tra credenti e non credenti, atei e cristiani, laici e laicisti infiamma tutti i settori della società.
Eppure esso si svolge per lo più a un livello di superficie, tanto che si ha l’impressione che i ruoli si confondano: che i veri credenti siano gli atei, che i laici portino avanti ragioni che i chierici dimenticano e che le motivazioni dei laicisti combacino, per una strana alchimia, con quelle dei cattolici più ortodossi.
Questi paradossi, come mostra Marco Vannini in questa riflessione, hanno radici profonde e non sono per nulla casuali: consistono nella dimenticanza di una serie di categorie che hanno attraversato la tradizione più alta dell’Occidente, a partire dalla filosofia greca, attraverso i mistici e i filosofi della modernità, sino a personalità come Simone Weil.
Che Dio sia Spirito; che la religione sia essenzialmente un rapporto nello Spirito in cui Dio e uomo si muovono l’uno verso l’altro, l’uno nell’altro; che la vera religione sia uno spogliarsi della propria volontà, liberarsi dalla costrizione delle cose del mondo per entrare in una dimensione di libertà, di grazia.
Questi concetti si sono via via eclissati a favore di rappresentazioni più comode di Dio e della religione, spesso ridotta a una dottrina morale, a una serie di precetti fisici, addirittura sessuali.
E di questo oblio colpevoli non sono tanto i laici o gli atei ma, piuttosto, chi di questa tradizione doveva farsi depositario e custode: la Chiesa.
Se il mistico cristiano non ama gli ebrei di Vito Mancuso Ciò che più colpisce nell’ultimo libro di Marco Vannini è la violenza.
Convinto che «ai nostri giorni la religione sia tornata a essere oggetto di grande interesse», in Prego Dio che mi liberi da Dio (Bompiani) l’insigne studioso della mistica occidentale intende separare all’interno della religione la verità dalla menzogna, e lo fa sostenendo che il cristianesimo è frutto di due componenti, una buona che è quella greca e più precisamente platonica, e una cattiva che è quella ebraica.
Infatti mentre «il platonismo dà il regno di Dio, ossia verità e giustizia», «la mitologia biblica dà un Dio esteriore, creatore e signore – un Dio speculare a un’idolatria del corpo, del sangue, della razza», da cui occorre liberarsi per giungere a «un cristianesimo purificato dall’eredità di Israele».
Con tale obiettivo Vannini attacca duramente la teologia, la Bibbia e ogni dimensione istituzionale: «teologie, cerimonie, sinagoghe, chiese, con le loro implicite ma non troppo implicazioni razziste di popolo eletto, comunità di santi ecc., fonte continua di discriminazione e di odio».
Spesso lo fa con un livore che contrasta con quel “distacco” da lui posto al cuore dell’esperienza mistica, come quando dice che la teologia «è menzogna e peccato, anzi qualcosa di animalesco», un «prodotto della gula spiritualis con una finalità appropriativa, goditiva, golosa».
Il discorso raggiunge toni da invettiva soprattutto contro la Bibbia ebraica, per Vannini «serie di falsità create per un’ideologia razziale».
Vi sono persino parole che non dovrebbero essere più scritte dopo la Shoah, come quelle secondo cui «gli ebrei, dopo aver fatto uccidere Gesù, perseguitarono sin dall’inizio i suoi seguaci»; oppure quelle secondo cui «figli del demonio, che è padre della menzogna, sono chiamati i giudei da Gesù».
In realtà basta leggere i vangeli con attenzione per vedere che Gesù non ha mai definito gli ebrei in quanto tali “figli del demonio”, perché il testo precisa che si rivolgeva così a quegli ebrei «che avevano creduto in lui» (Gv 8,31), non al popolo ebraico in quanto tale.
Né è lecito dire che furono “gli ebrei” a uccidere Gesù, perché è noto che fu l’aristocrazia sacerdotale del tempio, del partito collaborazionista dei sadducei, a consegnare Gesù al potere romano, che poi giustiziò Gesù in quanto minaccia allo status quo.
A uccidere Gesù non furono “gli ebrei”, ma il potere religioso e il potere politico uniti in comuni interessi (come spesso accade nella storia).
Ma come si fa, ancora oggi, a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù su un intero popolo dicendo che “gli ebrei” fecero uccidere Gesù? E sarebbe questo il cristianesimo purificato? In realtà ripetere questi stereotipi, i medesimi dell’antigiudaismo religioso alla base dell’antisemitismo etnico che ha prodotto Auschwitz, è (come minimo) un errore, significa ignorare del tutto i risultati della più accreditata storiografia ed esegesi storico-critica.
Ma è tutta l’impostazione di Vannini a lasciare perplessi, non solo il suo sinistro antigiudaismo.
Parlare di teologia, di Bibbia, di Chiesa al singolare, è sbagliato.
Vi sono diverse teologie, diversi aspetti delle chiese, diversi libri biblici.
E che tra queste variegate realtà ve ne siano di negative è vero, verissimo, e occorre criticarle, guai a non farlo.
Ma non esercitare la sapienza della distinzione facendo di ogni erba un fascio, significa venir meno al principale compito del pensiero, significa non consegnare alla società ciò che solo il pensiero può darle, cioè la decantazione delle passioni e la luce calma dell’intelligenza.
Dire che la teologia in quanto tale è «negazione della religione vera» significa ignorare la storia della teologia del ‘900, nella quale vi sono stati uomini di una grandezza spirituale unica, non inferiori ai maestri medievali cari a Vannini, si pensi a Florenskij, Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, teologi che hanno pagato con la vita (martirio rosso e martirio verde) la loro dedizione alla ricerca e al bene del mondo.
Come si fa, dimenticandoli, a parlare della teologia nei modi spregiativi e sommari di Vannini? Ma la vera radice del suo errore consiste, a mio avviso, nel concetto di spirito.
Spirito per Vannini è correttamente inteso solo come opposizione ad anima, sorge solo come “distacco”, come “rimozione di tutti i contenuti-legami psichici”, come “morte dell’anima”: perché un uomo possa vivere l’esperienza dello spirito, deve morire nella sua individualità psichica.
In questa opposizione tra spirito e anima, e tra anima e corpo, rivive la tradizione dell’agostinismo radicale col suo disprezzo del mondo, in particolare della natura umana.
Così Vannini: «La natura umana è la fonte da cui derivano tutti i mali dell’uomo, per cui chi si fonda esclusivamente sull’umano non può essere altro che malvagio»; e ancora, l’uomo deve sapere che «tutto quello che procede da se stesso, dalla volontà propria, è menzogna e procede dal demonio».
In fondo per lui la vera menzogna, ben oltre teologia chiesa ebraismo, è la natura umana.
Attualizzando il gelido pessimismo antropologico del tardo Agostino che faceva dell’umanità una “massa dannata” e collocava tutti i non battezzati all’inferno, Vannini sostiene mediante il concetto di “distacco” che si entra nell’esperienza dello spirito solo negando la natura umana.
Se il cristianesimo fosse davvero così, Nietzsche avrebbe ragione a definirlo odio verso la salute, la forza, la bellezza dell’esistenza naturale.
E che vi siano elementi in tal senso è vero, l’agostinismo radicale lo mostra.
Ma per Gesù l’anima non deve morire, ma deve essere salvata, custodita, coltivata; e tutto ciò va fatto in amore con il mondo e con ogni frammento di essere, non nel distacco ma nella comunione (unione-con), con la gioia della fratellanza verso ogni forma di vita, perché, come insegna la Bibbia ebraica, viviamo all’interno di «un’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne» (Genesi 9,16).
in “la Repubblica” del 19 gennaio 2010 ”Io, la religione e la lettura biblica” di Marco Vannini Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo.
È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael).
Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità.
Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come “animalesca”: non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso.
È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro – e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di “sinistro antigiudaismo”? Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di “ebrei”, senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso.
È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre – bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni.
Che la storia biblica sia costruita su falsità – invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc.
– e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia.
Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid.
p.
391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa.
Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità.
Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di “farsi simili a Dio” nella giustizia.
Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una conversione, di una “morte dell’anima”, ossia di un radicale distacco dall’egoità.
Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima – ed è su questo che il cristianesimo si è fondato – e che la mistica – unica vera erede della filosofia greca – ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo “gelido pessimismo”, come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi.
Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
in “la Repubblica” del 26 gennaio 2010 Il dibattito tra credenti e non credenti è sempre più vivo, specialmente in questi ultimi anni.
Marco Vannini esce nelle librerie con un nuovo libro che si aggiunge a questo eterno dibattito “Prego Dio che mi liberi da Dio.
La religione come verità e come menzogna”.
La quarta di copertina: “Il dibattito tra credenti e non credenti, atei e cristiani, laici e laicisti infiamma tutti i settori della società.
Eppure esso si svolge per lo più a un livello di superficie, tanto che si ha l’impressione che i ruoli si confondano: che i veri credenti siano gli atei, che i laici portino avanti ragioni che i chierici dimenticano e che le motivazioni dei laicisti combacino, per una strana alchimia, con quelle dei cattolici più ortodossi.
Questi paradossi, come mostra Marco Vannini in questa riflessione, hanno radici profonde e non sono per nulla casuali: consistono nella dimenticanza di una serie di categorie che hanno attraversato la tradizione più alta dell’occidente, a partire dalla filosofia greca, attraverso i mistici e i filosofi della modernità, sino a personalità come Simone Weil.
Che Dio sia Spirito; che la religione sia essenzialmente un rapporto nello Spirito in cui Dio e uomo si muovono l’uno verso l’altro, l’uno nell’altro; che la vera religione sia uno spogliarsi della propria volontà, liberarsi dalla costrizione delle cose del mondo per entrare in una dimensione di libertà, di grazia.
Questi concetti si sono via via eclissati a favore di rappresentazioni più comode di Dio e della religione, spesso ridotta a una dottrina morale, a una serie di precetti fisici, adirittura sessuali.
E di questo oblio colpevoli non sono tanto i laici o gli atei ma, piuttosto, chi di questa tradizione doveva farsi depositario e custode: la Chiesa”.
Italo-marocchina.
Il libro: Anna Mahjar-Barducci, “Italo-marocchina.
Storie di immigrati marocchini in Europa”, prefazione di Vittorio Dan Segre, Diabasis, Reggio Emilia, 2009. __________ Anna Mahjar-Barducci ha fondato e presiede in Italia l’Associazione Arabi Democratici Liberali, il cui sito è anche in inglese: > www.arabidemocraticiliberali.com L’Associazione opera assieme a un istituto di ricerca di Erbil, nel Kurdistan iracheno, nato per promuovere il dialogo religioso e inter-etnico: > www.tolerancy.org Gli scritti prodotti dall’Associazione Arabi Democratici Liberali escono su media arabi come la tv Al-Arabiya, il quotidiano saudita con base a Londra “Al-Awsat”, il settimanale marocchino “Tel Quel”, il libanese “Daily Star” e il settimanale iracheno “Al-Ahali”- __________ Lo scorso 21 ottobre, sul settimanale “Tempi”, Anna Mahjar-Barducci è intervenuta a proposito delle discussioni in corso in Italia sull’integrazione degli immigrati e sulla concessione in tempi più brevi della cittadinanza: > “Sono italo-marocchina…” L’articolo termina così: “Quando leggo sulle pagine dei quotidiani italiani il dibattito sulla concessione della cittadinanza agli immigrati dopo soli cinque anni di residenza, rimango un po’ attonita.
Infatti, dalle dichiarazioni di questi giorni sembra che dimezzare il tempo di attesa sia di per sé un elemento che faciliti automaticamente l’integrazione dell’immigrato.
Ma forse altro non è che un escamotage per non trattare in maniera appropriata vere politiche di integrazione, che ancora mancano.
C’è invece la necessità, per esempio, di promuovere corsi di italiano e di alfabetizzazione gratuiti, di creare modelli e attività sociali per i figli di immigrati, di istituire centri di aiuto e di empowerment per le donne immigrate, di controllare le moschee, di formare imam che abbraccino scuole di pensiero moderno, eccetera.
Senza l’adozione di politiche reali che permettano all’immigrato di fare propria l’identità italiana, tutto rimarrà uguale, non importa che la cittadinanza venga data prima o dopo.
Continueremo soltanto a vantarci inutilmente di vivere in un’Italia ‘multiculturale’, quando il multiculturalismo senza integrazione ha sempre creato soltanto ghettizzazione.
E avremo altri padri come quello di Sanaa, che uccideranno le loro figlie, ma questa volta con la cittadinanza italiana”.
__________ Sul riconoscimento del “volto” dell’altro, che può essere anche il musulmano, Benedetto XVI ha impostato la sua omelia di Capodanno: > “Nel primo giorno del nuovo anno…” ANNA MAHJAR-BARDUCCI, “Italo-marocchina.
Storie di immigrati marocchini in Europa”, prefazione di Vittorio Dan Segre, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, ISBN 978-88-8103-610-3, pp.
160, Euro 12,00 Un viaggio estivo in Marocco – la terra della madre, della nonna materna e di molti altri parenti – è il pretesto che dà l’avvio al racconto autobiografico di Anna Mahjar-Barducci.
L’autrice ricostruisce le vicende della propria famiglia attraverso il doppio filtro della sua identità culturale, araba ed europea, italiana e marocchina, alla luce di ciò che accade durante il suo soggiorno.
Amori, tradimenti, disgrazie, rovine economiche e umane sono lo sfondo di questo breve romanzo sulle radici culturali: radici che si perdono e troppo tardi si riscoprono (la “nonna” che muore portandosi via un pezzo di storia sconosciuto) o che si ricercano nel posto sbagliato (lo zio Karim che simpatizza con i fondamentalisti).
Con uno stile fresco e lineare l’autrice, che sposa un israeliano, fornisce ai lettori una testimonianza importante del melting pot mediterraneo contribuendo a comprendere i motivi e le difficoltà dell’immigrazione.
L’autrice Anna Mahjar-Barducci è una scrittrice e giornalista italomarocchina.
Ha studiato in Pakistan ed è cresciuta tra la Versilia, il Marocco e la Tunisia.
Ha anche vissuto parte della sua infanzia in Zimbabwe e Senegal.
Ha lavorato per il redattore capo del quotidiano panarabo «Asharq Al-Awsat» negli Stati Uniti, e i suoi articoli sono apparsi su vari media mediorientali tra cui il «Daily Star» (Libano) e «Al-Arabiya» (Dubai).
Ha intervistato leader politici internazionali, incluso l’ex premier pakistana Benazir Bhutto poco prima del suo assassinio.
I suoi quadri secondo la tradizione dell’arte islamica sono stati esposti in vari paesi africani.
Nel 2007, ha fondato l’Associazione Arabi Democratici Liberali, con sede a Roma.
È sposata con un israeliano, ex consigliere per il premier Yitzhak Rabin.
Questo è il suo primo romanzo.
Islam individuale di Anna Mahjar-Barducci (Da “Italo-marocchina.
Storie di immigrati marocchini in Europa”, pp.
91-94) La mattina, Zaynab mi svegliò con un urlo.
Era andata presto a comperare i biglietti per il concerto di Cheb Khaled a Casablanca.
Sicuramente una delle notizie migliori della giornata.
Non vedevo l’ora di vederlo dal vivo.
Lamia andò fuori casa a parlare al cellulare.
Zaynab mi disse che stava chiamando Fahd: si trovava a Casablanca per qualche giorno e avrebbe potuto rivederlo al concerto.
Quando tornò in camera, non ci raccontò nulla.
Poi la vidi indossare la jillabah sopra la maglietta di Zinedine Zidane e mettersi il velo.
Andò nella stanza accanto e iniziò a pregare.
Ero confusa.
Suo padre poteva averla contagiata.
Nessuno nella mia famiglia aveva mai pregato, a parte Karim, che non era certo un esempio da seguire.
Rachid, quando la vide, fece una faccia perplessa: “Lamia!”, urlò lo zio dal divano.
“Stai pregando verso l’America! La Mecca è dall’altra parte”.
Scoppiammo tutti in una risata.
La mia famiglia era composta principalmente da donne.
Tutte noi ci consideravamo musulmane; ma ognuna aveva il suo modo di interpretare la religione.
Ognuna, infatti, aveva il suo islam personale.
Per mia madre, essere musulmana significava semplicemente credere in Dio.
Per mia zia Samia, significava avere un’identità.
Per Zaynab e Maryiam voleva dire non dimenticare le proprie origini.
Osservare i precetti religiosi per noi era secondario.
Eppure, vedere Lamia pregare mi aveva impressionato.
Rispettavo la sua scelta personale, ma, dopo la visita del marabut, avevo paura che si chiudesse al mondo, come aveva fatto suo padre.
Rachid, invece, era un panarabista, e la religione non gli interessava.
Diceva di essere musulmano per nascita e ateo per scelta.
Pochi anni prima, avevo incontrato a Venezia Abdennour Bidar, un professore francese di filosofia, di fede islamica.
Mesi dopo, mia cugina Zaynab mi spedì dalla Francia un libro di Bidar, intitolato “Self Islam”: ovvero l’islam dell’individuo, come io stessa lo definivo.
Cominciai immediatamente a leggerlo, sicura che vi avrei trovato la descrizione della mia famiglia.
[…] Leila e le mie cugine rispettavano il Ramadan.
Mia zia Samia, invece, durante quel periodo continuava a mangiare; ma nessuno della mia famiglia avrebbe osato dirle che per questo non era musulmana.
Dopo tutto, la maggior parte dei nostri vicini, a Groupe Six, formalmente digiunavano durante il Ramadan, ma poi mangiavano di nascosto tappati in casa.
Prima di uscire, però, con molta ipocrisia si grattavano leggermente la lingua con le unghie per farla diventare bianca, come se avessero digiunato.
C’era invece chi il Ramadan lo rispettava per tutto il mese; e poi durante gli altri giorni dell’anno beveva vino e superalcolici.
Nella mia famiglia, inoltre, la umma non sapevano nemmeno che cosa fosse.
Zaynab, presa a volte da pulsioni panarabiste, diceva “noi arabi”; ma l’unico “noi” che era sempre esistito a casa mia era la nostra famiglia.
In Marocco eravamo tutti sunniti; e a Groupe Six non sapevano nemmeno cosa fossero gli sciiti.
Quando ero piccola, però, il giorno dell’ashura, a Kenitra sembrava di essere a Teheran.
Uomini vestiti di bianco si battevano la testa con coltelli fino a quando non usciva loro il sangue, come facevano i seguaci di Ali.
Pensai che forse eravamo anche noi sciiti senza saperlo.
Non ne avevo le prove, ma mi piaceva quella combinazione di tradizioni.
Mia madre, però, quando vedeva un uomo con la barba da fondamentalista, lo chiamava Ayatollah.
Quella, era per lei il massimo dell’offesa.
Mio zio Rachid, alzandosi dal divano per uscire a fumare, guardò nuovamente Lamia pregare con l’indice puntato verso l’alto.
Poi si avvicinò verso di me in cucina, per parlarmi.
“Tu mi accusi sempre di aver sostenuto Oufkir.
Sei anche convinta che, se Ben Barka fosse stato vivo, la storia del Marocco sarebbe stata migliore”, mi disse sottovoce.
“Il vero pericolo per il paese ce l’abbiamo in casa.
Quelli come quell’asino di tuo zio Karim prima rovinano la vita alla famiglia, poi si fanno un bernoccolo in fronte pregando, e per redimersi pensano di poterci togliere le nostre libertà.
Non lo vedi?”.
Quella fu la conversazione più lunga che ebbi mai con mio zio Rachid.
Lo guardai uscire dalla porta, sedersi sullo scalino e accendersi nervosamente una sigaretta con un fiammifero, guardandosi intorno pensieroso.
__________ Il nuovo anno si apre con l’ansia di nuovi attacchi terroristici di musulmani all’Occidente.
Anche ad opera di nemici cresciuti in casa, in quell’Europa nella quale si sono stabiliti, ma senza integrarsi.
Nell’opinione diffusa, islam e islamismo rischiano sempre più di diventare sinonimi.
Il “volto” pubblico dell’immigrato musulmano finisce schiacciato su un profilo radicale e violento.
Ma che la realtà del mondo musulmano sia molto diversa, ci vien detto e mostrato in modo convincente da questo stesso mondo, se appena lo si guarda e ascolta senza pregiudizi.
Una delle voci musulmane più significative è, tra le tante, quella di Khaled Fouad Allam, italo-algerino, professore alle università di Trieste e di Urbino.
In un editoriale dello scorso 9 settembre sul quotidiano dei vescovi italiani, “Avvenire”, Allam ha scritto che l’islamismo violento non è affatto in espansione, oggi, tra i musulmani, nemmeno in un paese come l’Algeria dove pure negli scorsi decenni ha fatto migliaia di vittime: “Certo, esiste la frangia magrebina di Al Qaeda, capace sempre di colpire.
Ma oggi, rispetto al passato, questo e altri movimenti sono divenuti movimenti di élite, formati da intellettuali precarizzati o da giovani attratti dalla narrazione ideologica, e non hanno più la base sociale di cui godevano quindici anni fa.
Oggi i ragazzi algerini sognano l’Occidente e l’Europa non solo perché cercano una vita agiata, come i loro genitori negli anni Sessanta e Settanta, ma in quanto libertà.
E mentre in vari Stati musulmani i governi spingono a una reislamizzazione in senso ortodosso, in questi stessi Stati avanzano i processi di secolarizzazione, che investono la fede religiosa.
La Turchia è esemplare in questo senso”.
Khaled Fouad Allam è un analista e interprete di notevole acutezza di ciò che avviene nella cultura e nella pratica musulmana.
Un anno fa fu sul punto di diventare una firma regolare de “L’Osservatore Romano” proprio per scrivere di questi temi.
Ma a un primo articolo, pubblicato il 30 novembre 2008, non ne seguirono più altri.
* Un’altra voce musulmana assolutamente da ascoltare è quella di Anna Mahjar-Barducci (nella foto), residente in Italia, giornalista e scrittrice, nata da madre marocchina e da padre italiano, sposata a un ebreo israeliano di nome David.
Agli occhi dell’islam ortodosso, il matrimonio suo e quello di sua madre con un uomo di altra religione sono inaccettabili, un’apostasia.
Ma in Marocco l’opinione prevalente non è affatto così rigida.
Nel 2006, il film più visto in quel paese fu “Marock”, una storia d’amore tra una giovane musulmana che vuole liberarsi dai dogmi religiosi e un attraente ragazzo ebreo.
Da poche settimane è in libreria in Italia un racconto autobiografico, scritto da Anna Mahjar-Barducci, dal titolo “Italo-marocchina.
Storie di immigrati marocchini in Europa”.
Il libro è un vivido affresco del quartiere della città del Marocco in cui abitano i numerosi famigliari della scrittrice, di cui si raccontano le storie.
Alcuni di questi suoi parenti vanno e vengono tra il Marocco e l’Europa.
Ma ciò che più sorprende del racconto è che nessuno di loro assomiglia a un altro.
Sono tutti musulmani, ma diversissimi.
Il breve capitolo riprodotto più sotto mostra nel modo più efficace la realtà di questo multiforme “islam individuale”.
Tutti sognano l’Europa.
Ma nessuno di loro riesce a integrarsi nel paese in cui emigra.
Neppure l’autrice, che pure è cittadina italiana.
In un altro capitolo del libro, ella racconta che in Italia, ad aggravare questa separatezza, sono proprio altri suoi correligionari immigrati: “Quando vedo un magrebino per la strada, mi tocca cambiare tragitto.
Comincia a salutarmi in arabo e mi fissa come se fossi di sua proprietà.
Una volta che ero in una pizzeria con un compagno di scuola, un marocchino mi chiamò ‘sharmuta’, prostituta, e mi disse che non potevo uscire con un italiano.
Dovette intervenire il padrone del locale, per mandarlo via.
In Marocco non succederebbe mai una cosa del genere”.
In altri suoi scritti, Anna Mahjar-Barducci ha spiegato che le difficoltà ad integrarsi nei paesi europei provocano in molti musulmani emigrati una “perdita d’identità”.
E questo li può far cadere nella rete degli islamisti radicali, che offrono loro proprio una identità forte e sicura, che li fa sentire non più soli, ma parte di grande comunità.
“Così si possono vedere a Milano ragazzi di origine magrebina che neppure parlano più l’arabo, ma con barbe lunghe e con abiti che in Marocco nessuno di loro indosserebbe”.
Il capitolo qui riprodotto di “Italo-marocchina” mostra anche questo.
Tra i personaggi descritti, il solo che si è fatto islamista radicale lo è diventato per contraccolpo di una disordinata vita da emigrato in Francia.
Ma ecco altri dettagli per seguire con più facilità il racconto.
Le sorelle Zaynab e Lamia sono due giovani cugine dell’autrice del libro.
Leila è la loro madre.
Loro padre, Karim, dopo una vita dissoluta si è convertito al fondamentalismo.
Rachid, altro zio dell’autrice, è un ex militare del generale Oufkir, autore nel 1972 di un fallito rovesciamento della monarchia in Marocco e prima ancora, nel 1965, dell’eliminazione del leader socialista Ben Barka.
Groupe Six è il quartiere della città marocchina di Kenitra ove l’autrice del libro è tornata a incontrare i suoi parenti.
La jillabah è una tunica larga indossata in vari paesi arabi, che in Marocco ha il cappuccio.
L’ashura è la principale festa dei musulmani sciiti.
I marabut sono guide religiose che vanno di casa in casa.
La umma è l’insieme di tutti i musulmani del mondo.
Sandro Magister
La vita benedettina
ROBERTO NARDIN E ALFREDO SIMÓN, La vita benedettina, Roma, Città Nuova Editrice, 2009, pagine 170, euro 10 La vita benedettina: così venne chiamato il documento conclusivo del Congresso degli abati che il 30 settembre 1967 si tenne a Roma, nell’abbazia primaziale di Sant’Anselmo.
Si tratta di un testo ritenuto fondamentale – quasi una magna charta – in quanto in esso fu condensata la prima applicazione del concilio Vaticano II alla vita monastica.
La vita benedettina è diventato così un punto di riferimento per la stesura, richiesta dal rinnovamento conciliare, delle nuove costituzioni delle varie congregazioni monastiche.
La nuova traduzione italiana del documento – che all’epoca venne pubblicato in francese – è ora disponibile in una versione, curata da Enrico Mariani, che tiene anche conto del testo in latino che, poco più di quarant’anni or sono, fu approvato sempre dallo stesso Congresso.
Il testo è contenuto in un volume ( da poco in libreria realizzato da due studiosi benedettini docenti in diverse università ecclesiastiche, tra cui il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo.
Nel libro la nuova versione de La vita benedettina è accompagnata da alcuni studi che ricostruiscono la genesi storica del documento, ne analizzano il testo e sinteticamente ripropongono lo sviluppo della spiritualità monastica dalle lontane origini ai giorni nostri.
Pubblichiamo di seguito la parte conclusiva – intitolata Dal concilio Vaticano II ad oggi – dello studio del primo dei due autori e quasi integralmente la prefazione al volume, a firma dell’abate primate della Confederazione benedettina.
Il concilio Vaticano II presenta la vita monastica in continuità con la sua tradizione: separata dal mondo e contemplativa.
Al tempo stesso, sono molti e a livelli diversi gli stimoli offerti alla spiritualità monastica dai movimenti di rinnovamento ecclesiale che convergono nel Vaticano II e dal quale si sviluppano.
“Così il movimento biblico ha permesso il recupero della lectio divina come fonte di spiritualità; quello patristico ha stimolato la riscoperta dei Padri come maestri della vita monastica, quello liturgico ha consentito il recupero della centralità e della valenza teologica dell’opus Dei e della celebrazione eucaristica nella vita della comunità e quello ecumenico ha stimolato la comprensione del monachesimo come luogo di comunione e di dialogo” (Robero Nardin, La formazione permanente: alcune coordinate).
Inoltre, ancora il Vaticano II ha stimolato il monachesimo alla riscoperta delle proprie radici sia in rapporto alla vita ecclesiale, sia attraverso una rilettura attenta delle fonti della vita monastica mediante un’ermeneutica volta all’analisi di tutto un ricco patrimonio documentario agiografico, legislativo ed epistolare alla ricerca del carisma originario, del monachesimo e delle singole tradizioni monastiche.
Si è trattato di un rinnovamento essenziale in quanto “forte era il distacco dalla propria tradizione spirituale e culturale a cui si suppliva mediante una formazione di tipo generico o il ricorso a frasi fatte e a luoghi comuni.
Il ritorno alle proprie fonti auspicato dal Concilio era, specialmente per il monachesimo italiano, un fenomeno ancora lontano e solo grazie all’influsso di dom Jean Leclercq (+ 1993) esso avrebbe avuto inizio a partire dagli anni Settanta” (Gregorio Penco, Monachesimo, chiesa, società alla fine del secondo millennio).
Tra le “frasi fatte” e d’epoca recente la più famosa è ora et labora, espressione questa che, pur non essendo presente nella Regola di san Benedetto, tuttavia ci riporta alle origini del monachesimo in cui per lavoro (labora) s’intendeva il lavoro dell’ascesi e, nel caso specifico, considerato inseparabile dalla preghiera (ora).
Il recupero della lectio divina, quale fonte prioritaria della spiritualità monastica, costituisce il frutto più importante del rinnovamento post conciliare.
La stessa espressione lectio divina, infatti, presente dall’epoca patristica, dal XIII secolo divenne sempre più rara e bisognerà attendere la pubblicazione di due significativi studi degli anni Venti del secolo scorso per riprenderne gradualmente l’uso.
Lo studio del monachesimo antico e medievale, inoltre, permetteva di stimolare sia il recupero della lettura spirituale della Scrittura come fulcro del rinnovamento monastico del Novecento, sia la consapevolezza che la lectio divina costituiva l’elemento essenziale della spiritualità monastica, al di là delle epoche e delle diverse forme con le quali il monachesimo era apparso.
Sembra opportuno, quindi, sintetizzare la vita monastica non tanto nel recente ora et labora, quanto, invece, nell’espressione che ricorda il Liber de modo bene vivendi (1174) del cistercense Tommaso di Froidmont: ora, lege et labora.
Nella seconda metà del XX secolo, inoltre, il monachesimo rivela la propria fecondità in una duplice direzione.
Da un lato, mostrando la presenza di comunità monastiche in molte Chiese nei Paesi in via di sviluppo, dall’altro, attraverso la nascita di nuove comunità d’ispirazione monastica nei Paesi industrializzati.
In entrambi i casi, pur nelle situazioni diverse, emergono gli stimoli provocati dal Vaticano II.
In particolare la centralità della Parola e l’attenzione ai Padri all’interno d’una rivalutazione della vita monastica quale valore in se stessa e non nella misura in cui è finalizzata a opere particolari: caritative, educative, pastorali, missionarie, assistenziali o culturali.
Si comprende, pertanto, come il valore della vita monastica non si ponga nei servizi svolti (diakonia), ma nella vitale testimonianza (martyria) della communio quale segno profetico dell’escatologico regno di Dio.
Le nuove comunità monastiche e le diverse collocazioni continentali mettevano e mettono in discussione certezze che venivano considerate assolute nell’ambito del monachesimo, come l’uso dell’abito quale unica veste del monaco, il gregoriano quale unico canto liturgico (ricordo di Cluny), il lavoro manuale, possibilmente agricolo, quale unico lavoro monastico (ricordo di Cîteaux).
Inoltre, l’universale chiamata alla santità ribadita dal Vaticano II faceva emergere la dignità dello stato laicale rispetto a quello clericale, ma anche il valore e la piena dignità della vocazione del monaco rispetto a quella del monaco-sacerdote, con conseguente sempre maggiore consapevolezza della necessità di un unico percorso formativo.
Gli studi sul monachesimo nel Medioevo, poi, mettevano sempre più in luce un sacerdozio monastico, né ministeriale, né missionario.
Più di recente s’è messo in rilievo come la vocazione monastica si ponga nella stessa linea della vocazione cristiana, fondata sul battesimo, e non come una parte migliore di essa.
“Il monaco si rivela insomma anzitutto come un cristiano posto in permanente tensione critica nei confronti del mondo in cui vive senza identificarvisi mai totalmente, perché vive se stesso come un’attesa di pienezza, una tensione che lo apre a un oltre che si realizzerà soltanto nell’escatologia” (Innocenzo Gargano, Spiritualità monastica oggi).
Si tratta d’una tensione verso e nell’eschaton in cui il monaco non solo attende il “non ancora” dell’incontro definitivo, ma vive il “già” della vita in Cristo.
Il monachesimo, allora, realizza nell’oggi del tempo la propria dimensione profetica quale costante epiclesi-epifania invocazione-manifestazione dello Spirito per fecondare segretamente la storia.
Da rilevare, infine, la notevole richiesta di ospitalità monastica degli ultimi decenni.
Si tratta di un fenomeno che, al di là delle mode e del “consumismo spirituale”, manifesta come la spiritualità d’ispirazione monastica sia in sintonia – o si identifichi – con la spiritualità cristiana tout court, in cui le tre dimensioni evidenziate per l’epoca delle origini – conversatio, communio e caritas – appartengono, in realtà, alla spiritualità monastica di tutte le epoche.
(©L’Osservatore Romano – 6 gennaio 2010)
Maestri e testimoni
MASSIMO BORGHESI, Maestri e testimoni.
Profili filosofico-teologici del ‘900, , Messaggero, Padova 2009, EAN 9788825022544, pp.
124, euro 13,90 Il XX secolo, l’era dell’ateismo, del nichilismo e del totalitarismo politico, è stato un periodo profondamente tragico.
Esso ha visto gli intellettuali ora schierati a favore del potere, ora coraggiosi testimoni della verità.
Tra questi ultimi emergono figure luminose di autori cristiani, ebrei, laici che non hanno rinnegato la dimensione religiosa, l’unica che consentiva di non arrendersi alle seduzioni della potenza, e che hanno pagato spesso un duro prezzo per la loro fedeltà all’ideale.
Alcuni tra loro sono tra i protagonisti del pensiero e della vita spirituale del ‘900.
Il volume presenta una «galleria» di autori significativi come Camus, Buber, Bonhoeffer, Guardini, Stein, de Lubac, Giussani.
Completano il quadro le interviste a tre grandi del ‘900: Gadamer, Del Noce, Leclercq.
La loro memoria assume un valore particolare in un contesto, quello attuale, in cui i grandi maestri sono scomparsi e la vita, dei credenti come dei non credenti, chiede nuovi testimoni della verità.
Autore MASSIMO BORGHESI, è professore ordinario di filosofia morale presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Perugia.
Profondo esperto di filosofia contemporanea, sensibile ai fenomeni sociali e culturali del Novecento e del terzo millennio, da una prospettiva umana ed evangelica, è autore di numerosi libri pubblicati e tradotti da case editrici italiane ed estere.
Spidlík
L’intervista Eminenza, qual è il bilancio dei suoi 90 anni e in sintesi del suo Novecento? «Guardando indietro, sono stupito dei grandi segni della Provvidenza che mi ha protetto nei difficili periodi del Novecento: la crisi dopo la prima guerra mondiale, l’occupazione nazista, il totalitarismo comunista, la ricerca dell’identità nell’esilio.
L’inno nazionale della Cechia comincia con le parole: dov’è la mia patria? La mia risposta è semplice: sono ciò che sono nato e ringrazio tutti gli altri Paesi, soprattutto l’Italia, che mi hanno aiutato a sviluppare attraverso lo studio e la spiritualità ciò che mi fu impedito nella mia terra natale».
Lei ha conosciuto bene uno dei grandi testimoni del Novecento, Giovanni Paolo II.
Qual è il suo ricordo? «Era un Papa slavo e forse anche per questo ci siamo ben compresi, da subito, riguardo al suo amato aforisma “respirare a due polmoni”.
In questo spirito ho cercato di predicare gli esercizi spirituali nel 1995 alla Curia romana, dopo i quali è nata l’idea di costruire la cappella Redemptoris Mater che è stata realizzata nel 1999.
A mio giudizio con la costruzione di questo luogo di culto dentro il Vaticano e l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor Hominis e le domande di senso racchiuse in quel testo, come ad esempio la parte dedicata ai diritti dell’uomo, si chiude in un certo senso la parabola del Novecento con le sue tragedie».
Si narra che Karol Wojtyla fosse edificato ma anche divertito dalla sua capacità di predicare… «Il Papa rideva e scherzava volentieri.
Una volta ci incontrammo nel corridoio del Palazzo apostolico e voleva benedirmi.
Io gli dissi: Santo Padre non posso inginocchiarmi, ho male alle gambe.
E lui rispose: anch’io.
Meno male, Santo Padre, che cominciamo dalle gambe e non dalla testa, gli feci io…».
Leggendo la sua biografia, salta subito all’occhio il gran numero di lingue nelle quali le sue opere sono state tradotte.
«Ci sono tante traduzioni, è vero, ma non è colpa mia! Ad esempio un mio libro uscì molti anni fa, prima della guerra in Iraq, in arabo col permesso di Saddam Hussein.
Altri volumi sono usciti in Egitto.
In neogreco sono tradotti i manuali, mentre i romeni traducono praticamente tutto.
Prima si usavano i miei libri in francese, come seconda lingua; poi i giovani sono diventati anglofoni, ma ora li traducono in romeno e persino in russo».
Che cosa l’Oriente cristiano può significare e dare come patrimonio culturale all’Europa e all’Occidente di oggi? «Credo che l’Oriente cristiano potrà ora dare un suo contributo veramente efficace.
Il motivo è semplice: gli slavi sono stati gli ultimi ad essere stati battezzati e proprio per questo il loro apporto, rispetto ad altre culture europee, è entrato più tardi nella coscienza universale.
Il grande Solov’ëv riteneva che questo apparente deficit fosse un segno provvidenziale per il ruolo <+corsivo>in fieri<+tondo> che proprio gli slavi avrebbero potuto giocare nella società che verrà ma anche per il futuro del cristianesimo».
Il cardinale Giacomo Biffi nel 2007, durante gli esercizi spirituali alla Curia romana, citando l’«Anticristo» di Solov’ëv, ha detto che esso potrebbe celarsi oggi in un pacifista così come in un ecologista, annacquando così l’essenza del messaggio cristiano.
Qual è la sua opinione a riguardo? «Concordo con la preoccupazione del cardinale Biffi.
L’Anticristo viene presentato come l’uomo ideale, che pensa di risolvere tutti i problemi umani adoperando bene la ragione e la volontà, ma senza Cristo.
Il suo successo finisce in una catastrofe mondiale.
Il rischio, a ben vedere, è in fondo evidente, seppur con connotati diversi, anche nella nostra cultura e mentalità corrente, che vuole vivere senza Dio».
Citando il suo amato Dostoevskij sarà, secondo lei, la bellezza a salvare il mondo? «Credo di sì.
Anche Solov’ëv amava citare questa frase.
Il suo significato più autentico è quello di superare l’aspetto estetico.
Il “bello” è ciò in cui si riesce a vedere un elemento che lo supera, elevandolo.
Il carbone e il diamante, ad esempio, sono chimicamente uguali.
Eppure il carbone è brutto perché in esso non vediamo nient’altro.
Al contrario il diamante è bellissimo perché vi risplende la luce.
I gradi della bellezza sono diversi.
Ma non c’è dubbio che la sintesi e il paradosso di tutto questo è racchiuso nella figura del Cristo, che raccolse su di sé le grandezze ma anche le miserie dell’umanità nell’Incarnazione».
L’opera di questo gesuita sembra una lunga citazione (140 libri e più di 600 articoli, tradotti in tutto il mondo, tra questi gli ultimi due saggi scritti per la Lipa nel 2007 Maranatha.
La vita dopo la morte e Il monachesimo).
Ma dietro al cordiale sorriso e alla flemma di questo cardinale si annida la speranza ecumenica di sempre sul futuro del Vecchio Continente: che la Chiesa di Occidente impari, secondo la celebre frase del poeta russo Vjaceslav Ivanov, a «respirare con ambedue i polmoni».
Dal Centro Ezio Aletti, nel cuore di Roma a pochi passi dalla basilica di Santa Maria Maggiore, il cardinale gesuita Tomás Spidlík, che domani, 17 dicembre, compirà 90 anni rilegge il suo Novecento con grande gratitudine per i doni ricevuti.
Circondato dalle icone della spiritualità orientale e dai dipinti e mosaici del suo confratello Marko Ivan Rupnik tornano alla mente di questo anziano porporato, nato nel 1919 a Boskovice in Moravia, come in un album dei ricordi, i grandi autori, da Pavel Florenskji all’amato Teofane il Recluso, che hanno costellato la sua vita di intellettuale cattolico più studiato nel mondo ortodosso per la sua conoscenza della spiritualità dell’Oriente cristiano.
E viene Natale
AGOSTINO MANTOVANI, E viene Natale.
Pensieri e riflessioni, Infinito Edizioni, Castel Gandolfo (RM), 2009, Isbn: 78-88-89602-68-3, pp.118, Euro 12,00 Natale che viene, tempo di auguri.
Ci sono stati altri Natali che ricordiamo, perché il tempo passa.
Ce ne saranno altri.
Succede da oltre duemila anni.
Chissà come saranno i prossimi.
Intanto in questo libro l’autore traccia quarantuno modi inusuali e ricchi di poesia per formulare auguri diversi dal solito, ricordando che il Natale non è e non può essere la celebrazione del consumismo, ma altro.
Ben altro.
“Il Natale è anche poesia e quella di Mantovani è leggera e leggiadra con la neve, gli aceri, i tramonti, le stagioni, i mulini a vento e tante altre immagini suggestive e delicate.
Il Natale è anche mensa famigliare che riunisce gli affetti più cari, è anche festa dei bambini e dei loro balocchi, è anche scambio di doni sotto l’albero, è anche occasione per spargere auguri (come il seminatore spargeva la semente) che talvolta riannodano antiche amicizie dal tempo sfilacciate, è anche solidarietà, anche tenerezza, anche accoglienza, anche…
Purché sia anche”.
(Aldo Ungari) “Ci avviciniamo al Natale e sarebbe cosa bella se riuscissimo a prepararci nel modo giusto: vedendo con occhi nuovi la fragilità dell’uomo – la nostra fragilità e quella degli altri – fino a farne motivo di bontà, di pazienza, di premura.
Come una riproduzione in noi della tenerezza di Dio”.
(Mons.
Luciano Monari) Scarica la scheda del libro Scarica la prefazione del libro Dello stesso genere/autore, ti consigliamo anche: Vicoli in Paradiso Il cielo in una stalla
Omelie
Omelia della XXXII domenica del tempo ordinario di Benedetto XVI Brescia, 8 novembre 2009 Cari fratelli e sorelle, è grande la mia gioia nel poter spezzare con voi il pane della Parola di Dio e dell’Eucaristia, qui, nel cuore della diocesi di Brescia, dove nacque ed ebbe la formazione giovanile il servo di Dio Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI.
[…] Al centro della liturgia della Parola di questa domenica – la XXXII del tempo ordinario – troviamo il personaggio della vedova povera, o, più precisamente, troviamo il gesto che ella compie gettando nel tesoro del Tempio gli ultimi spiccioli che le rimangono.
Un gesto che, grazie allo sguardo attento di Gesù, è diventato proverbiale.
“L’obolo della vedova”, infatti, è sinonimo della generosità di chi dà senza riserve il poco che possiede.
Prima ancora, però, vorrei sottolineare l’importanza dell’ambiente in cui si svolge tale episodio evangelico, cioè il Tempio di Gerusalemme, centro religioso del popolo d’Israele e il cuore di tutta la sua vita.
Il Tempio è il luogo del culto pubblico e solenne, ma anche del pellegrinaggio, dei riti tradizionali, e delle dispute rabbiniche, come quelle riportate nel Vangelo tra Gesù e i rabbini di quel tempo, nelle quali, però, Gesù insegna con una singolare autorevolezza, quella del Figlio di Dio.
Egli pronuncia giudizi severi – come abbiamo sentito – nei confronti degli scribi, a motivo della loro ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano.
Gesù, insomma, si dimostra affezionato al Tempio come casa di preghiera, ma proprio per questo lo vuole purificare da usanze improprie, anzi, vuole rivelarne il significato più profondo, legato al compimento del suo stesso mistero, il mistero della sua morte e risurrezione, nella quale Egli stesso diventa il nuovo e definitivo Tempio, il luogo dove si incontrano Dio e l’uomo, il creatore e la sua creatura.
L’episodio dell’obolo della vedova si inscrive in tale contesto e ci conduce, attraverso lo sguardo stesso di Gesù, a fissare l’attenzione su un particolare fuggevole ma decisivo: il gesto di una vedova, molto povera, che getta nel tesoro del Tempio due monetine.
Anche a noi, come quel giorno ai discepoli, Gesù dice: Fate attenzione! Guardate bene che cosa fa quella vedova, perché il suo atto contiene un grande insegnamento.
Esso, infatti, esprime la caratteristica fondamentale di coloro che sono le “pietre vive” di questo nuovo Tempio, cioè il dono completo di sé al Signore e al prossimo.
La vedova del Vangelo, come anche quella dell’Antico Testamento, dà tutto, dà se stessa, e si mette nelle mani di Dio, per gli altri.
È questo il significato perenne dell’offerta della vedova povera, che Gesù esalta perché ha dato più dei ricchi, i quali offrono parte del loro superfluo, mentre lei ha dato tutto ciò che aveva per vivere (cfr.
Marco 12, 44), e così ha dato se stessa.
Cari amici! A partire da questa icona evangelica, desidero meditare brevemente sul mistero della Chiesa, del Tempio vivo di Dio, e così rendere omaggio alla memoria del grande papa Paolo VI, che alla Chiesa ha consacrato tutta la sua vita.
La Chiesa è un organismo spirituale concreto che prolunga nello spazio e nel tempo l’oblazione del Figlio di Dio, un sacrificio apparentemente insignificante rispetto alle dimensioni del mondo e della storia, ma decisivo agli occhi di Dio.
Come dice la lettera agli Ebrei – anche nel testo che abbiamo ascoltato – a Dio è bastato il sacrificio di Gesù, offerto “una volta sola”, per salvare il mondo intero (cfr.
Ebrei 9, 26.28), perché in quell’unica oblazione è condensato tutto l’amore del Figlio di Dio fattosi uomo, come nel gesto della vedova è concentrato tutto l’amore di quella donna per Dio e per i fratelli: non manca niente e niente vi si potrebbe aggiungere.
La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesù, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento.
È il Corpo di Cristo che si dona interamente, Corpo spezzato e condiviso, in costante adesione alla volontà del suo Capo.
[…] È questa la Chiesa che il servo di Dio Paolo VI ha amato di amore appassionato e ha cercato con tutte le sue forze di far comprendere e amare.
Rileggiamo il suo “Pensiero alla morte”, là dove, nella parte conclusiva, parla della Chiesa.
“Potrei dire – scrive – che sempre l’ho amata…
e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto.
Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse”.
Sono gli accenti di un cuore palpitante, che così prosegue: “Vorrei finalmente comprenderla tutta, nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità.
Corpo mistico di Cristo.
Vorrei – continua il papa – abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla”.
E le ultime parole sono per lei, come alla sposa di tutta la vita: “E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo”.
Che cosa si può aggiungere a parole così alte ed intense? Soltanto vorrei sottolineare quest’ultima visione della Chiesa “povera e libera”, che richiama la figura evangelica della vedova.
Così dev’essere la Comunità ecclesiale, per riuscire a parlare all’umanità contemporanea.
L’incontro e il dialogo della Chiesa con l’umanità di questo nostro tempo stavano particolarmente a cuore a Giovanni Battista Montini in tutte le stagioni della sua vita, dai primi anni di sacerdozio fino al pontificato.
Egli ha dedicato tutte le sue energie al servizio di una Chiesa il più possibile conforme al suo Signore Gesù Cristo, così che, incontrando lei, l’uomo contemporaneo possa incontrare Lui, Cristo, perché di Lui ha assoluto bisogno.
Questo è l’anelito di fondo del Concilio Vaticano II, a cui corrisponde la riflessione del papa Paolo VI sulla Chiesa.
Egli volle esporne programmaticamente alcuni punti salienti nella sua prima enciclica, “Ecclesiam suam”, del 6 agosto 1964, quando ancora non avevano visto la luce le costituzioni conciliari “Lumen gentium” e “Gaudium et spes”.
Con quella prima enciclica il pontefice si proponeva di spiegare a tutti l’importanza della Chiesa per la salvezza dell’umanità e, al tempo stesso, l’esigenza che tra la comunità ecclesiale e la società si stabilisca un rapporto di mutua conoscenza e di amore (cfr.
Enchiridion Vaticanum, 2, p.
199, n.
164).
“Coscienza”, “rinnovamento”, “dialogo”: queste le tre parole scelte da Paolo VI per esprimere i suoi “pensieri” dominanti – come lui li definisce – all’inizio del ministero petrino, e tutt’e tre riguardano la Chiesa.
Anzitutto, l’esigenza che essa approfondisca la coscienza di se stessa: origine, natura, missione, destino finale; in secondo luogo, il suo bisogno di rinnovarsi e purificarsi guardando al modello che è Cristo; infine, il problema delle sue relazioni con il mondo moderno (cfr ibid., pp.
203-205, nn.
166-168).
Cari amici – e mi rivolgo in modo speciale ai fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio –, come non vedere che la questione della Chiesa, della sua necessità nel disegno di salvezza e del suo rapporto con il mondo, rimane anche oggi assolutamente centrale? Che, anzi, gli sviluppi della secolarizzazione e della globalizzazione l’hanno resa ancora più radicale, nel confronto con l’oblio di Dio, da una parte, e con le religioni non cristiane, dall’altra? La riflessione di papa Montini sulla Chiesa è più che mai attuale; e più ancora è prezioso l’esempio del suo amore per lei, inscindibile da quello per Cristo.
“Il mistero della Chiesa – leggiamo sempre nell’enciclica “Ecclesiam suam” – non è semplice oggetto di conoscenza teologica, dev’essere un fatto vissuto, in cui ancora prima di una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza” (ibid., p 229, n.
178).
Questo presuppone una robusta vita interiore, che è – così continua il papa – “la grande sorgente della spiritualità della Chiesa, modo suo proprio di ricevere le irradiazioni dello Spirito di Cristo, espressione radicale e insostituibile della sua attività religiosa e sociale, inviolabile difesa e risorgente energia nel suo difficile contatto col mondo profano” (ibid., p.
231, n.
179).
Proprio il cristiano aperto, la Chiesa aperta al mondo hanno bisogno di una robusta vita interiore.
Carissimi, che dono inestimabile per la Chiesa la lezione del servo di Dio Paolo VI! E com’è entusiasmante ogni volta rimettersi alla sua scuola! È una lezione che riguarda tutti e impegna tutti, secondo i diversi doni e ministeri di cui è ricco il Popolo di Dio, per l’azione dello Spirito Santo.
In questo Anno Sacerdotale mi piace sottolineare come essa interessi e coinvolga in modo particolare i sacerdoti, ai quali papa Montini riservò sempre un affetto e una sollecitudine speciali.
Nell’enciclica sul celibato sacerdotale egli scrisse: “Preso da Cristo Gesù (Filippesi 3, 12) fino all’abbandono di tutto se stesso a lui, il sacerdote si configura più perfettamente a Cristo anche nell’amore col quale l’eterno Sacerdote ha amato la Chiesa suo corpo, offrendo tutto se stesso per lei…
La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta infatti l’amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio” (“Sacerdotalis coelibatus” 26).
Dedico queste parole del grande papa ai numerosi sacerdoti della diocesi di Brescia, qui ben rappresentati, come pure ai giovani che si stanno formando nel seminario.
E vorrei ricordare anche quelle che Paolo VI rivolse agli alunni del Seminario Lombardo il 7 dicembre 1968, mentre le difficoltà del postconcilio si sommavano con i fermenti del mondo giovanile.
“Tanti – disse – si aspettano dal papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi.
Il papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a chiunque altro.
Sarà Lui a sedare la tempesta…
Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera.
È questa la condizione che Gesù ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza.
Anche il papa ha bisogno di essere aiutato con la preghiera” (Insegnamenti VI, [1968], 1189).
[…] Preghiamo perché il fulgore della bellezza divina risplenda in ogni nostra comunità e la Chiesa sia segno luminoso di speranza per l’umanità del terzo millennio.
Ci ottenga questa grazia Maria, che Paolo VI volle proclamare, alla fine del Concilio Ecumenico Vaticano II, Madre della Chiesa.
Amen! BENEDETTO XVI, Omelie dell’anno liturgico 2009 narrato da Joseph Ratzinger, papa, a cura di Sandro Magister, Libri Scheiwiller, Milano, 2009, pp.
400, euro 15,00.
Alla vigilia dell’Avvento è uscito in Italia un libro che raccoglie le omelie di Benedetto XVI dell’anno liturgico appena trascorso.
Ogni anno liturgico va da Avvento ad Avvento.
È una grande narrazione sacramentale che, di messa in messa, ha questa particolarità: realizza ciò che dice.
Il protagonista della narrazione, Gesù, non è semplicemente ricordato, ma è presente ed agisce.
Le omelie sono la chiave di comprensione della sua presenza e dei suoi atti.
Dicono chi egli è e che cosa fa oggi, “secondo le Scritture”.
Questo, almeno, è ciò che si apprende ascoltando papa Joseph Ratzinger, straordinario omileta.
Le omelie sono ormai un segno distintivo del pontificato di Benedetto XVI.
Forse ancora il meno noto e capito, ma sicuramente il più rivelatore.
Le scrive in buona misura di suo pugno, a tratti le improvvisa, sono quanto di più genuino esce dalla sua mente.
Ad esse si dedica in misura preponderante e crescente.
Le omelie del penultimo anno liturgico – anch’esse pubblicate in un volume un anno fa dallo stesso editore – erano state ventisette; in questa nuova raccolta sono quaranta.
E ad esse vanno aggiunte le “piccole omelie” che il papa pronuncia la domenica all’Angelus di mezzogiorno, sulle letture della messa del giorno: tutte inconfondibilmente di suo pugno, anch’esse riprodotte in appendice a questo volume.
Per facilitare la lettura, nel volume ogni omelia è seguita dai testi delle letture bibliche della relativa messa.
Benedetto XVI, infatti, fa riferimento sistematico a questi testi.
E non solo.
Quando serve, il lettore trova riprodotti anche altri testi liturgici commentati dal papa nell’omelia: dal “Magnificat” del vespro al “Te Deum” dell’ultimo dell’anno, dal “Victimæ pascali laudes” del giorno di Pasqua al “Veni Sancte Spiritus” di Pentecoste.
Lo scorso Giovedì Santo papa Ratzinger commentò a lungo il canone – cioè la preghiera centrale della messa – che si legge quel giorno nella liturgia di rito romano.
E anche questo canone il lettore trova trascritto nel libro, sia in latino che in lingua moderna.
Le omelie papali sono ordinate secondo la scansione dell’anno liturgico, di domenica in domenica e di festa in festa, dall’Avvento al Natale, alla Quaresima, a Pasqua, a Pentecoste e oltre.
Ma sotto ogni titolo è sempre specificato dove e come il rito è stato celebrato: ad esempio nella Cappella Sistina battezzando alcuni bambini, oppure a Gerusalemme, a Betlemme, in Camerun, in Angola, nell’uno o nell’altro dei viaggi papali.
In ogni omelia, infatti, Benedetto XVI “situa” la sua predicazione, la applica alla comunità alla quale parla, oppure ricava dal contesto una lezione per tutti.
Un esempio lampante è l’omelia riprodotta qui di seguito, che nel libro non c’è perché pronunciata mentre esso era già in stampa.
Benedetto XVI l’ha letta durante la messa da lui celebrata lo scorso 8 novembre a Brescia, nella diocesi natale di papa Giovanni Battista Montini, Paolo VI.
E a questo papa egli quindi fa riferimento, oltre che alle letture bibliche della messa del giorno.
Un secondo esempio recente della predicazione di papa Ratzinger – per ragioni di data assente dal libro – è la “piccola omelia” dell’Angelus di domenica 15 novembre, anch’essa riprodotta più sotto.
Se è sempre più evidente che Benedetto XVI, col suo “stile” nel celebrare la messa, intende offrire un modello a una Chiesa liturgicamente confusa, lo stesso si può dire che faccia con la sua arte omiletica.
”Piccola omelia” all’Angelus della XXXIII domenica del tempo ordinario di Benedetto XVI Roma, 15 novembre 2009 Cari fratelli e sorelle, siamo giunti alle ultime due settimane dell’anno liturgico.
Ringraziamo il Signore che ci ha concesso di compiere, ancora una volta, questo cammino di fede – antico e sempre nuovo – nella grande famiglia spirituale della Chiesa! È un dono inestimabile, che ci permette di vivere nella storia il mistero di Cristo, accogliendo nei solchi della nostra esistenza personale e comunitaria il seme della Parola di Dio, seme di eternità che trasforma dal di dentro questo mondo e lo apre al Regno dei Cieli.
Nell’itinerario delle letture bibliche domenicali ci ha accompagnato il Vangelo di san Marco, che oggi presenta una parte del discorso di Gesù sulla fine dei tempi.
In questo discorso, c’è una frase che colpisce per la sua chiarezza sintetica: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Marco 13, 31).
Fermiamoci un momento a riflettere su questa profezia di Cristo.
L’espressione “il cielo e la terra” è frequente nella Bibbia per indicare tutto l’universo, il cosmo intero.
Gesù dichiara che tutto ciò è destinato a “passare”.
Non solo la terra, ma anche il cielo, che qui è inteso appunto in senso cosmico, non come sinonimo di Dio.
La Sacra Scrittura non conosce ambiguità: tutto il creato è segnato dalla finitudine, compresi gli elementi divinizzati dalle antiche mitologie: non c’è nessuna confusione tra il creato e il Creatore, ma una differenza netta.
Con tale chiara distinzione, Gesù afferma che le sue parole “non passeranno”, cioè stanno dalla parte di Dio e perciò sono eterne.
Pur pronunciate nella concretezza della sua esistenza terrena, esse sono parole profetiche per eccellenza, come afferma in un altro luogo Gesù rivolgendosi al Padre celeste: “Le parole che hai dato a me io le ho date a loro.
Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato” (Giovanni 17, 8).
In una celebre parabola, Cristo si paragona al seminatore e spiega che il seme è la Parola (cfr.
Marco 4, 14): coloro che l’ascoltano, l’accolgono e portano frutto (cfr.
Marco 4, 20) fanno parte del Regno di Dio, cioè vivono sotto la sua signoria; rimangono nel mondo, ma non sono più del mondo; portano in sé un germe di eternità, un principio di trasformazione che si manifesta già ora in una vita buona, animata dalla carità, e alla fine produrrà la risurrezione della carne.
Ecco la potenza della Parola di Cristo.
Cari amici, la Vergine Maria è il segno vivente di questa verità.
Il suo cuore è stato “terra buona” che ha accolto con piena disponibilità la Parola di Dio, così che tutta la sua esistenza, trasformata secondo l’immagine del Figlio, è stata introdotta nell’eternità, anima e corpo, anticipando la vocazione eterna di ogni essere umano.
Ora, nella preghiera, facciamo nostra la sua risposta all’Angelo: “Avvenga per me secondo la tua parola” (Luca 1, 38), perché, seguendo Cristo sulla via della croce, possiamo giungere pure noi alla gloria della risurrezione.
Sovranità, decentramento, regole.
V.
CAMPIONE, A.POGGI, Sovranità, decentramento, regole.
I livelli essenziali delle prestazioni e l’autonomia delle istituzioni scolastiche, Il Mulino, Bologna 2009,ISBN: 8815130799,Pagine: 217, € 18.00 Fra i problemi che il nostro paese deve affrontare nella riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione, raramente viene citato quello relativo all’individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Eppure la costruzione di una cittadinanza unitaria “sociale” come limite al potere “politico” di differenziazione costituisce uno dei problemi cardine di ogni sistema realmente decentrato.
Le formule utilizzate in alcune costituzioni europee per legittimare una competenza dello Stato finalizzata a soddisfare i LEP sono il frutto dell’espansione dell’idea saldamente radicata nelle costituzioni democratiche di eguaglianza sostanziale, che implica non solo interventi dei pubblici poteri ma ancor più esige che gli stessi interventi siano finalizzati a rimuovere le disuguaglianze di fatto.
In questo volume si cerca di mettere in evidenza come l’introduzione di norme federalistiche renda non più rinviabile la precisa individuazione dei LEP.
In altri termini non è possibile sviluppare la forma federalista dello Stato e decidere di conseguenza di assicurare il mantenimento di standard adeguati in alcuni campi fondamentali (sanità, assistenza e, appunto, istruzione) senza definire preliminarmente i LEP.
Il punto di equilibrio va individuato nei contenuti con cui riempire quanto prescritto dalla Costituzione, da leggere in termini di difesa dei diritti e di adempimento degli obblighi di prestazione, piuttosto che come la semplice definizione di competenze dello Stato.