La sposa di Damasco

STEPHANIE SALDAÑA, La sposa di Damasco,  Newton Compton, 2010,ISBN 978-88-541-1827-0, pp 384 , Euro 14,90 Alcuni racconti autobiografici riescono, meglio di un saggio specialistico, a mettere il lettore a contatto con questioni intricate come il dialogo tra cristianesimo e islam, il conflitto mediorientale, il discernimento spirituale tra vocazione monastica e vita coniugale, la ricerca di un equilibrio tra felicità pubblica e felicità privata in un mondo che sembra ricaduto nella spirale delle guerre di religione.
Uno di questi racconti è il bel libro dell’americana Stephanie Saldaña, La sposa di Damasco (Newton Compton, 2010, 432 pp., edizione originale pubblicata in America nel marzo 2010 col titolo di The Bread of Angels: A Journey to Love and Faith).
È l’estate del 2004 e la ventisettenne Stephanie vince la prestigiosa borsa di studio Fulbright per trascorrere un anno a Damasco e studiare la lingua araba e la figura di Gesù nell’islam.
La “liberazione” dell’Iraq sta per diventare guerra civile, e in molti pensano che il prossimo obiettivo di G.W.
Bush sarà la Siria, l’ultimo paese arabo in cui governa il partito Baath.
La prospettiva di trascorrere un anno in un paese sulla lista ufficiale dei nemici degli Stati Uniti non ferma Stephanie, che lascia Harvard e Boston, e presto scopre la ricchezza umana, culturale e religiosa della Siria, anche grazie agli esercizi spirituali vissuti al monastero ecumenico di Mar Mousa, rifondato dal gesuita italiano Paolo Dall’Oglio sulla base dei resti di un antico monastero del VI secolo nel deserto siriano a nord di Damasco.
L’autrice fa convergere nel libro la necessità di dare una misura alle distanze e alle vicinanze tra Occidente e mondo arabo-musulmano, e il bisogno di dare senso ad un itinerario personale non privo di traumi.
Stephanie Saldaña intreccia tensione spirituale, straniamento culturale, ricerca religiosa, e senso di colpa in quanto americana per le azioni del presidente Bush in Medio Oriente.
Le diverse latitudini di questo percorso (gli Stati Uniti, l’Europa, l’Asia) convergono sulla città di Damasco, una delle più antiche capitali del mondo e, da san Paolo in poi, uno dei maggiori centri del cristianesimo mondiale.
I personaggi e gli ambienti descritti dall’autrice offrono un affresco poetico e allo stesso tempo realistico di uno scenario mediorientale fatto di componenti religiose, sociali, etniche, nazionali profondamente intrecciate con il mondo occidentale.
La forma autobiografica dà a questo libro la forza di una lunga lettera d’amore inviata a Frederic non meno che ai cristiani e ai musulmani del Medio Oriente e a tutti quanti si sforzano di capire miserie e splendori di quelle terre.
di Massimo Faggioli in “Europa” del 26 agosto 2010

“La sortie de religion, est-ce une chance?”

La Buona Novella deve essere annunciata a tutti.
Alcuni preti operai spiegano come la Chiesa, diventando una religione nel corso dei secoli, si è appropriata, snaturandolo, del messaggio di Gesù Cristo, e lo ha quindi reso inudibile da coloro che cercano Dio in verità.
Cogliere l’occasione! “La sortie de religion, est-ce une chance?”(L’uscita dalla religione, è un’opportunità?), è un libro frutto della partecipazione di molte mani, di cui sarebbe troppo lungo elencare tutti gli autori.
Citiamone però alcuni, innanzitutto e fondamentalmente quelli di una “mano” formata da cinque preti operai del Calvados, alla base della progettazione del libro.
Troviamo frequenti citazioni di teologi: del gesuita Joseph Moingt, del pastore Dietrich Bonhoeffer (morto in campo di concentramento nel 1945), di Hans Küng…; di pensatori e filosofi: Marcel Gauchet, Mary Balmary, Jacques Duquesne…; di vescovi, di preti e di laici in gran numero…
Insieme, con le loro parole, le loro esperienze personali, le loro convinzioni, le loro attese, uniti dalla fede in Gesù Cristo saldamente stretta al cuore, vogliono comunicare ai lettori, e al di là di questi, ai credenti, che “l’essenza del messaggio evangelico è che l’umanità si realizzi pienamente”.
Non a seguito di lunghe dispute teologiche né di discorsi ex cathedra, ma attraverso lo sguardo d’amore che hanno tentato di rivolgere ai loro compagni di lavoro, questi preti hanno preso coscienza, una coscienza di fede viva, che “è passato il tempo in cui si poteva dire tutto agli uomini con parole teologiche e pie…
Stiamo andando verso un’epoca totalmente senza religione”.
(1) Appropriazione Fin dal secondo secolo della nostra era nascono le primissime, sporadiche comunità di discepoli di Gesù, spesso segretamente, senza alcuna intenzione nascosta di creare una religione, nel ricordo dell’amicizia di Gesù che alcuni affermano essere risuscitato.
Il messaggio evangelico lentamente si propaga tra i “testimoni” che naturalmente cercano in maniera spontanea di trasmettere il messaggio della Buona Novella.
A poco a poco – era inevitabile? – una certa organizzazione, comunque leggera, prenderà forma a partire dal IV secolo con l’impulso di Costantino e di Teodosio.
E fu nei secoli seguenti che rapidamente prenderà il sopravvento l’aspetto istituzionale, soffocando a volte e troppo spesso, la spontaneità di una fede che chiede comunque solo di diffondersi.
Nel Nord Ovest Alcuni preti del Calvados hanno percepito nella loro vita di tutti i giorni, durante il loro servizio come preti e lavoratori, che il messaggio di Gesù nel XX e nel XXI secolo era diventato inudibile.
I primi capitoli del libro presentano molteplici testimonianze rese da loro stessi e dai loro compagni operai che esemplificano la deriva della Chiesa, che è diventata, da umile e al servizio della Buona Novella, una istituzione umana che viene chiamata “religione”.
Joseph Moingt riassume così l’evoluzione: “Il seguito di questa storia, che non ha mantenuto le promesse delle origini, lo si può riassumere dicendo che a poco a poco, nella Chiesa, la forma della religione ha coperto quella dell’annuncio, invece del contrario! L’annuncio è appello alla libertà, la religione è la costrizione di una determinata via di salvezza.
Da questa conversione della Chiesa in semplice religione, che trasformava l’invito alla salvezza in ingiunzione minacciosa, è derivato il fatto che essa non ha più fatto sentire agli uomini la via della libertà né dell’umanesimo, poiché essa parlava solo un linguaggio religioso, tessuto di comandamenti, di mistero e di simbolismi sacri”.
(2) Da questa convinzione nasce allora una lunga, semplice e appassionante scoperta di ciò che può essere ancora oggi l’annuncio della Buona Novella.
La pratica Essere “praticante” consiste nel contribuire alla riuscita e alla crescita dell’umanità e non nel compiere atti rituali di una religione.
“Essere cristiano, diceva Bonhoeffer, significa diventare radicalmente uomo e invitare anche gli altri a diventarlo”.
Gesù invita a reintegrare l’uomo ferito, nudo, prigioniero, infermo nella società degli uomini.
“Ciò che fate al più piccolo, lo fate a me” (Matteo 25, 31-46).
La salvezza assume un altro senso in questa prospettiva.
La liberazione dal giogo della religione è uno degli aspetti della salvezza portati da Gesù.
È il Regno che bisogna testimoniare e la Chiesa ha un senso solo se ciò che essa fa e dice è a servizio della vita e della felicità degli uomini e li apre così al vero progetto di Dio.
E gli autori, come una sorta di riassunto dell’opera, affermano, a rischio di scioccare: “Dio si è fatto presente in una umanità da umanizzare, ciò obbliga a pensare un Dio in divenire, Dio impegnato nella storia degli uomini.
Dio non sarà totalmente Dio finché l’umanità non sarà davvero in piedi, autenticamente umana”.
E terminano – o quasi – il loro saggio con un paragrafo importante: “La salvezza, (la riuscita dell’umanità) si gioca nell’oggi, nel quotidiano della vita”.
Queste conclusioni, che si basano sull’esperienza di uomini di fede impegnati nel mondo operaio, si rivolgono anche a tutti coloro che vogliono vivere intensamente la loro fede, quale che sia il contesto in cui vivono: “Sì, noi crediamo che non ci sia altro luogo per incontrare Dio che l’umanità”.
“Il cristianesimo, è la religione dell’uscita dalla religione”, scrive con umorismo ma seriamente Marcel Gauchet.
(3) È un libro molto facile da leggere, che invita ciascuno ad interrogarsi sulla propria fede: “Credo in te, Dio in divenire, Dio in movimento, Dio presente ma allo stesso tempo futuro, Dio che rendi liberi e che ci aiuti a scrollarci di dosso la polvere delle nostre certezze” (Claude Simon).
(1) Joseph Moingt, Dieu qui vient à l’homme, Le Cerf, 2002 (2) Dietrich Bonhoeffer, Résistance et soumission, Lettres et notes de captivité, Les Editions Labor et fides (3) La condition historique, Stock 2003 La sortie de religion, est-ce une chance? (L’Harmattan), di Michel Gigand, Michel Lefort, Jean-Marie Peynard, José Reis, Claude Simon, pp.
193, € 18.
in “www.temoignagechretien.fr” del 13 agosto 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Prima che cali il buio.

JAN DOBRACZYNSKI, Prima che cali il buio.
Il romanzo di Geremia, Gribaudi, Milano, pp.
352, € 18,00.
Le fatiche del timido Geremia L’anno prima della sua morte, avvenuta nel 1994, ricevetti a sorpresa una sua lettera attraverso la sua traduttrice italiana: Jan Dobraczynski, uno dei più popolari scrittori polacchi, mi inviava in quell’occasione alcune sue considerazioni dopo aver letto un mio libro tradotto nella sua lingua.
Io mi ero accostato a lui da liceale, quando mi erano state regalate le sue Lettere di Nicodemo, pubblicate dalla Morcelliana nel 1959, forse la sua opera più nota, la cui tesi teologica centrale era in queste righe: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi.
Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?».
Credere per comprendere, dunque, e non viceversa.
Quando egli mi scriveva nel 1993, l’astro di questo scrittore cattolico – che aveva combattuto nella famosa insurrezione di Varsavia ed era stato relegato nei lager nazisti e che poi aveva girato per l’Europa, conoscendo Papini, Ungaretti, Mauriac e Cesbron – si era di molto appannato agli occhi del mondo ecclesiale polacco.
Egli, infatti, più per spirito di pacificazione che per ragioni politiche, aveva deciso di aderire al movimento cattolico-progressista Pax in dialogo col regime comunista, divenendo anche deputato della Dieta polacca.
Questo gli aveva alienato le simpatie della Chiesa.
Tuttavia, Dobraczynski non aveva cessato di scrivere sino alla fine della vita, nonostante una grave affezione oftalmica, e la lettera che aveva voluto dettare e indirizzare a un ignoto autore come me era segno di questa sua appassionata e fin frenetica ricerca filosofico-religiosa.
Ora, l’editore italiano che in passato ha tradotto non poche sue opere, ripropone un altro dei suoi romanzi biblici più significativi, pubblicato nel 1948 col titolo originario un po’ enfatico Wybrancy Gwiazd, ossia “prescelti dalle stelle”, mentre la prima versione italiana (Sei, Torino 1961) aveva optato per il più immediato L’uomo di Anathoth.
Sì, perché protagonista è il profeta Geremia, nato appunto in un villaggio a sei chilometri a nord-est di Gerusalemme, Anatot.
Là «nell’armo decimoterzo del re Giosia», cioè nel 626 a.C., questo giovane impacciato e timido era stato chiamato da Dio a essere il suo portavoce, ossia il suo profeta.
proprio in una delle fasi più tragiche della storia d’Israele, quella che sarebbe approdata al crollo della nazione, alla distruzione di Gerusalemme e del suo tempio e all’avvio degli Ebrei verso l’esilio «lungo i fiumi di Babilonia».
Quel giovane inesperto, provinciale, sentimentale, patriottico sarebbe stato scaraventato nel groviglio degli intrighi politici degli ultimi re di Giuda, sarebbe stato arrestato e sbeffeggiato, avrebbe assistito alla tragedia nazionale e alla fine sarebbe stato costretto all’esilio in Egitto contro la sua stessa volontà, nella più totale solitudine umana (Dio gli aveva imposto un celibato dal significato emblematico) e nello stesso silenzio di Dio.
Di tutta questa vicenda, piena di colpi di scena, rimane la testimonianza nel libro che reca il suo nome, il libro più lungo dell’Antico Testamento (21.819 parole ebraiche, seguito a ruota solo dalla Genesi con 20.611 vocaboli), ma anche il j più complesso nella sua redazione, dato che – accanto alla voce diretta dello stesso profeta coi suoi oracoli – si hanno tante presenze indirette, come quella del suo fedele segretario Baruk.
Si comprende, così, la ragione per cui questo personaggio dall’esistenza drammatica (si legga, ad esempio, il terribile passo del cap.
20 in cui maledice il giorno della sua stessa nascita) abbia affascinato non pochi scrittori e naturalmente anche Dobraczynski che lo colloca al centro di quello scontro planetario che allora era in corso tra le due superpotenze, Babilonia e l’Egitto, avente come linea di frontiera e area-cuscinetto proprio la terra di Israele che non si rassegnava a essere una semplice pedina, scatenando così reazioni e ritorsioni.
Davanti ai due imperatori si erge allora proprio lui, l’ex-ragazzo timido di Anatot, che riesce a fermare per ben due volte il decreto di eliminazione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, re di Babilonia, ma che non è in grado di tenere a bada i suoi connazionali, un popolo ribelle, ostinato superbo, quel regno di Giuda che precipiterà verso il baratro preannunciato dal profeta inascoltato.
Scriveva il romanziere polacco nella nota introduttiva a questo ritratto libero ma potente di Geremia: «Ho voluto far rivivere la figura di un uomo che, schiacciato da una missione superiore alle sue forze, la portò fedelmente a termine in mezzo a un’umanità sorda e cieca al suo immenso dolore».
Lo scrittore s’era preoccupato di documentarsi storicamente ed esegeticamente sia pure nei limiti della sua preparazione, sulla scia, ad esempio, dell’infaticabile Thomas Mann col suo Giuseppe l’egiziano, che però alla fine si rivela più indipendente dalla matrice biblica originaria.
Il risultato ottenuto dallo scrittore polacco è coinvolgente e il percorso di lettura è attraente fino all’ultima scena grandiosa, ove l’uomo di Anatot si leva davanti all’«interminabile colonna di deportati, carichi sulle spalle del triste fardello dell’esiliato, che si trascinano attraverso il deserto…
con un lamento che sale verso il cielo pieno di nubi indifferenti: l’eterno pianto del dolore umano».
A margine ricordiamo che Jeremias sarà il titolo e il protagonista anche del dramma antimilitarista dell’ebreo viennese Stefan Zweig (1917), e lo stesso profeta dominerà il romanzo Höret die Stimme (Ascoltate la voce) di un altro ebreo, il praghese Franz Werfel, che lo ripubblicherà nel 1956 col titolo esplicito Jeremias.
Anche il giovane Karol Wojtyla, nel 1940, in una Polonia invasa, scriveva un dramma intitolato Geremia.
La lista potrebbe continuare, a testimonianza del fascino esercitato da questo personaggio imprigionato – a livello popolare – nel cliché delle “geremiadi” a causa della tensione di certe sue pagine e della connessione con le elegie delle Lamentazioni che seguono il suo libro.
In realtà la sua è una figura possente, è la voce più “personale” e, oseremmo dire, “romantica” delle Sacre Scritture, che ben ha meritato anche la sinfonia Jeremiah che a lui dedicò nel 1942 Leonard Bernstein.
di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 18 luglio 2010

Il problema dell’ateismo

L’Occidente non è soltanto ateismo e razionalismo Nel centenario della nascita torna in libreria per Il Mulino un volume del filosofo Augusto Del Noce.
Con una postfazione di Cacciari che anticipiamo.
di Massimo Cacciari (Corriere della SerA, 18 giugno 2010) La novità e l’importanza de Il problema dell’ateismo consistono nell’aver posto al centro della storia della filosofia moderno-contemporanea la posizione (che si fa opzione o postulato) ateistica; questa non è più considerata come il «punto di vista» di questo o quel pensatore, ma come il destino stesso del razionalismo e dell’idealismo europei.
Poiché la filosofia è il farsi cosciente del significato di un’epoca, tale suo esito rappresenta perciò la «realtà invadente», «senza precedenti storici» (p.
335) del fenomeno dell’ateismo nel Moderno in tutti i suoi aspetti.
La stretta connessione nel libro tra dimensione teoretica e meta-politica, elemento essenziale dell’intera ricerca di Del Noce, si arricchisce qui dell’apporto decisivo della prospettiva propriamente teologica.
Se la filosofia moderna è «segnata» fin dalle sue origini dall’esito ateistico, è evidente come la sua storia debba essere tracciata in connessione stretta con la teologia (p.
75), a differenza di ciò che avviene in quelle «storie» che si muovono dal tacito, e inindagato, presupposto del «progresso» atheos del pensiero occidentale.
L’ateismo non potrebbe definirsi, infatti, se non in opposizione a elementi essenziali della tradizione teologica.
Per Del Noce ciò non comporta affatto una semplice «sistemazione» storiografica, per quanto originale e «spaesante», il problema dell’ateismo rimane per lui fondamentalmente irrisolto, e cioè permane come aporia immanente allo sviluppo del razionalismo e idealismo moderni fino a quei suoi esiti contemporanei (tra Nietzsche e Heidegger), che potrebbero anche apparire nel più radicale contrasto con le sue premesse.
Un assunto di così straordinario impegno può essere svolto soltanto attraverso una pluralità di approcci, teoretici, teologici, storico-politici, «sincronicamente» e insieme una, direi, vichiana sensibilità per la storia del pensiero, dove la considerazione puntuale dei suoi diversi momenti, nel loro intreccio, sia sempre riportata al comune «destino» di cui appaiono necessaria manifestazione.
Da questo punto di vista, la prima domanda riguarda la differenza essenziale tra l’ateismo moderno e quello antico, ovvero in che termini l’ateismo nella cristianità rappresenti una autentica novitas rispetto alle sue testimonianze grecoromane; su tale base, occorrerà procedere nel distinguere i diversi momenti della storia dell’opzione ateistica, in rapporto alle diverse forme che assumono razionalismo e idealismo moderni, fino al loro apparente dissolversi; infine, si dovranno analizzare proprio tali esiti, esplicitamente ateistici, per coglierne non solo le stridenti differenze, ma come, dal loro stesso interno, riemerga o ri-corra proprio quel problema di Dio, che l’ateismo assoluto o compiuto aveva dichiarato risolto.
È a questo punto che si farà maggiormente valere la posizione filosofica e teologica dello stesso Del Noce, e che si renderanno manifesti i presupposti e le ragioni della sua «lotta» al dilagante affermarsi del postulato ateistico (…).
Ma che cosa intendiamo con il termine ateismo? Ne è possibile una definizione in generale, che ne abbracci le diverse epoche? L’ateo è colui che nega l’esistenza di Dio? Ma quale Dio? O ateo è invece chi sostiene che non-è Dio tutto ciò di cui è dimostrabile l’esistenza? In quest’ultimo caso, la posizione atea si avvicinerebbe «pericolosamente» proprio ad un misticismo di impronta neoplatonica.
Forse è possibile, in primissima istanza, e sulla scorta delle indicazioni dello stesso Del Noce, definire ateistica la negazione della possibilità stessa del soprannaturale (p.
356), l’affermazione (che Del Noce ritiene «senza prove») che ogni idea di «trascendenza» determina un’insanabile lacerazione nell’unità dell’Io.
Un simile «postulato» sembra precedere e fondare l’ateismo in quanto «certezza» che al termine «Dio» nulla corrisponda di determinato o determinabile.
Questa «certezza» si fa strada nella storia della filosofia e nella cultura, nel significato antropologico del termine, europee insieme con la «evidenza» del successo straordinario della comprensione razionale-scientifica della natura.
Da un iniziale agnosticismo è necessario, per Del Noce, che si giunga per questa via ad un ateismo assoluto, e che questo dia vita ad una prassi, ad un agire politico, che si configura per lui come un autentico «stato di guerra» contro Dio.
Ma i passaggi attraverso i quali questo «destino» si dispiega sono essenziali per comprenderne l’intero impianto, poiché essi non segnano momenti che progressivamente si oltrepassano, bensì invece, piuttosto, fattori interni dell’idea stessa di ateismo.
AUGUSTO DEL NOCE , Il problema dell’ateismo, Il Mulino Bologna, 2010,  pp.
656, € 22.00.
Ritorna in libreria oggi, edito da Il Mulino, uno dei libri importanti del Novecento, Il problema dell’ateismo di Augusto Del Noce (pp.
656, € 22), filosofo del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita.
La prima edizione uscì nel 1964, l’ultima nel 2001 (con un’introduzione di Nicola Matteucci).
Ora l’opera è riproposta con l’aggiunta di un’ampia postfazione di Massimo Cacciari, intitolata Sulla critica della ragione ateistica (della quale, in questa pagina, diamo in anteprima un estratto).
In essa — un vero e proprio saggio sull’argomento, in cui sono messe in luce le qualità dell’analisi di Del Noce — oltre a rimeditare le tesi de Il problema, vengono esaminate numerose tematiche inerenti alla negazione di Dio.
Cacciari ricostruisce momenti di storia e consegna a questo scritto non poche riflessioni personali.
Per offrire un esempio, diremo di una pagina in cui sottolinea come l’ateismo si presenti oggi quale oblio di se stesso: non è più un’idea, una visione del mondo, «non si predica più».
Del Noce riteneva che la negazione di Dio non fosse il destino dell’Occidente, ma soltanto il suo problema.
Vide alla base di esso quel razionalismo sterile, nemico del mistero e del soprannaturale, che molta parte ha avuto nella filosofia moderna.
Cacciari mette in luce il percorso individuato da Del Noce: il «segreto» teologico dell’ateismo, intorno alla cui «scoperta» ruota il libro riproposto, è costituito dal rifiuto «senza prove» dello «status naturae lapsae», ovvero dello stato di natura decaduta.
E la sua opzione fondamentale è nel «rifiuto della concezione biblica del peccato».
Oltre a esaminare l’«irreligione occidentale» e «Il problema Pascal e l’ateismo contemporaneo» con rara acribia, il libro dedica un ampio capitolo alla «non filosofia» di Marx e al comunismo.
Nella conclusione Del Noce scrive con preveggenza che «l’ateismo, insomma, rappresenterebbe il momento della “morte di Dio”, preludio a quello della sua Resurrezione.
Può essere quindi considerato e vissuto dal cristiano come un momento di «teologia negativa».
Nel 1964 tali parole potevano essere contestate, o irrise, dagli intellettuali militanti; oggi assumono quasi un valore profetico.
di Armando Torno in “Corriere della Sera” del 18 giugno 2010

Il mondo di cui Dio non si è pentito

GIUSEPPE BARBAGLIO,Il mondo di cui Dio non si è pentito, EDB,  Brescia 2010, pp.
280, euro 24,50 Vi sono riflessioni che nascono strettamente legate a eventi di attualità e che paiono destinate a invecchiare precocemente, come le notizie di giornata che le hanno suscitate.
Ma non sempre questa adesione agli avvenimenti quotidiani è portatrice di caducità dei pensieri che suscita, soprattutto se chi riflette sugli eventi lo fa ancorandosi a principi e orientamenti solidi, fondati su convinzioni che non solo non vengono smentite dal mutare delle stagioni, ma che invece forniscono criteri di discernimento validi in ogni circostanza.
Davvero lodevole è quindi un’iniziativa come quella del Centro editoriale dehoniano EDB che ha deciso di riproporre, all’interno di una specifica collana, una serie di scritti di Giuseppe Barbaglio, uno dei più acuti biblisti italiani, scomparso tre anni or sono.
Nel più recente volume della serie – Il mondo di cui Dio non si è pentito (pp.
280, euro 24,50) – sono raccolti e organicamente disposti diversi articoli apparsi soprattutto sulla rivista Bozze attorno a due snodi fondamentali – «pace e violenza» e «laicità del mondo, laicità del cristiano» – e a una ricerca sull’ispirazione biblica di quattro encicliche papali: la Pacem in terris di papa Giovanni, la Redemptoris hominis, la Centesimus annus e la Veritatis splendor di Giovanni Paolo II.
Sono riflessioni datate quelle di Barbaglio – e volutamente tuttora corredate di nomi e circostanze che ne rivelano l’età – eppure tornare su certe tematiche con la sapienza propria di questo studioso significa scorgere l’immutata attualità.
Non è forse ancora di oggi la domanda se «l’uomo è capace di pace sulla terra»? E non riguarda anche noi la questione della «bugia al potere».
E non sarebbe utile tornare a ricollegare l’obiezione di coscienza al rifiuto delle armi, dell’inimicizia e della guerra e non confinarla soltanto in un ospedale o una farmacia? È forse passato il tempo in cui interrogarsi su «quanta violenza è rimasta nella nostra idea di Dio»? Oppure siamo così convinti di aver penetrato – e soprattutto fatto nostro – il significato autentico dell’amore per i nemici annunciato da Gesù? O ancora – percorrendo gli scritti della parte dedicata alla «laicità», intesa soprattutto con nonsacralità – è così estraneo alle grandi questioni odierne riflettere sulla politica, il potere, i poveri, i simboli religiosi, la «profezia nella Chiesa e della Chiesa», o su «nazionalismi e religioni», o sul rapporto tra Israele e la terra? No davvero.
Gli scritti di Barbaglio sembrano redatti ieri, offerti a noi oggi per il domani della Chiesa e della società.
Rileggerli significa non solo ritrovare la voce di un amico dell’umanità e di un figlio della Chiesa che ha speso la sua vita per annunciare il Vangelo, ma soprattutto lasciarci a nostra volta provocare dalla Bibbia per scrutare i segni dei tempi e per testimoniare ai fratelli e sorelle in umanità che veramente Dio non si è mai pentito del mondo che ha creato.
È un messaggio di grande speranza quello che esce da queste pagine, un messaggio di cui abbiamo particolarmente bisogno in questa stagione in cui viene da chiedersi se davvero vale la pena spendersi per custodire la memoria della radicalità del Vangelo.
Ma, come scriveva Pessoa, «sempre vale la pena, se l’anima non è piccola» di Enzo Bianchi in “La Stampa” – Tuttolibri – del 29 maggio 2010

I Dieci Comandamenti anche per chi non crede

Decalogo è un termine greco.
Vuol dire dieci (déka) parole (lógos).
In molti hanno scelto di tradurlo con «I Dieci Comandamenti», anche perché in ebraico «parola» (davar) è sinonimo di comandamento.
La Bibbia riporta due versioni, sostanzialmente omogenee, delle frasi che Mosè ascoltò sul Sinai e che furono incise sulle Tavole della Legge.
Si trovano in Esodo 20, 1-6 e in Deuteronomio 5, 6-10.
Nella tradizione cattolica — che si discosta da quella ebraica e, tra l’altro, anche dalla protestante, più aderenti al testo biblico — Agostino distinse i tre Comandamenti iniziali dai successivi sette, attribuendo ai primi i doveri verso Dio e agli altri quelli verso gli uomini.
Ma la codificazione del Decalogo dei catechismi cattolici venne formulata, dopo diverse proposte scolastiche (Pietro Lombardo, Tommaso d’Aquino eccetera), da Alfonso Maria de’ Liguori nel Settecento.
Il santo napoletano scelse i Comandamenti come sommario di tutta la teologia morale e cercò di riassumere in ogni proposizione un settore di vita.
Per esempio il sesto, «non commettere adulterio», non figura nella sua sistemazione ma viene allargato con il «non commettere atti impuri», comprendendo in tal modo tutta la morale sessuale.
Rileggere il Decalogo e interpretarlo nell’epoca che si sta vivendo, è stato un bisogno continuo dell’Occidente; era naturale che lo si dovesse fare anche nel nuovo millennio.
Per tal motivo il progetto de il Mulino, di rimeditare attraverso un duplice intervento i Comandamenti (compreso quello dell’amore per il prossimo, già enunciato in Levitico 19,18), merita la massima attenzione.
Il primo volume, dedicato a Io sono il Signore Dio tuo, frase che non può essere equiparata alle successive e introduce le Tavole della Legge, è firmato da Piero Coda e Massimo Cacciari.
Il percorso offerto dai due autori in queste pagine parte dalla semantica originaria del Nome per giungere alle riflessioni sul Deus-Trinitas.
Infinite le suggestioni e le riflessioni.
Se da un lato ci si deve confrontare con l’autopresentazione di Dio di Esodo 3,14 «Io sono colui che sono» (’ehjeh asher ’ehjeh), e che Piero Coda mostra in innumerevoli interpretazioni compresa quella che nacque dalla versione greca dei Settanta (ego eimi o on: si potrebbe rendere sino a «Io sono l’Essente»), dall’altro lato ci si chiede chi sia «l’Uno dell’Esodo».
E qui Massimo Cacciari sa dare il meglio di sé indicando le vie che consentono di avvicinarsi al «segreto del Nome divino», anche se resta «inafferrabile e ineffabile».
Sottolinea: «Non interessa tanto il Nome ma ciò che l’Essere di Dio può.
La sua natura è di essere, non di essere nominato, e di essere ponendo “fuori” di sé tutta la propria potenza».
Sulla frase «Non avere altri dei di fronte a me» (Esodo 20,3; Deuteronomio 5,7), il primo ordine di Dio del Decalogo, c’è una letteratura infinita.
Coda ricorda tra l’altro che Jhwh irrompe nella storia attraverso Israele e si propone come «l’imprescindibile garanzia della libertà dell’uomo»; Cacciari comincia il suo saggio chiarendo gli equivoci dei possibili politeismi e notando che anche quello pagano «ci appare ormai testimonianza di un passato irripetibile, capace al più di esercitare un fascino antiquario-letterario privo di qualsiasi valore religioso o filosofico».
C’è un’osservazione di Martin Buber che merita di essere ricordata: «La dottrina della unicità ha la sua ragione vitale non nel fatto che ci si formi un giudizio sul numero di dèi che ci sono e si cerchi magari di verificarlo, bensì nella esclusività che regge il rapporto di fede, come esso regge il vero amore tra uomo e uomo; più esattamente: nel valore e nella capacità totale insito nel carattere esclusivo…
L’unicità nel “monoteismo” non è, dunque, quella di un “esemplare”, ma è quella del partner nella relazione interpersonale, finché questa non viene rinnegata nell’insieme della vita vissuta» (Königtum Gottes, Opere II, München 1964).
Coda, inoltre, verifica la frase di apertura dei Comandamenti nel Nuovo Testamento; Cacciari dedica due attente riflessioni all’ Uno Essere e a L’Uno Signore dell’Essere utilizzando una notevole conoscenza dei testi filosofici e teologici.
Da Rosenzweig a Spinoza, da Nietzsche a Hegel, da Kant a Weber si muove indicando la lettura più vicina a noi.
Che aggiungere? Forse un’immagine che molti ricordano e che potrebbe essere una didascalia per questo primo volume.
Nel film hollywoodiano I dieci comandamenti del 1956, diretto da Cecil B.
De Mille, Ramesse (Yul Brynner) dice a Nefertari (Anne Baxter) al suo ritorno dal Mar Rosso, dopo aver inseguito gli ebrei e Mosè: «Il suo dio…
è Dio».
Coda e Cacciari ci aiutano a comprendere meglio queste parole.
in “Corriere della Sera” del 1° maggio 2010 Il progetto della casa editrice il Mulino dedicato a I Comandamenti sarà realizzato in 11 volumi.
Si tratta di una scelta che tiene conto anche dell’invito ad amare il prossimo, non presente nel Decalogo del Sinai ricevuto da Mosé, ma raccomandato già nel libro del Levitico (19,18) e ribadito con forza da Gesù nel Nuovo Testamento.
Oltre il libro che inaugura la serie di Massimo Cacciari e Piero Coda Io sono il Signore Dio tuo (pp.
164, € 12), che sarà in libreria il 6 maggio ed è presentato in questa pagina con un estratto dei due saggi (si intitolano rispettivamente Il pensiero più alto e Questo Dio per la libertà), sono previste le seguenti uscite: Non ti fari idolo né immagine con Salvatore Natoli e Pierangelo Sequeri, Non nominare il nome di Dio invano con Carlo Galli e Piero Stefani, Santificare la Festa con Massimo Donà e Stefano Levi della Torre, Onora il padre e la madre con Giuseppe Laras e Chiara Saraceno, Non uccidere con Adriana Cavarero e Angelo Scola, Non commettere adulterio con Eva Cantarella e Paolo Ricca, Non rubare con Paolo Prodi e Guido Rossi, Non dire falsa testimonianza con Tullio Padovani e Vincenzo Vitiello, Non desiderare la donna e la roba d’altri con Gianfranco Ravasi e Andrea Tagliapietra.
Chiuderà Ama il prossimo tuo con Enzo Bianchi e Massimo Cacciari.
Piero Coda: Il nome rivelato è come la sua firma Nella costruzione raddoppiata: «Io sono colui che Io sono», il predicato è identico al soggetto.
Essa può sottolineare un rafforzamento dell’ auto presentazione di Jhwh: «Io sono proprio chi Io sono».
Ma, più profondamente, insinua anche una riaffermazione della trascendenza e dell’incognito di Dio nel momento stesso del suo farsi presente: «Solo Io so chi Io sono».
È un invito a non fermarsi al Nome così come suona e che pure esprime quanto detto, ma a passarvi attraverso per lasciare che sia Dio a stabilire, mediante la memoria verbale del suo Nome, un rapporto vivo e personale di sé con noi.
Altrimenti si cade nella tentazione di volersi impadronire del Nome di Dio, e addirittura di farsene un idolo.
Per questo Jhwh comanda di non pronunciare invano il suo Nome e di non farsi di Lui immagine alcuna.
Dio si rivela – precisa Paul Beauchamp – mediante un significante che non fa parte dell’organizzazione interna al discorso, ma lo fonda come una firma.
«Io sono chi Io sono»: firma esterna al testo, dunque, benché ricorrente nel testo stesso.
Queste parole bucano la pagina, hanno cioè un risalto eccezionale.
Il Nome rivelato a Mosè mette così tutta la Bibbia sotto un’istanza alla prima persona, quella di Dio come soggetto libero e incatturabile che viene graziosamente incontro all’uomo chiedendogli a sua volta affidamento e fedeltà.
Massimo Cacciari: Non un precetto ma un’affermazione La prima Parola (il primo dei «deka logoi ») non si presenta nella forma di un precetto («miswa »), ma di un’affermazione, di una perentoria autoaffermazione: «Io sono Jhwh, tuo Elohim» (Esodo, 20,2).
Non si tratta di un comandamento, ma del necessario presupposto di tutta la Legge.
È infatti impossibile comandare di credere nell’esistenza di Jhwh.
E che senso avrebbe obbedire a ciò che venisse ritenuto un puro nome, cui nulla di reale corrisponde? Lo stesso Maimonide, che pure fonda sui principi dell’esistenza di Dio e della sua unità l’insieme della Legge, non li concepisce affatto come oggetto di fede, ma, anzi, come il risultato cui perviene la sana ragione, oggetto cioè di dimostrazione.
Questo «Io, proprio Io, Jhwh», creduto o riconosciuto che sia, non potrà mai essere il contenuto di un comando, e tuttavia la Legge, l’unica Legge (legge assolutamente universale, a tutti rivolta – tanto che l’antica tradizione rabbinica diceva essere stata dettata dal Signore in 76 lingue, così che ogni gente potesse comprenderla), divina tutta in quanto giusta in tutte le sue parti, nel suo stesso interno differenziarsi e articolarsi, la Legge che stabilisce le forme della relazione tra uomo e Dio, ne presuppone la Rivelazione.
Se la forza di quell’Io venisse meno, il Decalogo si ridurrebbe a «legge morale in noi», la Legge divina perderebbe il significato che deve assumere anche per la perfezione del vivere civile.
Le stesse norme che suonano semplicemente etiche o cultuali debbono sempre essere comprese alla luce della Rivelazione del Nome.

La traversata.

SORGE BARTOLOMEO, La traversata.
La Chiesa dal Concilio Vaticano II a oggi,  Mondadori, Milano 2010, ISBN: 8804596953, Euro 18,50 La società è divenuta ormai irreversibilmente pluriculturale, plurietnica e plurireligiosa.
Per agire da fermento spirituale, culturale e sociale, la Chiesa deve porsi in modo nuovo, altrimenti non è più credibile né quando annunzia il Vangelo, né quando combatte a favore dell’uomo e della sua dignità.
Giunti al giro di boa dei cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, per evangelizzare un mondo profondamente cambiato, non resta che proseguire con coraggio la “traversata” lungo la “rotta” segnata chiaramente dal Concilio e seguita fedelmente dai “traghettatori”.
La “traversata” postconciliare è stata senza dubbio tormentata, resa ancor più complessa dai vorticosi cambiamenti sociali, dalle divisioni e dai contrasti che hanno attraversato il mondo cattolico.
In questa delicata stagione hanno avuto un ruolo decisivo alcune figure carismatiche che hanno accompagnato la Chiesa e la nostra società nella transizione al terzo millennio.
Attingendo ai suoi molti ricordi, pubblici e privati, padre Bartolomeo Sorge ne delinea un appassionato e intenso ritratto, con l’auspicio che possano essere d’esempio a “una nuova generazione di traghettatori”, chiamata a completare il lungo tragitto della Chiesa verso le mete indicate dal Concilio superando incertezze e stanchezze, senza temere di affrontare situazioni nuove e sfide inedite.
 

Dentro la solitudine.

CASTELLAZZI VITTORIO L.,  Dentro la solitudine.
Da soli felici o infelici?,  Ma.
Gi., Roma, 2010,  ISBN: 8874870302, pp.136, Euro 12.00 L’atteggiamento nei confronti della solitudine, oggi, è piuttosto contraddittorio.
La si cerca, ma allo stesso tempo la si teme.
Si sogna il ritiro in luoghi di meditazione nella speranza di ritrovare se stessi, ma una volta immersi nel silenzio ci si sente afferrati da un inquietante smarrimento, per cui si ritorna in tutta fretta alle detestate relazioni di sempre.
Mentre ci si preoccupa di favorire ed eventualmente curare le relazioni interpersonali ai fini di un maggiore benessere, non si registra uguale attenzione all’importanza del raggiungimento della capacità di stare soli con se stessi.
In realtà, soltanto chi è in grado di sperimentare la solitudine senza angoscia non corre il rischio di annullarsi nell’altro o di rivolgersi all’altro in modo fagocitante, strumentalizzante, ricattatorio o vittimistico.
Il riconoscimento e l’accettazione di sé, che una positiva esperienza di solitudine comporta, sta alla base della disponibilità a riconoscere e accettare gli altri.
Il successo di una buona relazione con gli altri poggia dunque sulla capacità di essere soli.
Vittorio Luigi Castellazzi, psicologo clinico, psicoterapeuta e psicoanalista, da più di trent’annì insegna Tecniche psicodiagnostiche proiettive e diagnosi della personalità all’Uni­versità Salesiana di Roma.
Già docente di Psi­copatologia dell’infanzia e dell’adolescenza, ha tenuto corsi di Psicologia dello sviluppo e Psicopatologia dello sviluppo all’Università Lumsa e all’Università degli Studi di Roma Tre. E’ membro della Society for Personality Asses­sment e dell’International Rorschach Society.
Ha fondato la «Scuola Rorschach e altre tecni­che proiettive» dell’Università Salesiana.
Otre a numerosi articoli e saggi comparsi nei lavori collettanei, è autore di numerosi volumi, editi per i tipi delle Edizioni Las, tra cui ri­cordiamo Psicoanalisi e infanzia.
La relazione oggettuale in M.
Klein (1974), Psicopatologia del­Infanzia e dell’adolescenza: Le Psicosi (1991) – La Depressione (1993) – Le Nevrosi (2′ ed.
2000), In­trodsrzione alle tecniche proiettive (3′ ed.
2000); Il Test di Rorschach.
Manuale di siglatura e d’interpretazione psicoanalitica (2004); Quando il bambino gioca.
Diagnosi e psicoterapia (2′ ed.
2~); L’abuso sessuale all’infanzia (2007); Il Test del Disegno della Figura Umana (3′ ed.
2010); Il Test del Disegno della Famiglia (4′ ed – 2008). Il suo volume La stanza della felicità ;(2002) è stato tradotto in spagnolo, portoghe­e polacco.
  Indice Introduzione   I I volti della solitudine 13 II Il senso di solitudine 19 III La nostalgia come coscienza dell’essere soli 25 IV La capacità di essere solo 31 V La solitudine come ritrovamento di sé 41 VI Essere se stessi come esperienza     di solitudine 49 VII Solitudine e creatività 53 VIII Apertura al nuovo, disponibilità     alla verità e solitudine 57 IX Solitudine e comunicazione 63 X       Solitudine e silenzio 67 XI La solitudine come isolamento cercato 75 XII La solitudine come isolamento subìto 8 i XIII La solitudine del narcisista 87 XIV La solitudine dell’invidioso 91 XV La solitudine dello schizoide 95 XVI La solitudine del depresso 99 XVII La solitudine dello psicotico 101 XVIII La fuga dalla solitudine 103   Il conformismo.  La bulimia del fare gruppo».
    l’altruismo a oltranza, l’iperattività   XIX Solitudine felice e infelice 117 XX Conclusioni     Stare soli, stare con gli altri 127 Bibliografia 131 Introduzione Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi.
Sarebbe una pazzia affidarvi a voi stessi, se non vi sapete ,governare.
C’è modo di fallire nella solitudine come nella compagnia.
M.E.
DE MONTAIGNE Oggi l’atteggiamento nei confronti della solitudine è piuttosto contraddittorio.
La si cerca.
ma allo stesso tempo la si teme, per cui ci si tuffa tra la folla.
Ci si trova in difficoltà a stare con gli altri, ma ugualmente si soffre se si è soli’.
Si è turbati sia dalla vicinanza che dalla lontananza.
Se, come afferma Garcin nel dramma teatrale Porta chiusa (Sartre, 1945, ed.
it.
p.
165), “l’inferno sono gli altri”, è an¬che vero che si vive come un inferno la loro assenza (2).
Per il mancato equilibrio tra solitudine e socialità, l’uomo d’oggi si trova senza dimora.
Non sta bene a casa propria; non sta bene a casa degli altri.
In entrambe le situazioni è sfiorato da una sotterranea inquietudine.
Nei casi estremi oscilla tra un’esperienza di solitudine disperata è la pratica di una socialità forzata.
Sopraffatto ogni giorno da mille stimoli, nella realtà lavorativa si sente travolto da relazionì puramente funzionali e anonime.
mentre nel consumo del tempo libero avverte tutto il peso della massificazione e della irregiinentazione.
In questo contesto, anche se non è sempre percepito in modo chiaro, è giustificato il desiderio struggente di stare in solitudine.
Si sogna perciò il ritiro in luoghi di meditazione.
Nei periodi di vacanza si bussa perfino alla porta della foresteria dei monasteri nella speranza di ritrovare se stessi, di dialogare con il proprio mondo interiore.
Tuttavia, una volta immersi nel silenzio, ci si sente afferrati da un inquietante smarrimento, per cui si ritorna in tutta fretta alle detestate relazioni di sempre.
Il problema si pone dunque su entrambi i versanti: quello della solitudine e quello della socialità.
Tuttavia.
si deve constatare che, mentre ci si preoccupa di favorire ed eventualmente curare le relazioni interpersonali ai fini di un maggiore benessere, non si registra uguale attenzione all’importanza del raggiungimento della capacità di stare soli con se stessi.
È senz’altro vero che bisogna saper andare incontro alle esigenze della società di cui si fa parte, che si ha bisogno di vivere in gruppo, che insieme ci si salva e insieme ci si perde: ciononostante è fondamentale tenere presente anche l’importanza dello stare in solitudine.
Il successo di una buona relazione con gli altri poggia anche sulla capacità di essere soli.
Soltanto chi è in grado di sperimentare la solitudine senza angoscia non corre il rischio di annullarsi nell’altro o di rivolgersi all’altro in modo fagocitante, strumentalizzante, ricattatorio o vittimistico.
Il riconoscimento e l’accettazione di sé.
che una positiva esperienza di solitudine comporta, sta insomma alla base della disponibilità a riconoscere e ac¬cettare gli altri.
Tra le due esperienze, quella sociale e quella dell’essere soli.
attualmente è comunque quest’ultima a essere avver¬ tita come la più scomoda.
La si associa facilmente alla per¬dita, all’abbandono.
all’isolamento, all’emarginazione, in¬somma a qualcosa di negativo, se non addirittura di di¬sgregante e di terrificante.
Soprattutto, l’esperienza della solitudine è oggi percepi¬ta come una condanna.
Ciò sembra determinato da una certa fragilità psichica, per cui si è incapaci di fare i conti con se stessi.
Risulta sempre più difficile entrare in contat¬to con il proprio mondo interiore.
Come saggiamente suggerisce Montaigne (1580, ed.
it.
p.
325), per non avere paura della solitudine occorre pre¬pararsi a riceversi.
Ma tale itinerario non è affatto agevole: «L’uomo ha bisogno di molto aiuto per non diventare pazzo, quando capita nelle vicinanze del mistero della solitudine» (Werfel, cit.
in Lotz, 1956, ed.
it.
p.
164).
Trovarsi soli con se stessi è per certi versi paragonabile a una travagliata discesa agli inferi.
Anche se Freud (191517, ed.
it.
p.
30) ci rassicura che, pur avendo la solitudine i suoi pericoli, «ciò non vuol dire che non possiamo mai sopportarla a nessuna condizione, neanche per un momento».
Al riguardo, la psicoanalisi ci segnala che ogni esperienza di solitudine si riaggancia alla prima solitudine, come ogni esperienza d’incontro evoca il pruno incontro.
Ciò significa che sono fondamentali le vicende relazionali «madre-bambino» vissute nella prima fase di vita.
È infatti in quel periodo che, attraverso il processo di separazione-individuazione, si sperimentano per la prima volta sia la solitudine che l’incontro.
All’inizio, osserva Freud, il lattante «non distingue ancora il proprio Io dal mondo esterno (…) apprende a farlo gradualmente» (1929, ed.
it.
pp.
559-560).
È sulla base della progressiva separazione dalla madre che egli scopre l’esistenza di un me e di un non-me.
Una simile presa di coscienza avvia sia all’esperienza della solitudine che della socialità.
E ciò per l’essere umano è fonte di gioia e di benessere, se la relazione madre-bambino è positiva, oppure di terrore e di catastrofe, se è carente o addirittura assente.
Entro quest’ottica possiamo quindi giustamente dire che da prima esperienza di solitudine è carica di pericolo come la prima esperienza dell’altro» (Phillips, 1987, ed.
it.
p.
29).
Del resto, S.
Freud per primo, ma successivamente R.
Spitz, M.
Klein, A.
Freud.
D.W.
Winnicott.
M.
Dlahler, D.
Meltzer, W.R.
Bion e tanti altri psicologi e psicoanalisti hanno ampiamente dimostrato che un rapporto distorto del bambino con la madre nel primo anno di vita comporta delle conseguenze disastrose per il futuro dell’individuo, sia nella capacità di star soli che nel piacere di stare con gli altri.
Ebbene, il presente saggio vuole essere il filo di Arianna che aiuta a conoscere.
a scandagliare e a percorrere il suggestivo labirinto della solitudine, senza tuttavia esporsi al rischio di non trovare la via di uscita.
In altre parole, intende essere un’occasione per scoprire l’importanza della solitudine senza perdere di vista il valore della relazione con gli altri.
Note 1 Un sintomo vistoso è l’attuale instabilità di coppia delle giovani ge¬nerazioni.
2.
Negli scritti sartriarli non c’è possibilità di relazione: o l’uno divora l’altro oppure è divorato.
L’uomo sartriano è condannato a essere solo.
Nello stesso dramma citato, Ines, uno dei tre personaggi, dichia¬ra: •Il boia è ciascuno di noi per gli altri due» (ed.
it.
p.
131).
L’incontro tra due individui si configura inesorabilmente come negazione reci¬proca.
Ciò vale anche per il rapporto uomo-Dio: «Se Dio esiste l’uomo è nulla, esclama Goetz.
(…) Dio non esiste.
(…) Se n’è andato.
(…) Finalmente soli!» (Sartre.
1951, ed.
it.
pp.
162-165).
Entro quest’ottica.
sia la relazione che la solitudine sono entrambe mortali.
Se la relazione uccide, la solitudine non offre alcuna via d’uscita.
3.
Secondo S.
Freud, il bambino nello stadio precoce dell’infanzia.
prima di scegliere gli oggetti esterni.
assume se stesso come oggetto d’a¬more.
Un simile investimento affettivo è denominato narcisismoprirnario.
Secondo M.
Kletn, invece.
il bambino possiede un lo, sia pure rudimentale, fin dalla nascita.
per cui è già in grado di vivere una re¬lazione con l’oggetto esterno, la madre.

Il sistema educativo italiano di istruzione e di formazione

MALIZIA GUGLIELMO – CARLO NANNI, Titolo Il sistema educativo italiano di istruzione e di formazione – Le sfide della società della conoscenza e della società della globalizzazione, LAS Editrice, Roma 2010, EAN 9788821307393, pp.256,  € 17,00 Il volume è nato a seguito della collaborazione, formalizzata nel 2008 con opportuna convenzione, tra la Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana e il Centro Seeco di Hangzhou (Cina), in collegamento con il College of Education della Zhejiang University.
Uno dei primi atti stipulati è stato quello di dare inizio ad una collana di pubblicazioni dal titolo gItalia-Cina Educazioneh.
Il presente volume è il primo della serie ed esso corrisponde un testo parallelo per il sistema educativo cinese.L’opera, articolata in tre parti, mira a ricostruire la parabola della scuola italiana dallfunificazione del Paese (1861) ai giorni nostri.
La prima sezione fornisce il quadro di riferimento della società della conoscenza e della globalizzazione e aiuta a comprendere lfevoluzione del sistema educativo di istruzione e di formazione dellfItalia fino alla soglia del XXI secolo.
La seconda parte illustra il gdecennio delle riformeh (2000-2009), soffermandosi in particolare su quelle globali di Berlinguer (2000) e della Moratti (2003), per poi ricostruire analiticamente gli approcci più pragmatici dei ministri Fioroni e Gelmini (2006-2009).
Ai capitoli dedicati allfevoluzione del sistema scolastico e della istruzione/formazione professionale, fa seguito un capitolo specifico sulla evoluzione dellfuniversità in Italia.
La terza sezione presenta le conclusioni generali, proponendo una visione dfinsieme attraverso cui si prova a mettere in risalto le linee di fondo che – al di là della stessa riuscita delle azioni di riforma – possono sorreggere, oggi, il sistema educativo di istruzione e di formazione italiano nel suo evolversi secondo una fondamentale prospettiva umanistica, in corrispondenza allo sviluppo del paese-Italia.
Questa parte finale è fatta seguire da una appendice che riporta i dati della situazione dellfultimo decennio.

‘Dio oggi: con Lui o senza di Lui cambia tutto’

 COMITATO DEL PROGETTO CULTURALE (a cura): Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto, Ed.
Cantagalli, Siena, 2010,  pp.
236, Euro 15.50 Da molto tempo, specialmente in Occidente, il panorama culturale appare segnato dalla tendenza a ridurre Dio a un prodotto della nostra mente.
Questo libro, nel quale sono raccolte le relazioni principali presentate all’evento internazionale su ‘Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto’, organizzato a Roma  dal 10  al 12 dicembre 2009, rilancia invece la questione di Dio come questione decisiva per ridare carne e sangue alle umane aspirazioni di verità, bellezza, libertà e giustizia.
Come ha richiamato di recente Benedetto XVI, ‘la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio’.
Non un Dio qualsiasi, ovviamente, ma il Dio personale di Gesù Cristo.
Ed è precisamente questa la sfida che filosofi, teologi, storici dell’arte e della cultura, nonché scienziati di diverso orientamento culturale raccolgono in questo libro.
    Indice: – Presentazione, S.
Belardinelli – Messaggio di Sua Santità Benedetto XVI – Saluto del Cardinale Angelo Bagnasco 1.
 Il Dio della fede e della filosofia – Introduzione, A.
Riccardi – Le vie di Dio nella ragione contemporanea, Card.
C.
Ruini – La ragionevolezza della fede in Dio, R.
Spaemann 2.
Il Dio della cultura e della bellezza – Introduzione, L.
Ornaghi – Fine della modernità: eclissi e ritorno di Dio, Card.
A.
Scola – La bellezza e il sacro, R.
Scruton – ‘Nessuna figura voi vedevate […]solo una voce’, Mons.
G.
Ravasi – Ragione e fede nei capolavori dell’arte cristiana, A.
Paolucci 3.
Dio e le religioni – Introduzione, F.
Botturi – La religione e gli dei, R.
Brague – Il problema del monoteismo, M.
Cacciari 4.
Dio e le scienze – Introduzione, U.
Amaldi – Dio creatore di un universo in evoluzione, G.
V.
Coyne sj – Dio e l’evoluzione, M.
Nowak – Dio e la scienza: una prospettica filosofica, P.
Van Inwagen 5.
Conclusioni – ‘Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto’, Mons.
R.
Fisichella Un volume che ripercorre i passaggi fondamentali dell’evento internazionale ”Dio oggi: con Lui o senza di Lui cambia tutto” promosso dal Comitato per il progetto culturale della Cei.
A proporlo, e a mandarlo in libreria da oggi, e’ l’editore Cantagalli.
Nel volume sono raccolti gli interventi piu’ significativi che hanno animato le giornate del convegno svoltosi a Roma tra il 10 e il 12 dicembre dell’anno scorso.
Nelle quattro sessioni plenarie, personalita’ del mondo laico e cattolico si sono confrontate davanti a un pubblico eterogeneo, attento e numeroso, su ”Dio della fede e della filosofia”, Dio della cultura e della bellezza”, ”Dio e le religioni” e ”Dio e le scienze” dando vita a un dibattito la cui ricchezza e profondita’ e’ destinata a lasciare un segno nella cultura del nostro Paese.
Oltre al messaggio di Benedetto XVI, il volume presenta, le relazioni del Cardinale Angelo Bagnasco, di Andrea Riccardi, del Cardinale Camillo Ruini, di Robert Spaemann, di Lorenzo Ornaghi, del Cardinale Angelo Scola, di Roger Scruton, di Monsignor Gianfranco Ravasi, di Antonio Paolucci, di Francesco Botturi, diRemi’ Brague, di Massimo Cacciari, di Ugo Amaldi, di George Coyne, di Martin Nowak, di Peter van Inwagen e di Monsignor Rino Fisichella.
”Da molto tempo, specialmente in Occidente, il panorama culturale appare segnato dalla tendenza a ridurre Dio a un prodotto della nostra mente – ha spiegato Sergio Belardinelli, coordinatore scientifico del Comitato per il progetto culturale della Cei -.
Questo libro rilancia invece la questione di Dio come questione decisiva per ridare carne e sangue alle umane aspirazioni di verita’, bellezza, liberta’ e giustizia.
Come ha richiamato di recente Benedetto XVI, “la priorita’ che sta al di sopra di tutte e’ di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio”.
Non un Dio qualsiasi, ovviamente, ma il Dio personale di Gesu’ Cristo.
Ed e’ precisamente questa la sfida che filosofi, teologi, storici dell’arte e della cultura, nonche’ scienziati di diverso orientamento culturale raccolgono in questo libro”.
18/02/2010.
(Adnkronos) –